Città di Torino

Trecento anni di vita del Palazzo Civico di Torino 1663 - 1963

Comune > Consiglio Comunale > Servizi e Iniziative > Visite a Palazzo Civico

Architettura del palazzo

Intermezzo eroico: l'assedio del 1706

Ma paurosi sussulti eran sopravvenuti dopo appena un paio di lustri a scuotere, a sconvolgere un ritmo sì quieto ed ordinato. Cadeva purtroppo la festa dell'Ascensione, in quella triste giornata del 13 maggio 1706, che aveva visto Frate Bernardino, l'oscuro cronista del convento della Madonna di Campagna, annotare sgomento l'arrivo del Duca della Fruliarda colla sua armata di circa quarantamila uomini, sotto Torino, per porvi l'assedio, schierando le soldatesche, lungo la Dora, con l'ala sinistra in prossimità del Parco vecchio e la destra nelle adiacenze di Lucento.

S'era bensì verificato il giorno precedente un fenomeno celeste da tutti interpretato (con molta buona volontà) quale augurale preannunzio di sicura vittoria, ciononostante nessuno riusciva a minimizzare la gravità della situazione. Merita, qui, un cenno speciale il comportamento del Corpo Decurionale che, oltre a dar prova in tal circostanza, né mai forse prima d'allora vi era riuscito in sì alta misura, di una esemplare compattezza di uno spiccatissimo spirito di dedizione alla cosa pubblica e di devozione al Principe, seppe altresì adottare con fine intuito politico e rapidità di decisione e di manovra le misure che l'eccezionale congiuntura richiedeva. Colla massima sollecitudine, infatti, radunatosi in Congregazione già il 15 maggio stabiliva che il Consiglio Comunale dovesse praticamente ritenersi convocato in permanenza "a causa delle tante urgenze et affari" che richiedevano "l'assistenza indefessa dei Signori Consiglieri in aiuto dei Signori Sindici".

Nella "Congregatione" del giorno successivo poi veniva comunicato "L'ordine dato da S.A.R. di dover mandare cadun giorno dei Signori Consiglieri suoi alle due porte della Città, cioè Porta Susina e Porta Palazzo, per osservar tutti quelli che vengano dal campo o parti dell'Inimico o da luoghi circonvicini et altri occupati dal medesimo et interrogarli col mettere le loro risposte in iscritto, indi mandarli accompagnati da soldati a Palazzo Reale".

Situato com'era nel cuore della Città Vecchia, (assai presto sgombrata dagli abitanti che si rifugiarono per la massima parte nella contrada di Po) il Palazzo Civico veniva necessariamente a trovarsi nella zona più esposta e più battuta dal tiro delle artiglierie nemiche. Anche nei suoi confronti si adottarono per tale motivo quelle provvidenze che la scienza militare dell'epoca suggeriva come le più idonee ad eliminare, o quanto meno a ridurre, i danni dei bombardamenti ed i pericoli di incendio. E mentre venivano rimosse, e poste in luogo sicuro, le vaste tele dipinte che decoravano soffitti e pareti, e mentre da Porta Susina a Piazza Castello e da Porta Palazzo a Porta Nuova si disfacevano gli acciottolati affinché i proiettili cadendo si interrassero provocando deboli contraccolpi, il tetto ed i pavimenti furono ammantati con una spessa coltre di sabbia puntellando naturalmente il secondo piano. Non solo, ma si decise perfino di calare dalla Torre di S. Gregorio che superava in altezza tutte le altre torri campanarie della città, le campane, l'orologio, e, dalla cuspide, il bronzeo "torro", araldico rampante (e mugghiante allo spirar dei venti più robusti) e la sfera su cui si erigeva, obiettivo che gli assedianti avrebbero individuato troppo agevolmente, con disastrose conseguenze sul morale dei cittadini e dei combattenti'.

Si poté, così, adattare alla meglio la cella campanaria a rudimentale specola, ove, assedio... natural durante, come osservatori "col canociale" si alternarono in veri e propri turni di guardia tre umili quanto valorosi cittadini (identificati da Alberto Viriglio) Giuseppe Chiaves, Gaspare Antonio Forte "et il fachino Pietro Maggia", a cui venne a testa corrisposto, quale compenso per "cadaun giorno di effettiva servitio" la lauta paga di... 30 soldi.Più, naturalmente, le consuete gratifiche straordinarie una volta cessata la tempesta.

E la pioggia di fuoco proseguiva senza tregua. Ragion per cui ai 28 di giugno il Consiglio Comunale, dopo aver constatato che "essendo già cadute più balle (sic) e bombe sovra detto Palazzo (di Città) e case attigue, non potendosi salvo evidente rischio della vita portarsi li Signori Decurioni di detta Città al detto Palazzo, non cessando continuamente il sbarro de' cannoni, e getto delle bombe" prese la saggia deliberazione di trasferirsi con armi e bagagli nell'ospitale convento di S. Francesco da Paola, in Contrada di Po, sino alla cessazione delle ostilità. Ed allorquando ciò avvenne, i buoni frati si videro offrire, in segno di gratitudine, il 26 ottobre "un carro ( = 493 litri) di vino" e "10 rubbi ( = 92 kg.) di oglio d'olivo".

Cotesto trasferimento non ci deve però far supporre che il "detto Palazzo",rimanesse abbandonato e vuoto. Le sue sale semmai si fecero più rumorosamente affollate ed echeggiarono del metallico passo cadenzato degli aiutanti e dei subalterni del Marchese Angelo Carlo Maurizio Isnardi di Caraglio, Tenente Generale d'artiglieria, che con funzioni e poteri di Governatore, (ebbe la nomina effettiva solo il 1° luglio 1707), era venuto ad installarvisi col proprio ,Stato Maggiore. Reduce di fresco dalla drammatica esperienza sofferta a Nizza ove sin dal 1697 ricopriva la carica di Governatore ed ove con leonino coraggio aveva sostenuto l'assedio posto l'anno precedente alla città dal Maresciallo de' Zerwich, asserragliandosi dapprima nel Castello e capitolando, con tutti gli onori solo il 4 gennaio di duel fatale 1700, l'Isnardi, per prestigio, fermezza, e capacità strategiche si presentava come l'uomo più qualificato per reggere la piazzaforte di Torino con mano di ferro si da dominare pienamente il fronte interno. Grazie a lui in effetti, cessarono quasi completamente in capo a pochi giorni, furti, aggressioni, diserzioni, sbandamenti. Prova ne sia che perfino la temuta forca, (più arcadicamente detta "Topia" o "Còlòmbarda" da noialtri Galli-Taurisci), che in ossequio alla tradizione venne rizzata in Piazza delle Erbe presso un pozzo, poi abolito per far luogo gruppo del Conte Verde, ebbe raramente, da disturbarsi e se ne rimase per lo più lì impalata in attesa, al suo posto di combattimento, da buona suddita disciplinata.

Riccardo Brayda, nello scritto già più volte richiamato, denunciava (1898) l'esistenza presso una villa patrizia nei dintorni di Torino, di un dipinto che rivestiva, nei confronti dell'iconografia del Palazzo Comunale, un interesse più unico che raro, non conoscendosi altra testimonianza figurativa coeva della sua militarizzazione, in seguito alla installazione del Quartier Generale del Governatore. E si trattava per di più di una testimonianza che non avrebbe potuto esser intaccata con obbiezioni di sorta, in quanto l'ignoto autore si era preoccupato di descrivere, con minuzia di particolari, sia il pittoresco disordine, spesso, per fortuna, solo apparente, che regna nelle sedi di certi Alti Comandi, sia la riboccante, alluvionale, opulenza degli affreschi che colmavano soffitto e pareti.

Un esame del quadro, ripetuto più volte, aveva infatti rivelato al Brayda che quei marziali gentiluomini si trovavano nientemeno che nel gran Salone d'Onore, al primo piano, per dirla col Craveri, ""tutto ornato di pitture indicanti li più egregi Fasti della Città". Orbene anche di tali pitture, date al Miel e cancellate, come narreremo, nel primo Ottocento dallo Spalla e dal Lombardi, che le sostituirono coll'odierno rivestimento marmoreo, il misterioso quadro forniva l'unica testimonianza figurativa. Purtroppo però la sua recente trasmigrazione tra le mani di antiquari, ha forse reso irrimediabilmente gelida e muta l'austera Sala dei Marmi fasciandola d'un sepolcrale silenzio.

Le successive vicende dell'assedio, e le sue battute finali, nulla ci ricordano che particolarmente incida sulla biografia del Palazzo. Però nonostante si sviluppino con un "crescendo" di foga, d'ampiezza, e di drammaticità, degno, se ci è consentito il riferimento, d'una sinfonia beethoveniana, non ci tornerà gradito recitare le ultime strofe de l' "Arpa discordata", il poemetto edito dal libraio Fontana nel 1707, in cui il buon prete Tarizzo, da Favria, liquidava ogni tentazione retorica, con una certa qual ruvida, popolaresca semplicità, tipicamente congeniale all'indole dei piemontesi. Ecco, ad esempio, come rievoca la memoranda giornata del 7 settembre :

"Ai set costa. città semper pi
s'accorderà d'un ,si bel dì,
el dì appont de San Grà
la Vigilia de la Natività
de la nostra Gran Signora
ch'en men de tre quart d'ora
a s'è degnà de dè fin
a le miserie de Turin"

Il volumetto, oggi selvaggina rarissima per un bibliofilo, avremmo potuto averlo, in quegli anni, a portata di mano. Giacché il libraio Fontana (resosi celebre in seguito alla pubblicazione del "Palmaverde"), teneva bottega sotto le arcate del Palazzo e così come lui pure svariati suoi colleghi, o lì daccanto, ovvero all'ombra dei portici ogivali, che antecedentemente alla sistemazione alfieriana, già circondavano Piazza delle Erbe.

Condizioni d'uso, privacy e cookie