Cittą di Torino

Trecento anni di vita del Palazzo Civico

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Informazioni sull'opera

Premessa

Ci sembra oltremodo significativo che proprio un intelligente ed appassionato rievocatore di personaggi, di episodi noti o dimenticati della biografia della Città, quale è Guido Zannotti, abbia dedicato alle primavere torinesi uno dei capitoli più densi ed attraenti di quelle sue "Nostalgie di Torino", libro che, all'indomani dell'ultimo conflitto, segnò, in un certo modo, il risveglio di una tradizione letteraria che temevano dispersa tra le squallide macerie di certi caratteristici rioni del "Centro storico".
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Si direbbe infatti che la primavera (ed il Thovez ne intuì tutto il fascino sottilmente inquietante), sia stata in ogni tempo la stagione pia congeniale all' anima di Torino, la più propizia cioè all'avverarsi di eventi determinanti per la sua evoluzione sociale, civile, culturale. E se udì nella primavera del '48 e del '59 echeggiare a Torino la diana della riscossa nazionale, si collega pur sempre all'immagine di radiose primavere il ricordo delle Esposizioni memorabili del 1884, del '902 o del '911, cornici alle più applaudite competizioni sportive, alle parate di eleganza più ammirate ed invidiate.

Ebbene, fioriva nel pieno rigoglio, anche quella ormai remota primavera (si era il 15 maggio del 1663), che vide i nostri antenati plaudenti alle desideratissime nozze del Duca di Savoia, Carlo Emanuele II con Francesca di Bordone assistere alla consacrazione ufficiale del maestoso edificio eretto, dopo un quadriennio di fervide opere sul disegno dell'Architetto Francesco Lanfranchi per dotare di una sede degna le civiche magistrature di una capitale che stava per inserirsi con un ruolo no trascurabile nello scacchiere politico europeo.
Costruito, perciò, in un regime di pieno assolutismo monarchico (un assolutismo tuttavia no tirannico in Piemonte, sollecito, anzi del benessere dei sudditi e da essi in fondo ben tollerato) il "Palazzo Comune" di Torino (cosi lo indicavano le antiche guide), logicamente non vanta alcuna appariscente vicenda storica che richiami, per qualche aspetto, certi cruenti episodi di lotte per la libertà municipali, analoghe e quelle che, per esempio, nelle travagliate contrade fiamminghe, circonfusero di un alone di epica leggenda, sino a trasformarlo in un simbolo inconfondibile, l'ardimentoso "beffroi", imparabile trina marmorea, stagliatesi sui cupi e nubilosi cieli settentrionali, eternati dal Brueghel, dai Ruysdael, e sognati nostalgicamente da Giovanni Camerana.

Le patenti di nobiltà del nostro "Palazzo" risiedono, piuttosto, in una tradizione di probità e di dedizione alla cosa pubblica, governata secondo metodi e criteri, ispirati ad un razionale progressismo, nel preminente intenso di armonizzare il vecchio col nuovo, con spirito quasi mai timido e ritroso, spesso anzi spregiudicamene pionieristico.

Stanno a testimoniare in favore di sì consumata tecnica amministrativa, la lucida fermezza con cui Torino ha saputo affrontare e superare ore e situazioni drammaticissime, in veste, sia di capitale di un piccolo Stato patriarcale, che come cellula generatrice di una Florida nazionale moderna.

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Sinceramente ignoriamo quanti fra i capoluoghi della Penisola, posseggano, ab antiquo, una sede civica in grado di contendere al Palazzo del Lanfranchi il primato per maestà, eleganza, imponenza di forma architettoniche. In nessuna città, però, fuorché a Torino, mai si vede una schiera, sì folta e compatta, di uomini famosi, distogliersi delle cure quotidiane, per sedere sui banchi dell'aula del consigliere. I nomi degli Sclopis, dei D'Azeglio, dei Cavour, dei Lamarmora, che or pronunciamo non hanno, s'intende, che un mero valore emblematico. Tra parentesi, anzi, pensiamo che si compirebbe un'opera doverosa e meritoria tracciandone l'elenco completo.
Torino 1663 - Torino 1963: un accorgimento quasi paradossale! Le centuplicate esigenze di una popolazione, esageratamente straripante fuori della stessa cerchia urbana, le mutate condizioni di costume e di vita, le rivoluzionarie riforme legislative ed amministrative, introdotte col variare dei tempi e dei regimi, oltre ad imporre, ovviamente, un radicale ridimensionamento degli uffici e dei servizi municipali (di cui molti, addirittura, emigrati da n Piazza delle Erbe e sparsi qua e là per Torino), hanno anche coinciso con restauri, spesso assai antiestetici, del volto e dello scheletro del venerato edificio.
In quale, incurante degli imprevedibili sovvertimenti di valori di istruzioni, succedutisi ancor oggi, rimane, a trecento anni di distanza, laggiù solidamente squadrato, a dominare l'impeccabile piazza alfieriana, a coordinare, oseremmo quasi dire, con subalpina "testarderia", molte nostre vicende, ma, soprattutto, a custodire innumerevoli segreti.
Rendiamogliene grazie ed auguriamoci altri lunghi secoli di sempre gagliarda esistenza!

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