Centro relazioni e famiglie

Separarsi in modo etico e civile, si può

di Maria Cristina Bruno Voena da senonoraquando-torino.it, 2 luglio 2014

Un articolo dell’avv, Maria Cristina Bruno Voena, Avvocata familiarista del Foro di Torino, membro dell’Associazione Italiana degli Avvocati di Diritto Collaborativo (AIADC) e dell’International Academy of Collaborative Professionals (IACP) su un nuovo modo di separarsi in modo etico, rispettoso e civile attraverso la pratica collaborativa con l’ausilio di un diverso tipo di avvocato.

I dati elaborati dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) relativi a separazioni e divorzi, pubblicati nell’anno 2013 e riferiti al 2011, ci dicono che, nel 2011, in Italia, le separazioni sono state 88.797 e i divorzi 53.806. Di più: ogni 1.000 matrimoni, si sono contati 311 separazioni, e 182 divorzi. Se si guarda al 1995, i numeri indicano che ogni 1.000 matrimoni, si contavano 158 separazioni e 80 divorzi.
Dalle indicazioni appena fornite, appare del tutto evidente l’esponenziale incremento delle crisi coniugali che sfociano in una interruzione della convivenza. Tanto che i professionisti del settore si vedono impegnati, ormai da tempo, a fornire risposte adeguate ai bisogni espressi dalle coppie che affrontano il percorso separativo.

I dati ISTAT ci confermano la tendenza sempre più manifesta degli avvocati a cercare con notevole impegno soluzioni concordate, al di fuori del contesto giudiziario: nel 2011, infatti, l’84,8% delle separazioni e il 69,4% dei divorzi si sono risolti in modo consensuale.
Ne consegue che, nonostante la circostanza sopra dedotta non trovi nei media la giusta risonanza, sono percentualmente pochi coloro che decidono, quando il matrimonio finisce, di affidare al giudice il compito di soddisfare le loro aspettative di rivalsa per i tradimenti vissuti, i torti subiti, le difficoltà sopportate, di combattere per l’assegnazione della casa, l’affidamento dei figli, l’assetto delle questioni economiche. Salvo, poi, peraltro, restare, assai spesso, invariabilmente delusi. Delusi perché sono mancate l’attenzione e la comprensione auspicati, perché i tempi della giustizia non sono più compatibili con quelli della vita quotidiana e, anche, perché i costi di questa – denegata – giustizia sono troppo alti, sia in termini economici, sia in termini psicologici.

Molti sono, invece, coloro che, sinora, hanno affidato all’avvocato il compito di raggiungere un accordo di separazione o divorzio, restando il più possibile fuori dalla trattativa.
Anche questo metodo, però, si sta rivelando ormai obsoleto: le condizioni di separazione o divorzio raggiunte attraverso una trattativa condotta dai soli avvocati, infatti, non sempre si attagliano alle peculiari esigenze della specifica famiglia cui sono destinate, ma rappresentano, per lo più, il frutto dell’applicazione di clausole standard adattate al caso, universalmente valide e tradizionalmente accettabili, anche per i giudici. Soprattutto, il ruolo dei legali all’interno della trattativa resta ancorato all’idea che occorra tutelare la “posizione” del cliente, pur se in un’ottica di più generale attenzione alla salvaguardia dell’interesse dei figli, piuttosto che gli specifici bisogni della famiglia, sicuramente più importanti, invece, ai fini della realizzare di un progetto di vita futura saldo e duraturo per tutti.

Così, proprio per coinvolgere maggiormente le parti nel processo separativo, è stata introdotta, da qualche anno, la mediazione familiare: un metodo che, però, benché assolutamente pregevole rispetto allo scopo che si prefigge, non ha avuto lo sviluppo e la diffusione che ci si sarebbe aspettati. Ciò, soprattutto, a causa dello scollamento troppo spesso voluto dai mediatori tra la loro stanza e lo studio degli avvocati. La mancata possibilità di verificare costantemente la rispondenza ai principi di diritto delle singole scelte operate può, infatti, ingenerare nell’utente una sgradevole sensazione di scarsa tutela sotto il profilo giuridico. Così come l’imparzialità del mediatore stesso ed il fatto che egli sia unico per entrambi i partners ed equidistante da essi può lasciare una sensazione di smarrimento e solitudine, dovuta al fatto che non si riceve adeguato sostegno da parte di un soggetto “dedicato” in un momento nel quale si operano scelte importanti per il nuovo, diverso futuro. Di conseguenza, è avvenuto che molte coppie si siano scoraggiate all’idea di intraprendere o coltivare un percorso di mediazione familiare.

A tal punto, constatata la scarsa risposta all’offerta mediativa, si è fatto strada il pensiero secondo cui le controversie familiari dovevano essere affrontate in modo diverso, utilizzando un metodo di partecipazione attiva delle parti – ciascuna delle quali seguita da un proprio avvocato – alla progressiva costruzione dell’accordo, seguendo un comportamento rispettoso e civile, che consentisse loro di ripartire con un nuovo progetto di vita che tutelasse davvero gli interessi di tutta la famiglia. E con costi complessivamente più accettabili, se confrontati con quelli relativi alle procedure tradizionali.

Quella appena descritta può sembrare un’utopia, ma lo statunitense Stuart Webb, inventando il diritto collaborativo (www.collaborativepractice.com), ha reso possibile realizzarla: e, in Italia, un gruppo di avvocati (donne, soprattutto) ha creduto nella bontà di questa pratica ed ha deciso di “importarla”.

L’idea di fondo è lavorare in team: i due partner, i due avvocati “collaborativi” (uno per parte) e, quando necessario, un commercialista e/o un esperto di relazioni familiari e/o un esperto di psicologia infantile e/o un esperto di questioni finanziarie, anch’essi formati alla pratica collaborativa.
Non si affida il proprio destino al giudice, né lo si delega agli avvocati: si lavora tutti insieme.
Requisito indispensabile: l’onestà.
Così, le parti che scelgono di seguire la pratica collaborativa si rivolgono, ciascuna, ad un avvocato adeguatamente formato.
Gli incontri si svolgono, solitamente, “a quattro” (le parti ed i due avvocati), con la possibilità di prevedere la presenza di altri esperti.

Prima di avviare la trattativa, le parti firmano un contratto nel quale si impegnano alla più totale trasparenza, ma, altresì, alla più assoluta riservatezza – anche in caso di mancato raggiungimento dell’accordo e, quindi, di eventuale, successivo ricorso al Tribunale – rispetto ai dati messi dalle parti a disposizione di tutti per il perseguimento dell’accordo.
Ciò che ulteriormente contraddistingue la pratica in esame rispetto alle altre forme di trattazione delle separazioni è il fatto che gli avvocati – così come gli altri esperti – che abbiano seguito le parti nel percorso collaborativo, laddove questo fallisca e, quindi, sia necessario chiedere l’intervento del tribunale, non possono assistere i rispettivi clienti in tale procedimento.

Quindi, si discute, tenendo presenti le esigenze – materiali e non – della famiglia coinvolta nel processo separativo e, per fare questo, si dichiara tutto, con la trasparenza più assoluta e con grande senso di responsabilità: dall’eventuale, avvenuto tradimento del partner, fino alla propria situazione finanziaria, ivi compresi eventuali patrimoni “in nero” (si pensi ai casi di contenzioso che hanno causato, come conseguenza di certe richieste volte all’accertamento dei redditi effettivi del partner, conseguenze assai gravi e di certo non tutelanti degli interessi della famiglia). Si espongono perplessità, problemi, timori, ansie, desideri. Si prova a costruire insieme il destino di ciascuno, senza lasciare che sia il giudice a deciderlo. E, anche, con la volontà di non litigare, ma di mettere al centro la buona qualità delle relazioni, presenti e future.

Gli avvocati, ben consapevoli del costo psicologico del conflitto, si adoperano per far sì che ricevano tutela non le posizioni, ma, bensì, gli interessi dei loro assistiti.
Così, le istanze delle parti vengono vagliate con attenzione particolare al motivo che ne sta alla base: ad esempio, la richiesta di assegnazione della casa familiare, ovvero l’opposizione a tale richiesta, o, ancora, determinate pretese economiche, o, infine, l’ostinazione nel chiedere determinate condizioni relative ai figli possono celare timori, o esigenze che, se portati a conoscenza di tutti, compresi e discussi, consentono la ricerca di soluzioni diverse. Può trattarsi, forse, di soluzioni non del tutto rispondenti alle regole di diritto tradizionalmente intese ed accettate, ma sicuramente garantite sotto il profilo della legalità e legittimità grazie alla costante e continua presenza degli avvocati. Tutto ciò può rendere più facile, per quella singola, specifica famiglia, la costruzione di un progetto di vita futura che preveda la scissione del rapporto di coppia, mantenendo, però, ben salda la relazione genitoriale: sono, infatti, i genitori/coniugi che partecipano attivamente al raggiungimento dell’accordo.

E’ proprio sulla tutela dei figli, peraltro, che si è maggiormente concentrata l’attenzione degli avvocati che hanno scelto di lavorare secondo questo nuovo metodo: se la qualità dei rapporti della coppia genitoriale è migliore grazie al fatto che si è ottenuto un accordo agendo con onestà, trasparenza e buona fede e non è stata inficiata da dannosi conflitti, i bambini possono beneficiare di questa situazione, accettando senza particolari traumi la separazione dei genitori e vivendola quotidianamente con minori sofferenze.
Detto questo, è evidente che l’esercizio della pratica collaborativa comporta un cambiamento culturale ed un approccio decisamente innovativo: non a caso, sono soprattutto le coppie più giovani che chiedono di intraprenderla.
L’immediata reazione alla novità appena illustrata può essere, forse, la diffidenza: come è possibile, ci si può chiedere, che due persone che si odiano – fatto che si verifica spesso quando ci si separa – possano comportarsi civilmente e scegliere insieme gli elementi dell’accordo?
E’ possibile.
L’esperienza maturata sul campo insegna che la pratica collaborativa è un importante segnale di civiltà.
I professionisti lavorano “insieme”, senza riserve mentali di sorta, per aiutare i loro assistiti a trovare un accordo che poggi su solide basi e che sia, quindi, duraturo.
Si tratta di un’esperienza davvero nuova, ma molto proficua.

Con la pratica collaborativa si sta sviluppando l’idea di un nuovo tipo di avvocato: non più il co-protagonista della “guerra dei Roses”, ma l’attivo tutore dell’interesse autentico del cliente, un interesse che, nelle separazioni, non può mai essere scisso da quello della sua famiglia.
Soltanto così la qualità dell’accordo che è possibile raggiungere grazie alla pratica collaborativa si distingue nettamente da quello c.d. “tradizionale” o, peggio ancora, dalle disposizioni derivanti da una sentenza emessa dal giudice.

Se mi si passa la metafora, il primo è come l’abito confezionato su misura, che, di sicuro, si modella meglio sul corpo di chi lo indossa dell’abito pre-confezionato o di una divisa, perché il sarto ha lavorato attentamente onde eliminare i difetti di quella particolare persona, mettendone, invece, in risalto le qualità: l’accordo collaborativo, in sostanza, si modella meglio sul corpo della famiglia che tale accordo ha raggiunto di quanto non lo facciano altre forme di progetti di vita costruiti in modo diverso, perché le parti, gli avvocati ed i diversi professionisti coinvolti lavorano prestando attenzione ai bisogni, ai timori, alle esigenze, agli interessi di tutti.

  • Aggiornato il 2 Luglio 2014

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