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Torino mon Amour: quelli che hanno scelto di viverci
di Giuseppe Culicchia (La Stampa 12/12/02)

Mohamed Ibrahim, avvocato, egiziano, mi offre un bicchiere di tè alla menta nel suo locale in via Milano 10, a metà strada tra il Municipio e Porta Palazzo. Il locale si chiama Sindbad Kebab, e a pranzo come a cena è costantemente affollato. I tavolini di marmo sono bianchi. Le pareti a mosaico verdi. E sotto la luce delle lampade arabeggianti l´unica cameriera va e viene dal bancone carica di falafel, tabulé, cous-cous con carne o verdura e naturalmente kebab.
«Sono arrivato a Torino dodici anni fa, nel 1990 - mi racconta il signor Ibrahim - dal Cairo. Avevo una laurea in giurisprudenza e qualche soldo da parte da investire. Così come succede piuttosto spesso, ho scelto di venire a Torino perché conoscevo qualcuno che era venuto a starci prima di me: mio fratello. Non te ne vai dal tuo paese solo perché un amico o un parente l´ha fatto prima di te, evidentemente. Ma se scegli di farlo, cerchi di avere un appoggio. Mio fratello era già qui da un po´ di tempo, conosceva Torino e aveva aperto un ristorante-pizzeria.
All´inizio ho lavorato con lui in modo da imparare il mestiere, ma intanto mi guardavo attorno. E presto mi sono reso conto che all´epoca in città non c´erano locali come quelli che frequentavo nel mio paese. Così ho deciso di aprirne uno». I ragazzi in maglietta bianca dietro il banco si danno da fare dalle parti del forno. Fuori si gela, ma qui si sta bene. Il tè è caldo e il profumo delle spezie intenso. «L´idea era quella di mettere in piedi un locale egiziano con cucina e cibo egiziani. E tre anni dopo, nel `93, l´abbiamo fatto. Al numero uno di via San Domenico, con una piccola gastronomia dove servivamo anche la pizza, come qui, anche se poi nella maggior parte dei casi chi viene da noi non prende una "margherita" ma preferisce assaggiare i piatti della nostra tradizione». Il signor Ibrahim, per la verità, in cucina non mette mano. Da due anni è il rappresentante legale della cooperativa che gestisce il Sindbad Kebab, e che presto aprirà un nuovo ristorante sempre in via San Domenico, arredato con mobili e materiali fatti arrivare direttamente dall´Egitto e destinato a prendere il posto del locale precedente. «Qui volevamo sviluppare un progetto di fast-food orientale. E dal febbraio del 2001, quando abbiamo tirato su le saracinesche per la prima volta, abbiamo incrementato sempre più il numero di clienti italiani. Tanto che ora sono addirittura il settanta per cento del totale, e continuano ad arrivarne di nuovi». Alle pareti, una serie di manifestini. La locandina di «Club to Club», quella dei «Dervisci Rotanti», i corsi di lingua dell´Istituto Avogadro.
Chi sono i torinesi che vengono qua, e che d´estate affollano oltre al locale anche il dehors che scende verso piazza IV Marzo? «Direi soprattutto giovani. Studenti, ma non solo. A loro piace l´idea di mangiare all´orientale. All´inizio erano molto curiosi, volevano vedere e assaggiare tutto. Poi, quando hanno visto che il cibo era buono e i prezzi adeguati, sono diventati clienti nel vero senso della parola. Nella maggior parte dei casi non vengono a mangiare da noi ogni giorno, naturalmente, perché le abitudini alimentari dei torinesi sono diverse dalle nostre. Ma chi ci conosce torna in media una volta la settimana».
E questa città tutta quadrata, così lontana dal Cairo? E´ cambiata durante questi anni? E se sì, come? «Ogni città ha la sua atmosfera, i suoi ritmi, il suo stile, i suoi colori. All´inizio degli anni Novanta, e fino alla metà dello scorso decennio, Torino era meno aperta di oggi. Di sicuro c´erano meno turisti, e forse meno torinesi andavano all´estero per conoscere culture e paesi diversi. Oggi la situazione mi sembra molto migliorata. Da una parte Torino è diventata una città più cosmopolita, dove ci si confronta quotidianamente con culture differenti. Dall´altra, questo è un posto dove se fai bene il tuo lavoro la gente ti apprezza e ti rispetta.
Chi viaggia poi, e vede locali come questo nei paesi d´origine, riconosce i profumi e i sapori, e spesso desidera rimanere in contatto in qualche modo con i posti dov´è stato. Così si siede davanti a un tabulé e ordina un tè alla menta». Anche perché da queste parti gli alcolici non sono in vendita. «Siamo stati i primi ad aprire un ristorante senza alcolici. In molti ci avevano pensato, ma nessuno aveva avuto il coraggio di farlo. Pensavano che non avrebbero lavorato. Invece funziona. Per noi è una questione culturale, religiosa. Per voi forse un´abitudine nuova». Una volta la settimana, in fin dei conti, si può fare. Mi chiedo se chiedergli dell´11 settembre. Glielo chiedo o non glielo chiedo? Glielo chiedo. E dopo l´11 settembre? «Noi eravamo qua da prima dell´11 settembre, e per le persone che ci conoscevano già non è cambiato niente. Piccoli problemi naturalmente ci sono, ma solo con quelli che non ti conoscono». Fuori dal fast-food all´orientale, due ragazze si fermano a consultare lo speciale menù italo-egiziano corredato di fotografie e affisso accanto all´ingresso. Nonostante la stagione, hanno una bella abbronzatura. Magari sono appena tornate da una gita sul Nilo. Pare che i viaggi siano tra i regali più gettonati, in questo Natale che per Torino non è tra i più fortunati.
Ma il signor Mohamed Ibrahim, che le vacanze le fa in Egitto soprattutto per andare a trovare la famiglia, si mostra ragionevolmente ottimista. «Finché un problema non si presenta, le soluzioni non vengono in mente. Torino è una realtà grande, moderna, sviluppata. E contrariamente al passato, la sua sorte non dipende più in tutto e per tutto da un´unica azienda. Può darsi che mi sbagli, ma per come conosco Torino credo che la città abbia le forze e le risorse umane per uscire dalla crisi. E che questa possa diventare uno stimolo in più per fare del nostro meglio, tutti insieme». Saggezza senza dubbio orientale, quella del signor Ibrahim. E magari, anche se viene da fuori, non si sbaglia.

Il mercato di Porta Palazzo Le Porte Palatine, resti dell'epoca romana Il sottopasso di c.so Regina Margherita Piazza della Repubblica © Giovanni Fontana