“Quella italiana è una lingua inclusiva, basta usarla bene”

Non è vero che la lingua italiana non si presti ad un utilizzo inclusivo e non discriminatorio, magari perché priva di un genere neutro. È l’uso che ne facciamo noi a poter fare la differenza“. La professoressa Manuela Manera, linguista presso l’Università di Torino, è intervenuta in una riunione congiunta delle commissioni Diritti e Pari opportunità, Cultura e Controllo di gestione presieduta da Cinzia Carlevaris, riassumendo la lunga marcia, iniziata con uno studio degli anni Ottanta a cura di Alma Sabatini, verso l’affermazione di modalità di comunicazione esenti da distorsioni sessiste e discriminatorie. Un tema che è anche stato oggetto di attenzione e di indicazioni da parte delle istituzioni nazionali ed europee, e sul quale la Città di Torino è non da ieri sensibile e attiva. Già nel 2017, infatti, erano state pubblicate le Linee guida per un utilizzo non discriminatorio del linguaggio in base al genere nell’attività amministrativa, concretizzando quanto indicato da una mozione del Consiglio comunale, approvata nel 2015, che impegnava il Comune ad adeguare, beninteso “nel rispetto della lingua italiana, tutta la modulistica e la comunicazione sui siti in modo da mettere in evidenza entrambi i generi”. Linee guida che indicano come utilizzare in tutti i documenti ufficiali un linguaggio che comprenda entrambi i generi, maschile e femminile: “persone” e non “uomini”, così come “i lavoratori e lavoratrici”, evitando inoltre di invitare “i pazienti” a segnalare… il loro eventuale stato di gravidanza prima di una radiografia. Perché sulla struttura linguistica, per sua natura non immutabile, si riflettono le trasformazioni di un’intera società. L’idea di fondo è quella di superare assetti linguistici che, consolidatisi nel corso di secoli, evidenziano una visione di fatto subalterna della donna. Tanto che il termine “operaia” è di uso secolare, mentre il termine “sindaca” è stato sdoganato in tempi recentissimi e non senza qualche resistenza. E permangono i significati differenti assunti dalla stessa parola declinata al femminile o al maschile, ragion per cui “il segretario” tende a rimandare ad una funzione di rappresentanza importante, mentre “la segretaria” evoca un mondo di fotocopie e vassoi stracolmi di tazzine. Perché nulla vieta, nella lingua italiana, che il termine “dirigente” venga utilizzato al maschile come al femminile (con l’articolo “il” o “la” a distinguere), così come che la parola “direttore” a il suo corrispondente al femminile (“direttora”).
Anche il Ministero dell’Istruzione ha ora adottato un documento di linee guida per l’uso del genere del linguaggio, e un ordine del giorno della commissione Pari opportunità, preannunciato nel corso della riunione, ne chiederà la rapida applicazione in ambito scolastico, perché è sin dall’infanzia che occorre favorire l’apprendimento di un linguaggio inclusivo, nel quale la specificità di genere sia riconosciuta e dove non accada che dicendo “maestro” si pensi al musicista, con la sua variante femminile a rimandare al solo ruolo della maestra di scuola. E dicendo “cubista” non si pensi automaticamente ed esclusivamente ad un artista o ad una ballerina a seconda del genere.
Nonostante alcune prevedibili resistenze culturali, legate alla consuetudine o chissà, forse anche a inconfessati stereotipi, si va comunque affermando l’idea di una lingua rinnovata, ed al tempo stesso rispettata nelle sue forme grammaticali, che potrà non solo riflettere, ma anche favorire, gli ulteriori e ancora necessari progressi nell’affermazione della parità di genere nella società italiana.

Claudio Raffaelli