La ‘ndrangheta piemontese, una realtà criminale diffusa in tutta la regione

Nella mappa della Direzione Distrettuale Antimafia, i processi che hanno coinvolto la 'ndrangheta negli ultimi anni ne mostrano la capillare diffusione in Piemonte
La criminalità organizzata di origine calabrese, la ‘ndrangheta, ha messo radici in Piemonte già da molti anni. Proprio a Torino, nel 1983, venne perpetrato il primo agguato mortale di stampo mafioso, nel Nord Italia, ai danni di un magistrato: ne fu vittima il procuratore Bruno Caccia. Da allora, la malavita organizzata si è insediata profondamente non solo nell’area torinese, ma in tutto il territorio subalpino. Al punto di poter essere definita come la ‘ndrangheta non “in” Piemonte bensì “del” Piemonte. A mostrare questa realtà ai consiglieri e consigliere della commissione Legalità, presieduta da Luca Pidello , è stato il pubblico ministero Paolo Toso, della Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Torino. Lo ha fatto dati alla mano, a partire dai numerosi processi svoltisi in varie province piemontesi (uno per tutti, quello seguito all’Operazione Minotauro), molti dei quali già conclusi in via definitiva, che con 350 imputati alla sbarra hanno messo in luce non solo la presenza di numerose strutture territoriali della ‘ndrangheta, ma anche i suoi rapporti con ambienti imprenditoriali e politici.
La ‘ndrangheta subalpina, pur conservando forti legami con la Calabria, ha una sua struttura autonoma e si ramifica ormai anche al di fuori delle comunità locali di origine calabrese, inglobando in varia forma e misura persone originarie di altre regioni italiane e dello stesso Piemonte, senza dimenticare la capacità, ha sottolineato Toso, di interagire anche con organizzazioni di stampo mafioso formate da persone di nazionalità romena o nigeriana. Il radicamento sul territorio, inoltre, crea anche un clima intimidatorio nei confronti di persone e aziende per il quale non sempre è necessario ricorrere ad atti di aperta violenza per ottenerne la sottomissione o la collaborazione.
Collaborazione tanto più necessaria poiché la ‘ndrangheta nel corso degli anni ha moltiplicato i suoi ambiti di interesse in campo economico, anche per ottenere maggiori opportunità di riciclaggio delle ingentissime somme di denaro “sporco” proveniente da attività illegali, a partire dal traffico di stupefacenti. Anche attraverso una fitta rete di prestanome, le strutture malavitose “investono” sugli appalti pubblici piccoli e grandi, come sul gioco d’azzardo, ma anche sui banchi del pesce o di altri generi alimentari di alcuni mercati rionali, in vari ristoranti o bar, in settori come il recupero crediti – facile intuire con quali metodi – e l’usura, strettamente legata a bische clandestine e gioco d’azzardo, o il caporalato della manodopera (specie nell’edilizia). Per tutto questo, agli uomini delle ‘ndrine servono amici fidati, non solo prestanome ma contatti qualificati e ben inseriti nei gangli vitali della società: amministratori e funzionari pubblici, commercialisti, bancari, persino sindacalisti.

La ‘ndrangheta è forte sul territorio perché, agli occhi di una fascia di popolazione, a modo suo “risolve” problemi e garantisce reddito sia pure illecito, ha spiegato il procuratore, acquisendo così il controllo di pacchetti consistenti di voti, da mettere a disposizione di eventuali referenti politici.

Il PM Paolo Toso (al centro) con la vicesindaca Michela Favaro e il presidente della commissione Legalità, Luca Pidello
Cosa può fare un’istituzione come il Comune, per contribuire al contrasto delle attività della criminalità organizzata, Toso lo ha spiegato con semplicità: un migliore ascolto nei confronti dei cittadini, per eventualmente raccogliere indicazioni utili alle forze dell’ordine, alle quali molte persone esitano a rivolgersi, ad esempio sulla presenza malavitosa nel tessuto commerciale delle vari zone. Ma soprattutto, ha aggiunto l’esponente della DDA, serve la marcata presa di posizione da parte dell’istituzione sulla criminalità organizzata. Quest’ultima deve potersi rendere conto di non avere modo di appoggiarsi sui politici, dei quali deve essere indotta a diffidare e non a considerarli potenziali interlocutori. Occorre poi, ha proseguito, la consapevolezza che se ci sono contatti tra politica e ‘ndrangheta non vanno liquidati come “errori individuali”, serve una riflessione più ampia su quanto la malavita abbia bisogno, per garantire i propri introiti illeciti, di solidi contatti con la componente “legale” della società e del suo tessuto economico. Cercheranno sempre contatti, ha concluso Toso, magari usando intermediari della “zona grigia”: occorre che non li trovino, questi contatti, che diventi loro chiaro come non possano più fidarsi, dal loro punto di vista malavitoso, di rappresentanti delle istituzioni.
Ampio il dibattito sviluppatosi dopo l’intervento del PM, con la partecipazione della voce sindaca Favaro e dei consiglieri e consigliere Ciampolini, Pidello, Firrao, Conticelli, Greco, Liardo, Garione, Cerrato, Borasi, Catanzaro, Diena, oltre che della responsabile di Libera Piemonte, Maria Josè Fava.
Claudio Raffaelli