Città di Torino

Trecento anni di vita del Palazzo Civico di Torino 1663 - 1963

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Architettura del palazzo

La sala di marmo

sala di marmoSala di Marmo
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Tra i locali di rappresentanza del Palazzo Civico è cotesto il più popolarmente noto ai torinesi, che qui, spesso hanno il privilegio di incontrarsi con il loro primo Cittadino, nei non rari ricevimenti ufficiali, in cui aleggia l'atmosfera di deferente cordialità così tipicamente subalpina, che, per tradizione, almeno nei nostri paesi, avvolge i rapporti degli amministrati cogli amministratori della cosa pubblica. Del resto, anche su colui che, magari, si avvia al disbrigo di pratiche tediose e sgradevoli, la Sala di Marmo esercita una suggestione, inavvertita forse, ma non perciò meno efficace, preannunciandogli, col sussiego dei suoi ritmi lineari, la tacita onnipotenza del pubblico potere.

Solitamente, nelle frettolose compilazioni storico descrittive che, da un secolo e mezzo circa, le guide di Torino dedicano al Palazzo, si legge che l'odierno aspetto della Sala che ci ospita, sarebbe semplicemente frutto della collaborazione dell'archite tto Lorenzo Lombardi con lo scultore Giacomo Spalla, il quale avrebbe svolto la mansione dell'effettivo dirigente così nell'ideare il piano generale dei lavori, come nel mandarli a compimento.

Nell'opuscolo del Fea, da noi già esaminato poc'anzi è contenuta viceversa una notizia quasi del tutto inedita, resa, però, attendibile anche da altre testimonianze contemporanee. Scrive il Fea, infatti, che l'idea madre, così come progetto di rivestimento marmoreo, scaturirono da Ferdinando Bonsignore, del che si trova implicita conferma anche nella somiglianza di molteplici elementi decorativi del salone, con motivi assai frequenti pure nella Chiesa della Gran Madre di Dio, ( la ghirlanda, i rosoni del soffitto ecc. ecc.).

sala di marmoSala di Marmo

Comunque, anche se, per effetto di precise affermazioni, il pensiero del Bonsignore viene a risultare determinante, nella genesi della sistemazione ora legata al nome del Lombardi e dello Spalla, rimane, pur sempre, merito indiscusso di questi ultimi, l'a ver saputo comporre un insieme di tale coerenza stilistica da esser additato come uno dei più perfetti esempi del gusto neoclassico in Piemonte. Un gusto, giudicato, dalle generazioni che seguirono, frigido e convenzionale, ma che, sicuramente, dov eva trovare profonda rispondenza nella psicologia, individuale e collettiva, della società assurta al potere all'ombra dello scettro di Vittorio Emanuele I, società dominata dai precetti di un rigido, inesorabile formalismo.

Non v'è da stupirsi che quest'isola neoclassica, unica eccezione in un edificio mantenutosi nel giro di tre secoli imperturbabilmente ligio alle primitive forme barocche, non sia riuscito a sottrarsi alle deplorazioni dei cultori di certa archeolog ia nostalgica, lacrimanti pel sacrificio dell'imponente ciclo d'affreschi che sul soffitto e lungo le pareti, illustravano gli episodi più salienti dell'antica storia di Torino. Però, prima di occuparci di essi specificamente, sarà ; bene richiamarci alla particolare concezione della storiografia, seguita dagli autori che come il Pingone ed il Thesauro, accettavano in blocco, quali fatti autentici, anche fantasiose quanto suggestive leggende; ne era sbocciato, di conseguenza, in que sto salone, un bizzarro miscuglio di miti allegorici e di anacronismi. Un miscuglio che, tuttavia, avremmo gelosamente custodito, non soltanto per un sentimento di religioso rispetto verso le credenze dei nostri avi, ma anche perchè orientati a con siderare ormai le diverse mitologie come i cifrari di una sapienza antichissima, che appena ora impariamo a interpretare.

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Per fortuna delle pitture scomparse ci è stata serbata una precisa testimonianza, di prima mano, nella raccolta (ed. a Torino nel 1670) di "Inscriptiones" del Conte Emanuele Filiberto Thesauro, che fu con ogni probabilità il diretto ispiratore, colui che ne suggerì i temi e ne dettò i motti, le imprese e le didascalie, agendo in stretta collaborazione cogli artisti, anche qui come nella Reggia, ove pure si stava lavorando febbrilmente per allestire gli appartam enti di Palazzo Nuovo destinati ad accogliere la Principessa sposa Francesca d'Orlèans.

Compulsando tale raccolta al capit. "Urbani Praetorii Augustae Taurinorum ornatus, Majoris aulae ornatus" Eugenio Olivero ricostruì il ciclo secondo lo schema seguente: Soffitto; Eridano, re d'Egitto, vale a dire Api, fonda Torino dopo essersi impadronito del Regno dei Liguri; il Principe degli Auguri nonchè Re dell'Etruria, Pipino, strappa Torino agli Egizi; Belloveso batte gli Etruschi, fonda la Gallia Cisalpina , e si insedia a Torino, che, infine occupata dai Romani al comando di Appio Claudio, viene eletta dal Re alpino Cozio a capitale dei suoi stati. Fascia superiore delle pareti : la calata di Annibale; la deduzione della colonia Giulia in Torino; la deduzione della colonia sotto Cesare Augusto; l'introduzione del Cristianesimo in Torino per opera dell'apostolo Barnaba : S. Giuliano seppellisce i mar tiri Solutore, Avventore ed Ottavio; il Concilio di Torino condanna l'eresia di Priscilliano; Alarico conquista Torino e la riduce in un quadrato più piccolo; S. Massimo lotta contro le teorie dell'eretico Eutichio; Teodolinda regina dei Longobardi prende per marito Agilulfo, duca di Torino; Teodolinda e Agilulfo fondano il Duomo di S. Giovanni (602).

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Lungo le pareti: i ritratti e le gesta di alcuni famosi imperatori romani e germanici: Tiberio, Nerone che occupa Torino dopo aver ucciso Cozio; Costantino che permette si consacrino a San Solutore e San Silvestro i templi di Iside e Diana; Ottone III; Fe derico Barbarossa che risparmia Torino dalla distruzione in seguito ai buoni uffici del Vescovo Milone; Sigismondo che vi apre lo Studio.

In merito alla paternità di tali affreschi il discorso è brevissimo. Il Paroletti, e, sulle sue orme, 1'Olivero, li assegnano senz'altro al fiammingo Giovanni Miel (Beveren Waes, presso Anversa, 1599; Torino 3 aprile 1664) e tale asserzione non trova nella rarissima letteratura posteriore alcun valido appiglio a sua conferma o smentita.

Il Baudi di Vesme, nel volume, "L'arte negli Stati Sabaudi ai tempi di Carlo Emanuele 1, di Vittorio Amedeo I, e della reggenza di Cristina di Francia", pur elencando numerosi dipinti del Miel, già esistenti a Palazzo Reale, ed isp irati alla mitologia ed all'antichità greco-romana, non registra l'asserto del Paroletti, per quanto concerne la sua attività nel Palazzo Civico, ove peraltro non sussistono documenti d'Archivio in grado di illuminarci sulle opere d'arte che lo adornano. Per parte nostra, ci sentiremmo propensi a considerare il problema ormai superato non essendo, ovviamente, più prospettabile la possibilità di alcuna analisi stilistica, che consenta nuove attribuzioni.

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Resta, ad ogni modo, accertato che la distruzione del ciclo non venne affatto suggerita da leggerezza o smania di novità, bensì dallo stato di deperimento in cui si trovava all'epoca della Restaurazione Sabauda (1814). Contro mali estremi, si ricorse, perciò, ad estremi rimedi, affidando il compito della trasformazione della sala, come già si è narrato, al Lombardi ed allo Spalla, che orchestrarono la loro sinfonia cromatica sulle tre tonalità fondamentali del v erde di Susa, del bardiglio bianco e dell'alabastro di Busca.

Del Lombardi andrebbero inoltre elencate diverse cospicue realizzazioni in Torino: la Necropoli (denominata in gergo "'l bòrg d'ij stendù") la sistemazione di Piazza Emanuele Filiberto, la facciata della Chiesa della Miseric ordia. (Quest'ultima, probabilmente, con l'aiuto del figlio Gaetano).

Nato a Torino nel 1775 e morto nel 1834, Giacomo Spalla, come sappiamo diresse i lavori di trasformazione della sala, ove scolpì il cosiddetto "monumento equestre" di Vittorio Emanuele I, raffigurato nell'atto simbolico del suo rit orno nei domini aviti. Si tratta in realtà soltanto di un vasto altorilievo, assai audacemente impostato però entro perentori limiti di spazio. Bene scrisse dunque il Mallè , che lo Spalla, educatosi alla scuola del Collino nella scul tura piemontese del primo 800, rappresenta la fase napoleonica "in freddi e stringati rilievi, con nuda aderenza al fatto, in tono di asciutta oratoria".


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