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Comunicato stampa

L’OMAGGIO IN SALA ROSSA A BRUNO CACCIA, UOMO GIUSTO, SIMBOLO DI LEGALITÀ

La cerimonia del 26 giugno 2013 in Sala Rossa


Nel trentennale dell’assassinio di Bruno Caccia, procuratore capo della Repubblica di Torino, la Città ha voluto ricordare la figura del magistrato con una cerimonia solenne in Sala Rossa. Un evento non retorico, che ha sottolineato la necessità di fare emergere tutta la verità sull’omicidio e di fare chiarezza sul contesto in cui è maturato, per trasmettere memoria e affermare i principi di legalità e giustizia.

Alla commemorazione hanno preso la parola il presidente del Consiglio Comunale Giovanni Maria Ferraris, il vice procuratore onorario Paola Bellone, il docente di Sociologia dell’Università degli Studi di Torino Rocco Sciarrone, il procuratore Gian Carlo Caselli, il sindaco Piero Fassino e Guido Caccia, figlio del magistrato ucciso dalla ’ndrangheta il 26 giugno 1983 davanti alla sua abitazione, in via Sommacampagna 15 a Torino.

Giovanni Maria Ferraris: “Ricordare l’integerrimo e tenace procuratore Bruno Caccia, protagonista nei difficili anni di piombo della lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata di stampo mafioso, è un atto doveroso, un omaggio alla memoria di un servitore dello Stato. La Città di Torino vuole dimostrare il suo sostegno ai familiari dando voce a un desiderio di giustizia che risponde alla domanda dell’intera società civile. Questa giornata non deve essere solo una commemorazione, ma un volano per fare emergere nuovi aspetti della verità, in risposta alla lettera dei familiari che chiedono la riapertura del processo”.

Paola Bellone: “La trasformazione della ’ndrangheta rivelata nel ’92 impone un’analisi storica integrativa della verità giudiziaria. Le indagini sull’omicidio di Bruno Caccia portarono a scoprire rapporti di contiguità tra alcuni colleghi di Caccia e alcuni malavitosi indagati dal suo ufficio, nell’ambito di inchieste di criminalità organizzata. La sentenza condannò moralmente i primi, perché con disponibilità verso i malavitosi, avrebbero rafforzato la motivazione a uccidere Bruno Caccia, nell’aspettativa che, dopo la sua morte, sarebbero subentrati magistrati ‘amici’.
La lettura degli atti del processo conferma un rapporto di contiguità non solo tra certi magistrati e i malavitosi, ma anche tra quegli stessi magistrati e gli indagati nelle inchieste di Caccia per gli scandali dei petroli e delle tangenti, un intreccio di interessi politici con interessi economici della malavita organizzata che apre l’ipotesi – da studiare sul piano storico – di un’alleanza per la pianificazione urgente di un omicidio altrimenti anomalo, in quanto vede, in un’epoca in cui la ’ndrangheta era già gerarchizzata al suo interno, come unico mandante un Domenico Belfiore di 30 anni, che da solo avrebbe deciso di uccidere la massima autorità della Procura di Torino, unico caso di omicidio di ‘ndrangheta nella storia giudiziaria italiana che ha come vittima un magistrato, unico caso di omicidio di mafia nella storia giudiziaria italiana che ha come vittima un magistrato nel Nord Italia. È un quadro che impone di scandagliare i collegamenti tra il basso della malavita organizzata e gli alti livelli istituzionali dell’epoca, considerando che proprio adesso si sta svolgendo la discussione finale del processo Minotauro in cui, per la prima volta, quei collegamenti affiorano a livello processuale. Un’analisi che sul piano storico potrebbe portare a fare chiarezza su una molteplicità di cause convergenti sull’omicidio di Bruno Caccia”.

Rocco Sciarrone: “Quello di Bruno Caccia fu un omicidio anomalo, in un momento in cui la Procura di Torino era impegnata sulle tre principali emergenze nazionali: il terrorismo, la criminalità organizzata e la corruzione politica. Omicidio anomalo, perché mafia e ’ndrangheta, al Nord, non avevano mai colpito così in alto. Un segnale evidente di qualcosa che stava accadendo: la criminalità organizzata, in Piemonte, era in transizione, da una fase di accumulo primitivo predatorio (si pensi ai sequestri di persona) a una fase di investimenti finanziari, legali o ai confini della legalità.
In Piemonte indagava sulle tangenti, sullo scandalo dei petroli, sul riciclaggio di denaro sporco nei casinò, a partire da Saint-Vincent. E in quella fase, il cosiddetto “clan dei calabresi” aveva costruito legami con alcuni rappresentanti delle Istituzioni, anche tra la stessa magistratura. Si costruiva una criminalità dei colletti bianchi, collegata a settori della politica: un contesto che favoriva la penetrazione nella società da parte dei gruppi mafiosi, con forti disponibilità economiche.
Dopo l’assassinio di Bruno Caccia, la criminalità organizzata in Piemonte si ‘riordina’, rendendo ancora più difficile colpire le reti mafiose e i loro legami politici ed economici. Ancora nel 2008, rapporti ufficiali definivano la situazione nella regione di “non particolare gravità”. Nel 2011, l’operazione Minotauro avrebbe invece portato alla luce non solo la forte presenza a Torino e in Piemonte della ’ndrangheta, ma anche di una vasta ‘area grigia’, con rapporti di scambio tra le mafie e ambienti politici ed economici. Proprio in quell’area grigia, anni prima, era maturato l’omicidio di Bruno Caccia. Un’area grigia che può crescere anche quando le attività apertamente criminali sembrano diminuire, muovendosi in un ambito dove la distinzione tra lecito e illecito diventa opaca.
Dagli atti giudiziari relativi all’uccisione del procuratore Caccia emergono elementi di attivismo inquietante da parte di esponenti dei servizi segreti, insieme a episodi di contiguità tra alcuni magistrati e la criminalità organizzata calabrese. All’epoca ci furono sottovalutazioni del peso del crimine organizzato in Piemonte, forse interessi a non far troppa luce.
Ancora oggi, c’è un deficit di conoscenza sulla criminalità organizzata nel Nord-ovest. Lo stesso processo Minotauro appare privo di un’adeguata copertura giornalistica, mentre l’informazione sarebbe importante: un dibattito pubblico ben informato sarebbe più utile di tanti eventi mediatici.
Troppo spesso si rappresentano le mafie come un fenomeno ‘etnico’, esterno al Piemonte, ma che la nostra regione sia davvero refrattaria alla mafia, come più volte si è sostenuto, è discutibile. La mafia non è una ‘malattia’: è in grado di espandersi anche senza aperte intimidazioni. Minotauro sta rivelando un metodo di condurre affari e far politica. Esiste una minoranza di imprenditori disposta a collusioni con soggetti criminali per acquisire vantaggi nella competizione tra aziende. Ci sono stati episodi di contatti con esponenti criminali per raccogliere consensi elettorali. Alcuni politici hanno sostenuto a questo proposito che ‘è difficile riconoscere i mafiosi’. ma questo è segno di debolezza da parte della politica. Perché i mafiosi devono farsi riconoscere per poter esercitare il loro potere: mimetizzarsi sì, ma non nascondersi”.

Gian Carlo Caselli: “Oggi si è parlato anche delle B.R. e del pentimento di Peci, ma l’inizio della fine delle Brigate Rosse cominciò molto prima. Fu con il processo in cui il Pubblico Ministero era Bruno Caccia, quel processo che si svolse nel pieno rispetto delle regole democratiche e nel quale i brigatisti iniziarono a sentirsi isolati dalla società.
Sono passati trent’anni dall’assassinio di Bruno Caccia. Commesso a Torino, è l’unico omicidio di mafia non riferibile alla mafia siciliana e direttamente riconducibile alla ’ndrangheta. C’è qualcosa di anomalo: è questa l’unica occasione in cui la ’ndrangheta colpisce un personaggio eccellente, uscendo dal cono d’ombra in cui tende a restare sempre avvolta. Doveva avere motivazioni davvero formidabili. E fanno perciò benissimo i familiari a insistere perché si approfondisca ancora e si cerchi più verità di quella fin qui acquisita.
Di Bruno Caccia mi piace ricordare il suo essere ‘accanito’, nel senso che ricercava la verità con determinazione. L’accanimento di Caccia intrecciava il senso dello Stato con la responsabilità individuale e traeva origine da una convinzione profonda: solo la convivenza pacifica è convivenza civile. Altrimenti, si apre la strada della sopraffazione del più forte sul più debole, del criminale sulla vittima.
Oggi, anche grazie a cerimonie come questa, stiamo uscendo dalla rimozione e dall’oblio di quell’assassinio. Oblio che ha spalancato le porte all’infiltrazione della ’ndrangheta nel Comune di Torino. Nel processo Minotauro ho parlato stamani per tre ore della collusione tra la politica e la ’ndrangheta. Processo che è un’occasione irripetibile, da non perdere, perché chi paga tale infiltrazione alla fine sono i cittadini tutti. E resto convinto che saremo in grado di affrontare questo difficile compito”.

Piero Fassino: “Bruno Caccia, medaglia d’oro al valor civile, fu uno strenuo difensore del diritto, esempio straordinario di lealtà pubblica e di coraggio civico.
Il procuratore Caccia comprese trent’anni fa quanto fosse insidiosa la strategia della criminalità organizzata per allargare la propria diffusione nel Nord. Oggi il processo Minotauro ci consegna una rappresentazione del sistema delle infiltrazioni mafiose nel Nord Italia che conferma la lucidità e la preveggenza dell’analisi e dell’azione del dottor Caccia. Come magistrato svolse un’azione determinata e inflessibile nell’affermare le ragioni della giustizia e del diritto, in una stagione in cui si intrecciavano terrorismo e criminalità organizzata e iniziava a emergere un vasto sistema di corruzione e collusione tra mondo degli affari e Istituzioni.
E tutti abbiamo il dovere di fare memoria e trasmettere alle generazioni future i principi di diritto e legalità in cui lui credeva. Soltanto insegnando il rispetto delle regole possiamo garantire l’uguaglianza dei diritti e la possibilità per ciascuno di esercitarli.
Il processo ai capi storici delle Brigate Rosse che Caccia portò avanti come P.M. segnò una svolta e permise a Torino di vincere la sfida al terrorismo, interrompendo la scia di delitti che aveva insanguinato Torino tra il 1977 e l’inizio degli anni Ottanta. Determinante fu il ruolo del magistrato Maurizio Laudi.
Sappiamo che l’omicidio del dottor Caccia non è riconducibile a una matrice terroristica, bensì alla criminalità organizzata. Un delitto su cui ancora oggi permangono zone di oscurità.
Il Consiglio Comunale di Torino non può quindi che condividere l’appello lanciato dai figli del procuratore ucciso perché sia ricostruito tutto ciò che è accaduto. Serve un ‘laboratorio di verità’ per fare luce su un passato ancora in parte oscuro e opaco. Per avere una verità inconfutabile e per affermare un’azione di contrasto all’illegalità oggi. Non si possono lasciare soli gli uomini dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata. Il contrasto all’illegalità è una responsabilità individuale e di tutta la comunità torinese. Come è accaduto con il terrorismo, solo con la mobilitazione della coscienza democratica di tutto il Paese si può sconfiggere la criminalità organizzata. E ribadire questo impegno è il modo migliore per ricordare Bruno Caccia”.

Guido Caccia: “Mi ha colpito quanto è stato detto e ringrazio tutti per quella che non è solo una commemorazione, ma un atto di gratitudine nei confronti di mio padre. A Caselli, amico di sempre, grazie per le parole dedicate a papà. Per noi della famiglia il suo lavoro è sempre rimasto in secondo piano: lui lo lasciava sulla porta prima di entrare in casa. Da un certo momento in avanti sulla porta c’erano anche due carabinieri di scorta, ma nonostante ciò riuscivamo a vivere normalmente.
Dopo, mi ricordo l’ondata di affetto della Città, del Sindaco di allora, Diego Novelli, e dei colleghi di papà che furono per noi come una seconda famiglia. Fu molto importante per mia madre che oggi, se fosse qui, sarebbe molto contenta e che da allora dedicò la sua vita a cercare di conoscere la verità completa”.

In mattinata, in via Sommacampagna 15 a Torino, è stato reso omaggio alla lapide posta sul luogo dell’omicidio. Alla cerimonia, organizzata dal Comitato cittadino per la legalità della Circoscrizione 8, oltre ai familiari di Bruno Caccia, sono intervenuti Mario Cornelio Levi, presidente della Circoscrizione 8, Pier Franco Quaglieni, direttore del Centro Pannunzio, e Andrea Zummo, dell’associazione Libera. In rappresentanza della Città di Torino era presente il presidente del Consiglio Comunale Giovanni Maria Ferraris.

(Ufficio stampa Consiglio Comunale)

Nella foto: Un'immagine della cerimonia del 26 giugno 2013 in Sala Rossa (foto www.cittagora.it).


Pubblicato il 26 Giugno 2013

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