Donne disabili, sanità «in salita»: visite ed esami cancellati o rimandati

Ritardi, posticipazioni e cancellazioni di visite, prestazioni ambulatoriali ed esami diagnostici durante la pandemia sono diventati all’ordine del giorno, creando problemi enormi già ai pazienti «normodotati». Ma i soggetti con disabilità hanno dovuto affrontare ostacoli che si sono rivelati per loro spesso insormontabili. «Non hanno ricevuto la protezione necessaria. La pandemia ha evidenziato l’inadeguatezza dei servizi sanitari e sociali — sottolinea Silvia Cutrera, vicepresidente di Fish (Federazione italiana superamento handicap) —. Dopo la chiusura dei servizi territoriali, le persone sono rimaste confinate nei servizi residenziali, nel proprio domicilio senza aver accesso a misure alternative, nelle loro case se già vivevano da soli».

La pandemia

Sono venuti a mancare i «fondamentali» come rimarcano Fish e Fand (Federazione tra le associazioni nazionali delle persone con disabilità), ovvero sia l’attuazione dei Livelli essenziali di assistenza, sia l’erogazione di ausili e presidi. «In questo periodo di pandemia tutti ci siamo resi conto di quanto l’accesso alle cure sia importante. Abbiamo sperimentato come gli appuntamenti venissero spostati per dare spazio all’emergenza e come certi reparti non permettessero di fissare nuove visite o venissero convertiti in comparti Covid. Il tutto a discapito di prevenzione, cura o interventi chirurgici di natura diversa. Per molte persone con disabilità, questo senso di esclusione dall’accesso ai servizi per la salute spesso rappresenta la norma», aggiunge Stefania Pedroni, vicepresidente dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare (Uildm). La situazione diventa ancora più critica per chi soffre di una patologia grave, come ad esempio una malattia genetica rara. Infatti, capita di frequente che vengano posticipate importanti visite periodiche di monitoraggio del decorso della malattia. Anche sulla questione dei vaccini, le persone con disabilità si sono trovate svantaggiate.

La Convenzione Onu del 2006

E anche quando questi pazienti hanno problemi che non sono collegati direttamente alla loro patologia (oculistici, ginecologici, mentali) non sempre è loro garantito il diritto alla salute. Si tratta invece di un diritto inviolabile, sancito dall’articolo 25 della Convenzione Onu del 2006 in base al quale le persone disabili devono poter godere del miglior stato di salute possibile senza discriminazioni legate alla loro disabilità. Per questo, si chiede agli Stati membri che vengano erogati loro servizi sanitari uguali a quelli di tutti gli altri. In Italia la traduzione in pratica di questa raccomandazione deve fare i conti con ostacoli senza fine, a partire dall’inaccessibilità delle strutture dovuta alla presenza di barriere architettoniche per arrivare e poche informazioni sulla salute disponibili da parte dei soggetti con disabilità e spesso alla mancanza di una preparazione adeguata delle equipe mediche sulle particolari esigenze di questi pazienti.

Doppia discriminazione

Quando poi il disabile è una donna, il discorso si complica ulteriormente. Secondo una ricerca dell’Eige (European Institute for Gender Equality, Istituto europeo per l’uguaglianza di genere) il 13 per cento delle donne disabili dichiara di non essere soddisfatta delle cure sanitarie, contro il 5 per cento di quelle «normodotate». Le donne, di fatto, sono soggette a una doppia discriminazione: di genere e in quanto persone disabili. «Molto spesso la discriminazione è ancora più sottile, perché frutto di un atteggiamento “abilista” che emerge soprattutto nella relazione con l’altro: quando un operatore sanitario considera le persone con disabilità come inferiori, asessuate, inadatte a vivere con un partner o ad essere genitori, assume un punto di vista parziale e frammentato che non gli permette di porre l’altro nelle condizioni di essere il protagonista delle proprie scelte di cura, rendendolo maggiormente vulnerabile ai rischi a cui siamo esposti» spiega Pedroni.

Il report

Una conferma di quanto sia ancora lunga e accidentata la strada da percorrere per avere garantito il diritto alla salute arriva dal nuovo report «Sessualità, Maternità, Disabilità» preparato dal Gruppo Psicologi e dal Gruppo Donne di Uildm (se ne parlerà durante il webinar promosso da Uildm – Unione italiana Lotta alla Distrofia Muscolare martedì 8 marzo alle 17.30. Per iscrizioni e link visitare il sito uildm.org). «L’indagine è nata sulla base di diverse esperienze positive vissute dalle donne della nostra associazione, che hanno stimolato la curiosità di andare a riprendere il sondaggio sviluppato nel 2013 e di riproporlo dopo quasi 10 anni. Il desiderio era di verificare se questo cambiamento culturale fosse realmente avvenuto, in modo da comprendere su quali aspetti coinvolgere maggiormente il dibattito pubblico», spiega Stefania Pedroni. Per portare a termine l’indagine, sono stati compilati 131 questionari e organizzata la partecipazione a focus group da parte di donne disabili; il 97,7% di loro aveva una disabilità motoria e il 2,3% visiva; provenivano da differenti zone d’Italia; avevano diversi titoli di studio, stato civile e situazione famigliare.

I risultati

Buona parte delle criticità, le più rilevanti, persistono ancora, come, la mancanza di servizi igienici accessibili, di un lettino regolabile e/o di un sollevatore; gli spogliatoi non sono abbastanza ampi, affinché le pazienti in sedia a rotelle possano muoversi liberamente; gli ambienti non sono insonorizzati in modo tale da garantire l’adeguata privacy; la presenza di barriere architettoniche lungo i percorsi; una preparazione inadeguata dello staff medico sulle specifiche esigenze delle donne con disabilità. «Credo che un cambiamento culturale stia comunque avvenendo in termini di maggiore consapevolezza del proprio corpo, dei bisogni e dei desideri da parte delle donne con disabilità. Certo la disabilità resta ancora un limite perché l’ambiente che ci circonda non è costruito in termini di accessibilità», conclude Pedroni.

Fonte: corriere.it