Disabilità e licenziamento per lunga malattia: quale tutela all’orizzonte per i lavoratori?

Probabilmente scosso dalle grandi crisi attraversate (finanziaria, debiti sovrani, pandemia, guerre), è di tutta evidenza come, soprattutto grazie al prodigarsi della Corte di Giustizia, il diritto europeo abbia finalmente imboccato la strada verso uno dei suoi interessi generali più importanti: la garanzia di adeguata protezione sociale (art. 9 TFUE).

In particolare, riguardo ai lavoratori dell’Unione, sembra aver riscoperto il valore fondante del principio d’uguaglianza (art. 2 Tue, art. 21 Cdfue), espresso attraverso una delle sue principali concretizzazioni (art. 19 Tfue) ossia la Direttiva 2000/78/CE, istitutiva di un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. Ed è proprio in tema di tutele da assicurare ai prestatori affetti da disabilità che il diritto europeo, forte del suo “primato” rispetto a quello nazionale (C. Cost. n. 67/2022), sembra aver messo in crisi una delle più risalenti e consolidate ragioni di cessazione dal rapporto di lavoro, ossia il licenziamento per cosiddetto “superamento del comporto”.

Una speciale tipologia di recesso, quella disciplinata all’art. 2110 c.c., che delegando ai Ccnl l’individuazione del periodo di conservazione del posto per il dipendente assente causa malattia, sembrava, fino a poco tempo fa, una norma di perfetto compromesso fra l’esigenza del datore di mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce, e quella opposta del lavoratore di disporre del congruo tempo per curarsi e non perdere i mezzi necessari al suo sostentamento (Cass. n. 31763/2018). Senonché, più di recente, taluni dei principi espressi in sentenze emesse dai giudici del Lussemburgo sembrano aver rotto irrimediabilmente questo duraturo equilibrio.

A cominciare dalla confermata ampiezza della nozione di handicap, mutuata dalla Convenzione Onu di New York e fatta propria dall’Ue, la quale arriverebbe a comprendere finanche la malattia, se comportante per il dipendente una limitazione di lunga durata derivante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche e che, in interazione con barriere di diversa natura, sia tale da ostacolare la sua piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale (Sentenza HK Danmark, 2013). Ma soprattutto stabilendo che un lavoratore disabile sarebbe, in genere, maggiormente esposto al pericolo di essere licenziato, poiché rispetto agli altri risulterebbe più esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, con la conseguenza che considerare quei giorni nel calcolo utile all’estromissione finirebbe col rappresentare una discriminazione indirettamente fondata sulla disabilità (Sentenza Ruiz Conejero, 2018).

Di qui, pur se pronunciate riguardo a leggi e casi inerenti ad altri Stati membri, i concetti espressi dalla Corte di Giustizia hanno iniziato a far breccia nel nostro ordinamento, inducendo sempre più dipendenti a impugnare i licenziamenti intimati per lunga malattia, lamentandone la natura discriminatoria. In sintesi della complessa battaglia giudiziaria (fra le ultime Trib. Rovereto n. 44/2023, App. Milano n. 1257/2023, Trib. Parma n. 1/2023, Trib. Bologna n. 230/2022), da una parte, le ragioni datoriali si attestano sulla mancata conoscenza, al momento del recesso, della condizione di handicap affliggente il lavoratore e, comunque, che l’applicazione del diritto “antidiscriminatorio” Ue non potrebbe mai significare l’eterno mantenimento in servizio di un soggetto non più capace all’esecuzione delle mansioni oggetto di assunzione (Considerando 17, Dir. 78/2000).

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