L’intersezionalità che manca ai dati sulla violenza di genere: dove sono le donne disabili?

C’è una grande lacuna nei dati sulla violenza di genere che abbiamo commentato in questi giorni: la mancanza di dati disaggregati che riguardano le donne disabili, una parte di popolazione già discriminata e marginalizzata dalla scarsa presenza nel dibattito pubblico, e di conseguenza, nelle decisioni politiche.

Perché ci servono i dati? Perché per capire meglio le discriminazioni è necessario adottare un approccio intersezionale. Il concetto di intersezionalità, introdotto da Kimberlé Crenshaw nel 1989, serve a comprendere come diverse forme di oppressione e discriminazione (come razzismo, sessismo, abilismo, ecc.) si intreccino e si influenzino reciprocamente. Le esperienze di oppressione e ingiustizia non sono uniformi, ma cambiano a seconda di come diversi fattori di identità si sovrappongono.

I dati globali delle Nazioni Unite indicano che tra il 40 e il 68% delle giovani donne con disabilità ha subito violenza prima di compiere 18 anni. E gli ultimi dati dell’indagine Istat del 2014 relativa alla violenza di genere dicono che il rischio di subire stupri o tentati stupri è doppio per le donne con disabilità (10%) rispetto a quelle senza limitazioni funzionali (4.7%).

L’esperienza di violenza delle donne disabili andrebbe quindi studiata e monitorata inserendo modalità di oppressione che sono diverse da quelle che possono subire le donne non disabili, come quelle messe in evidenza dal rapporto dell’Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori. Nel documento si mettono in evidenza forme di abuso come l’essere trattata in maniera brusca durante gli spostamenti, l’essere messa a riposo per un periodo prolungato o essere sottoposta a costrizioni fisiche; richieste sessuali in cambio di aiuto o sostegno, e moltissime altre forme di costrizioni e oppressioni, come la sterilizzazione forzata e l’aborto coercitivo.

I casi analizzati riguardano il periodo tra il mese di ottobre del 2020 e il novembre 2022, e sono inclusi 230 casi di maltrattamenti contro conviventi o familiari, 63 dei quali su minorenni; 50 casi di violenza sessuale, di cui 9 su vittime minorenni; 21 episodi di atti persecutori (stalking), 3 dei quali nei confronti di minori.

Il report mette in evidenza l’importanza di analizzare in modo specifico le forme di violenza subite dalle donne disabili, ma al momento i dati che abbiamo a disposizione sono raccolti sporadicamente e non fanno ancora parte del sistema Istat.

Anche se, in un documento pubblicato in occasione dell’ultima riunione dell’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, l’Istat anticipa alcuni dati del 2022 sui centri antiviolenza: ci sono state 2033 donne con disabilità che si sono rivolte ai centri (11,2%) per uscire da una situazione di violenza, di cui lo 0,5% ha una disabilità sensoriale, l’1,6% motoria, 1,9% una disabilità intellettiva, il 7,9% altra tipologia di disabilità. Nello stesso documento l’Istat promette che «potenzierà l’informazione statistica sulla violenza sulle donne con disabilità, grazie alla realizzazione di una nuova indagine, nella quale verranno inseriti 3 quesiti, concordati a livello internazionale, che consentiranno la comparabilità dei dati a livello europeo».

Proprio in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne la ministra Alessandra Locatelli ha diffuso altre statistiche, di cui la fonte, risalendo ai documenti pubblicati sul sito del ministero per le disabilità, è un’indagine dell’associazione FISH Onlus condotta nel 2020 con un questionario online rivolto a donne con disabilità: su 486 donne rispondenti, di cui il 70% con disabilità motoria, il 62,3% del campione ha dichiarato di aver subìto nel corso della propria vita almeno una forma di violenza. La più ricorrente è stata quella psicologica (51,4% del campione), seguita dalla violenza sessuale (34,6% dei casi), la violenza fisica (14,4%) e quella economica (7,2%). In merito all’autore della violenza nella quasi totalità dei casi (87%) si trattava di una persona nota alla vittima.

Ma trovare questi numeri non può diventare un viaggio di click infiniti all’interno dei siti ministeriali, soprattutto per comuni cittadini e cittadine e con questa disomogeneità di raccolta è impossibile pianificare interventi o politiche adeguate.

«I dati servono a far riflettere che esistiamo, che anche noi donne disabili siamo oggetto di violenza e più esposte rispetto a donne non disabili. Un’altra cosa importante sarebbe disaggregare per tipo di disabilità. Donne con disabilità diverse hanno necessità diverse e sono esposte a rischi diversi». Lo sottolinea Marta Migliosi, attivista, che insieme a Asya Bella, formatrice e docente, ha pubblicato una lettera al movimento Non una di meno sul sito Informare un’H per chiedere una discussione aperta rispetto alla mancanza di accessibilità e attenzione alle persone disabili nell’organizzazione della manifestazione che ha riempito le strade di Roma il 25 novembre. Con più dati a disposizione, quindi, cambierebbe il modo di fare attivismo? «Sì, nel modo di percepire la disabilità e iniziare a decostruire l’abilismo» continua Migliosi.

I dati che riguardano la disabilità in generale, non solo quelli sul fenomeno della violenza, presentano grosse lacune nel nostro paese.

La campagna Disabled Data, promossa da Fight the Stroke, onData e Sheldon.Studio, insieme ad altre associazioni del settore, aveva già fatto emergere la questione. Insieme a quella, fondamentale, della mancanza da parte dei centri antiviolenza e delle case rifugio di prevedere in modo specifico un programma di accoglienza per le donne disabili.

Eppure la convenzione di Istanbul, che è un documento fondamentale nell’ambito della lotta contro la violenza di genere, stabilisce che le misure per tutelare i diritti delle vittime non devono portare alcuna discriminazione, tra cui quella fondata sulla disabilità. La disabilità è citata nel preambolo, dove viene espressamente indicata la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, e nell’articolo 4, dove la disabilità è elencata tra le possibili cause di discriminazione espressamente vietate. L’articolo 46 considera una circostanza aggravante il commettere un reato contro una persona in condizioni di particolare vulnerabilità, che potrebbe includere le donne con disabilità e all’articolo 39 si menzionano aborto forzato e sterilizzazione forzata.

«I dati servono per fare ricerca e la ricerca dovrebbe influenzare la politica, quindi le leggi», conclude Migliosi. «Ci sono donne disabili su cui abbiamo pochissimi dati: donne disabili immigrate, donne disabili rom, donne disabili richiedenti asilo. Chi pensa a queste donne? Che necessità hanno? Magari sono venute in Italia anche per avere cure mediche o ausili, ma non lo sappiamo. Non sappiamo nulla di loro. Sappiamo pochissimo anche delle donne disabili istituzionalizzate e di quelle detenute, nonché di quelle Rom. Se non si conoscono i dati non si possono pianificare politiche adeguate».

Fonte: lastampa