Sessualità e disabilità, i laboratori del Comune fanno scuola: “Nelle famiglie resistono ancora pregiudizi sbagliati”

«Il disabile come e più degli altri ha bisogno di amare e di essere amato, di tenerezza, di vicinanza e di intimità. Particolare attenzione va riservata alla cura delle dimensioni affettive e sessuali».

A pronunciare queste parole fu Giovanni Paolo II, quasi vent’anni anni fa, in un messaggio a un simposio sui disabili mentali. Ancora prima, alla fine degli Anni Ottanta, grazie a un pionieristico sondaggio tra le persone con lesioni spinali in Piemonte, venne fuori che il desiderio più grande di riconquista non era recuperare le disfunzioni motorie, ma quelle cosiddette autonome: urinarie, intestinali e genito-sessuali.

La buona notizia è che la qualità di vita di chi ha una lesione spinale da allora è infinitamente migliorata grazie ai progressi della medicina e della tecnologia. Quella cattiva è che il sesso, troppo spesso e in gran parte d’Italia, è rimasto un tabù. Ne parliamo con Giada Morandi, responsabile del servizio sessualità e disabilità del Comune, tra i protagonisti del Convegno della Federazione Malattie Rare Infantili “Il sesso negato, autonomia e sessualità nelle persone con disabilità” che si terrà a Torino sabato 28 ottobre.

Quando è nata la consapevolezza di un bisogno di assistenza dedicata alla sessualità e affettività delle persone con disabilità?

«I servizi sociali torinesi lavorano su questo aspetto sempre sottovalutato ma molto importante per il benessere delle persone con disabilità già negli anni Novanta. Si iniziò con un percorso dedicato alla disabilità intellettiva con un’impostazione che guardava esclusivamente la rete di sostegno alla persona: mamma e papà, insegnanti, amici. Insomma tutta la rete di riferimento, ma non il “protagonista”. Per quei tempi era un approccio molto innovativo, ma siamo andati molto avanti da allora. Anche perché le richieste delle persone con disabilità cambiano».

Come lavorano oggi i servizi sociali del Comune su questo tema?

«Tradizionalmente si è sempre accostato tutto quello che riguarda la sessualità a un profilo psicologico. A volte le persone vengono “spedite” dallo psicologo contro voglia, ma senza la loro collaborazione è impossibile arrivare a dei risultati. La tendenza è ridurre tutto a un problema di tipo relazionale, che a volte c’è e a volte invece no. Noi lavoriamo con il servizio Passepartout e le associazioni Verba e Mana. C’è un’attivazione di tipo sanitario: si guarda alla salute sessuale e riproduttiva delle persone con disabilità, troppo spesso assolutamente trascurata. Da una ricerca di anni fa sull’accesso alle cure e ginecologiche di prevenzione delle donne di disabilità venne fuori che appena il 28 per cento si sottoponeva agli esami di prevenzione. L’idea è che dal ginecologo ci vai solo se ha un vita sessuale, se non ce l’hai, che vai a fare? Ma non funziona così. Così è nato l’ambulatorio ginecologico accessibile di via Silvio Pellico. Non abbiamo voluto creare un ghetto: le donne con disabilità vanno dove vanno tutte le donne, a curarsi, parlare di maternità, sesso e prevenzione».

Quali sono i possibili percorsi da intraprendere?

«Accanto ai percorsi di sessuologia clinica, puri, abbiamo quelli di educazione sessuale adattata. Lo psicologo fa la disamina sulle conoscenze della persona e poi inizia a lavorare insieme a lei, con gli strumenti più adeguati. Abbiamo una ragazza con disabilità intellettiva con una vita sessuale attiva e un fidanzato. Ma quando le abbiamo chiesto dove stanno le ovaie, le ha disegnate sparse per la pancia. Con un’altra ragazza abbiamo costruito un libro delle emozioni, legato alla sessualità. E ci sono anche dei percorsi di coppia».

Perché è così importante superare stereotipi e pregiudizi sulla sessualità delle persone con disabilità?

«Noi in questi anni abbiamo riscontrato che c’è un’alta, altissima percentuale delle persone con disabilità che subisce violenze sessuali. Una parte per chiamiamola sfortuna, può capitare a tutti. Ma un’altra invece perché la violenza, se si cresce senza che nessuno mai gli spieghi le cose, non si percepisce come tale. Possono diventare vittime, del tutto inconsapevoli. Abbiamo una casistica altissima di persone che subiscono violenza e non se ne accorgono, perché nessuno gli hai mai dato gli strumenti per farlo. Non l’avevamo nemmeno contemplato quando abbiamo aperto nel 2014, ma la prima donna che abbiamo portato accolto per una visita di routine aveva una serie di lesioni. Le abbiamo chiesto come se le era procurate, sono venuti fuori anni di violenze a suo danno da più uomini. Non era minimamente consapevole di quello che le stava succedendo».

Quali sono i numeri delle violenze?

«Nel 2022 abbiamo accolto 270 persone di cui 23 hanno iniziato un percorso solo con gli operatori, 76 con gli psicologi, gli altri hanno solo chiesto informazioni. Di questi il 43,4 per cento ha raccontato di aver subito una violenza».

C’è più consapevolezza su questo tema?

«Nì. Tra gli operatori sì, ma nelle famiglie sopravvivono ancora resistenze e stereotipi diffusi nella società. C’è questo stereotipo diffuso che chi ha una disabilità intellettiva è una persona ipersessuata, quella con disabilità motoria invece è un angelo. Da parte dei genitori c’è la tendenza a vivere la sessualità come una problematica da risolvere, ma non è così. Ecco perché per esempio abbiamo anche un laboratorio andrologico dedicato. Ricordo una mamma che ci portò il figlio perché aveva delle erezioni spontanee, pensava gli servisse un aiuto psicologico. Ma non era quello il caso, ma un fatto assolutamente naturale. E in quel caso è bastato il colloquio con un medico».

Per il benessere di una persona con disabilità, quanto conta nascere nella città “giusta”?

«Tantissimo. Da quello dipende tutta la tua vita. Io ho una disabilità motoria, spesso sento dei racconti agghiaccianti da chi abita anche solo in Liguria. Possiamo essere orgogliosi del nostro servizio perché al momento riusciamo a rispondere a tutte le richieste, non abbiamo liste d’attesa e speriamo di non averle mai. E poi gli operatori delle associazioni che lavorano con noi viaggiano per tutta Italia per i corsi. Una volta mi è stato detto: “A Torino state talmente bene che potete addirittura occuparvi della sessualità”».

Fonte: lastampa.it