Imparare a guardare i monti, anche se non si vedono

Il paesaggio è un concetto prevalentemente visivo. Un patrimonio considerato di tutti che è dunque importante rendere fruibile anche a chi non vede. Parte da questa convinzione il lavoro di studio e ricerca di Michele Piccolo, geografo e professionista di area tiflologicaspecializzato nella didattica rivolta alle persone con disabilità visiva, che ha cercato di capire quale può essere il metodo migliore per dare alle persone non vedenti e ipovedenti una visione quanto più completa possibile del vasto spazio che li circonda.

«Mi sono interrogato», spiega Piccolo, «sul concetto di percezione del paesaggio per una persona con disabilità visiva. Siamo soliti pensare che chi non vede costruisce il concetto di ambiente a partire dalle sue capacità sensoriali residue, dunque: udito, olfatto e tatto. Così, mi sono chiesto, se vi fossero altre strade da percorrere. Sono giunto alla conclusione che dobbiamo sempre ricordarci che siamo difronte a un “oggetto” visivo, il paesaggio, e abbiamo due vie per raccontarlo o omettiamo alcune cose che vediamo oppure troviamo gli strumenti per raccontare tutto quello che c’è intorno. Questi strumenti devono saper mettere insieme la percezione diretta, andando sul posto, la dimensione della verbalizzazione dell’esperienza e quella del confrontarsi con delle rappresentazioni fatte di creta per esempio. Occorre dunque mettere insieme tutti i canali sensoriali perché chi non vede possa avere una percezione del paesaggio quanto più aderente alla realtà».

Per tre anni il giovane geografo è stato coinvolto nei campi estivi Lea, organizzati da istruttori di orientamento, mobilità e autonomia personale a Barcis (Pn) all’interno del parco delle Dolomiti friulane e rivolto a persone non venenti o ipovedenti. Un’esperienza di circa 10 giorni all’anno che insegna ai ragazzi a esplorare il territorio attraverso escursioni che li mettono a contatto con un ambiente diverso da quello urbano a cui solitamente sono abituati.

«Dai miei studi», prosegue, «ho compreso che è importante lavorare su tre livelli comunicativila pratica sul posto, dunque esplorare insieme uno spazio fisico; la descrizione verbale, provare a compensare tutto quello che non è possibile far percepire in forma diretta con il mio corpo con la parola e qui il linguaggio ha la grande responsabilità di riuscire a descrivere delle morfologie viziandole il meno possibile del proprio giudizio; gli strumenti di rappresentazione, pensiamo istintivamente alle mappe tattili ma anche ai plastici».

Il primo passo è stato quello di cercare di comprendere con i ragazzi dove ci si trovava.

«Non basta immaginare che il lago è alla mia destra e il versante a sinistra», spiega, «per capire che forma ha, cosa succede se mi ruoto di 180 e come cambia il mondo intorno a me è necessario sviluppare un’immaginazione spaziale più affinata. Ci siamo, così, divisi in piccoli gruppi e abbiamo passeggiato lungo il lago. Creato stazioni di “meditazione” dove ci fermavamo e attivavamo sensi che durante la camminata erano sopitiPian piano si è creata in ogni ragazzo una mappa anche emotiva. Una cosa che mi ha molto colpito è il rapporto che in questi ragazzi si genera tra il tempo impiegato a compiere il percorso e la lunghezza dello stessoSe il tempo era tanto la strada veniva percepita come molto lunga anche se non lo era. La persona non vedente è abituata a orientarsi misurando e dunque anche il tempo diventava un parametro per la lunghezza. In una seconda fase abbiamo trasformato in plastici di creta quanto il gruppo aveva percepito dal vivo lungo i sentieriEd è stato bello vedere i ragazzi che si aiutavano mettendo insieme le loro singole percezioni a volte molto diverse tra loro».

Fonte: vita.it