Valentina Tomirotti: «Ho un corpo non conforme. Ma non mi sento diversa dagli altri»

Foto di Valentina Tomirotti«Quando sono nata, nel 1982, non avevano detto ai miei genitori che sarei nata con qualcosa che non andava. Il medico non ha riconosciuto le mie disabilità molto apparenti: gli arti corti, la statura, la conformazione. Oggi penso: evviva, ci sono ugualmente! Però è come se non avessero dato ai miei genitori una scelta e ho questo interrogativo costante». Qualche mese dopo hanno avuto la diagnosi a Genova, in un altro centro: vostra figlia ha la displasia diastrofica.

«Forse i miei non avrebbero messo in discussione il mio arrivo nel mondo, ma non si sono nemmeno potuti preparare. Tante famiglie si disintegrano per questo motivo. Non tutti nascono con le palle d’acciaio. Non si devono trattare le famiglie come supereroi a cui è capitato un problema con cui devono fare i conti da soli».

Valentina Tomirotti è una giornalista mantovana, un’attivista in sedia a rotelle con la quale gira in lungo e in largo per raccontare la sua sfida contro i pregiudizi sulla disabilità. Conosciuta da anni grazie al suo blog “Pepitosa”, una pietra preziosa come sa di essere, ha raccontato il suo mondo senza stereotipi: dal sesso al corpo, fino alla denuncia di difficoltà strutturali ed emotive.

«Non tutelano la famiglia. Mia madre l’hanno abbandonata in una stanza di ospedale, addirittura veniva ignorata con il suo stupore, i suoi interrogativi: dai più banali a quelli inconfessabili. Avevano una grande incognita sul mio destino. Ho una malattia genetica non degenerativa, ma loro non sapevano come affrontarmi. Per fortuna i miei sono una coppia molto affiatata, hanno fatto scudo, ma non è stato facile e non si deve dare per scontato che sia per tutti possibile. Nel mio asilo non mi volevano se non con la maestra di sostegno, ma io non ne avevo bisogno e ho cambiato paese per frequentarlo. È stato difficile fare capire che il corpo e la testa non sono connessi: la mia testa funziona benissimo».

La disabilità non rende meno uguali, speciali o eroi e questa sarebbe la vera conquista comunicativa. «La cosa più difficile è dimostrare di non subire l’etichetta che mi porto addosso. So di essere una persona disabile, ma sono una persona e il mio valore, ciò che mi determina, è il lavoro, la mia affettività, la mia vita. Non sono migliore o peggiore di altri perché sono su una sedia a rotelle. Nella rappresentazione mediatica veniamo raccontati per un caso di cronaca o, al contrario, il racconto è viziato dall’eccessiva ricerca di un’eccellenza. Manca una normalizzazione delle nostre vite. L’immagine del disabile fa paura, non veniamo inseriti nel quotidiano. Esiste, ad esempio, un conduttore televisivo seduto in carrozzina? O un articolo che non inizi con l’espressione «nonostante tutto»?

Cinque anni fa Valentina si fece fotografare in lingerie e divenne un manifesto di libertà: «Sono proprietaria di un corpo non conforme. E quindi?». «Avevo trentacinque anni e ambivo a un dialogo sulla sessualità che ho e che vivo serenamente. Oggi sono innamorata, ho una persona accanto, fra alti e bassi come chiunque. Anche se è complicato a livello pratico, non lo è nella coppia: il mio partner non è il mio badante. Luglio è il mese del Disability Pride: divulghiamo, dialoghiamo come merita. Invito le aziende e i media a farsi carico del tema, a mettersi al nostro fianco per darci valore ed eco di cultura».

Fonte: espressorepubblica