L’interdipendenza tra le persone, il caregiving e la restituzione

Foto di mani unite di due persone«Il mito dell’uomo che si è fatto da solo” – scrive Simona Lancioni – può essere inteso nel senso che tutti gli esseri umani sono chiamati a lavorare su di sé per conoscersi e migliorarsi, attività che concorre a plasmarci e a fare di noi ciò che siamo. Ma spesso, purtroppo, questo mito continua ad essere utilizzato per occultare l’interdipendenza che ci caratterizza come esseri umani e dunque per tenere in piedi una delle finzioni più deleterie per le nostre società, quella di bastare a noi stessi. Queste riflessioni prendono spunto dall’esperienza di caregiving che ho avuto».

In coloro che, come chi scrive, hanno studiato al liceo classico, la parola mito evoca gesta straordinarie compiute da dei, semidei e eroi della tradizione greca e latina. Gesta tramandate dapprima oralmente, quindi rese immortali dagli autori classici, in larga maggioranza uomini. Vi era in quelle narrazioni una sorta di sacralità che suggeriva un’adesione fideistica.
Questo modo di approcciarci ai miti non è scomparso nelle società contemporanee, e non riguarda necessariamente quelli ispirati dalle religioni o da approcci spirituali – nei quali l’affidarsi al di là della ragione risulta in qualche modo fisiologico –, riguarda invece anche idee e concetti del sentire comune che assimiliamo in modo del tutto acritico, e che finiscono col condizionare la nostra interpretazione della realtà e persino le scelte di vita. Penso in particolare all’autonomia e all’indipendenza, due concetti così pervasivi da essere spesso usati come metro di misura del valore delle nostre e delle altrui esistenze, e che trovano la loro massima rappresentazione nel mito dell’“uomo che si è fatto da solo”.

Tutti gli esseri umani – uomini e donne – sono chiamati a lavorare su di sé per conoscersi e migliorarsi, un’attività che concorre a plasmarci e a fare di noi ciò che siamo. Se dunque intendiamo il mito dell’uomo che si è fatto da solo in questi termini, ne stiamo dando un’interpretazione salutare, perché coloro che investono nella crescita personale stanno anche, simultaneamente, contribuendo alla crescita della comunità a cui appartengono.
Ma non sempre questo mito viene inteso in tal modo; spesso, purtroppo, continua ad essere utilizzato per occultare l’interdipendenza che ci caratterizza come esseri umani, e dunque per tenere in piedi una delle finzioni più deleterie per le nostre società, quella di bastare a noi stessi. Ma l’uomo – inteso come essere umano – non si plasma adulto liberando se stesso dai vincoli della materia (e della società) con martello e scalpello, come nella celebre statua Self Made Man dell’artista statunitense Bobbie Carlyle.

Quella statua non è altro che la rappresentazione plastica di una grande bugia sia simbolica che concreta, visto che lo stesso uomo che si sta scolpendo è stato creato dall’Autrice dell’opera.
Nella realtà l’essere umano nasce piccolo, nudo, piangente, infreddolito, bisognoso di tutto, proprietario di niente, capace di superare l’infanzia solo grazie alle cure che qualcuno o, più spesso, qualcuna, decide di offrirgli. Riceve assistenza sanitaria usufruendo di mezzi e competenze che non gli appartengono; di qualsiasi cosa materiale e culturale disponga l’ha ricevuta in dono, in prestito o in eredità dalla terra o dalla comunità, anche quando ha l’illusione di essersela comprata. Qualunque cosa pensi di possedere la restituirà alla terra e alla comunità quando il suo tempo sarà finito.

Non siamo autonomi, e neppure indipendenti, non lo siamo mai stati né lo saremo mai. Abbiamo un sacco di “debiti” con l’umanità. Possiamo passare la vita ad alimentare la finzione che non sia così, impegnandoci nell’estenuante impresa di disconoscere e nascondere l’interdipendenza – un’impresa che io chiamo cancel care (in italiano “cancellazione della cura”) –, oppure possiamo iniziare a pensare che quei “debiti” in realtà sono “doni”, e che dovremmo essere grati per averli ricevuti.
Se assumiamo che ciò che abbiamo ricevuto sia un dono – e sta a noi decidere di intenderlo così –, allora potremmo cercare un modo, o più modi, per restituire alla comunità non dico tutto, ma almeno un po’ di ciò che ci ha tenuto, e ci tiene, in vita.

Ci sono tanti modi per restituire i “doni”, ognuno e ognuna può trovare il proprio. Avendo io avuto esperienza di caregiving, la mia riflessione prende spunto da quest’attività.

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