Malattie rare, cosa significa vivere con l’amiloidosi cardiaca

Logo sito Redattore SocialePotrebbero sembrare pochi, e in un certo senso lo sono, ma in cinque minuti Antonio è riuscito a raccontare la sua quotidianità, caratterizzata da momenti sereni ma anche da momenti complessi, una vita comune e al tempo stesso rara.

Antonio Guzzo, 75enne di Torino, padre di due figlie e nonno di sei nipoti, è affetto da amiloidosi cardiaca, una malattia rara, spesso sottodiagnosticata e che può essere fatale. Le necessità, mediche e non, di chi vive con questa patologia vengono così raccontate dal protagonista nello short documentary ‘Antonio- Chi vive l’amiloidosi cardiaca ha qualcosa da dirti’, presentato oggi nel corso di un evento digital e il cui trailer era stato diffuso lo scorso 29 settembre, in occasione della Giornata mondiale del cuore.

Il video fa parte della campagna di comunicazione realizzata da Osservatorio malattie rare, in collaborazione con Conacuore, fAMY- Associazione italiana Amiloidosi familiare onlus, Fondazione italiana per il cuore e con il contributo non condizionante di Pfizer, che ha l’obiettivo di sensibilizzare tanto l’opinione pubblica quanto i nuovi rappresentanti istituzionali e la comunità scientifica sulla malattia e l’itinerario delle famiglie dalla diagnosi alla presa in carico.

Tono della campagna: un racconto empatico senza pietismi. Quasi due anni fa, dopo un normale esame di routine, ad Antonio è stata diagnosticata una cardiomiopatia ipertrofica, che poi si è rivelata connessa a un’amiloidosi da transtiretina nella forma ‘wild type’. Nel documentario, Guzzo racconta il suo percorso verso la diagnosi, l’inizio della terapia e il momento più drammatico, quando ha scoperto la possibile ereditarietà della malattia e dunque le relative conseguenze sulla sua famiglia, e infine il sollievo quando ha saputo che i suoi figli e nipoti sono fuori pericolo.

“La mia vita- racconta Antonio nello short doc- è fatta di tantissime cose, non solo della malattia: di amicizia, di come trascorro la giornata, di come vivo la mia famiglia, i miei nipoti. La malattia c’è e devo cercare di starci dentro, di capirla. E come ci stai? Con la preoccupazione? Pensando che poi devi morire? Pensando che quella malattia ti può portare delle invalidità? Questo è il problema più grosso, secondo me. Perché poi tutti dobbiamo morire”.

Guzzo ha quindi sottolineato l’importanza di rivolgersi alle associazioni di pazienti che sono un punto di riferimento anche a livello informativo. Il patient journey di Antonio, il suo itinerario, è stato abbastanza semplice, ma non è sempre così. Arrivare a una diagnosi corretta spesso non è una tappa facilmente raggiungibile, ma è al tempo stesso fondamentale vista la rapida progressione che può avere la patologia. “Le amiloidosi- ha spiegato Francesco Cappelli, Cardiologo, Crr Toscano per lo studio e la cura delle amiloidosi, Aou Careggi, Firenze, nel corso dell’incontro- sono un gruppo definito di malattie, all’incirca una trentina, ereditarie o meno, caratterizzate dall’accumulo dannoso di sostanza amiloide all’interno dell’organismo. Questa particolare sostanza si presenta sotto forma di piccole fibrille ed è composta da proteine che, per cause diverse, si sviluppano in maniera anomala”.

“Esistono diverse forme di amiloidosi- ha continuato- ognuna delle quali è dovuta a una specifica proteina: si tratta di patologie multi-sistemiche, che colpiscono numerosi organi e tessuti come reni, apparato gastrointestinale, fegato, cute, nervi e occhi. Uno degli organi principalmente coinvolti è il cuore, che sviluppa una cardiopatia infiltrativa e uno scompenso cardiaco progressivo. Per questo motivo il termine ‘amiloidosi cardiaca’ viene utilizzato per definire la patologia cardiaca associata alle amiloidosi”.

“È presente in due forme- ha aggiunto Marco Canepa, Università degli Studi di Genova e Ospedale Policlinico San Martino Irccs- una ereditaria causata da mutazioni del gene Ttr che si manifesta più precocemente, a partire dai 50 anni, e una acquisita (amiloidosi sistemica senile ‘wild type’ Ttr o Ssa) dovuta a depositi di Ttr non mutata che si presenta in soggetti più anziani, 60-80 anni. È tuttavia possibile che, soprattutto dove non c’è un esordio anticipato, la malattia venga ancora confusa con altre e dunque sottodiagnosticata”.

“I pazienti- ha inoltre affermato- in media vivono da 2 a 4 anni dopo la diagnosi, in base alla loro condizione al momento del riconoscimento della patologia. È opportuno, dunque, garantire una presa in carico olistica, gestita da un team multidisciplinare, e in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale”.

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