È sorprendente quanto sia terribilmente facile considerare la propria esperienza come universale, dando per scontato che i luoghi che abitiamo o attraversiamo vadano bene così come sono o che, al massimo, il loro unico sviluppo possibile sia un progresso tecnologico. Eppure il modo in cui le città sono progettate e costruite, e le politiche che le governano, hanno conseguenze sulla qualità della vita di miliardi di persone. A viverci, oggi è oltre il 55% della popolazione mondiale, ma i centri urbani continueranno a essere ancor più densamente abitati, tanto che nel 2050 la percentuale dovrebbe arrivare al 68%. Nei prossimi trent’anni, alle città si aggiungeranno circa 2 miliardi e mezzo di persone e 1 miliardo di veicoli, ma la maggior parte delle infrastrutture necessarie devono ancora essere costruite. Ci troviamo in un possibile momento di svolta: le decisioni che prendiamo determineranno se continueremo a crescere in modo frammentato e insostenibile, non sicuro e inquinante, o se invece saremo capaci di creare un futuro sostenibile e più inclusivo. Sono sempre di più, infatti, i comuni impegnati in progetti per gestire le risorse in modo intelligente, diventare economicamente sostenibili ed energeticamente autosufficienti, e attenti alla qualità della vita e ai bisogni dei propri cittadini. Si tratta di trasformare le nostre città in smart cities, cioè un luogo “in cui le reti e i servizi tradizionali sono resi più efficienti con l’uso di tecnologie digitali e di telecomunicazione a beneficio dei suoi abitanti e del business”, secondo la definizione della Commissione europea. Tecnologiche, veloci e sostenibili, le smart cities dovrebbero essere anche aperte, universali, agibili. Non possiamo più permetterci trasformazioni che non siano inclusive: le città del futuro sono accessibili e appartengono a tutte e tutti.
Oggi non è ancora così. Per le persone con disabilità, infatti, la mobilità si rivela uno dei problemi più difficili da superare a causa delle barriere architettoniche, gli impedimenti materiali e concreti che limitano la mobilità delle persone, e percettive, quelle, per esempio, che rendono scarsamente conoscibile l’ubicazione degli edifici di uso pubblico, e che risultano ostili a persone cieche o sorde. Ostacoli che non permettono di partecipare alla vita civile in maniera autonoma e che impediscono di spostarsi liberamente, anche solo per raggiungere strutture sanitarie, scuole, luoghi di lavoro o di socialità. Secondo un rapporto dell’Istat del 2019, in Italia le persone con disabilità sono 3,1 milioni, pari al 5,2% della popolazione: l’Istituto rileva coloro che riferiscono di avere limitazioni, a causa di problemi di salute, nello svolgimento di attività ordinarie ma ammette che, pur essendo un primo passo, è una modalità che non consente davvero di avere una fotografia adeguata. Nell’Unione europea, il numero di persone disabili supera gli 80 milioni: cittadini e cittadine che non sempre riescono ad avere un eguale accesso ai servizi delle città e a beneficiare della loro crescita economica. Inoltre, la presenza di barriere architettoniche investe in maniera più o meno diretta anche la vita di altre persone, come anziani con difficoltà di deambulazione e genitori con passeggini. Luoghi più accessibili sono infatti posti migliori per tutti.
continua articolo su: thevision.com
(ca/la)