Caregiver familiari, un “esercito silenzioso” che fa arrivare la sua voce al Parlamento europeo

 “La nostra petizione è stata accolta dal Parlamento europeo, che ha chiesto un’indagine preliminare. Questo significa che verranno a mettere il naso in quello che ha fatto l’Italia finora”: è quanto riferisce, soddisfatta, Alessandra Corradi, fondatrice, nel 2005, dell’associazione “Genitori tosti in tutti i posti”, che lo scorso settembre ha presentato la petizione sulla condizione del caregiver familiare in Italia e il suo mancato riconoscimento come lavoratore alla commissione Lavoro e Sociale del Parlamento europeo. “Sappiamo bene che il Parlamento europeo non può agire direttamente nei confronti del nostro governo, ma ha la possibilità e il dovere d’intervenire dove vengano lesi i diritti e non siano applicate norme europee, come la direttiva approvata proprio dal Parlamento Europeo nell’aprile 2019, relativa alla conciliazione tra attività professionale e vita familiare, entrata in vigore l’1 agosto 2019. Ogni Stato membro avrà tempo fino all’agosto 2022 per adottare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi a tale direttiva”.

E l’Italia cosa ha fatto? Fino a questo momento, “praticamente nulla. I lavori per l’approvazione della legge si sono fermati ufficialmente: l’ultimo atto risale, da quanto ci risulta, al 22 luglio 2020. Da allora, per un mese circa si sono svolte riunioni ogni lunedì tra ministero del Lavoro, componenti della Commissione XI e non si sa chi altro. Abbiamo continuato a chiedere che venisse fatto un censimento effettivo dei caregiver, dal momento che l’elaborazione dei dati Istat si riferisce intanto a numeri del 2015 e poi non considera i bambini 0-6 anni. Da questi numeri ‘sballati’, è nata la decisione di dare un bonus fino a 500 euro mensili ai caregiver. Ma quali caregiver? – domanda Corradi – Il 12 gennaio 2022, su Avvenire Susy Matrisciano, Barbara Guidolin e il ministro Orlando annunciavano che prestissimo sarebbero ripresi i lavori e la legge sarebbe giunta al traguardo. Ancora non è successo nulla: è dall’aprile del 2019 che aspettiamo che l’Italia si adegui alla direttiva europea, ma nessuno se n’è occupato, forse nessuno è a conoscenza della questione. Eppure, abbiamo inviato a tanti politici il nostro libro, “Caregiver familiari. L’esercito silenzioso”, che contiene tutte le notizie e le vicende. Ma mentre ci chiamano dal Canada, dopo averlo letto, per chiederci aiuto nella stesura della legge, qui in Italia nessuno ci risponde”.

Recepire la direttiva europea sarebbe, intanto, un primo passo avanti, seppure non certo risolutivo: “La direttiva riguarda solo chi lavora – ricorda Corradi – e prevede misure che tutti noi chiediamo: si parla di smartworking, di riconoscimento degli anni di assistenza ai fini pensionistici, di conciliazione tra lavoro di cura e lavoro dipendente. Intanto, siamo entrati in un network di familiari assistenti che collabora con il Parlamento europeo e stiamo collaborando nel fornire dati sul nostro Paese. Abbiamo cercato di fare un’indagine più approfondita di quelle che circolano, anche attraverso il nostro libro: il primo che si rivolge non agli addetti ai lavori, non ai tecnici, agli specialisti, agli operatori, ma a tutti coloro che hanno interesse per questo tema o che vogliono iniziare a occuparsi della questione. E’ uno strumento nella nostra battaglia per il riconoscimento dei diritti: ma sembra un’impresa impossibile, nel nostro Paese. Continuiamo a scrivere Pec alle diverse istituzioni, ma nessuno ci risponde. Anche dalle due federazioni Fish e Fand non abbiamo avuto risposta”.

Ma cosa chiedono, i “Genitori tosti”? Innanzitutto “il riconoscimento dei caregiver come lavoratori, perché possano ricevere quello che spetta per il loro essere appunto lavoratori. Se uno lavora, anche part-time, avrà diritto al prepensionamento, dato che si tratta di lavoro usurante. Ecco, il riconoscimento come lavoro usurante e il prepensionamento dei caregiver sono paletti che consideriamo fondamentali. Allo stesso modo, chiediamo che chi invece si è trovato costretto a lasciare il lavoro, si veda riconosciuti tutti gli anni. Io, per esempio, non ho mai potuto lavorare, perché quando è nato mio figlio facevo lavori saltuari: non ho reddito, per fortuna mio marito lavora, anche se la pandemia ha messo il suo stipendio a dura prova. Sono 17 anni che presto assistenza a mio figlio, senza che nessuno mi sostituisca. Ma se il mio è un lavoro, allora ho diritto alla sostituzione, se mi ammalo ho diritto alla malattia. Lo stato deve mettere in campo un certo numero di persone che si dedichino all’assistenza e attuare una riforma per cui le persone non autosufficienti restino a casa propria e abbiano una rete intorno che se ne prenda cura. Invece, il modello attuale è quello obsoleto assistenzialistico delle strutture lager: bisogna riconoscere il lavoro dei familiari che si prendono cura, perché questi riducono i ricoveri in ospedale e nelle strutture. E bisogna anche sostenerli, questi lavoratori, perché possano vivere in condizioni dignitose e di benessere”.