Gli autori e la musica
Materiali per una migliore conoscenza della musica americana di oggi

Alcuni dei compositori americani che costituiscono la rassegna delle "American Voices", organizzata quest'anno da Settembre Musica, sono alla loro prima apparizione in Italia. Questo non significa che siano ignoti, si tratta anzi di alcune fra le personalità più significative della moderna musica americana; ma sono anche giovani e questo basta a spiegare perché della loro opera si sia da noi sentito parlare ancora poco. Di testimonianze scritte, libri, saggi ecc., c'è per ora grande scarsità, ma va comunque segnalato un recentissimo libro edito da Einaudi col titolo Musica coelestis nel quale Carlo Boccadoro ha raccolto alcune interviste a lui rilasciate, fra gli altri, da John Adams e Aaron Jay Kernis.
La lista delle nostre "American Voices" è piuttosto lunga e oltre ai citati Adams e Kernis, comprende John Harbison, Michael Daugherty, Steven Mackey, Michael Torke e i tre compositori che formano da anni il sodalizio noto col nome di Bang on a Can, ovvero David Lang, Julia Wolfe e Michael Gordon. Se poi si aggiungono alcuni classici come Charles Ives, George Gershwin, Duke Ellington, Leonard Bernstein e Miles Davis che compaiono qua e là in svariati concerti, si potrà misurare l'ampiezza dell'orizzonte americano offerto quest'anno da Settembre Musica. Resta nondimeno il fatto che questa edizione del festival è dedicata alle più giovani voci dell'America musicale delle quali si possono intravedere, talora anche nitidamente, le linee di tendenza, ma che sarebbe prematuro proporre in qualsiasi collocazione storica. Tuttavia bisogna pur cominciare a gettare le fondamenta per un discorso. Per questa ragione le pagine che seguono raccolgono un certo numero di documenti, per lo più degli autori stessi, intorno alle musiche e ai progetti che le ispirano. Nulla di sistematico dunque, ma una sorta di dossier che ci si augura acquisti col tempo valore di testimonianza.

 

Musica "ingenua e sentimentale" nell'America di oggi e di ieri
di Enzo Restagno

Naive and sentimental music, il titolo di un nuovo componimento orchestrale di John Adams inserito in un concerto diretto e ideato dal compositore stesso, allude a un dilemma attraverso il quale si possono leggere in filigrana le più intriganti contraddizioni della musica americana di ieri e di oggi.
Bisogna dare atto a John Adams di avere scelto acutamente il suo titolo e così pure il programma che dirigerà alla testa dell'Ensemble Modern di Francoforte. Vediamoli dunque da vicino questo titolo e questo programma: Charles Ives con la sua Quarta sinfonia, Michael Gordon con Sunshine of Your Love e Naive and Sentimental Music dello stesso Adams. L'idea di richiamare in maniera esplicita il titolo del saggio di Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, non è da poco ma non è nemmeno nuova per il compositore americano, che in altri casi, vedi Harmonienlehre e Kammersymphonie, non ha esitato a ricorrere nei suoi componimenti a titoli celebri di Schoenberg.
Nelle pagine del suo saggio Schiller enunciava un principio estetico infinitamente fertile, capace di interpretare situazioni di volta in volta diverse. La poesia "ingenua" e quella "sentimentale" appartengono a due diverse epoche e condizioni dello spirito e hanno entrambe un fondamentale punto di riferimento nella natura. Ingenua è la forza creativa del genio che vive in un'intatta simbiosi con la natura, qualcosa come una ideale condizione "primitiva" la cui perfezione si nutre di quella teoria delle età del genere umano di Giambattista Vico che tanto influì sui pensatori romantici. La condizione "sentimentale" è caratterizzata dalla consapevolezza della perdita di quella felice ingenuità: conseguenza di quella perdita è la nostalgia che si traduce nella condizione "sentimentale" del rimpianto.
All'interno di questo schema di pensiero si possono leggere i vari capitoli della storia della civiltà e, perché no, anche quelli della storia della musica. Isaiah Berlin, per esempio, lo ha fatto molto bene in un bell'articolo sul genio musicale del giovane Verdi, che a lui stava particolarmente a cuore come ultimo esempio di "poesia ingenua" in campo musicale.
Adesso è John Adams che ci invita a riflettere con il titolo di questo suo nuovo componimento, ma non si tratta soltanto di una provocazione intellettuale, bensì di un'allusione esplicita al travaglio di un compositore che cerca di aprire a se stesso nuove vie.
Per cogliere il dilemma alla radice bisogna ricordare che John Adams, pur essendo ancora relativamente giovane (ha solo 52 anni), già da parecchi anni occupa una posizione di rilievo nello scenario della musica contemporanea. Colse infatti ampi consensi con alcuni lavori orchestrali e teatrali che lo qualificarono come un brillante seguace della cosiddetta corrente "minimalista". Era un minimalista più accurato ed evoluto, ma continuando su quella strada che gli aveva procurato tanti successi, sarebbe andato incontro alla condizione di epigono di un linguaggio che altri avevano forgiato prima di lui. Si mise dunque a cercare una nuova strada, e da quel momento la ricchezza di riferimenti culturali nella sua opera non ha fatto che crescere. Questo non vuol dire che Adams abbia deciso di diventare un compositore neoclassico e neppure un neoromantico, anche se le sue creazioni più recenti sono caratterizzate da un ritorno nitido all'orizzonte tonale e da una passione crescente per le grandi stagioni della musica romantica, contemplate però con intelligente distacco.
Il vero problema con cui si misura Adams è proprio quello manifestato dal titolo dal quale ha tratto spunto questa riflessione: la moderna musica americana, ma anche quella di ieri, è ingenua o sentimentale? Per applicare utilmente la categoria dell'ingenuità alla musica americana bisogna innanzitutto considerare in che misura la musica di questo o quell'autore procede con fiducia verso il nuovo senza troppo lasciarsi condizionare dalle eredità culturali.
In questo senso il grande patriarca dell'ingenuità musicale americana è Charles Ives, che tanto insisteva nel dichiararsi un musicista dilettante, dedito, nella vita di tutti i giorni, ad altre occupazioni. Il rifiuto del professionismo non ha in questo caso nulla a che vedere con l'aristocratica tradizione dei dilettanti di musica dell'età barocca; si colloca piuttosto su uno sfondo etico che finisce col separare nettamente l'attività del musicista dalla dimensione della prassi quotidiana. È una scelta gravida di conseguenze etiche ed estetiche tra le quali spicca il desiderio di operare in condizioni di totale libertà, lontano da tutti quei compromessi che la scelta della musica come professione inevitabilmente comporta.
Un orientamento del genere è un po' difficile da comprendere, specialmente ai giorni nostri, ma è perfettamente conseguente con taluni principi etici della società americana ai quali Ives si sentiva profondamente attaccato. Per questo personaggio così fieramente inventivo l'esigenza di costruirsi una posizione solida e rispettabile nella società veniva prima di qualsiasi altra aspirazione, anche di quella di realizzare i propri progetti musicali. In questa dimensione di libertà garantita dallo svolgimento di un'altra attività (Ives si occupava di assicurazioni), il compositore poteva aprirsi a tutte le chance dello sperimentalismo e viverle con fede e candore inattaccabili. Non doveva cercare consensi e nemmeno fare carriera, non doveva quindi andare in cerca di quegli aggiornamenti linguistici e di quelle mode culturali che tanto spesso finiscono col tarpare le ali ai compositori, ed è in questa prospettiva di decondizionamento culturale, oggi quasi incomprensibile, che ci si deve collocare per comprendere la portata della sua musica.
Operando in un orizzonte così scevro da condizionamenti materiali e culturali Ives potè essere, più di un secolo dopo le enunciazioni di Schiller, un formidabile esemplare di musicista "ingenuo" e incarnare fino in fondo quella tendenza allo sperimentalismo sorretta da forti motivazioni ideali che è sempre stata così tipica della civiltà americana.
Altri musicisti seguirono, sia pure in maniera diversa, lo stesso impulso. Conlon Nancarrow andò a comporre nel deserto dove poteva tranquillamente cercare di trasferire sulle bande perforate della pianola meccanica i suoi utopici poliritmi e Harry Partch si costruì con le sue mani gli strabilianti strumenti capaci di manifestare il suo frastagliatissimo universo sonoro.
Potrebbe, a prima vista, sembrare scontato l'ascrivere John Cage, per via del suo rapporto con la natura, alla categoria dei compositori "ingenui", ma non è così. Cage ripeteva sempre "let sounds be themselves", poiché per lui tutto era naturalmente suono in quanto ogni evento acustico possedeva una sua autonomia; ma il ritorno alla condizione naturale dei suoni, l'immersione nei silenzi e il fervore mistico di ispirazione zen lui li intendeva, almeno in parte, come un gesto polemico contro le organizzazioni culturali ufficiali, contro un modo di concepire e praticare la musica e, più in generale la cultura, che aveva finito con l'irrigidirsi in un sistema arido e soffocante. Alla base delle fervide provocazioni di Cage c'era la nostalgia per una condizione perduta e tutto questo finiva con l'orientare la sua vita di intellettuale e la sua opera di musicista nella direzione "sentimentale".
Più vicino alla categoria schilleriana dell'ingenuità sembra invece un musicista che pure da Cage ricevette impulsi e suggestioni a dir poco fondamentali: Morton Feldman. L'uso poeticissimo del silenzio e di tempi dilatati fino quasi all'immobilità che seppe fare nella sua musica ignorano qualsiasi suggestione mistica e orientale; nascono semplicemente dal desiderio di ritrovare una condizione perduta della sensibilità, una condizione di tipo infantile nella quale l'universo acustico si schiude come una realtà misteriosamente vibrante, sconfinata, irraggiungibile e perciò meravigliosamente sconvolgente. Il fatto stesso di mettere alla base delle propria poetica musicale questo intenso desiderio di rinascita, finisce per collocare l'opera musicale di Feldman nella categoria del "sentimentale". La dicotomia di Schiller non consente eccezioni, è vero, ma non si può negare che la capacità della musica di Feldman di alludere a un orizzonte naturale incontaminato sia tra le più grandi che la musica del nostro tempo abbia prodotto.
Sulla base di queste poche e sommarie indicazioni potete provare a situare i compositori americani nell'una o nell'altra categoria. Dove mettere ad esempio Samuel Barber e Aaron Copland? Dove Gershwin e Charlie Parker? Dove Elliott Carter e Morton Feldman? Dove Steve Reich e Terry Riley? E infine, dove i tre compositori del sodalizio di Bang on a Can e Aaron Jay Kernis? Dove Michael Torke e John Harbison? E ancora, dove Michael Daugherty e Steven Mackey?
Per introdurre alcuni dei compositori più giovani che compaiono in questa lista si deve chiamare in causa un personaggio simpatico e intelligente come Jacob Druckman. Questo eccellente musicista, morto nel 1996, svolse anche una preziosa attività didattica diventando, nel 1976, professore di composizione all'Università di Yale. Qui, tra il 1980 e il 1984, ebbe come allievi David Lang, Julia Wolfe, Michael Gordon, Michael Torke, Aaron Jay Kernis, Michael Daugherty (tutti presenti nella nostra rassegna delle "American Voices") nonché Betty Olivero e Robert Beaser. Non si può fare a meno di constatare che gran parte della più significativa realtà musicale statunitense di oggi è uscita dalla sua scuola. Ma chi era Jacob Druckman?
È veramente un peccato che questo eccellente compositore, fra l'altro finissimo conoscitore dalla musica italiana rinascimentale, sia nel nostro paese così poco conosciuto. Basterebbe ascoltare Windows per orchestra, tenuta a battesimo nel 1972 dal nostro Bruno Maderna, o anche Chiaroscuro, commissionato e diretto nel 1976 da Lorin Maazel, per rendersi conto che si ha a che fare con un musicista di grande qualità.
Negli anni Ottanta Druckman organizzava a New York l'"Horizon Festival"; Pierre Boulez aveva lasciato da poco la direzione dell'Orchestra Filarmonica, e Druckman cercò di sostituire la precedente e più severa linea culturale con un'altra, più varia e aperta, che non disdegnava affatto le proposte neoromantiche e minimaliste. Druckman era colto e lungimirante e le avventure della musica contemporanea le aveva vissute tutte in prima persona. Per anni era stato un seguace convinto della musica seriale, ma a partire dagli anni Settanta cominciò a includere nella sua musica numerose e filtratissime suggestioni che provenivano dal passato. Le stagioni che organizzava per l'"Horizon Festival" non erano l'espressione di un sentimento polemico con la leadership precedente, ma nascevano da una capacità di sintesi che sapeva acutamente spingere lo sguardo verso l'avvenire.
Vediamo come Druckman è in grado di compendiare efficacemente questo pensiero in poche righe:
Ho sempre pensato che i momenti rivoluzionari nella storia della musica si sono visti insidiare da una sorta di movimento sotterraneo che finisce col contrastare le vanità intellettuali dei compositori. Si può dire che ciascuno di questi contestatori ha preso posizione contro le realizzazioni più altisonanti del suo tempo... Non c'è dubbio che ci troviamo oggi in una fase di profondo cambiamento. Basta considerare per un momento il mondo della musica pop e la cultura giovanile in genere, con le sue risorgenze di misticismo, di religiosità e di culti astrologici. Noi compositori cominciamo di nuovo a parlare di moralità della musica o di esperienze esaltanti. Quando siamo colpiti da un brano musicale ricominciamo a usare l'aggettivo bello che da parecchi anni avevamo smesso di usare. Sono convinto che molti di noi sono in cerca di esperienze del genere e non vedo ragione alcuna per non aggiungere tutto questo alle sofisticatezze che abbiamo conquistato negli anni trascorsi.
Non v'è dubbio che gli ex allievi hanno preso in parola il loro maestro aggiungendo con la massima libertà tutte le suggestioni del mondo contemporaneo, anche quelle quotidiane con i loro fenomeni più diffusamente consumistici, ai più consolidati substrati culturali. L'orizzonte in cui si situano le proposte musicali di Aaron Kernis, Michael Torke, dei tre compositori di Bang on a Can, di Michael Daugherty, di Steven Mackey e anche dello stesso John Adams, è incredibilmente vasto ma tutte quelle manifestazioni mostrano, pur tra significative differenze, un elemento comune dato dal desiderio di farla finita con qualsiasi tipo di schematismo culturale.
Steven Mackey, John Adams e John Harbison sono nella nostra rassegna delle "American voices" le sole che non scaturiscono dal foyer alimentato da Jacob Druckman e stanno a dimostrare con la qualità della loro musica quanto vasta e quasi inafferrabile sia la varietà della musica americana di oggi.
Essendo nato nel 1938, John Harbison è il più anziano dei tre e possiamo definirlo, con tutta la simpatia e l'ammirazione che merita, un classico esemplare di intellettuale americano alla maniera di una volta. È nato nel New Jersey, ha studiato a Princeton, ha avuto incontri significativi con dei classici della vecchia avanguardia americana come Roger Session e Walter Piston, è in possesso di una sofisticata cultura letteraria che gli consente di dialogare musicalmente con i versi di Montale e di Hoelderlin, ma è anche un eccellente pianista jazz e la sua opera su un soggetto tratto da Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, andrà in scena al Metropolitan di New York proprio nei giorni in cui Settembre Musica allestisce la sua rassegna di voci americane.
Se il jazz rappresenta nella personalità "bostoniana" di Harbison il radicamento nella tradizione americana, Jimi Hendrix con la sua chitarra svolge un'analoga funzione nello sviluppo della carriera di un compositore più giovane qual'è Steven Mackey. Gli esordi musicali di questo simpatico e giovane professore di composizione di Princeton appartengono infatti alla sfera del più puro dilettantismo. Da giovanotto Mackey era un campione di sci, abilissimo anche nel tennis e nel baseball; ci volle lo strappo di un tendine perché decidesse di dedicarsi con più attenzione alla sua chitarra elettrica, e quindi definitivamente alla composizione, conservando però anche sul piano intellettuale l'agilità e il gusto della sfida propri dello sportivo. La storia della musica, da Stravinsky, che fu per il giovane Mackey oggetto di una vera e propria infatuazione, a Bartók, a Varèse a Harry Partch, per arrivare a Jimi Hendrix e agli altri eroi del pop americano, era piena di energie genialmente centifughe rispetto al nucleo stabile della tradizione. Questi esempi assunsero per Mackey la forma di una costellazione che lui ha saputo contemplare con una forza e un candore dei più rari.
Di John Adams si sono ricordati gli esordi fortunatissimi nella scia del linguaggio minimalista e va notato, almeno di sfuggita, come fino a oggi la critica ancora non abbia preso atto dei sottili ma importanti distinguo della sua scrittura ripetitiva. La svolta in cerca di una maggiore complessità è nata nel linguaggio di Adams da una precisa esigenza drammaturgica, il che, in termini più concreti, significa recupero della dimensione armonica. In un'intervista recentemente pubblicata da Carlo Boccadoro nel volume Musica coelestis, Adams dichiara:
Ho sentito l'esigenza di includere una maggiore complessità all'interno della mia musica, estendendone il linguaggio armonico. Ero stufo di sorvolare migliaia di ettari formati esclusivamente da triadi di do maggiore e di mi bemolle maggiore.
Quello dell'esclusione delle modulazioni fu infatti la forza, ma anche il limite del linguaggio minimalista. Era inevitabile che affrontando soggetti teatrali gli autori che seguivano quella tendenza dovessero restaurare la dialettica psicologica che solo l'uso dell'armonia con le sue modulazioni è in grado di garantire, e lo stesso Steve Reich provvide in maniera originale ed efficace a recuperare finezze armoniche delle quali la prima ondata della sua produzione era volutamente ignara. L'esperienza del teatro fu dunque decisiva per reintrodurre nel linguaggio minimalista un certo grado di complessità e Adams lo dichiara senza mezzi termini: "Ho capito subito che la musica minimalista, che si manifesta in maniera così pura e precisa, non avrebbe mai potuto funzionare per rendere musicalmente un soggetto di questo tipo". Ad entrare in crisi era dunque l'ideale estetico dell'arte concettuale che stava alla base del pensiero minimalista.
Il recupero della complessità non si è manifestato nella musica di Adams però soltanto con il restauro della dimensione armonica, e ne fa fede un componimento decisamente problematico come la Chamber Symphony che fin nel titolo allude a Schoenberg, ovvero al fautore più radicale dell'idea di complessità nelle rivoluzioni musicali del nostro secolo. Adams aveva d'altronde studiato con Leon Kirchner che era stato uno dei migliori allievi americani di Schoenberg. Singolare è però il tocco di leggerezza e il carattere mai irreversibile che Adams mette in questo tipo di operazioni: "La Chamber Symphony rappresenta il punto più estremo del mio viaggio all'interno di quella che mi piace definire come giocosa complessità".
Anche in questo caso bisogna convenire che aveva visto giusto Jacob Druckman, quando osservava che le più svariate aperture sul fronte della contemporaneità potevano tranquillamente aggiungersi alle conquiste più sofisticate della cultura musicale del nostro secolo. Adams non si sente lontano affatto dall'orizzonte musicale quotidiano, ritiene anzi che l'attenzione per questo genere di musica sia inevitabile per un compositore americano: "Non credo si possa essere un artista americano e non avere alcun interesse per la cultura pop, in un modo o nell'altro". L'interesse per tutto ciò che stà intorno a noi induce il nostro compositore ad un singolare confronto tra la sua musica e l'opera filmica di Woody Allen e, ancora nell'intervista a Boccadoro, lo sentiamo dichiarare:
Ho sempre cercato, come musicista, di possedere la stessa capacità di assorbimento della realtà e questa è stata la battaglia della mia vita, poiché i compositori della generazione precedente alla mia erano quasi tutti degli accademici la cui ambizione principale sembrava proprio quella di voler escludere gli stimoli provenienti dal mondo esterno; io invece volevo includerli tutti.
Non diversamente da John Adams gli ex allievi di Jacob Drukman desiderano includere nella loro musica tutti gli stimoli provenienti dal mondo esterno, ma c'è nel loro modo di operare qualcosa in più in cui è dato cogliere il salto generazionale. L'esempio più calzante credo che sia in questo caso quello di Michael Daugherty, che ha messo a fuoco, nel suo lavoro di compositore, quella che potremmo definire la "poetica dell'icona americana".
L'opera Jackie O., una riuscitissima rilettura teatrale di uno dei grandi miti dell'America moderna attraverso il personaggio di Jackie Kennedy, la Metropolis Symphony, ispirata alle strisce fumettistiche di Superman, Dead Elvis, scaturito dal mito del re del rock rinnovato quotidianamente dagli "impersonators", Le tombeau de Liberace; tutti titoli che da soli la dicono lunga, ma la cosa più interessante è l'acume con cui Daugherty ha musicalmente messo a fuoco questa mitologia popolare americana incarnata per l'appunto in queste "icone".
Osservare il paesaggio americano in compagnia di Michael Daugherty è un'esperienza indimenticabile che mi è capitata un po' di tempo fa durante un'interminabile passeggiata notturna attraverso le strade di New York. Parlavamo di musica, naturalmente, ma tutti i momenti la conversazione si interrompeva perché lui si fermava estasiato davanti a qualche vetrina o qualche locale pubblico. Voleva attirare la mia attenzione su qualche gadget o su qualche personaggio carico di valore simbolico. Abbigliamenti, menù, oggetti d'uso, gesti, poster, insegne pubblicitarie, fotografie e architetture offrivano lo spunto ad ampie considerazioni condotte con acume, ma anche con affettuosa ironia. In un'altra parte di questo fascicolo potrete leggere come questo degno discendente di William Carlos Williams sa scendere musicalmente Nelle vene dell'America:
Le idee musicali mi vengono quando guido lungo un'autostrada americana deserta. Ci sono libertà di muoversi e spazio per riflettere. Penso alla mia esperienza come compositore di musica contemporanea, tastierista di complessi jazz, funk e rock, percussionista in un gruppo di trombe e tamburi...
Quel famoso ranch con le cadillac sotterrate a metà, le sagre degli "impersonators" che si radunano a Menphis per tenere ben vivo il culto di Elvis Presley, il ricordo delle musiche per film di Ennio Morricone che va ad animare una partitura intitolata Spaghetti western, le strisce dei fumetti, le "Brillo box" di Andy Worhol. Questi e tanti altri oggetti si trasformano attraverso le osservazioni di Daugherty in icone.
A questa trasformazione hanno provveduto già da anni alcuni grandi pittori americani e la cosa non soprende se si pensa che viviamo in un mondo dominato dalle immagini. In musica però non è successo fino a oggi niente di simile, anche se è più lecito che mai parlare di una mitologia popolare anche nella dimensione acustica. Forse le uniche eccezioni di un certo rilievo, ma si tratta pur sempre di episodi marginali, le possiamo riscontrare in qualche dettaglio dell'opera di Berio e del suo allievo Louis Andriessen.
Tra i musicisti dell'ultima generazione mi sembra che Daugherty possegga una curiosità e un acume critico che lo destinano a questo compito. È sullo sfondo di questi pensieri che attraversando con lui le strade di New York, gli oggetti mi vengono incontro carichi di significati tra i quali mi sembra di intravedere proiezioni musicali. Rendere musicalmente eloquenti gli oggetti quotidiani è un'impresa difficilissima e per compierla bisogna probabilmente aver bazzicato a non finire con tutte le musiche. Daugherthy ha fatto l'arrangiatore per celebri formazioni jazzistiche, ha improvvisato le colonne sonore per i film muti, ha suonato il pianoforte nei cocktail bar e nei locali jazzistici di tutto il Village, così come David Lang ha convissuto con la musica di Jimi Hendrix e Steven Mackey ha vagabondato con la sua chitarra elettrica da un complesso rock all'altro fino a essere folgorato da Stravinsky.
Se ascoltiamo le musiche di tutti questi compositori sintonizzando l'orecchio e la fantasia verso quell'ideale sintesi che assorbe e riplasma a un livello più alto gli infiniti frammenti della realtà sonora quotidiana e non, possiamo restare in fiduciosa attesa del momento in cui le icone musicali dell'America sprigioneranno un'energia pari a quella che già irradia dalle icone raccolte nei musei e nelle gallerie d'arte.

JOHN ADAMS
Nota dell'autore in occasione della prima mondiale di "Naive and Sentimental Music"
"Ingenuo" e "sentimentale": uso questi due aggettivi ben sapendo che potrebbero venire fraintesi. Li intendo infatti non nell'interpretazione convezionale bensì nel senso in cui li usò Schiller nel saggio Über naive und sentimentalische Dichtung (Della poesia ingenua e sentimentale) testo alquanto influente nel 1795 e ormai caduto nell'oblio.
Schiller individuò essenzialmente due tipi di personalità creativa: "coloro i quali non sono consapevoli della spaccatura fra se stessi e l'ambiente o all'interno di se stessi e coloro i quali lo sono" (cito Isaiah Berlin che così efficacemente riassunse il punto di vista di Schiller). Ingenui sono gli artisti "inconsapevoli", per i quali l'arte è una forma naturale di espressione, non contaminata da autoanalisi o preoccupazioni sulla sua collocazione all'interno del processo storico. "Essi percepiscono direttamente e cercano di esprimere ciò che vedono per se stesso e non per scopi ulteriori, per sublimi che siano". Come esempi di artisti ingenui Schiller cita Omero, Shakespeare, Cervantes e, tra i contemporanei, Goethe.
Dall'altra parte c'è lo stagno sentimentale che "si apre quando l'uomo entra nello stadio culturale perdendo l'unità sensoriale primordiale […] L'armonia fra sensi e pensiero, che era reale nello stadio precedente (ingenuo), ora esiste soltanto sotto forma di ideale. Non è più nell'uomo, come esperienza di vita: bensì fuori di lui come ideale da realizzare". La dimensione sentimentale nasce quando si è spezzata l'unità e il poeta (o il compositore, il pittore ecc.) tenta di recuperarla oppure, scegliendo l'estremo opposto, di parodiarla o satirizzarla.
Secondo lsaiah Berlin, l'artista sentimentale "è alla ricerca dell'armonioso mondo svanito che alcuni chiamano natura, e lo costruisce con la propria immaginazione; la sua poesia è il tentativo di ritornare a quel mondo perduto, a un'infanzia immaginaria, ed esprime la consapevolezza dell'abisso che divide il mondo quotidiano, che non riconosce come suo, dal paradiso perduto concepito soltanto idealmente, soltanto in riflessione". Per Schiller il poeta è "o natura stessa (e quindi ingenuo) oppure alla ricerca della natura (e di conseguenza sentimentale)".
Come tutte le dicotomie, anche quella di Schiller diventa ridicola se applicata con eccessivo zelo. Tuttavia apre un nuovo modo di affrontare il comportamento artistico e il processo creativo, e in questo senso è provocatoria e per me più illuminante di tante altre contrapposizioni in cui spesso ci imbattiamo ai concerti o alle inaugurazioni delle mostre d'arte: "classico e romantico", "apollineo e dionisiaco", "moderno e post-moderno" e così via.
Naturalmente, la possibilità che si sviluppi un'arte veramente "ingenua" nel nostro tempo così ferocemante storicizzato e consapevole dal punto di vista artistico è praticamente inesistente. Oggi tutta l'arte è in un modo o nell'altro autoreferenziale. Per chi frequenta le gallerie d'arte, le sale da concerto e i teatri, l'immancablie "Nota dell'autore" è un requisito da consumarsi rigorosamente prima di accingersi a qualsiasi nuova esperienza artistica.
I costanti sconvolgimenti stilistici nella musica classica e di consumo testimoniano un'autoconsapevolezza dolorosamente acuta, e due fra gli autori che hanno messo più vistosamente in ridicolo la nostra epoca, Frank Zappa e Jeff Koones, esprimono chiaramente il furore dell'artista "sentimentale" che si trova a dover superare un guado sovraffollato di detriti storici.
Anche scrivere del mio lavoro, come ora devo decidermi a fare, trasferisce il mio processo creativo dal reame della spontaneità alla violenta luce della verbalizzazione, della ragione e dell'analisi. Questo pezzo, forse più di altri da me scritti, tenta di lasciar parlare l'ingenuo che è in me, di lasciarlo giocare liberamente. Mahler e Ravel, due compositori intensamente sentimentali, trascorsero l'esistenza cercando di raggiungere la condizione mentale "ingenua". Per conquistare quell'imposslbile stato di grazia "dell'ingenuo" ricorsero alla ricostruzione delle immagini e delle tonalità dell'infanzia.
Sapendo benissimo che l'"ingenuo", come l'uva della volpe, ormai esiste soltanto come ideale irraggiungibile, mi servo di questo obbiettivo come di un motore che mi aiuti a trovare il mio senso dell'equilibrio. Così scrivere per l'orchestra quando l'epoca della grande musica orchestrale è già fiorita e passata diventa un atto profondamente sentimentale, che potrebbe anche essere inteso come atto ingenuo, perché parlare per mezzo dell'orchestra è sempre stato per me un gesto naturale e spontaneo. In questo senso "sono a mio agio con il mezzo scelto" (un requisito essenziale per Schiller), e il risultato, per quanto è possibile, è musica spontanea ed emotivamente realizzata.
Scritto tra la primavera del 1998 e l'inverno seguente, Naive and Sentimental Music è dedicato a Esa-Pekka Salonen. La mia ammirazione per il suo lavoro dipende dal fatto che condivido la sua natura musicale "bipolare". Il compositore che è anche direttore d'orchestra sperimenta quotidianamente lo stridente conflitto tra pubblico e privato, estroversione e introversione, e il duro dilemma è all'interno della propria vita. "E-P" sembra muoversi tra questi due mondi meglio di altri; inoltre, poiché il mio pezzo tratta di polarità, mi pare una dedica appropriata. [...]
Essere "a mio agio con il mezzo scelto" significa in questo caso usare una forma in tre movimenti per un ampio lavoro di 45 minuti che, a parte le mie due opere, è la cosa più ambiziosa che ho scritto finora. Il primo movimento è un "saggio sulla melodia" ed è governato dal tono "ingenuo-sentimentale" di una melodia che fluttua durante i 20 minuti della struttura come un'idée fixe, generalmente accompagnata dai suoni pizzicati della chitarra e delle arpe. Il concetto di una melodia diatonica estremamente semplice, che abbandona il nido e si avventura nel vasto mondo come un bambino di Dickens, richiama parecchi miei pezzi precedenti: il "Chorus of Exilied Palestinians" da The Death of Klinghoffer e, più recente, il movimento finale del mio concerto per clarinetto Gnarly Buttons: Put Your Loving Arms Around Me.
Il secondo movimento, Mother of the Man, ha uno stretto legame con la Berceuse élégiaque di Busoni. Il sottotitolo che Busoni diede a questo pezzo poco noto è "Ninnananna dell'uomo accanto alla bara della madre. La scelta stessa del titolo, oltre a riassumere il conflitto tra "ingenuo" e "sentimentale", richiama una scena archetipa che giace nel subconscio di ogni essere umano: la morte della madre e il desiderio di ritrovare la condizione incorrotta dell'infanzia.
Per chi conosce la mia produzione precedente, Chain to the Rhythm, l'ultimo movimento, apparirà colmo di familiare flora e fauna adamsiana. Minuscoli frammenti di cellule ritmiche vengono spostate avanti e indietro in mezzo a una varietà di campi armonici, creando una catena di eventi culminanti in un veloce e virtuosistico impeto di energia orchestrale. L'orchestrazione presenta una sezione particolarmente ampia di percussioni, la cui attività si accentra sulla delicatezza del timbro piuttosto che sulla forza del suono.
Berkeley, California, 29 gennaio 1999
[trad. Maria Clara Pasetti]

Nato nel 1947 a Worcester, nel Massachussets, John Adams trascorre gli anni dell'adolescenza tra Vermont e New Hampshire, permeandosi della cultura del New England e assorbendo allo stesso modo gli stimoli di Harvard, della Boston Symphony Orchestra e delle band di dilettanti in cui suona il clarinetto con il padre. Trasferitosi a San Francisco nel 1971 si è dedicato all'insegnamento divenendo sempre più attivo come compositore e direttore d'orchestra. Compositore stabile della San Francisco Symphony, ha imposto all'attenzione del pubblico e della critica la sua originale scrittura per orchestra con New and Unusual Music, Harmonium, Grand Pianola Music e con il fruttuoso sodalizio artistico con la poetessa Alice Goodman e il regista Peter Sellars ha dato vita alle più rappresentate opere della storia recente, Nixon in China e The Death of Klinghoffer, cui è seguita, su libretto di June Jordan, I Was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky. Ha diretto la London Symphony, l'orchestra del Concertgebouw, la Cleveland, la Philadelphia, la New York Philharmonic e la Chicago Symphony Orchestra, ricevendo numerosi premi e riconoscimenti accademici nel suo Paese e in Europa. Recentemente, un sondaggio dell'American Symphony Orchestra League lo ha identificato come il compositore vivente più eseguito in concerto.

AARON JAY KERNIS
Aaron Jay Kernis è un compositore che si aspetta molto dalla musica, che deve "osservare" la vita ed esserne suggestionata per provocare ogni possibile emozione, anche con l'uso di elementi eterogenei, di suggestioni tardo romantiche come di contaminazioni del rap di strada. A questo suo impegnativo programma Kernis si è dedicato esplorando generi diversi, con una coerenza che unisce strettamente l'esuberante eclettismo degli esordi alla maggiore introspezione della produzione più recente, dando vita a gorghi musicali che inghiottono tutta la musica che li circonda e sono capaci di esplosioni di colore come di tese contemplazioni.
La fascinazione per teatralità e colori brillanti, la ricerca di un processo musicale controllato che non rinunci alla passione per le forti emozioni sono evidenti sin dai primi quattro Cycle (1979-82), in cui organici strumentali cameristici si alternano all'uso delle voci, nel corale Stein X Seven (1980), nel luminoso Nocturne (1982) come in Morningsongs (1982-83), ma è nelle più ampie partiture di Dream of the morning sky (1984) e del più aggressivo Mirror of Heat and Light (1984) che il progetto di far convivere malinconie ed esuberanza, costruzione ed emozione in una solida griglia formale si definisce più compiutamente.
La predilezione per la voce e l'esplorazione dell'espressività della poesia e del teatro si manifesta ancora in due cicli vocali quasi operistici, America(n) (Day) Dreams (1984), sei canti per mezzosoprano e orchestra da camera su poemi di Mary Swenson, e soprattutto Love Scenes, scritto nel 1986-87 per il violoncellista André Emelianoff e il soprano Dawn Upshaw, dove Kernis adatta undici poesie da Happy as a Dog's Tail di Anna Swir tratteggiando la raffigurazione del dissolversi di una relazione amorosa, con una musica intensa ed espressionistica.
Sul fronte esclusivamente strumentale si colloca invece il triplice Invisible Mosaic, ispirato dalla vista dei mosaici bizantini di Ravenna, di cui Kernis intende trasmettere l'impressione di schiacciamento, confusione e frammentarietà che si trasformano in ampie linee melodiche, alla ricerca di "qualche sorta di risoluzione, emotiva o armonica". Così alle vivide allucinazioni dei primi due Mosaic (1986-88), in un crescere progressivo di organico e brillantezza sonora, fa seguito il più leggero e giocoso Invisible Mosaic III, commissionato dall'American Composers Orchestra (1988) dove le aspirazioni di tutto il ciclo trovano compimento.
Il medesimo spirito giocoso trova un eco nel trio per flauto, violino e pianoforte Delicate Songs (1988), dove si incrociano influenze che vanno da Cajkovskij a Reich, passando attraverso Sinatra, e nel tuffo nel mondo infantile dei Songs of Innocents Books I and II (1989-91). In questa composizione per soprano e pianoforte, Kernis raccoglie intorno a un nucleo di testi dell'Inghilterra del XVIII e XIX secoli versi provenienti dall'India e poesie contemporanee di Mary Swenson, accompagnando la giornata di bambini buoni e discoli dal risveglio alla ninnananna.
L'inquietudine emotiva trova invece forma nelle immagini di onde sonore, di luce, di vento, e nei mille barbagli d'acqua della complessa Symphony in Waves (1989). Il contrasto tra sogni e mondo naturale, uno dei fili conduttori della musica di Kernis, trova poi corpo nel 1990 nel classico String Quartet ("musica coelestis"), in Brilliant Sky e Infinite Sky per baritono, violino e percussioni, e in Simple Songs (1991), per soprano e piccola orchestra, su testi tratti da un'antologia di poesia sacra, The Enlightened Heart, che racchiude brani di Ildegarda di Bingen, dei Salmi, di un maestro Zen giapponese e di un mistico Sufi. Qui Kernis ha iniziato un processo di spoliazione della propria musica, utilizzando un contrappunto scarno e un'espressione musicale ancor più diretta.
Il percorso di Kernis prosegue alternando bizzarrie come la "fanfara per trio d'archi" Mozart en Route (1991), la cui allegra chiassosità ricorda Ives, ai più consapevoli e tragici Second Symphony (1992), Hym, Aria-Lamento e Still Movement with Hym (1993), con organici che prevedono dalle formazioni cameristiche alla fisarmonica e all'orchestra, fino a raggiungere un culmine di intensità emotiva nel concerto Colored Fields (1994), ispirato ai campi inzuppati di sangue di Auschwitz e Birkenau. Allo stesso modo l'interesse mai sopito per la vita urbana e la musica popolare produce i vivaci 100 Greatest Dance Hits e New Era Dance, a raccogliere suoni e inquietudini delle strade newyorkesi.
In questi ultimi anni Aaron Jay Kernis ha concentrato la sua curiosità per l'umanità e il suo romanticismo, la consapevolezza politica e l'inclinazione per la teatralità, nell'elaborazione di Goblin Market, un elaborato adattamento teatrale per voce recitante e 14 strumenti dell'omonima opera di Christina Rossetti, in Air (1995), concisa e dolcemente melanconica partitura per violino e pianoforte scritta per Joshua Bell, e segue inoltre numerosi progetti sinfonici per la St. Paul Chamber, la Minnesota, la Los Angeles Chamber Orchestra e altre grandi formazioni americane.

Aaron Jay Kernis è nato a Philadelphia il 15 gennaio 1960. Vero figlio di quella decade esplosiva, ha iniziato il suo apprendistato musicale a 12 anni, autodidatta al pianoforte prima, studente di violino poi, scoprendo le opere per tastiera di Bach, le sinfonie di Mahler e la musica di Steve Reich. Precoce compositore, ha studiato nella sua città natale, con John Adams a San Francisco, alla Manhattan School of music e alla Yale University, dove incontra Jacob Druckman che nell'83 gli regala uno dei suoi primi momenti di celebrità con una lettura del suo Dream of the morning sky durante una prova aperta della New York Philarmonic. Costretto a difendere le sue scelte di strumentazione dalle critiche che Zubin Metha gli muoveva dal podio, Kernis riscosse la simpatia del pubblico e ottenne l'attenzione della stampa.

STEVEN MACKEY
Vi sono alcune persone nel mondo musicale odierno, tra cui l'autore di questo articolo, che rivendicano a sé soltanto il merito di avere scoperto Steven Mackey. È probabile che la spiegazione di questo paradosso attenga al fatto che le qualità della sua musica, la sua originalità, la sua freschezza, la sua stupefacente inventiva, una certa impertinenza, danno all'ascoltatore l'impressione di trovarsi di fronte a un ciottolo insolito scoperto su di una spiaggia disseminata di pietre; un ciottolo di cui non si conosce bene la provenienza, che attira vivamente l'occhio, non sembra al suo posto e pare spiccare tra i suoi vicini. Lo si raccoglie, incantati dalla scoperta, lieti che nessun altro l'abbia notato, contenti di essere passati di lì. Dopo un esame più minuzioso, ci si comincia a stupire per le sue caratteristiche. Chi avrebbe avuto l'idea di combinare queste qualità particolari? - di solito le cose non sono fatte così, ma che bella idea, per un sasso.
L'insieme di qualità che caratterizzano Mackey e la sua musica non provengono da circostanze abituali. Steven (anche i suoi studenti lo chiamano per nome) ha trascorso la giovinezza sulle piste di sci, i campi di tennis e di baseball di Marysville, nel Nord della California, diventando così un magnifico atleta. Quando non faceva sport, si sforzava d'imitare Jimmy Page e Jimi Hendrix sulla propria chitarra elettrica.
Il destino ha voluto che, afflitto da uno strappo al tendine d'Achille, scoprisse la Sagra della primavera. È lo stesso Steven a raccontarci di essere stato travolto da questa musica, e dall'idea di divenire compositore. Abbandonato il corso di studi di fisica all'Università di California, si è rivolto rapidamente alla musica, con risultati altrettanto brillanti. Studi di terzo ciclo a Stonybrook e Brandeis e incarichi di insegnante a William, Mary e Princeton, dove poi è stato nominato professore all'età di 36 anni, lo hanno messo in contatto con il mondo esaltante della musica contemporanea, sperimentale e avventurosa.
Dopo il suo periodo di apprendistato, Steven ha tolto dall'astuccio la chitarra, e con essa l'eredità musicale di un'"infanzia" che accoglieva nel suo metodo di composizione influenze diverse: Led Zeppelin, Monteverdi, Stravinsky, Muddy Waters, Mahler, Monk e altri. Inoltre, la musica di Steven ha iniziato ad affermare le sue qualità di atleta: estroversione, ottimismo, entusiasmo. Costruendo accuratamente le proprie opere con l'attenzione rivolta al ruolo dell'interprete, influenzato probabilmente dall'energia esuberante di cui necessita un chitarrista rock per proiettare la propria musica verso la folla, Steven è divenuto - secondo la sua espressione - più un narratore che uno scultore di suoni. Brani come Deal, Eating Greens e Banana/Dump Truck mostrano una particolare e personalissima attenzione al ruolo dell'interprete in un processo nel quale il lavoro non consiste semplicemente nel suonare le note giuste. I musicisti divengono personaggi di un dramma a un tempo palpitante, rischioso, vivificante e intellettualmente stimolante. In Deal, ad esempio, Mackey ha creato un convincente sfondo musicale sul quale un chitarrista e un batterista improvvisano guidati dalla partitura del complesso che li accompagna e da indicazioni generali d'interpretazione. La musica del complesso, che Mackey ha paragonato a un "arido paesaggio urbano", crea un ambiente spoglio ma che avvolge i musicisti, e il risultato è assolutamente originale nel campo dell'improvvisazione. Ad accompagnare il complesso, inoltre, è un nastro magnetico, su cui sono incise la suoneria di un telefono a cui nessuno risponde, l'abbaiare di un cane e un volo di oche selvatiche. Il risultato è a un tempo straziante, appassionato e profondamente commovente, e traduce un sentimento profondo che ricorda il Mahler dell'ultimo periodo.
In numerosi casi i suoi brani contestano la stessa autorità del palcoscenico, ad esempio la consegna di pizze di Eating Greens oppure la messa in scena stile vaudeville di Banana/Dump Truck, in cui l'orchestra continua a suonare durante i saluti d'ingresso e d'uscita del violoncellista. Non si tratta mai di gags; al contrario, è un modo per incoraggiare lo spettatore a un ascolto diverso, per tentare di comprendere meglio la relazione tra come la musica è percepita e cosa essa cerca di dire. La consegna di pizze, ad esempio, provoca una tregua passeggera e assai insolita, spezzando il fascino della musica. Ma l'orchestra riprende poi con forza, e gli ascoltatori devono di nuovo concentrare l'attenzione con rinnovata energia. Eating Greens rivela inoltre la mano di un maestro dell'orchestrazione, fluido, brillante e pieno d'inventiva, difficile e stimolante per gli interpreti.
Taluni brani, come No Two Breaths e See Ya Thursday, mostrano un lato contemplativo. Per riprendere la metafora dell'atleta, non si tratta tanto di una contemplazione chiusa in se stessa quanto di uno stato d'animo simile a quello di uno sportivo che si prepari a uno sforzo intenso. No Two Breaths vibra per tutta la sua durata del ritmo di un respiro meditativo.
Un altro aspetto della sua musica si rivela in opere come Never Sing Before Breakfast e Indigenous Instruments, che esplorano paesaggi immaginari sperimentando accordi di strumenti e suoni registrati, creando contesti nei quali la musica sembra essere la voce degli abitanti di un mondo lontano. In ogni caso, la musica resta profondamente pensierosa, e dà l'impressione di un magistrale narratore che inventi un racconto con straordinaria attenzione, abilità, cura del dettaglio e della profondità. A parte ogni retorica, ci troviamo qui in presenza di una musica che si distingue da ogni altra della nostra epoca. Eseguita brillantemente, specificamente americana, accessibile a una nuova categoria di ascoltatori, la musica di Mackey proviene da recessi che non avevano finora fatto ascoltare la loro voce nella musica da concerto. Ma ora ci si rende conto che quel che dicono valle la pena di essere ascoltato. Chi l'avrebbe creduto...
Paul Lansky
[Steven Mackey, Boosey & Hawkes, trad. Paolo Martinaglia]

Steven Mackey
Chi ritengo di essere?

Un tipo che ha passato un sacco di tempo a suonare in bande rock, quand'era giovane
che ha lasciato la bella vita di musicista rock per diventare uno sciatore di freestyle
che ha lasciato la bella vita di sciatore di freestyle per suonare il liuto e diventare direttore di un ensemble di musica antica che ha lasciato la bella vita di suonatore di liuto e aspirante direttore di ensemble di musica antica per diventare un compositore "serio"
che oggi ha girato la boa dei quaranta (14/2/96)
che nel mondo della musica contemporanea è noto come un compositore cameristico e per orchestra che qualche volta inserisce in organico la chitarra elettrica
che dalle parti della Princeton University è noto come insegnante di composizione, teoria, e musica del XX secolo
che svolge attualmente attività musicali che comprendono: composizione a tavolino, al pianoforte, con la chitarra, direttamente su nastro, al computer, per altri, per se stesso; improvvisazione da solo, con amici e con studenti; arrangiamento di musiche altrui per organici vari; a solo di chitarra, tanto per esibirsi, interpretazioni di musica da camera propria che includa la chitarra, sit-in con gruppi musicali al campus
un ottimista
[cd Lost & Found, Bridge, trad. Paolo Martinaglia]

MICHAEL TORKE
Con le sue due opere meglio conosciute, Ecstatic Orange e The Yellow Pages, scritte nel 1985 quand'era allievo di composizione a Yale, Michael Torke ha praticamente definito il post-minimalismo: una musica nella quale un gruppo eclettico di giovani compositori utilizza strutture musicali ripetitive, ereditate da una generazione precedente, allo scopo di introdurre tecniche di composizione provenienti tanto dalla tradizione classica quanto dal mondo pop contemporaneo.
Se a questo aggiungiamo un'energia esuberante e la rumorosa applicazione di un colore strumentale vivissimo, The Yellow Pages per complesso di musica da camera ed Ecstatic Orange, la prima opera per orchestra di Torke, sembrano riflettere l'aspetto ottimista e quasi arrogante che regnava nell'ambiente artistico degli anni Ottanta. Come in un procedimento architettonico, la musica di Torke non esita a prendere in prestito il materiale familiare della musica pop e a frammentarlo per poi ricostruirlo in un ribollente amalgama caratterizzato da una straordinaria imprevedibilità. Così come fanno la letteratura e la pittura post moderniste, Torke crea un'immagine musicale sorprendente, che cattura i sensi e li trascina con una marzialità ritmica da molti considerata irresistibile.
Sorprendente è il fatto che Torke abbia realizzato tutto ciò utilizzando metodi e procedimenti cari a compositori di epoche lontane quali il Medioevo - ad esempio l'uso di musiche popolari di danza per animare la musica colta, o l'evocazione visiva di colori per mezzo della sonorità - ma con modalità che sembrano incarnare qualcosa di completamente nuovo. Ciò è dovuto al fatto che Torke, pur attingendo gran parte della propria ispirazione alla canzone popolare, conserva in fondo un'ispirazione essenzialmente personale, ad esempio quando utilizza una linea di basso di Chaka Kahn come base per un proprio ostinato. La sua concezione del colore è allo stesso modo capricciosa e individuale. Torke è estremamente sensibile agli effetti sinestesici provocati dall'associazione di accordi e tonalità diverse con colori particolari; molte sue composizioni hanno come titolo il nome di un colore, traendo atmosfera e carattere dall'interpretazione che a questo colore viene data.
All'opposto di numerosi compositori americani, che si sono sviluppati a contatto con la musica popolare e che si sentono in seguito obbligati a ripulirsi da queste influenze quando si rivolgono alla musica "seria", Torke (che è inoltre un abilissimo pianista) ha trascorso la propria infanzia letteralmente immerso nella musica classica convenzionale. Soltanto al momento di entrare nella Eastman School of Music ha scoperto la musica rock e jazz, e da allora il suo entusiasmo per la musica popolare è diventato in qualche modo una missione nella sua opera. Gli elementi di musica pop influenzano in gradazioni diverse la struttura del brano, ne determinano il contenuto armonico e melodico, animano il ritmo e la pulsazione della partitura. Non sono tuttavia tanto la sonorità o la struttura apparenti di questi elementi pop a infiltrarsi nell'opera di Torke - dal momento che la sua musica è costruita in modo squisito e spesso neoclassico - quanto, in modo più soggettivo, è l'energia stessa del rock a esservi introdotta da questi stessi elementi.
Ed è grazie a quest'energia irresistibile - poiché, dopo tutto, la musica popolare è prima di ogni altra cosa musica di danza - che le opere sia cameristiche sia orchestrali di Torke hanno sedotto i coreografi, in particolare Peter Martins del New York City Ballet, che finora ha già prodotto la coreografia di sette composizioni di Torke, fatto che ci ricorda un precedente nella storia di questa compagnia: i rapporti tra Balanchine e Stravinsky.
Il paragone con Stravinsky si riaffaccia costantemente quando si parla della musica di Torke, poiché essi hanno in comune la capacità di sviluppare senza sosta temi frammentati e un'ingegnosità ritmica ridondante. Ma, prima di tutto, a iscriversi più precisamente nella tradizione di Stravinsky sono i procedimenti formali di Torke. In Adjustable Wrench, ad esempio, una frase pop di quattro battute è sottoposta nel corso di uno sviluppo totalmente imprevedibile a trasformazioni tanto radicali e complesse quanto quelle che subirebbe un'aria popolare originale tra le mani di Bartòk o Stravinsky.
Benché questi metodi caratterizzino quasi tutte le composizioni di Torke, il loro utilizzo varia considerevolmente a seconda delle opere. Evidentemente, era necessario che Torke introducesse un numero costantemente crescente di elementi presi a prestito ai secoli XVIII e XIX - ad esempio i procedimenti beethoveniani di sviluppo che utilizza con tanta naturalezza in Ash - prima di sperimentare apertamente dei pastiches nello stile di questi due secoli, come è provato dalla Messa corale, danza rituale scritta per il New York City Ballet, e Bronze per pianoforte e orchestra.
Queste opere non rappresentano tuttavia se non una breve divagazione, e il recente ritorno di Torke a uno stile più moderno, trascinato dall'energia della sua vibrazione, ha creato tensioni tanto più spettacolari quanto più il complesso sviluppo del suo linguaggio armonico e melodico non cessa di evolversi. Per di più, egli continua a scoprire vie nuove per arricchire la musica da concerto con tecniche non classiche. Nel suo nuovo quartetto per archi Chalk (per il quale il compositore evoca la straordinaria immagine di "una nube di colofonia che si solleva dai ponticelli degli strumenti, tanta è l'intensità data alle arcate dagli strumentisti") Torke chiede ai musicisti di lasciarsi andare completamente allo scopo di rendere i ritmi meccanici. In questo caso specifico, Torke incrina il formalismo classico del ritmo minimalista con lo stile appassionato di esecuzione tipico del rock, e ricrea l'eterno conflitto tra classicimo e romanticismo attraverso la modernità di colori e di forme propria alla fine del XX secolo.
Mark Swed
[Michael Torke, Boosey & Hawkes, trad. Paolo Martinaglia]

Intervista a Michael Torke di Michelle Ryang

-Com'è arrivato al titolo di Javelin?
Ero in bicicletta lungo una strada sterrata della MacDowell Colony (dove ho scritto quest'opera) quando pensai: "Mi piace la parola "Javelin"". Mi piace la forma delle lettere, soprattutto la "J" maiuscola . C'è in essa qualcosa di filante; forse ricordo ancora la macchina sportiva che mio padre possedeva nei primi anni Settanta (una AMC), che si chiamava "Javelin". Il movimento veloce di buona parte di questa musica ricorda quello di un oggetto lanciato; una sottile saetta qual è un giavellotto sembrava un paragone adatto. Questo spirito semi-eroico si applica certamente ai Giochi Olimpici del 1996, e fin dal momento in cui mi è giunta la richiesta da parte del Comitato Olimpico per i Giochi e della Atlanta Symphony, sapevo che il titolo sarebbe stato appropriato.
-Come si colloca Javelin nel catalogo delle sue opere?
Volevo che fosse un brano da parata, adatto a iniziare un concerto. Sapevo che era questo che voleva il pubblico pagante. Che cosa avrei dovuto fare, scrivere un Adagio?
-Ci sono molti che lo ascoltano come se fosse un punto di partenza per le altre sue opere.
Forse il carattere espressivo di questo brano è ancor più diretto di quello delle opere precedenti. Riconosco che con Javelin ho avuto un approccio più "umanistico" a quel che ciascun membro dell'orchestra avrebbe dovuto suonare, e assegnando loro compiti come quelli che erano abituati a eseguire, può darsi che sia risultato un suono più tradizionale. Taluni vi avvertono un'influenza francese. Dal momento che io ritengo di aver sempre subito - fin dai tempi di Ecstatic Orange e persino per Vanada - l'influsso di Messiaen e di Ravel, se non del francesizzato Stravinsky, non ci vedo nulla di nuovo.

Michael Torke su "Four Proverbs", "Music on the Floor" e altro
Il punto di partenza di Four Proverbs (completato nel 1993) fu che le melodie vocali possono essere trattate come uno qualsiasi degli elementi di base manipolati dal compositore. Secondo me, il pop è fondamentalmente una musica di presentazione: questo è il verso, ed ecco il ritornello. Poi mi chiesi: che cosa accadrebbe se le melodie con i brevi proverbi biblici che avevo scelto venissero riarrangiate, mescolate alla rinfusa, per poi assumere gradualmente la loro forma attuale? Non solo la voce sarebbe diventata uno strumento tematico, sviluppando le melodie originali fino alla loro dissoluzione, ma l'orecchio avrebbe potuto udire la sintassi verbale perdere e riassumere significato. In tal modo le parole avrebbero rafforzato l'effetto del mio gioco con le note.
Con il loro stile conciso, questi proverbi biblici si prestavano alla creazione di semplici melodie binarie. Ma ad attrarmi non era soltanto la loro utilità tecnica: c'era anche una componente di nostalgia personale. All'età di dodici anni, quando per coincidenza feci la duplice scoperta delle ragazze e di Dio (che a quel tempo non mi parvero in contraddizione), tolsi dallo scaffale la Bibbia di famiglia, e fu il libro dei Proverbi a produrre in me l'impressione più chiara e immediata. L'intersecarsi di poesia ed etica mi colpisce ancor oggi e, seppure in forme diverse, è un'associazione presente anche in certa musica pop urbana dei nostri giorni. Le rime della musica rap comunicano anch'esse un messaggio (pur se a volte violento e misogino) su come i giovani dovrebbero o non dovrebbero comportarsi.
I termini della mia commissione per Music on the Floor (scritto sempre per Present Music e portato a termine all'inizio del 1992) prevedevano l'uso di un piccolo gruppo di musicisti. Pensai allora a due vibrafoni (uno a sinistra e uno a destra) a sostegno del tema principale, un pianoforte come terza voce, un quartetto d'archi come base armonica e due legni che avrebbero contribuito con ulteriori apporti melodici.
Dopo aver trovato un accordo di base (in sei parti, dalla caratteristica aura lidia) e un particolare ritmo sincopato (che si può ritrovare in quasi tutti i brani che ho scritto negli ultimi dieci anni), procedetti come d'abitudine, cercando di sviluppare da questo accordo e da questi ritmi tutte le possibili estensioni, proliferazioni e nuovi motivi che da essi spontaneamente sorgevano. Ognuno di questi frammenti aveva una propria rilevanza emotiva e drammatica, ma l'espressione musicale sorgeva dall'organizzazione e dall'assemblaggio di questi frammenti sparsi in una forma di tre movimenti, e non viceversa. I compositori che lavorano diversamente potrebbero pensare: "Oggi sono triste, vediamo che cosa ne viene fuori"; o in forma più estrema: "Oggi mi sento oppresso dalla tristezza, posso solo scrivere musica che rispecchia la mia angoscia". Ho sempre pensato che la musica sia più che semplice autoespressione (o autoterapia, a seconda dei casi).
Non è mia intenzione disingannare l'ascoltatore che presume che Music on the floor si riferisca all'intima natura della "love music" del secondo movimento: nella vita non riusciamo sempre ad arrivare in tempo alla camera da letto! Ma la verità è più prosaica: alla fine del 1991, quando lavoravo a questa composizione, usavo cartelline con etichette descrittive per suddividere i fogli manoscritti che si accumulavano sul pavimento: "Musica vivace", "Musica più bagnata", "Musica con gerarchie"... Alla fine avevo ancora materiale anonimo ma potenzialmente utile ammucchiato sotto la scrivania e sul tappeto. Raccolsi allora tutti questi fogli in una cartella su cui scrissi "Music on the floor". Ciò che è utile a un compositore non può sempre essere descritto con parole semplici.
I due brani che prendono il titolo da due giorni della settimana nascono dalla mia passione per i rituali della vita di ogni giorno. Da bambino non sopportavo la monotonia. Non riuscivo a capire perché tutti volessero attenersi a una tabella oraria quotidiana: al mattino in piedi con la stessa sveglia, poi la colazione, esattamente alla stessa ora. Non capivo perché la messa cattolica dovesse essere ogni domenica la stessa. Quando facevo il lanciatore nella squadra di softball degli scout, ripetere la stessa mossa quattro volte di fila mi sembrava noioso e dopo il terzo lancio provavo qualcosa di brillante e diverso; così davo agli avversari uno schiacciante vantaggio, noi perdevamo e l'allenatore era furioso.
Ma più tardi cominciai ad apprezzare le cose che si ripetono, le cose che restano invariabili. La ripetizione non è necessariamente un insulto all'intelligenza. Essa può avere una forma di rituale: la base stessa della vita. Il cuore umano batte con una scansione periodica, pompando la vita a ogni cellula del corpo. Gli esseri umani sarebbero migliori se i loro cuori battessero imprevedibilmente?
I metodi compositivi di cui mi servivo all'epoca di Monday & Tuesday (terminato nel 1992) potrebbero essere descritti come una macchina delle funzioni musicale. Si dà un input e, a seconda della funzione, si ha un dato output. Ma che cosa accade se la composizione stessa è la macchina delle funzioni, e per ogni movimento tu immetti una nuova sequenza di accordi, ritmi e melodie? Come lo sentiranno gli ascoltatori? Le differenze risaltano maggiormente a causa dell'invariabilità della forma e dell'orchestrazione? Cosa rende diversi i due movimenti? Quando orchestro alle tre del mattino, e lavorando ho bisogno di ascoltare musica in cuffia, mi scoraggia scoprire come finisce presto la mia musica favorita. Con una combinazione di Monday più Tuesday, l'ascoltatore "paga uno e prende due": una seconda corsa gli riproporrà la maggior parte delle attrattive che aveva presumibilmente apprezzato nella prima versione, ma con diversi risultati musicali.
[cd Music on the Floor, Decca, trad. Giulio Lupieri]

Color Music
Ogni compositore è, in certa qual misura, egli stesso composto dalle dicerie e dalle critiche che vorticano nei teatri, nei caffè e sulla stampa. Nei pochi brevi anni compresi fra la prima grande opera orchestrale di Torke, Ecstatic Orange, e la comparsa della sua incisione, il cicaleccio su di lui si è quasi consolidato in un'ortodossia da catechismo. Alla domanda sulle ragioni della sua celebrità la risposta elaborata dal concistoro critico pare debba essere che Torke è riuscito a ben fondere musica jazz, pop e classica. È anche indispensabile sapere, fra l'altro, che Torke è giovane e pieno di vita, brioso ma serio, avventuroso ma motivato. Il suo nome richiama alla mente un Siegfried contemporaneo, l'ingenuo innocente nato in mezzo ai crollo di forze sinistre e corrotte. La maggior parte di tutto ciò corrisponde forse a verità.
Nato nel 1961, Torke è senza dubbio giovane, specialmente se si considera che la sua musica è già stata eseguita, coreografata e incisa da alcuni dei più prestigiosi gruppi artistici mondiali. La sua è senza dubbio una musica energica e audace, caratteristiche da lui stesso sottolineate scarabocchiando sulle partiture nomi di colori primigeni associati alle spiagge e alle sale da ballo, lo spettro cromatico della gioventù. Ma questa reputazione a pronta presa trascura una delle gioie essenziali insite nel primo ascolto di un'opera di Torke; trascura il senso di precarietà della sua musica, l'impossibilità di dare per scontato l'equilibrio musicale fra rigore formale e fascino emotivo.
La musica di Torke pullula di ironia, a partire dalle sue ambigue segnature sulle partiture, fino alle insolite vie che lo hanno condotto al successo. La più curiosa di queste passa per la sua lunga associazione con Peter Martins, erede al trono di Balanchine al New York City Ballet. Nel 1986 Martins, indiscriminatamente a caccia di nuove musiche, incappò su di un nastro di Ecstatic Orange scritta dal Torke studente. Il coreografo afferma: "Il brano mi comunica un senso di padronanza dell'orchestra assai affascinante". E non fa grande meraviglia che Martins reagisse così a quest'elemento torkiano, nocciolo del più profondo legame del compositore col passato. Quello che è strano invece è che una compagnia di danza nota come il più energico baluardo della tradizione americana sia diventata il più grande alleato di Torke. Ci si potrebbe attendere un gruppo di danza moderna metropolitano ispirato da Torke a frenetici balzi e giravolte, ma non la disciplina di ballerini classici al limite del loro equilibrio anatomico.
Per quanto possa parere strano, Martins continuò a lavorare con Torke, fornendogli commissioni di valore, e proponendolo ad ambienti che lo avrebbero preso sul serio. L'originale Ecstatic Orange divenne un balletto in tre tempi, comprendente il precedente Green e Purple; una nuova commissione di Green, in origine chiamato "Verdant Music", ebbe la première nel 1986 per opera della Milwaukee Symphony Orchestra sotto la bacchetta di Lukas Foss. Il compositore per l'occasione scrisse: "Green suggerisce una qualità fatta di semplicità, di immediatezza, riferita sia ai semplici blocchi costitutivi del brano (accordi di tonica e settima di dominante giustapposti), che ai valori della gente del Wisconsin". È questa la terra natale del compositore, ricordata con affetto.
Come Ecstatic Orange, Green è essenzialmente monotematico, un arco di dodici minuti che paradossalmente si rilassa nella sua complessità armonica e si tende nella semplicità armonica. Anche Ecstatic Orange è monotematico, basato su un tema di sei note che appare in contesti sempre differenti durante l'impeto senza posa che porta a una conclusione in fortissimo. Il brano restante del trittico del City Ballet è Purple, inteso come un pas de deux più lento inserito al centro del balletto. Sebbene chiaramente lirico se paragonato a Ecstatic Orange e Green, si tratta di ben altro che un interludio sentimentale, anche quando viene rallentato dal City Ballet per incorporare movimenti più lunghi e lirici.
Torke sviluppa implicazioni musicali di un'idea tratta da Wittgenstein in Bright Blue Music del 1985, commissionatagli ed eseguita per la prima volta dalla New York Youth Symphony, e in Ash, del 1989, eseguita in première dalla Saint Paul Chamber Orchestra sotto la direzione di John Adams. Cercando il parallelo al ragionamento wittgensteiniano secondo cui il significato consiste non nell'etimologia ma nelle moltitudini di grammatiche che abbondano nel linguaggio, Torke decide che "il linguaggio armonico è allora in un certo senso insignificante". Non sono le particolari armonie o la gerarchia di complessità che le ordina, ma piuttosto la grammatica locale di tensione e rilassamento a strutturare la loro interazione; in tal modo, come scrive il compositore, "Se la scelta dell'armonia è arbitraria, perché allora non usare accordi di tonica e dominante, i più semplici e diretti e, per me, i più piacevoli?".
Certo, perché no? Una possibile risposta potrebbe provenire dallo stesso uomo che ispirò l'idea. È noto che Wittgenstein abbia criticato anche la possibilità di linguaggi privati, e a prima vista pare che Torke si dedichi proprio a questi nella propria musica. Ma ognuno tenga ciò che gli interessa, e lasci il resto. Se mi piacciono queste particolari armonie, le userò nella mia grammatica privata. Se la musica significa per me "arancione", ecco che allora è arancione. Nonostante ciò non vi è nulla di solipsistico circa la composizione di Torke, e non vi è neppure alcun autocompiacimento. La musica è pubblica, affascinante e popolare. La ripetizione, la propulsione ritmica e le armonie luminose e solari saranno piaceri privati di Torke, ma lo sono anche per il suo pubblico. Bright Blue Music e Ash paiono, a prima vista, tratte dallo sviluppo o dalla coda di una sinfonia classica, visioni frammentate della prima, quintessenziale musica pubblica. La scrittura è libera, esuberante, perfino in Ash, dalle tinte più fosche. È il timbro di un compositore che si delizia dei propri rimaneggiamenti di materiale familiare, dimentico di polemiche trite e ritrite. Almeno questo è assolutamente vero, della sempre crescente fama di Michael Torke come nuovo dissidente.
Philip Kennicott
[cd Colour Music, Decca, trad. Gabriele Azzaro]

 

The Yellow Pages
The Yellow Pages, scritto nel 1985 ed eseguito per la prima volta dagli Yale Contemporary Music, presenta già molti elementi che Torke ha poi continuato a sviluppare durante gli anni successivi. Una delle caratteristiche dell'opera, come in quasi tutti i pezzi scritti dal compositore fino a quel momento, è il fatto che è ispirata dal colore. Torke è un compositore ispirato dalla sinestesia che associa i colori agli accordi - in questo caso il vivido sol maggiore attorno al quale ruota la partitura è rappresentato dal giallo. Ma il titolo è anche un doppio gioco di parole sulla guida telefonica e le osservazione di un professore di Yale. Questi aveva avvertito i suoi allievi che se fossero entrati nel "banco dei pegni della tonalità" essi avrebbero pagato un prezzo altissimo. E Torke, attratto da tale locale, immagino che avrebbe effettivamente finito per trovarvi della musica su pagine ingiallite.
Con The Yellow Pages, Torke annuncia quello che poi sarebbe divenuto il suo caratteristico stile cinetico e sincopato. La partitura è basata su una linea di basso di una sola battuta (derivato da una canzone di Chaka Khan), ripetuta come un ostinato (in modo che è sempre avvertibile il battito vigoroso del piede ma non si sa mai esattamente a che punto della battuta avvenga). Per le ripetizioni vengono aggiunti dei diesis all'armonia, che contribuiscono a spingere in avanti la musica a scatti discontinui, imitando l'effetto che si otterrebbe sfogliando le Pagine Gialle del telefono. E, tipico del metodo d'invenzione tematica di Torke, il motivo viene continuamente sviluppato e condotto attraverso svolte sorprendenti, cosicché si avverte una base nella musica ritmica che tuttavia non è mai prevedibile.
Slate è l'esperimento più radicale di Torke nel campo della sinestesia musicale, e anche quello più discusso. La versione registrata qui è una riduzione per orchestra da camera del primo movimento di una partitura per orchestra composta all'origine per un balletto di Peter Martins intitolato Ecno e allestito per la prima volta dal New York City Ballet nel 1989. Nell'opera completa ognuno dei quattro movimenti è formato dal medesimo brano, tranne che per l'armonia che modifica il carattere e il colorito della musica, quasi fosse l'equivalente sonoro di una serie di serigrafie di Andy Warhol. Ma, al pari delle immagini di Warhol, Slate può anche stare in piedi da sola.
Al contrario delle altre partiture comprese in questa serie, Adjustable Wrench del 1987 non comincia con una grossa esplosione ma timidamente, con una semplice frase pop ripetuta da quattro battute, sulla quale viene sviluppato un facile tema ritmato degli ottoni. Ma come suggerisce il titolo, le regolazioni della torsione vengono effettuate con l'innocuo materiale che acquista carattere quando viene disposto in maniera intricata tra i tre gruppi strumentali (fiati con pianoforte, ottoni con marimba e archi). Com'è tipico di Torke, i giri e le svolte repentine della partitura sono sempre sorprendenti, a maggior ragione quando una parte indipendente di sintetizzatore viene introdotta verso la fine con una linea cromatica di basso tanto frastagliata che sembra intenta a trascinare l'innocente ostinato pop nell'avventura più esilarante della sua esistenza.
Vanada, scritta per un gruppo studentesco nel 1984 durante l'ultimo anno trascorso alla Eastman School da Torke, mostra più apertamente l'influenza della musica pop, ma è anche, stranamente, il pezzo più tradizionale di questa registrazione. È una partitura di transizione fra le composizioni studentesche più complesse e accademiche e il suo stile successivo, dalle linee più ruvide e l'orchestrazione più aggressiva (piena di esuberanti strumenti metallici ed elettrici). Le forme musicali, tutte basate su un intreccio di 16 note, contengono anche più sostanza della musica successiva di Torke, ma questa è pur sempre un'anticipazione vigorosa della musica d'azione che Torke avrebbe ben presto sviluppato. Il titolo è un composto dai nomi di due personaggi, Van e Ada, tratti da un racconto di Nabokov intitolati Ada, che Torke stava leggendo quando compose questo pezzo.
In Rust, un concerto per pianoforte, fiati e basso elettrico scritto nel 1989, Torke ritorna quasi al punto di partenza della Vanada di cinque anni prima. Esso conserva infatti gran parte dell'energia ruvida di Vanada e utilizza un accordo di otto note associato a quest'ultima partitura. Ma il modo in cui i frammenti cinetici si dividono fra la parte per pianoforte solo e i fiati (e sono trasformati in una bella e lirica sezione centrale senza mai interrompere il ritmo, per poi ricomporsi per una tremenda esplosione finale) tutti sostenuti dall'entusiastico basso, è finora l'esempio più notevole e riuscito di Torke nel catturare l'energia della musica pop e riprodurla in una forma musicale più sofisticata.
Mark Swed
[cd The Yellow Pages, Decca, trad. Giovanni Maragno]

…ancora su Torke…
- Da tutto il mondo le mandano registrazioni di Adjustable Wrench. Che cosa prova?
Naturalmente mi fa piacere ricevere le registrazioni, e sapere di queste continue esecuzioni. Penso ad Adjustable Wrench come a qualcosa di tipicamente americano, che attinge a tradizioni americane, eppure quando ricevo un nastro dalla Sicilia, mi stupisco di come questo linguaggio sia compreso. O da Vienna - ho ascoltato un'esecuzione assolutamente straordinaria a Vienna. Se ne deve concludere che o la cultura americana domina imperialisticamente il mondo, oppure che lo stile di questo brano è più comprensibile di quanto io stesso non abbia mai pensato che potesse essere... Spero che la seconda ipotesi sia quella vera!

-December sembra essere stato pesantemente influenzato dalla sua opera vocale Four Proverbs. È una coincidenza o un fatto intenzionale?
Veramente c'è un legame diretto. Dovevo buttar giù delle idee per l'allestimento del Mercante di Venezia curato dal Public Theater. Il direttore Barry Edelstein, dopo aver sistematicamente rifiutato gli spunti che avevo scritto, disse alla fine: "Ha presente l'inizio di Four Proverbs? La melodia ossessiva del clarinetto mi piace molto. Non potrebbe scrivere qualcosa del genere?". Io scrissi una versione imbastardita di quel tema e tutto il resto venne necessariamente appresso.
Si stava avvicinando sempre di più il termine di scadenza della commissione di December. Mi resi improvvisamente conto che cambiando chiave e segnando sulla partitura le arcate necessarie, avrei dato a questo materiale un aspetto unico e peculiare. Con mia grande sopresa, l'impulso musicale originale sembrava nella sua essenza molto più adatto a un'orchestra di archi di quanto non lo fossero le scelte strumentali fatte per il progetto teatrale.
-December era inizialmente intitolato Rain Changing to Snow. Perché ha cambiato il titolo?
Mi piaceva l'immagine di precipitazione, di aggressiva percussività della pioggia, che si trasforma nel silenzioso accumularsi della neve sui rami degli alberi; penso che l'ascoltatore possa immaginare tutto questo quando la musica si sposta nella più tranquilla sezione centrale. Ma mi sono sempre trovato a disagio con i titoli troppo poetici. È buffo, ma l'approccio a un titolo così poetico in realtà limita quel che io voglio esprimere nella mia musica. Questo brano non si riferisce soltanto al cadere della pioggia e della neve. Le sue cangianti sfumature corrispondono a ricordi che s'insinuano nella mia mente; ricordi di cose come i bei momenti dell'adolescenza nei sobborghi di Milwaukee girando a consegnare giornali mentre enormi fiocchi di neve cadono e si confondono con le luci di Natale, e così via. Quindi, December è un titolo più aperto, e dà più spazio agli ascoltatori per collocarvi le proprie allusioni.
- Lei ha diretto quest'esecuzione di December. Pensa che sia fuorviante per un compositore dirigere le proprie opere?
Certo devo riflettere su come accordare la mia musica con il modo di stimolare altri musicisti a suonarla bene, e in questo non è facile essere equilibrati. Devo concentrarmi sulla forma e le sensazioni complessive, e lasciare che gli esecutori si occupino dei dettagli. Non cessa mai di stupirmi come il più piccolo movimento della mano possa cambiare tanto drasticamente l'effetto generale; le tue mani sono sui comandi! È come la più grande playstation mai inventata. E naturalmente tutta la faccenda funziona piuttosto bene; io, il compositore, non sono obbligato a servirmi di intermediari, e se sorge qualche dubbio, chi ha scritto la musica è lì, in piedi sul podio.

- La maggior parte della sua musica è veloce e ritmica. Perché lei non scrive più spesso musica lenta, come il secondo movimento di Music on the Floor?
È buffo, ma quand'ero ragazzo la parte che preferivo delle sonate e sinfonie erano i movimenti lenti. Il mio naturale metabolismo è veloce, e io sono attratto dalle cose che mi stimolano. Sono sicuro che la mia scelta di vivere a New York, dove lo stile di vita è a passo di corsa, contribusca al genere di musica che scrivo. Ma le cose potrebbero cambiare; ad esempio, mi sento particolarmente vicino al secondo movimento del Saxophone Concerto e a Four Proverbs, due opere composte più recentemente.

BANG ON A CAN
Quando giungemmo a New York, negli anni Ottanta, la situazione era molto definita: musica accademica nei quartieri alti, concerti affollati di specialisti di New Music, un'atmosfera molto critica, e tutti quanti in smoking; nei quartieri bassi, invece, un altro tipo di uniforme, T-shirts nere, e altre pretese di serietà. Né da una parte né dall'altra ci si divertiva davvero, e c'era un'intera generazione di giovani compositori che ovunque si sentiva a disagio.
Noi avevamo la semplicità, l'energia e la linearità della musica pop nelle orecchie. L'avevamo ascoltata fin dalla culla. Ma avevamo anche l'idea, derivata dal nostro apprendistato classico, che comporre fosse un'attività valorizzata, che i brani potessero essere ordinati e strutturati, e che scrivere musica rappresentasse ancora un valore.
Troppo alternativi per l'accademia e troppo strutturati per il palco dei clubs, non avevamo nessun posto preciso dove andare. Sapevamo che c'erano altri giovani compositori come noi, e cercavamo di definirci. Così nel 1987 decidemmo di creare un evento, una Maratona di 12 ore che presentasse le opere di 28 compositori: il primo festival annuale Bang on a Can.
Esso ebbe luogo alla Exit Art Gallery di Soho. Per il nostro programma mettemmo insieme brani che erano davvero forti e che appartenevano a differenti ideologie o a nessuna ideologia, che sfidavano la catalogazione, cadevano negli interstizi tra una definizione e l'altra. La musica di compositori sconosciuti era presentata accanto a quella di maestri viventi. Non volevamo essere limitati da alcun confine, e non volevamo che neppure l'ascoltatore fosse limitato.
Nelle stagioni che seguirono, il festival divenne follemente popolare, e Bang on a Can si rivolse a palcoscenici più grandi con concerti al RAPP Arts Center, la Town Hall, La Mama, The Kitchen e, più recentemente, al Lincoln Center. Superata l'eccitazione e lo slancio della Maratona, si era formato il gruppo All-Stars di Bang on a Can, un ensemble di solisti, guerrieri della nuova musica, che avevano colto lo spirito di Bang on a Can e l'avrebbero portato nella strada.
Il compositore olandese Louis Andriessen è stato un ispiratore fin dall'inizio. Quando ascoltammo per la prima volta la sua musica, nei primi anni Ottanta, essa risuonò a fondo dentro di noi. I suoni erano belle marcate percosse, nessuna sottigliezza. Ciò era ribelle e originale, ma anche intellettuale.
Noi sentimmo una reale affinità, sentimmo che musicalmente venivamo dalla stessa collocazione. Per noi, Louis era l'anello mancante, un legame col pensiero rigoroso del classicismo europeo, ma ispirato dai minimalisti americani. Era anche il primo compositore europeo da noi incontrato che fosse esperto della tradizione modernista europea ma che riconoscesse che esisteva il rock'n'roll, che ammettesse con forza l'esistenza dell'America. Ascoltare l'energica musica di Louis è un'esperienza estremamente sorprendente.
Egli prese parte al primo concerto Bang on a Can nel 1987, e ha poi continuato a costituirne la presenza principale negli anni successivi. Quando lo incontrammo, eravamo affascinati dalla sua semplicità e generosità e dal suo entusiasmo per la vita musicale in genere. Louis ama discutere la filosofia e la visione che stanno dietro la costruzione di un brano musicale. Egli parla delle giuste "note false", del giusto approccio alla musica. C'è qualcosa nella sua personalità che ricorda un richiamo alla battaglia.
Siete con lui o contro di lui? Volete unirvi alla schiera che combatte per l'autentica originalità e per l'arte oppure andare dall'altra parte, dove ognuno si trincera dietro vecchie idee superstiziose? Egli fa sì che la gente si senta parte di un movimento. Un'intera generazione di compositori è stata trascinata dal rigoroso radicalismo di Louis Andriessen.
Affinare la ribellione con disciplina è un'idea importante per il nostro tempo. È il genere di idea che ci piace, a Bang on a Can.
Michael Gordon, David Lang, Julia Wolfe
[cd Industry, Sony Classical, trad. Paolo Martinaglia]
MICHAEL GORDON
Gordon, compositore newyorkese co-fondatore del festival Bang on a Can, è nato in Florida ed è cresciuto in una comunità di europei dell'Est nei pressi di Managua, in Nicaragua. Ha studiato composizione con Edward Troupin all'università della Florida e con Martin Brasnick a Yale, dove strinse amicizia con David Lang e Julia Wolfe. La sua musica è la conseguenza degli studi di composizione come delle esperienze fatte con gruppi rock underground di New York.
La prima edizione della Bang on a Can Marathon si svolse in una galleria d'arte nel 1987, ma si trasformò in un evento annuale in sedi come il Lincoln Center, la Knitting Factory eThe Kitchen. Dal 1993 il festival dispone della propria band, la Bang on a Can All Stars, per cui i tre compositori scrivono gran parte della loro musica.
Nel 1983 Gordon fondò la Michael Gordon Philharmonic che, ristrutturatasi nel 1996 come Michael Gordon Band, esegue e incide la sua musica negli Stati Uniti e in Europa. Qui Gordon ha lavorato intensamente con l'ensemble londinese Icebreaker, per cui ha composto Yo Shakespeare e Trance, un pezzo di 52 minuti per 22 elementi e voci campionate.
Van Gogh Video Opera (1991) segna l'inizio della collaborazione con il video-artist Elliot Caplan a questa nuova forma di teatro musicale che, dopo la sua prima rappresentazione a New York, ha incontrato un vivo successo a Vienna nel 1992. La capitale austriaca ha anche ospitato, nel 1996, la prima di Grand Dairy, che insieme a Weather (1999), scritta per l'Ensemble Resonanz di Francoforte dimostra la continuità della collaborazione con Caplan. Sempre per il teatro Gordon ha realizzato Chaos, opera di fantascienza su libretto di Matthew Maguire, musiche di scena per House Arrest di Anna Deavere oltre a pezzi per Ashley Page e il Royal Ballet.
John Adams ha diretto nel giugno del 1997 l'Ensemble Modern nella prima esecuzione di Love bead, commissionato a Michael Gordon dalla BBC Proms, e agli stessi interpreti spetta quest'anno l'esecuzione di un nuovo lavoro.
Per descrivere la musica di Gordon, che comprende un vasto spettro di suggestioni che vanno dalla musica indiana a Steve Reich, dal rock alternativo a John Cage, sono stati evocati da Alex Ross del "New York Times" "la furia del punk rock, la brillantezza nervosa del free jazz e l'intransigenza del modernismo classico".

JULIA WOLFE
È così bello scrivere musica! Come cantare a voce spiegata, costruire ponti, andare in bicicletta. Comporre è un'attività che raccoglie tutto ciò che fa parte della vostra esperienza. Può essere un'attività dalla puntigliosità assoluta, maniacale, e allo stesso tempo di un'espansività infinita. Ho cominciato a scrivere musica da ragazza, folk songs sulla chitarra. Poi, al college, ho suonato tamburi africani, dulcimer di montagna, ossa, armonica e flauto. Ho ripreso il pianoforte. Ciò che mi ha trascinato a scrivere musica è stata la straordinaria commistione, nell'eseguirla, di fisicità, poesia, idee. Dopo aver scritto musica per l'Ann Arbor's Wild Swan Theater, che avevo fondato con tre amici, ho proseguito i miei studi di composizione a Yale e nel 1987 ho avviato il Bang on a Can festival a New York con i compositori Michael Gordon e David Lang. Erano le origini di quella che si sarebbe rivelata un'esplosione fenomenale. Non avevamo nessuna idea della strada che avrebbe preso in seguito quell'evento iniziato come un semplice incontrarsi tra amici. Ci limitavamo a pensare che sarebbe stata una buona scusa per far colazione insieme tutti i giorni. Bang on a Can è stato qualcosa in cui ospitare le nostre idee e i nostri sogni.
Nel 1991 venne a suonare al festival il Cassatt String Quartet, dal momento che un altro quartetto aveva disdetto all'ultimo momento. Non li conoscevamo. Quando iniziarono a suonare ne fui meravigliata: sembravano angeli, uniti nei gesti e nel respiro. Nel 1992 scrissi Four Marys per i Cassatt. Pensavo al loro modo di suonare, come se fossero un organismo unico. Four Marys riprende il suono del dulcimer di montagna e lo amplifica: scivolamenti tonali, toni di nudo lamento, note di bordone, accordi strimpellati che attraversano il quartetto. Abbiamo passato ore nel loro appartamento, cercando idee, rielaborando qualcosa, ordinando cibi pronti a domicilio. È stato l'inizio della nostra amicizia.
Nel 1992 sono andata a vivere per un anno ad Amsterdam. È una città splendida e un posto ideale per un artista. L'arte è una componente fondamentale della vita olandese. Vivere in quell'atmosfera era di un incredibile sollievo. Ho frequentato molti concerti, mi sono aggregata alla squadra di tennis da tavolo dei compositori, e ho scritto Arsenal of Democracy. Questo brano è scritto per l'Orkest de Volharding, una band di strada che fa musica d'impegno politico, fondata dal compositore olandese Louis Andriessen e altri. Il gruppo fa musica chiassosa e dura ed è organizzato secondo principi socialisti: ciascuno ha eguale diritto di esprimersi, ciascuno si adegua alla decisione collettiva. Il titolo del mio brano è preso da una frase coniata da Franklin Roosvelt, che si riferisce al ruolo degli USA prima del loro ingresso a pieno titolo nella Seconda Guerra mondiale. In tempi più recenti della storia degli USA questo "arsenale della democrazia" ha raggiunto proporzioni assurde e terrificanti. Ho immaginato che l'Orkest de Volharding sarebbe stata un arsenale di gran lunga migliore, con trombe e tromboni in prima linea. Sempre durante il mio soggiorno ad Amsterdam ho iniziato Early that Summer. Stavo leggendo un libro sulla storia politica degli USA, e l'autore continuava a introdurre la narrazione di piccoli incidenti con frasi come "Al principio di quell'estate...". Incidenti che - come una palla di neve si trasforma in valanga - si sarebbero alla fine trasformati in grandi eventi e rovinose crisi politiche. Mi sono resa conto che la musica che stavo scrivendo era esattamente così, che stavo creando qualcosa che costantemente anticipava qualcos'altro, un futuro edificio. Early that Summer è stato scritto per il Lark Quartet. Ho chiesto loro di suonarlo come suonavano Beethoven. Sono chiari e forti, pieni di fuoco e aggressività.
Sono molti i musicisti virtuosi a New York cresciuti nella tradizione della musica classica occidentale che suonano in gruppi come gamelan balinesi, bande rock, complessi di violini irlandesi, orchestrine jazz, band brasiliane, gagaku e quant'altro. Immaginate 40 musicisti di questo genere associati a formare un ensemble e avrete la SPIT Orchestra. Il motto della SPIT [sputo] è "fuori dei musei e sulla vostra faccia" e questo è lo spirito che hanno portato in Tell me Everything. Il brano era originalmente scritto per La Camarata di Mexico City che la eseguì per la prima volta al Festival Cervantino. Mi interessava molto il ritmo - renderlo irregolare - facendo sì che ciascuno suonasse seguendo il proprio tempo, ma che l'insieme risultasse una specie di samba fuori tempo, come il modo di suonare di bande di paese gioiosamente pasticcione. Mentre scrivevo questo pezzo, i ritmi erano tanti che esplosi in una risata, meravigliandomi di poter davvero scrivere una cosa del genere, che potesse davvero funzionare. Provai le stesse sensazioni con Steam. Ma questa volta mi ero abituata a me stessa. Anche qui i ritmi scorrono incessantemente, ma l'insieme suona come una confusa unificazione. Ho scritto Steam per tre strumenti costruiti da Harry Partch, due "canoni armonici" e un bloboy, a cui si aggiungono flauto amplificato, violoncello e organo elettrico. I membri della Newband sono particolarmente abili nel suonare gli strumenti originali di Partch, che possiedono fin dal 1990. La Newband mi prestò per diverse settimane uno dei "canoni armonici", grandi cetre tirolesi microtonali. L'accordatura è straordinariamente bella, con 43 note all'interno di un'ottava. Passai ore a strimpellare, pizzicare, suonare dei glissando - quando si esegue un glissando verso il grave si ottiene un suono che ricorda il grido di un animale selvaggio. Mantenni l'accordatura di Partch per i suoi strumenti, utilizzando la consueta accordatura temperata per gli altri. Amavo il suono di questi due universi che scorrevano stridenti uno contro l'altro, confondendosi in un'armonia di nuova specie.
[cd Arsenal of Democracy, Point of Music,
trad. Paolo Martinaglia]

DAVID LANG
"Creating, Lying, Stealing"
Un paio di anni fa, cominciai a pensare che quasi sempre i compositori classici, quando scrivono un brano musicale, tentano di raccontare agli altri qualcosa di sé di cui vanno orgogliosi o che semplicemente piace loro: Qui è la melodia fluente: lo vedi come sono sensibile? Oppure qui c'è l'astratto brano-severo-tutto-calcolo: lo vedi come sono complicato? Lo vedi che ho davvero una gran testa? Sono più nobile, più sensibile: come sono contento!
Il compositore, uomo o donna che sia, crede davvero di essere esemplare in questo o quel campo. Ciò è interessante, ma di umiltà ce n'è poca. Così penso: come andrebbero le cose se i compositori avessero fondato i loro brani su quel che pensavano fosse sbagliato in loro? Tipo, qui c'è un pezzo che ti fa vedere quanto sono disgraziato. Ora, qui c'è un pezzo che vi mostra che razza di bugiardo, che razza d'imbroglione io sia. Ho cercato di comporre un brano che tratti di qualcosa di sconveniente.
È un fosso duro da saltare. Devi lavorare contro tutto quel che hai imparato. Non ti hanno insegnato a trovare il lato brutto, in musica. Non ti hanno insegnato a essere meschino, maldestro, subdolo e sornione. In Creating, Lying, Stealing, sebbene in forma comica, sto cercando di guardare qualcosa di oscuro. Il brano è costituito da una serie di ripetizioni imperfette, inattendibili. C'è un millantatore, ma non è attendibile. In effetti, le istruzioni su come eseguire lo spartito dicono: "minacciosamente vigliacco".
[cd Creating, Lying, Stealing, Sony Classical, trad. Paolo Martinaglia]

MICHAEL DAUGHERTY
Metropolis Symphony
Ho iniziato a comporre la Metropolis Symphony nel 1988, ispirato da un'occasione particolare: la celebrazione a Cleveland del cinquantenario della comparsa di Superman nei fumetti. Completai la partitura nel 1993 e la dedicai a David Zinman, che mi aveva incoraggiato a comporla: ebbe la sua prima esecuzione a Baltimora nel gennaio 1994.
Il lavoro si ispira alla mitologia americana che avevo scoperto leggendo avidamente i fumetti durante gli anni Cinquanta e Sessanta. I movimenti della sinfonia - che possono essere eseguiti anche separatamente - sono risposte musicali al mito di Superman. Ho usato un personaggio fantascientifico come metafora compositiva per creare un mondo musicale indipendente e in grado di allettare la fantasia.
La sinfonia è un'opera strutturata, per niente programmatica, che esprime le energie, le ambiguità, i paradossi e lo spirito della cultura popolare americana. Come Charles Ives, la cui musica rievoca l'America delle piccole cittadine degli inizi del nostro secolo, io attingo all'eclettismo del mio background musicale per riflettere sull'America del tardo Novecento. Grazie a un'orchestrazione piuttosto complessa, allo sfruttamento dei timbri e della poliritmia, ho combinato gli idiomi di jazz, rock e funk con la composizione sinfonica e d'avanguardia.
La Metropolis Symphony è strumentata per due flauti, ottavino, due oboi, corno inglese, clarinetti in mi bemolle e si bemolle e clarinetto basso, due fagotti, controfagotto, quattro corni, quattro trombe in do, due tromboni, trombone basso, tuba, sintetizzatore, pianoforte, archi, nonché un'ampia gamma di strumenti a percussione: xilofono, vibrafono, marimba, campanelli (glockenspiel), crotali, fischietto, cimbalini, piatti, tam-tam, campanaccio, woodblock, bongos, triangolo, frusta, flexaton, tamburello, campane da nave, raganella, cassa rullante, tamburo militare, brake drum, sirena, nacchere, campane tubolari e timpani.

Questi i cinque movimenti.
I. LEX deriva il titolo da uno dei nemici più fastidiosi di Superman, il superfurfante e capitano d'industria Lex Luthor. Con l'indicazione "Diabolical" nella partitura, il movimento contiene un motivo in terzine di infernale rapidità e in moto perpetuo, suonate da un violino solista virtuoso (che rappresenterebbe Lex) inseguito da una sezione di strumenti a percussione, compresi quattro fischietti da arbitro collocati in quadrifonia sulla ribalta.
II. KRYPTON si riferisce al pianeta alla cui esplosione è scampato Superman da piccino. La cupa sonorità microtonale di questo mondo viene creata con una combinazione di glissandi di archi, tromboni e una sirena. Una coppia di percussionisti suona le campane da nave in antifona durante tutto il movimento; da un ricorrente motivo solistico dei violoncelli si passa alle minacciose urla degli ottoni, crescendo verso l'apocalittica conclusione.
III. MXYZPTLK prende il nome dal folletto capriccioso della quinta dimensione che regolarmente crea scompiglio nella Metropolis. Questo movimento riccamente orchestrato rappresenta lo scherzo della sinfonia, evidenziando il registro acuto dell'orchestra. Due flauti solisti, in duello tra loro, sono posizionati stereofonicamente ai due lati del direttore. Rapide scale ascendenti e discendenti dei flauti passano echeggiando attraverso l'intera orchestra, mentre dei pizzicati sulle corde vuote lampeggiano, creando con la loro coreografia un effetto spaziale.
IV. OH, LOIS! è dedicato a Lois Lane, cronista del giornale Daily Planet e collega di Clark Kent, alias Superman. Caratterizzato dall'indicazione "Faster than a speeding bullet [più rapido di una pallottola in volo]", questo concerto per orchestra della durata di cinque minuti impiega il flexaton e la frusta per produrre un vivace contrappunto poliritmico, alludendo in tal modo a un repertorio fumettistico di disavventure, urla, dialoghi, boati e disastri; il tutto velocissimo.
V. RED CAPE TANGO [Tango del mantello rosso] conclude la mia opera basata sulla mitologia di Superman. Ispirato alla lotta mortale dell'eroe contro Doomsday, il tema principale di Red Cape Tango è derivato dal Dies irae e viene esposto inizialmente dal fagotto. Questa "danza della morte" è concepita come tango e a tratti si presenta in forma di concertino, consistente in quartetto d'archi, trio di ottoni, campane tubolari e nacchere. Il ritmo di tango, introdotto dalle nacchere e più tardi dai cimbalini, viene sottoposto a una graduale trasformazione timbrica, concludendosi con il drammatico fragore di piatti, brake drum e timpani. L'orchestra si alterna tra le sezioni in legato e in staccato, suggerendo una corrida musicale.
[cd Metropolis, Argo, trad. Paolo Martinaglia]

Icone americane
Le idee musicali mi vengono quando guido lungo un'autostrada americana deserta. Ci sono libertà di muoversi e spazio per riflettere. Penso alla mia esperienza come compositore di musica contemporanea, tastierista di complessi jazz, funk e rock, percussionista in un gruppo di trombe e tamburi, improvvisatore sul sintetizzatore per film muti, organista in fiere di paese, pianista di cocktail bar.
AMERICAN ICONS è una collezione di riflessioni musicali in America, viste come attraverso il mio specchietto retrovisore. Attenzione - gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto appaiano. Dal mio punto di vista, le icone sono affascinanti perché sono sia vicine sia lontane. Le icone divengono significative quando seguono variazioni e ambiguità della nostra percezione della distanza spaziale e temporale. Esse creano emozione perché sono costantemente in movimento, mai allo stesso posto; il loro significato varia dando origine a molteplici punti di vista. Le icone possono essere persone, luoghi, oggetti: Elvis Priesley, James Cagney, Jackie O., Liberace, la bambola Barbie, Motown, fenicotteri di plastica rosa che decorano i prati, code pinnate di Cadillac del '59. Icone del genere hanno per me un significato personale, e un'ampia rete di riferimenti alla cultura contemporanea americana.
In quanto compositore, io mi sento ispirato da queste e da altre icone a immaginare nuove sonorità con tradizionali strumenti orchestrali. Attingendo a un ampio serbatoio di tradizioni musicali, ho portato l'eccitazione e l'energia della cultura americana popolare nelle sale da concerto. Il movimento attraverso lo spazio è un importante strumento compositivo nella mia musica. Spesso ho creato effetti stereoscopici collocando strumenti simili ai lati opposti del palcoscenico. Nelle mie composizioni ho creato un'intricata struttura drammatica e di memorie, utilizzando una tavolozza ricca di timbri, di ritmi vivaci e di complessità contrappuntistica.
Attraverso un uso anticonvenzionale delle icone americane, ho aperto una porta agli ascoltatori, invitandoli a portare le loro emozioni e associazioni mentali all'interno dell'esperienza musicale.
DEAD ELVIS Nessun personaggio del rock'n'roll sembra avere ispirato tante speculazioni, adulazioni e imitazioni come Elvis Presley (1935-1977). In Dead Elvis, il fagotto solista impersona Elvis accompagnato da un'orchestra da camera. C'è più di una coincidenza nel fatto che Dead Elvis abbia lo stesso organico orchestrale dell'Histoire du soldat di Stravinsky (1918), in cui un soldato vende il suo violino e la sua anima al diavolo in cambio di un libro magico.
Io do un nuovo inpulso a questo scenario faustiano: una rockstar si vende a Hollywood, al Colonel Parker e a Las Vegas in cambio della ricchezza e della fama. Utilizzo il Dies irae come tema principale nella mia composizione per porre una domanda: vive ancora Elvis o giace sotto la pietra tombale di Graceland? In Dead Elvis ascoltiamo un ostinato rock'n'roll nel basso raddoppiato, violini e bongos, mentre il fagottista turbina, usa doppi colpi di lingua e canticchia attraverso le variazioni del Dies irae.
Nel bene o nel male, Elvis è parte di cultura, storia e mitologia americane. Se volete capire l'America e i suoi enigmi, presto o tardi dovrete fare i conti con (Dead) Elvis.
SNAP!, per un nutrito complesso da camera, mette in scena due suonatori di piatti che eseguono un duetto di vari schemi ritmici in stereo, e cioè separati su lati opposti del palcoscenico. L'idea di questa configurazione spaziale mi è venuta quando ho visto James Cagney ballare il tip-tap in un film hollywoodiano del 1937, Something to Sing About. Sfoggiando un cappello a cilindro e uno smoking nella scena iniziale del night club, Cagney danza un tip-tap su e giù per un palco tra due orchestrine jazz: una a sinistra e l'altra a destra, con la cinepresa che insiste in una panoramica avanti e indietro.
Ripensando ai miei tempi giovanili, quando imparavo a danzare il tip-tap, ho composto una danza sincopata e un motivo brioso per Snap! Questo motivo, presentato dapprima alla tromba, all'inizio della composizione, passa attraverso varie trasformazioni ritmiche ed elaborazioni melodiche. Come se la mia cinepresa musicale effettuasse una panoramica sull'orchestra, avvicendo contrappuntisticamente due o tre singole linee in diverse combinazioni strumentali per creare canoni multipli. Snap! è il mio tributo jazzistico all'età d'oro di Hollywood, e alla spavalderia dell'esibizione di Cagney.
WHAT'S THAT SPELL? è una cantata pop per due Barbie-soprano accompagnate da un'orchestra da camera rock'n'roll. I due soprani recitano in pose diverse per cantare della sorte delle bambole di plastica americane. Nel primo movimento, l'una riecheggiando l'altra come in un coro da stadio, le interpreti intonano una cantilena come se sillabassero il nome del giocattolo femminile preferito dagli Americani.
Il loro mantra diventa uno scat-song ritmato dallo schioccare delle dita in "Ballerina", una marcia ritmica in "Drum Majorette" e un lamento lirico in "Oh Ken". "Oh Ken, Oh Ken, che posso fare? / Sono di plastica come te. / Mi piace quando parliamo, / quando tu e io siamo riposti nella scatola. / Oh Ken, che possiamo fare? / Tu sai che sono di plastica, come lo sei tu."
Il movimento finale ritorna all'atmosfera magica del coro da stadio e al pulsante ritmo rock dell'esordio, e si conclude con i soprani sospesi nell'incantamento di un re acuto
LE TOMBEAU DE LIBERACE Il pianista e intrattenitore conosciuto come Liberace è sotto diversi aspetti una delle più ambigue icone americane che sia dato incontrare. Vestito di spettacolari pellicce e abiti di strass, Wladziu Valentino Liberace (1919-1987) era celebre per le sue esecuzioni di polke, melodie di Broadway e arrangiamenti del repertorio classico per pianoforte accompagnato da un'orchestra-spettacolo di Las Vegas.
Nel mio tributo a Liberace, io non tratto la musica popolare come un'intrusione straniera nell'astratto idioma della composizione classica contemporanea. Partendo da un idioma vernacolare, ho composto Le Tombeau de Liberace come una meditazione sul sublime americano: un dizionario di musica proibita. Il primo movimento, "Rhinestone Kickstep", trasferisce in ritmi di boogie-woogie la sensazione di camminare impettiti lungo le rutilanti strade di cemento di Las Vegas. Il secondo movimento, "How Do I Love Thee", è tratto dal famoso sonetto vittoriano di Elizabeth Barrett Browning spesso recitato da Liberace durante le sue esibizioni. In "Sequin Music" gli a solo arpeggiati del pianoforte sono basati su di una sequenza di note che ho personalmente rilevato dal muro della celebre piscina a forma di pianoforte di Liberace. L'effetto della cadenza è dodecafonico: dopotutto la villa di Liberace a Los Angeles non era così lontana dai paraggi di Schoenberg. La composizione si conclude con "Candelabra Rhumba" un tour de force pianistico che ricrea l'eccitazione di un'orchestra-spettacolo di Las Vegas che non lascia morire la fiamma del candelabro di Liberace.
MOTOWN METAL per ensemble di ottoni e percussioni si ispira ai suoni e ritmi della Detroit industriale: città dei clamori automobilistici e della musica motown anni '60. La composizione prevede soltanto strumenti costruiti in metallo: quattro corni, quattro trombe, tre tromboni, tuba, vibrafono, glockenspiel, triangolo, piatti, gong, incudine, brake drum. È una catena di montaggio di glissandi ascendenti e discendenti e di rapide scale cromatiche, spesso affidate ai tromboni. La tuba, il glockenspiel e l'incudine creano una polifonia funky, mentre le trombe e i corni suonano accordi staccati in stile big-band. Ho tratto ispirazione dalla soul music anni '60 e da fanfare militari di trombe e tamburi, per creare bronzei poliritmi dal vigore industriale.
FLAMINGO deriva il proprio titolo dai familiari fenicotteri di plastica rosa, che si trovano nei curatissimi giardini davanti alle case dell'America suburbana. Ricordo di aver notato per la prima volta questi elementi decorativi in plastica facendo un viaggio in station wagon con la mia famiglia dallo Iowa alla Florida, nel 1962. Come entrammo a Miami, l'immagine della Florida sognata nel Midwest delle praterie si fece reale, e vidi autentici fenicotteri accanto a quelli di plastica. Il sogno fu momentaneamente interrotto da un notiziario flash sull'autoradio che annunciava il suicidio di Marylin Monroe.
Flamingo è una parola che possiede inoltre risonanze legate alla danza del flamenco, e così utilizzo due percussionisti che si esibiscono nel percuotere, agitare, far rullare e risuonare i sonagli del tamburello. Come in Snap!, i percussionisti sono stereofonicamente separati sul palco, e i loro tamburelli duellanti producono un contrappunto vivacemente ritmico al motivo centrale staccato già udito per la prima volta dall'ottavino. Questo motivo è ripetuto in un ritmo incalzante, che genera canoni leggermente fuori sincronia con l'orchestra, ed è interrotto da una sezione lenta che utilizza un singhiozzante fagotto.
[cd American Icons, Argo, trad. Paolo Martinaglia]

Michael Daugherty si è creato nel mondo musicale una nicchia particolare componendo musica da concerto ispirata alla cultura popolare americana contemporanea. La sua Metropolis Symphony per orchestra (1988-93) e Bizarro per legni (1993) sono un tributo ai fumetti di Superman e sono stati incisi, dal direttore David Zinman e dalla Baltimore Symphony Orchestra, e il Kronos Quartet gli ha commissionato Elvis Everywhere (1993) per tre imitatori di Elvis Presley e quartetto d'archi, e Sing Sing: J. Edgar Hoover (1992).
La musica di Daugherty è stata eseguita da importanti orchestre e gruppi strumentali. Negli Stati Uniti dalla Los Angeles e dalla New York Philarmonic, dalle orchestre sinfoniche di Atlanta, Baltimora, Chicago, Cleveland, Detroit, San Francisco, Saint Louis, all'estero dalla Melbourne Symphony, dalla BBC Symphony, oltre che dalla Tonhalle-Orchester di Zurigo, dall'Ensembie Intercontemporain, dalla London Sinfonietta e dal Netherlands Wind Ensemble. L'opera Jackie O. (1997) è stata eseguita per la prima volta e registrata dalla Houston Grand Opera.
Nato nel 1954 a Cedar Rapids, nello Iowa, Michael Daugherty è figlio di un percussionista di dance-band ed è il più vecchio di cinque fratelli, tutti musicisti di professione. Cresciuto facendo il tastierista in bande jazz, rock e funk nello Iowa, ha studiato alla North Texas State University e alla Manhattan School of Music di New York (1976), lavorando come pianista jazz e per compagnie di danza moderna, e componendo i suoi primi brani orchestrali. Dal 1979 ha diviso la propria vita tra l'Europa e gli Stati Uniti componendo musica per computer all'IRCAM, con Boulez, ottenendo il dottorato in composizione alla Yale University, collaborando con il jazzista e arrangiatore Gil Evans a New York e perfezionandosi con Ligeti ad Amburgo.
Si è esibito al sintetizzatore in concerti in cui accompagnava classici del cinema muto, ha suonato il pianoforte in salotti e night club e si è imposto all'attenzione nazionale quando Snap! e Blue like an Orange (1987) hanno vinto il premio Kennedy Center Friedheim. Dopo aver insegnato composizione per diversi anni all'Oberlin Conservatory of Music, Daugherty è divenuto professore di composizione all'University of Michigan, Ann Arbor, nel 1991.

JOHN HARBISON
Quando, nel 1976, la Boston Symphony Orchestra eseguì Diotima, la musica di John Harbison si impose all'attenzione nazionale. Composizione per grande organico costruita intorno a una melodia continua, che si sviluppa per un arco di 20 minuti affidata quasi sempre ai violini, e concepita come riferimento musicale all'omonima figura letteraria di Hölderlin e Platone, è emblematica di una costante che percorre tutta la produzione di Harbison: la ricerca della tensione che esiste tra parola e suono.
Questa attitudine letteraria, parallelamente a una predilezione per un lirismo che suggerisce crescenti inquietudini sotterranee, è riscontrabile con chiarezza nella sua vigorosa, sconvolgente opera da camera Full Moon in March (1977), basata sulla riduzione del compositore di una delle ultime commedie in versi di Yeats, e in Winter's Tale (1974), lavoro allestito nel 1979 dall'Opera di San Francisco in cui Harbison opera da sé un adattamento da Shakespeare.
Ma gli ultimi anni Settanta vedono anche il fiorire dell'interesse di Harbison per il modo in cui solista e orchestra interagiscono, che si traduce nel Piano concerto (1978) destinato al Kennedy Center Fredheim Award del 1980 e nel Violin concerto (1978-80), scritto per Rose Mary Harbison e da lei eseguito. A questo periodo risalgono anche due opere da camera che sin da allora si sono collocate stabilmente nel repertorio cameristico contemporaneo, il Quintet for Winds (1979), ardua sfida per gli esecutori in termini di controllo di fiato e dinamica, e il Piano Quintet (1981), in cui talvolta affiorano angosciosamente le difficoltà vissute in quel periodo dal compositore.
La ricettività di Harbison per le ambiguità dell'argomento poetico, il suo orecchio attento alle sfumature della lingua, lo porta negli anni Ottanta a incontrare l'ambigua e allusiva musicalità dei testi della raccolta Le occasioni di Eugenio Montale. I venti Mottetti di Montale per mezzosoprano e pianoforte (1981) sono il prodotto di una sensibilità delicatissima per il senso delle parole, e fusione totale di suono, ritmo e immagini che vinsero ogni remora del poeta e convinsero imprevedibilmente il suo esigente orecchio musicale. La più ridotta versione per voce e complesso da camera, intitolata Due libri e realizzata durante un soggiorno sulla costa ligure del compositore - che sperava di poter introdurre qualcosa del paesaggio stesso nella strumentazione - mantiene intatta l'intensità emotiva della distanza che separa chi ama da chi è amato, il dramma del passaggio dalla profonda intimità allo straziante isolamento.
Lo stesso sdoppiamento, versione per soprano o mezzosoprano e pianoforte e trascrizione per voce e complesso da camera, caratterizza il ritratto musicale di una giovane poetessa e mistica indiana del XVI secolo di Mirabai Songs (1982), mentre sarebbe probabilmente intraducibile per altro organico il fitto tessuto polifonico atonale di Simple Daylight (1988), da sei poesie di Michael Fried.
Il 1987 è segnato dal prestigioso Premio Pulitzer per la musica che Harbison ottiene con la cantata religiosa per soprano, baritono, coro e orchestra da camera The Flight into Egypt, dallo String Quartet No 2, pieno di inquietudini e solarità barocche, e dai 25 intensissimi minuti della Second Symphony. Vera rappresentazione della mescolanza e della contrapposizione di stati d'animo contrari, quest'ultima grande architettura sinfonica rispecchia musicalmente i mutamenti d'animo di un uomo e il modificarsi del suo atteggiamento in rapporto ai diversi momenti della giornata. Il primo movimento, "Dawn", in un tranquillo clima di attesa molto simile al dormiveglia semi-conscio del primo mattino, ospita un latente senso d'inquietudine. L'abbagliante "Daylight" del secondo sfrenato e brutale episodio si interrompe brusco e dissonante per lasciare spazio alle delicate figurazioni dei legni che introducono "Dusk", un movimento che fluisce ininterrotto per terze mentre "distrazioni" di strani motivi fortemente ritmici vi si intessono intorno. Paura e minaccia si addensano poi nel tempo finale, "Dark", di cui la costante cupezza, affidata al corno e alla tromba, non non è sufficiente a preparare l'allucinata violenza del climax, e che si risolve verso una consolazione non del tutto rassicurante.
I rapporti stretti per mezzo di queste opere con istituzioni prestigiose come la Pittsburg Symphony e la Los Angeles Philharmonic hanno origine in questi anni, e dietro incoraggiamento di André Previn, interprete dell'omaggio a Gabrieli, Monteverdi e Janácek del Concerto for Double Brass Choir and Orchestra (1990), sono continuati nel tempo. Allo stesso modo la collaborazione con la Boston Symphony Orchestra e Ozawa ha dato origine al Cello Concerto (1993), mentre la piana scrittura in triadi perfette di The Most Often Used Chords (Gli accordi più usati), ispirato allo schema semplificato della quarta di copertina di un album pentagrammato italiano, inaugura il sodalizio con la Los Angeles Chamber Orchestra.
Un sintetico excursus sul catalogo di Harbison non può trascurare un accenno alle composizioni vocali religiose, realizzate ora per coro a cappella, come Two Latin Motets, Two Emmanuel Motets e Concerning Them Which Are Asleep, ora per voci maschili e pianoforte, come Nunc dimittis, ora per l'originale abbinamento di lettore e quintetto di ottoni dei Christmas Vespers. Un cenno a parte merita la solida architettura formale di Samuel Chapter (1978) per soprano e complesso da camera, tratto dal testo in prosa dell'Antico Testamento.
L'impegno nella ricerca della verità gli fa concepire Between Two worlds (1991), un brano per soprano, due pianoforti e due violoncelli su testi poetici di Robert Bly e meditazioni di Jacob Boheme; mentre il soggetto, la natura fondamentalmente buona dell'uomo e per contro la sua manifesta barbarie, e gli echi delle canzoni di protesta potrebbero far pensare a una proiezione negli anni Sessanta, le sonorità graffianti e il razionale controllo delle strutture ci trasmettono una pessimistica consapevolezza di fine millennio.
Harbison ha evocato le aspirazioni irraggiungibili dell'Età del Jazz in Remembering Gatsby: Foxtrot for Orchestra e ha scritto per i giovani della Music School di Rivers in Weston, dando vita al mottetto O magnum mysterium e alla passacaglia per archi I II III IV V: Fantasia on a Ground. Di volta in volta si è rivolto al passato e al futuro proponendo per voci e strumenti i molteplici aspetti della sua personalissima espressione musicale, che attira l'attenzione dell'orecchio e sfida l'intelligenza; una musica antica e recente che non cessa di parlarci a proposito di qualcosa.

John Harbison è nato ad Orange, nel New Jersey, il 20 dicembre 1938 ed è cresciuto tra gli stimoli letterari e culturali di Princeton, dove mosso i suoi primi passi come pianista jazz. Negli anni di formazione ha beneficiato dei consigli di Roger Sessions e, da Harvard a Berlino, degli insegnamenti di Walter Piston, Boris Blacher ed Earl Kim, e inoltre ha incontrato l'interprete che ha ispirato la maggior parte delle sue opere per violino, sua moglie Rose Mary Pedersen. Apprezzato direttore di musica vocale e strumentale di Schütz, Bach e Händel, Dallapiccola e Schoenberg, compositore residente del Festival of Contemporary Music di Tanglewood, dal 1969 insegna al Massachusetts Institute of Technology di Boston, città dove vive e dove anima le attività musicali dell'Emmanuel Church. Harbison lavora come compositore perlopiù durante i mesi estivi, nella solitudine di una fattoria del Wisconsin.

CHARLES EDWARD IVES
Quarta sinfonia: istruzioni per l'uso
[Inserire Ives, nato nel 1874, tra queste nuove "voci americane" potrebbe sembrare strano, ma d'altra parte un omaggio a questo "patriarca" della giovane musica statunitense non si poteva proprio trascurare.]
Come sempre in Ives, dentro la mezz'ora più magmatica della musica del Novecento c'è tutta l'America. Inni quaccheri, cornette di cavalleggeri, brass band di paese, marcette da clown, pianole scordate da café chantant in Central Park, fuguing tunes bacchettoni usciti dall'american gothic d'una chiesetta del Vermont. Il problema di questa roba è riconoscerla, perché Ives ce le fa ascoltare tutta insieme: frammenti e conati di centinaia di linee melodiche diverse, sovrapposte e indipendenti, che affiorano dai marosi e dalle sorde risacche del rumore e ne vengono subito risucchiati per affondare nel nulla.
Qui c'è un'orchestra dove ciascuno sembra suonare per conto proprio, incurante degli altri e occupato solo a seguire il filo d'una propria parte persa in un bailamme sperimentale di cluster, politonalità e quarti di tono. Attenti. L'anarchia è solo apparente. Le parti sono tutte scritte per esteso, con una complessità ritmica e tecnica diabolica. Due direttori sono chiamati contemporaneamente a guidare altrettanti gruppi orchestrali, che si scompongono e ricompongono pagina per pagina e procedono a velocità metronomiche differenti e fissate con minuzia. Anche l'organico è senza precedenti: un'orchestra di due ottavini, tre flauti, due oboi, tre clarinetti, tre fagotti, se si vuole tre saxofoni, quattro corni, due cornette, sei trombe, tre tromboni, tuba, un pianoforte a quattro mani, un piano solista, celesta, organo, un "theremin" elettronico ad libitum, una vasta sezione di percussioni, archi e nel finale un coro a quattro voci usato come semplice vocalizzo. In più, nel primo movimento, un coro in lontananza accompagnato da quattro violini con sordina, viola sola e arpa, e nell'ultimo un'"unità percussiva", come la chiama Ives, con tamburo, piccoli timpani, piatti, tamburo basso e gong.
Che ci affascini, che ci lasci attoniti o sconcertati, la complessità della futuribile Sinfonia scritta dal contitolare della Ives & Myrick Insurance Company ci fa perdere di vista il suo aspetto più familiare. Anche questo tritatutto sonoro dopotutto è una narrazione: musica referenziale, descrittiva, che rinvia a un programma metafisico imbevuto del trascendentalismo filosofico di Ralph Waldo Emerson, Henry D. Thoreau e della "poetica dell'interrogazione" del selvaggio Walt Whitman. Gli stessi autori che ispirano il "codice etico per giovani agenti d'assicurazione", che Ives consegna a un suo manualetto del 1912. Insomma, è musica a programma non così lontana dai caserecci Pini di Roma.
La Sinfonia nasce dal montaggio di quattro pannelli concepiti in momenti diversi e imbastiti a loro volta di materiali sonori remoti. Il primo movimento nasce nel 1910-11 e ricicla il terzo tempo della Prima sonata per violino e pianoforte (1903-1908), che già citava senza parole la melodia dell'inno Bethany ("Watchman, Tell Us of the Night"). Imperturbabile e irraggiungibile, qui l'inno è librato da un "coro in distanza," a simboleggiare la quiete divina, cui anelano invano come in The Unanswered Question le "assillanti domande [dell'uomo] sul 'che cosa' e sul 'perché'" dell'esistenza, rappresentate dal drammatico e inquieto vagare del pianoforte.
Il secondo movimento all'inizio indugia, fa melina. Poi monta ed esplode come un'eruzione. Ives ci lavora fra il 1911 e il 1916. Gli dà per titolo Comedy: la commedia umana, ovviamente, in cui "un'eccitante, comoda e mondana carriera nella vita pratica è messa a confronto con le prove dei Padri Pellegrini nel loro viaggio attraverso le paludi e il deserto". È il Grande Circo Barnum dell'America contemporanea, dove la spiritualità dei primi pionieri naufraga miseramente nella corsa al dollaro e alla carriera. Percepiamo un'accumulazione assordante di frammenti, un frastornante sovrapporsi di citazioni che sta a rappresentare proprio la giungla di vetro e acciaio delle tentazioni metropolitane. Impossibile elencarle tutte. Musichette scipite da tea room, falsi spiritual di Stephen Foster come Massa's in de Cold Ground, un ragtime tolto dalla Sonata "Concord", lo Yankee Doodle, temi popolari come Marching Though Georgia o Turkey in the Straw, la Country Band March, brandelli dell'ouverture "1776" per piccola orchestra (1903).
Un caos che in pochi secondi si spegne nel silenzio, lasciandoci risvegliare interdetti fra le scolastiche e disarmanti progressioni di una fuga in piena regola. Siamo nell'Andante moderato (1909-11): la melodia è l'inno dell'Esercito della Salvezza From Greenland's icy mountains, che Ives arrangia per organo nel 1897 e l'anno dopo ricicla nel Primo quartetto per archi insieme a un Preludio, un Offertorio e un Postludio scritti per uno dei tanti servizi nella Center Church della Yale University, dove è studente e organista. Se Comedy è il caos dell'America che corre, questo è il ringraziamento del bravo yankee seduto con tutta la famiglia davanti al tacchino farcito: il formalismo vacuo e ipocrita con cui l'americano medio si autoassolve dai propri peccati di materialismo egoista.
Tesi, antitesi, sintesi. Con il suo tappeto ostinato di percussioni e il riaffiorare qua e là di citazioni di inni (ancora Bethany, Proprior Deo, Westminster Chimes) e della Memorial Slow March per organo (1901), il quarto movimento esprime il vacillante tentativo dell'uomo di recuperare quei valori trascendenti sopraffatti o rimossi nei due movimenti precedenti.
La Quarta Sinfonia è l'ultima grande composizione di Ives, la summa, il testamento artistico e filosofico. Dopo il 1917 la sua vena creativa si prosciuga, come inghiottita da vene carsiche che si perdono in un sottosuolo speculativo incapace di trovare in superficie una convincente forma espressiva. Il primo infarto nel 1918 fa il resto. Fino alla morte, nel 1954, le composizioni di Ives si fanno sempre più rare e ridotte perlopiù a songs per canto e pianoforte. La stessa Sinfonia per vedere la luce deve aspettare il 26 aprile 1965 e la bacchetta del grande Leopold Stokowski. Ma appena tre anni dopo, con i suoi fonemi fatti a pezzettini e le sue citazioni di Mahler e Lévi-Strauss, arriva la Sinfonia di Luciano Berio. Finalmente i tempi sono maturi per capire anche il cerebrale, solitario assicuratore del New England.
Nicola Gallino


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