Domenica 5 settembre 1999
ore 17 - Piazza della Repubblica

Banda Musicale dell'Aeronautica Militare
Patrizio Esposito - direttore

La Banda Musicale dell'Aeronautica Militare, venne costituita con decreto ministeriale il 1° luglio 1937 e fu tenuta a battesimo da Pietro Mascagni, alla cui presenza venne ef-fettuato il primo concerto. La Banda è costituita da professionisti diplomati presso i conservatori italiani che entrano a farne parte per concorso statale e sono considerati in servizio permanente effettivo. Il repertorio comprende moltissimi brani di autori che vanno dal '600 ai giorni nostri, tra i quali ricordiamo Bach, Rossini, Verdi, Bellini, Wagner, Ger-shwin, Hindemith e Schoenberg. Dal 1937 a oggi, la Banda ha svolto un'intensa attività compiendo tournée in tutto il mondo e suonando nei piu importanti teatri, riscuotendo sempre il favore della critica e del pubblico. Tra gli altri, vanno ricordati i concerti tenuti a New York, Buenos Aires, San Paolo e Rio de Janeiro, Chicago, Amburgo, Monaco di Baviera, allo Sleswig-Holstein Musik Festival, a Lussemburgo, Ankara, al Ravenna Festi-val, al Roma Europa Festival, al Nuova Consonanza, al Fe-stivaI Internazionale dei Fiati, al Teatro dell'Opera di Roma, al San Carlo di Napoli e ancora in Belgio, Francia, Olanda, Danimarca, Bulgaria e Spagna. Oltre ai concerti la Banda svolge altri compiti istituzionali come il servizio d'onore al palazzo del Quirinale in alternanza con le altre bande militari e partecipazioni alle cerimonie più significative delle Forze Armate. Dal 1992 la Banda è diretta dal tenente colonnello Patrizio Esposito.

Nato a Roma, Patrizio Esposito si è diplomato in composi-zione sotto la guida di Mauro Bortolotti presso il Conservatorio di Santa Cecilia in Roma. Ha inoltre studiato con Aldo Clementi e si è specializzato con Franco Donatoni presso l'Accademia di Santa Cecilia. Per la direzione d'orchestra èstato allievo di Donato Renzetti, si è diplomato in strumentazione per Banda e ha compiuto studi di musica elettronica con Walter Branchi. La consapevolezza della relazione tra i vari linguaggi artistici e la ricerca in campo estetico lo hanno inoltre portato a intraprendere gli studi di Filosofia. Nel 1990 inizia una collaborazione col Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell'Univesità La Sapienza, realiz-zando l'opera multimediale Sguardi. E' presente con le sue opere nei maggiori festival di musica contemporanea in Italia e ha ricevuto commissioni dai festival di Zurigo, Parigi-Versailles, Stoccolma, Madrid e Roma Europa, dal Festival Mondiale del Sassofono e dall'Interna zionale dei Fiati, oltre che da Istituzione Sinfonica Abbruzzese, Festival di Cuba, Nuova Consonanza, Istituto Italiano Culturale di Lussemburgo e Sleshwig Holstein Musik Festival ecc. Nel 1994 realizza l'opera multimediale Il Sogno, l'anno seguente Il Luogo Armonico; entrambe le opere sono state rea lizzate ed eseguite nell'ambito del "Progetto Musica" all'Ac quario Romano. Nel 1996 ha curato la direzione artistica della prima edizione del festival per strumenti a fiato "Il Carro di Eolo" che si è tenuto ad Assisi. Nel 1997 ha realizzato la suite scenica MA su testi di Carlo Bordini su commissione del Festival di Bomarzo. Ha pub blicato con Edipan e Agenda, le sue opere sono state trasmesse da emittenti radiofoniche nazionali ed estere. Affianca da sempre all'attività di compositore quella di direttore, con particolare attenzione al repertorio per strumenti a fiato. Da 1986 dirige il New Winds Ensemble, del quale è anche fondatore, e dal 1992 è Maestro Direttore della Banda dell'Aeronautica Militare.

 

IL PROGRAMMA

Charles Edward Ives
(1874-1954)
Variations on a National Hymn, America

Paul-Abraham Dukas
(1865-1935)
L'apprenti sorcier. Scherzo
Daprs une ballade de Goethe

Patrizio Esposito
(1960)
Musica per strumenti a fiato e percussioni

Petr Il'c Cajkovskij
(1840-1893)
Capriccio Italiano, op. 45

George Gershwin
(1898-1937)
An American in Paris

 

Charles Edward Ives
(1864-1954)
Variations on a National Hymn, "America"

Ci sono musiche così pirotecniche, così patriottiche, così "stars-and-stripes" che è difficile immaginarle per qualcos'altro che una grande banda americana. Di quelle con le gigantesche campane dei sousaphones levate nell'aria come orecchie d'elefanti d'ottone. Per esempio le Variations on a National Hymn, "America" di Charles Ives. E invece anche questa è una trascrizione. L'originale è addirittura per organo. Niente di strano: nel campestre e bacchettone New England fin de siècle, l'amor di patria è una religione al pari dei salmi, delle torte di mele e del club Delta Kappa Epsilon dell'università di Yale.
Il giovane Charles scrive le Variations a soli diciassette anni, nel 1891, in mezzo a una quantità di marce e pezzi corali per i services e i church meetings liturgici alla Centre Church di Danbury, la cittadina natale persa nelle verdi campagne del Connecticut dove è organista. In quel triangolo verde all'estremo Nordest, l'orizzonte musicale è punteggiato dalla melassa di vecchi inni puritani, dalle canzonette sentimentali di Stephen Foster, dalle bande di paese con i loro virtuosi di cornetta, dai primi ragtime, dagli spettacoli dei minstrels dipinti di nero che scimmiottano persino l'opera. In più Charles cresce nel cono luminoso del padre, singolare personaggio che sperimenta con l'ingenuità senza rete tipica dell'artigiano tecniche rivoluzionarie come l'uso di più tonalità simultanee, la divisione delle scale in quarti di tono, la distribuzione di diversi gruppi sonori nello spazio. Pensate al tormento delle pie signore e dei probi parrocchiani della cantoria finiti nelle mani del terribile Charles, che li tormenta con le scale a toni interi del suo Psalm 54, con la serie dodecafonica (trent'anni prima di Schönberg!) dello Psalm 25 o con i cluster di note e gli effetti stereofonici degli Psalms 90, 100 e 150. I primi esempi di politonalità in Ives sono proprio qui nelle Variations: i brevi interludi aggiunti nel 1894 fra la seconda e la terza variazione, fra la quarta e la quinta e nell'Allegretto finale. Per la prima volta si passa da una tonalità all'altra sovrapponendole come in una dissolvenza incrociata al cinema.
All'università di Yale Charles approda nello stesso 1894. Va a lezione da un maestro fin troppo serio: Horatio Parker. Un professore da Attimo fuggente, un epigono di Brahms che ha sciacquato i suoi panni in Danubio. La Fuga in quattro tonalità sul tema dell'inno dell'Esercito della Salvezza, che Charles gli sottopone orgoglioso, la prende per nulla più che un simpatico scherzo. Risultato: quando nel 1898 esce da Yale, Charles capisce che quel modo di far musica non potrà mai essere la sua professione. Trova lavoro alla Mutual Life Insurance Company, ramo assicurazioni. Nel 1907 si mette in proprio e fonda la Ives & Myrick Insurance Company, dalla quale si pensionerà dopo qualche infarto nel 1930. Tutte le sue composizioni più celebri e sperimentali, dalla speculativa sonata Concord, Mass, alle quattro Sinfonie, dalla congesta ouverture Robert Browning alle centinaia di songs per canto e pianoforte le scriverà così, nel tempo libero. Un genio per hobby.

 

Paul-Abraham Dukas
(1865-1935)

Errore. Il segnalibro non è definito.L'apprenti sorcier. Scherzo. D'après une ballade de Goethe
Poche storie. Dal 1940 L'apprendista stregone vuol dire Topolino con la bacchetta magica, il cappello a cono e il camicione a stelle. Potenza del genio disneyano, che con Fantasia inventa il primo videoclip della storia e si attira le pallottole della critica codina ("Un film in cui l'immagine è al servizio della colonna sonora, e non viceversa"). Ma potenza anche del fiuto di Leopold Stokowski con la sua Philadelphia Orchestra, che fra i balzelloni di questo sabba grottesco intuisce la magia della fiaba a colori. Così, se oggi pensiamo a Paul Dukas, lo iscriviamo a quella categoria di autori famosi solo per una composizione - come il Sinding del Mormorio di primavera o l'Addinsell del Concerto di Varsavia - e magari immaginiamo con malinconia un catalogo sterminato, pregevole ma dimenticato. E invece no. Pochi compositori sono altrettanto poco prolifici di Dukas. Il problema è il suo eccesso di autocritica. Nei quarant'anni in cui la Francia migra dal turgore wagneriano e dall'accademismo di Saint-Saèns ai nitidi enigmi dell'ultimo Debussy, Dukas scrive e distrugge pacchi di musica. È un continuo rovello estetico, una cronica sfiducia nelle proprie capacità espressive. Salva appena una dozzina di lavori, fra cui l'opera Ariane et Barbe-Bleue tratta da Maurice Maeterlinck (1907) e il poema coreografico La Péri (1912).
E l'Apprenti Sorcier, naturalmente. Un pezzo riuscitissimo: il trionfo della prima da lui diretta il 18 maggio 1897 alla Société Nationale porta alle stelle un trentaduenne ancora sconosciuto. Sono anni in cui tutti i grandi nomi d'oltralpe si lasciano sedurre dalla facile sirena della musica a programma: lo stesso Saint-Saèns, Henri Duparc, Vincent D'Indy, César Franck. Come ogni poema sinfonico, anche questo scherzo dietro le note ha un cartone letterario: l'omonima ballata di Wolfgang Goethe. Lasciato solo, un maldestro maghetto vuole comandare alla scopa fatata, ma dimentica la parola magica. Tenta di mettere fuori combattimento il diabolico arnese spaccandolo con l'ascia, ma i due tronconi si animano mentre l'antro viene inondato dal blob fumante che trabocca dai calderoni. In questo brano misterioso e sulfureo, sarcastico e scatenato, Dukas raggiunge un soprannaturale punto d'equilibrio fra capacità costruttiva e fantasia nel colore strumentale.

 

Patrizio Esposito
(1960)

Errore. Il segnalibro non è definito.Musica per strumenti a fiato e percussioni
In Italia, oggi, le grandi bande militari come quella dell'Aeronautica sono fra le poche a potersi permettere il lusso di proporre in trascrizioni scintillanti anche il repertorio sinfonico più impegnativo e di presentare nuovi brani dal respiro che vada al di là del pot pourri di temi classici, sudamericani o di musiche da film. È il caso di Musica per strumenti a fiato e percussioni di Patrizio Esposito: l'unico brano del programma odierno scritto apposta per banda.
Il problema è che - salvo pochi esempi, come Accordo per quattro gruppi di bande che Luciano Berio scrisse nel 1980 per la Marcia della Pace di Assisi - nel nostro dopoguerra la composizione per banda resta sostanzialmente un sotto-genere specializzato e coltivato soprattutto dagli stessi maestri. Le superciliosissime avanguardie nostrane hanno infatti snobbato un organico reputato troppo popular e dai mezzi tecnici insufficienti a esprimere un pensiero, il loro, in fuga come un velocista dopato. Niente di più sbagliato, naturalmente. Per esempio, Esposito si è formato e perfezionato con nomi seri al di sopra di ogni sospetto, come Aldo Clementi, Mauro Bortolotti e Franco Donatoni. E alla composizione per banda affianca quella per organici cameristici e sinfonici con incursioni nella multimedialità.
Quando si scrive un'opera - dice lo stesso Esposito - non si può prescindere dal materiale scelto per la sua realizzazione. La materia, purché risponda, va assecondata, in alcuni casi addirittura è la materia stessa a suggerirci l'opera. Sembra questo un concetto più vicino alla scultura che alla musica, ma dovendo scrivere per fiati e percussioni è evidente che si adotterà una scrittura diversa da quella per archi. Non per questo però è impossibile scrivere una musica "rarefatta" o "sfumata" con gli strumenti a fiato. Ebbene, la mia ricerca in questo caso è stata tesa a mostrare come questi strumenti possano esprimere "sentimenti" così diversi da meravigliarci.
Per i compositori di fine millennio continuare a ignorare quel formidabile mezzo di riproduzione sonora, di istruzione musicale diffusa e di spirito aggregativo che è la banda, significa scartare a priori la possibilità di parlare e avvicinare pubblici nuovi e più ampi. Perché - non dimentichiamo - quella del pubblico d'élite e ridotto ai minimi termini è stata proprio una delle afasie in cui, appena qualche anno fa, si sono insabbiati i voli di troppe avanguardie.

 

Petr Il'c Cajkovskij
(1840-1893)
Capriccio Italiano, op. 45

Avete mai notato che le musiche più "tipicamente italiane" dell'Ottocento le scrivono i francesi, i tedeschi, i russi? D'accordo, è un'Italia tutta pizza-amore-mandolini, popolata da straccioni affamati ma baciati dal sole e quindi sempre dietro a cantare. Però non siamo ingrati. Mentre da noi (a parte sparutissimi e sopravvalutati cenacoli) si continuava a correre dietro ai capricci del soprano o del tenore e l'interesse verista per la musica popolare era ancora di là da venire, il colore delle nostre musiche popolari si posava per la prima volta sui pentagrammi solo grazie a compositori stranieri che si portavano nei bauli la cultura romantica dell'ethnos e la tradizione sinfonica europea.
Armati di fogli e carboncini, studenti, pittori e viaggiatori del "grand tour" schizzavano dal vivo le rovine dei Fori e le pecore dell'Agro pontino, i profeti di Michelangelo e il costume delle contadine ciociare. E allo stesso modo Mendelssohn, Liszt, Glinka, Berlioz, Bizet e Cajkovskij fissavano l'aria profumata, la luce del Mediterraneo, la bellezza classica del paesaggio e dei monumenti in un'accorata nenia di marinai, una tarantella sfrenata, una serenata melanconica e galante. Con loro, l'Italia-cartolina del viaggiatore non si ferma più solo fra le righe o sulla tela, ma cattura un universo sonoro remoto eppure ancora del tutto vergine.
Il notissimo Capriccio Italiano di Cajkovskij appartiene a questa categoria. Completato il 27 maggio 1880 e diretto a Mosca il 18 dicembre 1880 da Nikolaj Rubinstein, ha come modello la Seconda Ouverture Spagnola che Mikhail Glinka scrive durante il soggiorno iberico dal 1845 al '47: la suggestiva ricreazione interiore d'un paesaggio del Sud attraverso l'abile e libera aggregazione di temi popolari. Da Roma, nella lettera del 16 gennaio 1880 Cajkovskij annuncia entusiasta all'amico Sergej Tane'ev: "Ieri ho ascoltato una deliziosa canzone popolare che sicuramente impiegherò". Pochi giorni e il progetto si fa più chiaro: non nascerà una suite, ma un capriccio imbastito di melodie popolari italiane, un po' prese da antologie, un po' carpite a volo dalle mille anonime voci delle strade capitoline.
Pura street music è ad esempio la fanfara d'apertura, che Petr Il'ic sentiva levarsi ogni mattina dalle caserme presso l'albergo. Seguono quattro temi popolari cuciti insieme a mo' di piccola suite: melodie sempre in rilievo, affidate anche nell'originale ai timbri taglienti e plebei degli ottoni acuti, fra cui una coppia di cornette a pistoni che sa di banda di paese lontano chilometri. E proprio come una suite di danze, il Capriccio si chiude con la sfrenata tarantella Ciccuzza. L'idioma è quello tipico popolare-colto dell'Ottocento: armonie di sesta napoletana, frequenti alternanze di modo minore e maggiore, costruzione a blocchi che arieggia all'andamento strofico da canzonetta. Insomma, l'Italia sta al Capriccio come la maestà ineffabile del Cupolone a una pagina di quel Baedeker che anche Cajkovskij, ovviamente, teneva in mano nelle sue passeggiatine sul Pincio.

 

George Gershwin
(1898-1937)

Errore. Il segnalibro non è definito.An American in Paris
Se la coppia Disney-Stokowski riconsegna al cartoon le suggestioni letterarie imprigionate in partitura da Dukas, nel film An American in Paris del 1951 Vincente Minnelli fa più o meno lo stesso. Inventa immagini in movimento sulle canzoni più famose e sul brano omonimo che George Gershwin aveva pensato ventitré anni prima, nel 1928. Il prodigio di An American in Paris è qui. Una partitura zampillante che, con i suoi clacson e i suoi trafficati boulevards, impressiona le sensazioni direttamente sulla pellicola della mente.
Per questo An American è un poema sinfonico atipico. Non ha un "programma" letterario, una storia da seguire in musica passo dopo passo, ma ha una musica talmente capace di evocare storie che bastano un regista fantasioso, un Gene Kelly e una Leslie Caron in stato di grazia per portarsi a casa sei Oscar. È una forza di cui Gershwin si rende conto, nel momento in cui fa appello a illustri precedenti d'avanguardia per dare una legittimazione estetica ai rumori della turbinante real life parigina che irrompono fra le note. Lo fa nel suo scritto più noto, Il compositore nell'era della macchina, del 1930:
L'Era della Macchina ha praticamente influenzato tutto. [...] Nel mio American in Paris ho usato quattro trombe di taxi per creare un effetto musicale. George Antheil ha usato di tutto, compresi eliche di aeroplani, campanelli, tasti di macchine per scrivere, e così via. Possiamo inoltre usare i vecchi strumenti per ottenere effetti moderni. Prendete una composizione come Pacific 231 di Honegger scritta per una locomotiva a vapore e ad essa dedicata. La musica riproduce completamente l'effetto di un treno che si ferma e riparte, eppure impiega soltanto strumenti tradizionali.
È una giustificazione posticcia e ingenua. Quello di Gershwin è un impressionismo metropolitano che nulla ha in comune con le sirene metafisiche di Ameriques di Edgar Varèse, con il bric-à-brac dadaista di eliche e motori in Parade di Eric Satie o il costruttivismo industriale anni Venti dei sovietici Aleksandr Mosolov o Aleksandr Davidenko, che portano in orchestra magli, presse e lastre d'acciaio. An American in Paris è una storia evanescente come un'anisette, una visione che sembra uscita dalla penna di Francis Scott Fitzgerald o Ernest Hemingway:
È mia intenzione ritrarre le impressioni di un visitatore americano a Parigi, come cammina attraverso la città, ascolta i vari rumori della strada, e assorbe l'atmosfera francese. L'allegra sezione iniziale è seguita da un blues molto intenso con un forte sottofondo ritmico. Il nostro amico americano, forse dopo essere entrato in un caffè e aver bevuto un po', improvvisamente soccombe alle fitte della nostalgia di casa. Ora l'armonia è al tempo stesso più ricca e più semplice che nelle pagine precedenti e il blues raggiunge il suo punto culminante; segue quindi una coda in cui lo spirito della musica ritorna alla vivacità e alla traboccante esuberanza della parte iniziale con le sue impressioni di Parigi. Apparentemente l'Americano malato di nostalgia, uscito dal caffè per raggiungere l'aria aperta, ha cancellato la sua parentesi di tristezza e una volta ancora si mette ad osservare attentamente lo spettacolo della vita parigina. Alla fine i rumori della strada e l'atmosfera francese trionfano su tutto.
Gershwin non è Duchamp o Man Ray. Non fa collages di objects trouvés sonori. Se un clacson strombazza nella sua orchestra, è un'incursione del quotidiano nell'ordinato mondo dell'immaginario artistico fatto per materializzare la poetica frenesia d'una metropoli. Gershwin è infatti il primo che compone non con la penna, ma con la macchina da presa. In Porgy and Bess ogni scena è un carrello, un controcampo, un piano sequenza. Per la prima volta occhio e orecchio si spostano con i tempi di un montaggio d'autore, e la drammaturgia da empirismo teatrale si fa cultura dell'immagine. Ecco perché An American in Paris è cinema immaginario. Noi lo possiamo anche ascoltare anche a occhi chiusi, sempre che siamo disposti a perderci lo spettacolo dei barriti lucenti dei sousaphones.

Nicola Gallino



 

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