Mercoledì 22 settembre 1999
ore 21 - Teatro Regio

Orchestra del Teatro Regio di Torino
Bruno Canino - pianoforte
Yoram David - direttore


L'Orchestra del Teatro Regio di Torino è stata ricostituita nel 1945 dopo che l'incendio del Teatro nel 1936 e il secondo conflitto mondiale ne avevano ridotto l'attività, diventando quindi, nel 1967, Orchestra Stabile dell'Ente lirico torinese. Erede del complesso fondato da Arturo Toscanini alla fine del secolo scorso, l'Orchestra del Teatro Regio è abitualmente impegnata negli allestimenti della stagione d'opera e di balletto e si esibisce spesso in veste sinfonica, sia nella propria sede istituzionale che nell'ambito del circuito regionale. Protagonista di registrazioni radiotelevisive e di incisioni discografiche (da segnalare l'integrale delle sinfonie di Cajkovskij con Vladimir Delman), è stata ospite di vari festival e teatri stranieri. Nel 1992 Bruno Campanella ne ha assunto la direzione stabile, ruolo che ha ricoperto per quattro anni; dal 1995 fino al luglio 1998 la direzione stabile è stata assunta da John Mauceri. Sotto la guida del maestro Mauceri l'Orchestra ha inciso un cd di arie d'opera con Angela Gheorgiu per la casa discografica Decca. Insieme al Coro del Teatro Regio ha inoltre inciso per la Nuova Era Il Barbiere di Siviglia di Rossini e il Don Pasquale di Donizetti con Bruno Campanella e nel 1997 la Hardy Classic ha pubblicato il video della rossiniana Elisabetta, regina d'Inghilterra, direttore Gabriele Ferro, protagonisti Lella Cuberli, Daniela Dessì e Rockwell Blake.

Bruno Canino, nato a Napoli, ha studiato pianoforte e composizione al Conservatorio di Milano, dove ha poi insegnato per 24 anni pianoforte principale. Come solista e pianista da camera ha suonato nelle principali sale da concerto e festival europei, in America, Australia, Giappone e Cina. Da 40 anni suona in duo pianistico con Antonio Ballista e da quasi 30 fa parte del Trio di Milano. Collabora con illustri strumentisti come Accardo, Harrel, Ughi, Viktoria Mullova, Perlman. È stato per alcuni anni direttore artistico della società dei concerti Giovine Orchestra Genovese e in seguito per la stagione autunnale del Campus Internazionale di Musica di Latina. Attualmente è direttore della sezione Musica della Biennale di Venezia. Si è molto dedicato alla musica contemporanea, lavorando con Pierre Boulez, Luciano Berio, Karl-Heinz Stockhausen, György Ligeti, Bruno Maderna, Luigi Nono, Sylvano Bussotti e altri, di cui ha presentato spesso le opere in prima esecuzione. Numerose le sue registrazioni discografiche: fra le più recenti le Variazioni Goldberg di Bach, l'integrale pianistica di Casella e, allo stadio iniziale, quella di Debussy per la Stradivarius, di cui è uscito il primo disco. Tiene un corso di perfezionamento per pianoforte e musica da camera del Novecento al Conservatorio di Berna. È di recente pubblicazione un suo libro intitolato Vademecum del pianista da camera, edito da Passigli.

Nato a Tel Aviv, Yoram David si è stabilito in Europa dall'età di sei anni, studiando pianoforte, composizione e direzione d'orchestra presso la Royal Academy of Music di Londra e proseguendo poi gli studi a Vienna con Hans Swarowsky. Ha debuttato con la Jerusalem Symphony Orchestra e immediatamente dopo con la BBC Symphony Orchestra di Londra. Nel 1977 si è trasferito in Germania, dove ha lavorato presso il Teatro dell'Opera di Francoforte, alla Bayerische Staatsoper di Monaco, dove ha diretto Die Zauberflöte, Don Giovanni, Le nozze di Figaro e Così fan tutte, oltre che alla Staatsoper di Berlino, all'Opera di Stoccarda e a quella di Amburgo, dirigendo inoltre numerosi concerti sinfonici. Nel 1984 ha debuttato sul podio dei Berliner Philarmoniker ed è stato nominato Direttore musicale della Sinfonie Orchester di Aachen, carica già ricoperta da von Karajan e Sawallisch. Nel 1987 ha inaugurato il Festival di Israele con una produzione della Traviata. In seguito ha diretto due acclamatissime produzioni di Lulu e di Wozzeck di Berg al Teatro La Fenice di Venezia ed è salito sul podio della Deutsche Kammerphilharmonie e dell'Orchestre de la Suisse Romande di Ginevra. Tra gli impegni che lo hanno visto protagonista in Italia nelle recenti stagioni ricordiamo Der Rosenkavalier al Teatro San Carlo di Napoli, Don Giovanni al Carlo Felice di Genova, Orfeo ed Euridice alla Fenice di Venezia, Il castello di Barbablù di Béla Bartók al Teatro Massimo di Palermo, Don Giovanni al Teatro Regio di Torino ed Elektra al Bellini di Catania. Recenti sono stati i successi ottenuti in Giappone, dove ha diretto la Japan Virtuoso Orchestra di Tokyo, al Festival Ferrara Musica, sul podio della Gustav Mahler Chamber Orchestra, a Roma con l'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e in Brasile con l'Orchestra Sinfonica di Stato di San Paolo. Oltre a numerosi concerti sinfonici, tra i prossimi impegni italiani di David segnaliamo I diavoli di Loudun di Penderecki al Teatro Regio di Torino.


IL PROGRAMMA

Leonard Bernstein
(1918-1990)
Fancy Free
I. Enter Three Sailors
II. Scene at the Bar
III. Enter two Girls
IV. Pas de deux
V. Competition scene
VI. Three Dance Variations
Variation 1 (Galop)
Variation 2 (Waltz)
Variation 3 (Danzon)
VII. Finale

George Gershwin
(1898-1937)
Concerto in F for Piano and Orchestra
I. Allegro
II. Adagio-Andante con moto
III. Allegro Agitato

Rhapsody in blue (orchestrazione di Ferde Grofé)

Leonard Bernstein
Symphonic Dances from West Side Story
Somewhere
Scherzo
Mambo
Cha-cha
Meeting Scene
"Cool" Fugue
Rumble
Finale

Nei primi giorni del 1924 Paul Whiteman fece pubblicare sul "New York Herald Tribune" la notizia che il 12 febbraio avrebbe diretto una nuova pagina sinfonica di Gershwin: si trattava di un sotterfugio per mettere il giovane amico di fronte a un fatto compiuto e vincerne la riluttanza ad affrontare una composizione di ampio respiro. Gershwin dunque accettò di scrivere un nuovo lavoro ma, sia perché già impegnato con le prove del musical Sweet little Devil, in scena a Boston il 21 gennaio, sia perché preoccupato per la propria inesperienza di strumentatore, si limitò a prepararne una stesura per due pianoforti che Ferde Grofé (1892-1972), arrangiatore abituale del complesso di Whiteman, avrebbe poi realizzato nelle versioni per pianoforte e jazz band (presentata alla prima esecuzione) e per pianoforte e orchestra.
La prima di Rhapsody in blue - alla quale presenziarono compositori come Stravinsky e Rachmaninov, direttori come Stokowski, Mengelberg e Damrosch, interpreti come Heifetz e Kreisler - ebbe grande risonanza anche per il battage astutamente pianificato da Whiteman, che intendeva accreditarsi come leader della moderna musica americana inventando un "jazz sinfonico" che "nobilitasse" la musica afro-americana incorporandone gli stilemi ritmici, armonici e melodici in un'espressione che della tradizione occidentale possedesse la dignità formale, la ricca veste sinfonica e, soprattutto, la caratteristica di musica "letterata", consegnata per intero alla notazione - e non a procedimenti improvvisativi - e alla prassi dell'interpretazione e del concerto pubblico.
In effetti la valutazione critica di Rhapsody in blue è sempre stata condizionata dal suo ibridismo: accettata con imbarazzo da una critica ufficiale poco propensa a iscrivere nei cataloghi della musica colta una composizione così sfacciatamente accattivante, guardata con sufficienza dai puristi del jazz, poiché i caratteri della musica dei neri sono riassimilati da Gershwin in una versione edulcorata dal filtro della musica commerciale bianca. Tra l'altro il termine "blue" non si riferisce qui al blues o alle blue notes (gradi della scala a intonazione instabile) che lo caratterizzano: Gershwin ricalcò il titolo definitivo - quello provvisorio, forse più appropriato, era American Rhapsody - su quelli di quadri dell'impressionista James Whistler, come Nocturne in Blue and Green o Harmony in Grey and Green. Comunque il termine "Rapsodia" è senza dubbio consono a una pagina la cui struttura è determinata dall'organizzazione di materiali che fanno seguito in maniera apparentemente improvvisativa al celeberrimo tema principale.
Nella forma complessiva si distingue una prima parte - a sua volta articolata in un'esposizione e in una sorta di sviluppo-ricapitolazione, nel quale il maggiore peso discorsivo passa dall'orchestra al solista - seguita da una sezione contrastante per il movimento più moderato e per la maggiore coesione del materiale tematico, imperniato su una nuova immagine melodica dall'indimenticabile magia; una sorta di ponte-cadenza porta a un'ampia coda, che riprende alcuni dei temi principali in una trionfale perorazione del solista, suggellata dall'intera orchestra in un'apoteosi sonora.
Alla prima esecuzione di Rhapsody in blue seguì la commissione di una nuova composizione per pianoforte e orchestra da parte di Walter Damrosch (1862-1950) direttore artistico della New York Symphony Society. Il nuovo lavoro, che Gershwin si impegnò a eseguire come solista a New York e in successivi concerti a Washington, Philadelphia e Baltimora, fu abbozzato tra luglio e settembre del 1925. Questa volta Gershwin provvide anche alla strumentazione, e non licenziò la partitura - il 10 novembre - che dopo una lettura condotta dal direttore Bill Daly con un'orchestra ingaggiata per provare l'effetto reale delle sonorità previste sulla carta.
L'attenzione riservata a questa pagina, che doveva consacrarlo come autore di musica sinfonica, indusse ancora una volta Gershwin a cambiare titolo - dall'originale New York Concerto all'anodino e serioso Concerto in F for Piano and Orchestra - per sottolineare il carattere "classico" del lavoro e allontanarne possibili letture in chiave descrittiva.
In effetti il principale rilievo critico mosso al Concerto in fa riguarda proprio il suo esibito accademismo, in particolare nel primo movimento, dove la forma-sonata imbriglia un'invenzione di natura analoga a quella che in Rhapsody in blue aveva trovato una veste più originale e spontanea; anche qui in effetti il discorso si impernia sullo sviluppo a carattere di improvvisazione-elaborazione dei materiali della sezione introduttiva e sul loro contrasto con le sezioni tematiche imperniate sull'idea principale, esposta dal pianoforte alla sua prima entrata. Il secondo movimento - l'oasi lirica della composizione, come da tradizione del concerto solistico - è invece più tipicamente gershwiniano nell'invenzione melodica e nell'organizzazione della struttura, in due sezioni principali (la prima a carattere di esposizione, l'altra con funzione di rielaborazione-ricapitolazione) separate da una cadenza. Anche il terzo movimento, con la sua impronta virtuosistica e con il carattere vitalistico e liberatorio della tematica, rispetta il carattere tradizionale del finale di concerto. L'intenzione di Gershwin di perseguire una superiore dignità formale si evidenzia qui nella ricerca di una dimensione "ciclica": il finale ripropone infatti temi dei movimenti precedenti, per culminare in una citazione letterale dell'idea principale del primo movimento, nella sua enunciazione più trionfale.

Se l'immagine del Gershwin "classico" è sempre stata in conflitto con quella del Gershwin impareggiabile autore di songs, nel caso di Leonard Bernstein è la fama del direttore d'orchestra a mettere in ombra quella del compositore, la cui valutazione critica è stata poi condizionata dall'eclettismo linguistico e dalla frequentazione di generi della musica commerciale.
Fancy Free si colloca nella fase iniziale della carriera di Bernstein, che nel novembre 1943 si era imposto all'attenzione del pubblico sostituendo all'ultimo minuto Bruno Walter sul podio della New York Philharmonic per un concerto radiodiffuso in tutti gli States. Composto per il Ballet Theater (il futuro American Ballet Theater) di Jerome Robbins, questo balletto - rappresentato al Metropolitan il 18 aprile 1944 - racconta di tre marinai che, a New York per una licenza di un giorno, incontrano due ragazze in un bar di Manhattan e si sfidano in una gara di danza per decidere chi potrà corteggiarle; la loro eccessiva esuberanza le fa allontanare… finché ne compare una terza, e gli amici si lanciano alla sua conquista.
Questa trama-pretesto - poi ripresa in On the town, il primo musical di Bernstein per Broadway - è tradotta in sette numeri (preceduti, nell'esecuzione teatrale, dal blues Big Stuff, che si finge provenire dal juke-box del bar) i cui titoli fanno riferimento ai momenti essenziali della vicenda; la musica è caratterizzata dal ritmo di straordinaria pregnanza, nel cui sofisticato trattamento confluiscono, innestandosi sulla matrice jazzistica, evidenti influssi di maestri contemporanei, ed in particolare di Stravinsky. Questa dimensione si riflette nella scrittura strumentale, che tratta le figurazioni ritmiche per blocchi timbrici omogenei, e nella quale costantemente emerge, quasi a sottolineare la continuità della narrazione, la presenza del pianoforte.
È invece un compositore affermato il Bernstein che il 26 settembre 1957 presenta, al Winter Garden di New York, West Side Story, il musical cui rimarrà legata la sua fama di autore. Nato anch'esso dalla collaborazione con Jerome Robbins, West Side Story riambienta la vicenda di Romeo e Giulietta York tra gli immigrati portoricani, nella New York delle tensioni razziali e della criminalità minorile.
Alla straordinaria efficacia emotiva dello spettacolo fa riscontro - pur all'interno di schemi e convenzioni propri di un genere per definizione commerciale - un'evoluzione del linguaggio musicale di Bernstein, che, a un livello più immediatamente percepibile, si manifesta nell'acquisito intuito per l'hit song di infallibile presa. Non a caso in un articolo del 1955 dal significativo titolo "Perché non scrivi una bella canzone alla Gershwin?" il musicista si interrogava sulla necessità di stabilire una diretta comunicativa con il pubblico (il che, vorremmo sottolineare, significa perseguire l'immediatezza negli effetti, non dei procedimenti). Così una serie di canzoni memorabili come Maria, Tonight, America, Somewhere garantisce a West Side Story un successo epocale: 772 repliche prima dell'inizio di una trionfale tournée e di una diffusione ancor più capillare attraverso il film interpretato nel 1961 da Natalie Wood e Richard Beymer.
Nello stesso anno, il 13 febbraio, Bernstein allargò ulteriormente gli orizzonti del propro lavoro presentandone una versione da concerto con il titolo di Symphonic Dances. La partitura (che Harold Schonberg, il critico del "New York Times", salutò acidamente scorgendovi un'"aura of show business") è qualcosa di diverso da una semplice antologia di hits o da una suite di danze, e ripropone la tensione e lo svolgimento del dramma perseguendo un'autonoma dignità estetica. Non è difficile, anche a un primo ascolto, ravvisarvi un'evoluzione dei presupposti linguistici di Fancy Free, tanto nella plastica evidenza del ritmo, quanto nella complessità dell'idioma, che amalgama le suggestioni più disparate - particolarmente significativa, in questo senso, la "Cool" Fugue, in cui convivono jazz, contrappunto classico e cromatismo lineare. Anche l'orchestra - dall'organico imponente, con una sezione percussiva ricchissima - è trattata in modo non dissimile da quello di Fancy Free, ma con una ancor più smaliziata maestria e con un tocco di ironia nel richiedere ai professori performance curiose, come lo schioccare delle dita e gli interventi "gridati" (Mambo!).

Enrico M. Ferrando



 

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