Centro relazioni e famiglie

Volti nuovi della famiglia – tra libertà e responsabilita’

di Rita Gay Cialfi dal libro Volti nuovi della famiglia – Tra libertà e responsabilità, anno 1997

Qui di seguito riportiamo un estratto , edito da Claudiana Editrice. L’autrice, Rita Gay Cialfi, è psicologa, esperta di servizi socio-educativi per l’infanzia. Con gentile concessione dell’Editore.

Modelli familiari e relazioni interpersonali

Per avere un’idea dell’entità dei cambiamenti che si sono verificati nella famiglia italiana nel corso degli ultimi vent’anni basterebbe confrontare le definizioni di “famiglia” contenute in due documenti ufficiali, che in certo modo segnano le tappe di un percorso tuttora aperto.

Da un lato, la riforma del diritto di famiglia (1975) si rifà ancora al principio contenuto nella Costituzione che definisce la famiglia nei termini di una “società naturale fondata sul matrimonio”; dall’altro, un recente decreto presidenziale (1994) vede in essa “un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi”, la cui unica condizione imprescindibile è la coabitazione delle persone e la residenza nello stesso Comune.

A parte la valutazione che ognuno di noi può dare circa la validità e i limiti di ciascuna delle due definizioni (la prima è impegnata nella difesa di valori tradizionali, la seconda nello sforzo di comprendere tutto l’esistente), colpisce comunque il fatto che una registrazione di cambiamento così notevole sussista anche in Italia, malgrado quanto risulta dalle ricerche sociologiche e demografiche più accreditate, secondo cui i processi di cambiamento e di trasformazione della famiglia sono molto meno evidenti e meno rapidi in Italia che nella maggior parte degli altri Paesi occidentali. L’Italia cioè resterebbe, per ora, una nazione caratterizzata da una cultura “familistica” più tenace e più legata alle tradizioni di quanto non sia avvenuto e non avvenga altrove, soprattutto nel Nord-Europa e negli Stati Uniti.

Ma le cose stanno davvero così?

Chiara Saraceno sottolinea come sia per certi versi “paradossale” che l’attuale ripresa di attenzione per la famiglia come luogo di solidarietà e reciprocità (viste da alcune parti come un ritorno a valori tradizionali fondanti) “avvenga in un contesto sociale in cui i modi di formazione della famiglia stanno modificandosi fortemente, sia lungo l’asse dei rapporti di coppia che lungo quello dei rapporti di generazione”1.

Ma la paradossalità non riguarda soltanto questo tipo di contraddizione, forse spiegabile con l’esistenza di modi diversi o contrapposti di considerare e vivere l’istituzione familiare: la paradossalità pare insita nello stesso processo trasformativo che investe l’istituzione, dove spesso il vecchio e il nuovo convivono intrecciandosi l’un l’altro. Il che fa dire a P. Donati: “Una società altamente complessa come quella occidentale contemporanea ha come tipo “normale” di famiglia un modello culturale tendenzialmente “de-normalizzato”. Si tratta di un paradosso, che richiede soluzioni di tipo “paradossale”.

Marzio Barbagli sintetizza efficacemente questo stato di cose, comune a tutti i Paesi occidentali, sottolineando che, malgrado le differenze di ogni genere esistenti fra tali Paesi, si ha quasi l’impressione che essi si siano accordati, negli ultimi quarant’anni, “per cambiare le regole con le quali le famiglie si formano, si trasformano, si espandono, si dividono e scompaiono […]. In breve, il matrimonio è diventato un rapporto sempre più fragile e instabile e la famiglia coniugale, che su di esso si basa, ha perso a poco a poco di importanza, lasciando spazio ad altri tipi di famiglia”.

La “norma” dunque non è più rappresentata, neppure in Italia, da un nucleo familiare stabile, nel quale la coppia genitoriale sviluppa una sorta di divisione di compiti nel processo di socializzazione primaria dei figli; ma è rappresentata piuttosto da un contesto relazionale fragile in cui il “normale” è diventato “improbabile”, e che richiede perciò di essere considerato e gestito con modalità nuove, in un’ottica che tenga conto della complessità nella quale viviamo.

Le esemplificazioni possibili degli effetti di tale complessità, legati alla cosiddetta “improbabilità del normale”, sono ben note. Diminuiscono sempre più (statisticamente parlando) le probabilità che un bambino nasca e si sviluppi rimanendo stabilmente con i propri genitori naturali, mentre aumentano le probabilità che egli debba affrontare eventi quali la separazione o il divorzio tra i genitori, l’affidamento a uno di essi con possibili cambiamenti successivi, la sostituzione di uno dei genitori con un’altra figura, l’inserimento in un nucleo ricostituito e allargato, e così via.

Diventa “normale” per un adulto avere più di una famiglia, per un giovane rimanere o tornare nella famiglia di origine, per un bambino relazionarsi con due madri o due padri e con fratelli nati da genitori diversi.

Naturalmente tutto questo risulta evidente da un punto di vista socio-demografico, mentre è più difficilmente accettabile dal punto di vista soggettivo e psicologico da parte di chi si dispone a vivere in coppia o a mettere al mondo un bambino. Ma, per fare qualche esempio apparentemente meno “anormale” dei precedenti, pensiamo alle tante situazioni che costringono la famiglia di oggi – strutturalmente già così fragile e isolata – a deformare la propria stessa organizzazione esasperandone i disagi per accogliere o riaccogliere i propri anziani ammalati (problema che in breve tempo raggiungerà livelli intollerabili), i propri membri non autonomi per ragioni diverse, con problemi di handicap o di devianza, i propri stessi figli ormai maturi, reduci da separazioni o divorzi; e capiremo meglio come sia urgente, anziché esaltare comportamenti di “solidarietà” familiare indotti forzatamente dalla disastrosa assenza di efficienti politiche sociali, affrontare la realtà con la piena coscienza di ciò che essa implica in termini di cambiamento di mentalità, di abitudini sociali, di gestione delle relazioni.

Le diffuse resistenze a prender coscienza di una situazione concreta ed estesa, che risulta tanto evidente, non solo dal punto di vista sociodemografico, ma nella nostra stessa esperienza quotidiana, appaiono dovute in gran parte ai residui di quella contrapposizione politica che ha determinato in Italia per molto tempo lo scontro fra “concezioni radicalmente opposte del matrimonio, della famiglia, della procreazione”4. Ma, ancora più profondamente, questa polarità di concezioni e questa difficoltà di presa di coscienza appaiono legate alla resistenza a liberarsi dal mito della a-storicità della famiglia “naturale”, che rimanda a sua volta a quello del legame di sangue, su cui ancora oggi si basa la cultura prevalente dei servizi sociali e delle norme giuridiche5.

Ciò è in parte comprensibile se si pensa che la famiglia, come indicano F. Emiliani e P. Bastianoni, “non si definisce solo mediante uno stato anagrafico, bensì, in modo ben più ampio e deciso, con uno statuto sociale e simbolico” e che la sua astoricità, la sua “arcaica consistenza”, è la stessa che alimenta gli archetipi e i miti, e che risiede nella memoria simbolica dell’umanità6. Ma attorno al mito è inevitabile il formarsi di un involucro protettivo, un argine rassicurante di contro alle minacce di demitizzazione dovute ai cambiamenti storici, i quali tendono inevitabilmente a smantellarlo o anche solo a relativizzarlo, a metterne in questione la pretesa validità universale e assoluta.

Secondo queste autrici, per riuscire a inglobare il cambiamento senza abbattere il mito, l’immaginario collettivo è andato arricchendosi di “immagini fortemente polarizzate: la famiglia rifugio, luogo di affetti, di intimità e archetipo della solidarietà, contrapposta a un’immagine negativa che ne esalta gli aspetti di disuguaglianza, di oppressione, di violenza ed egoismo”7. Accanto a un’immagine di famiglia che esprime solidarietà per i propri membri più deboli, c’è anche quella di una famiglia che li espelle da sé: ma sempre per salvaguardare la “purezza del mito”.

Per rendersi conto delle incredibili remore che agiscono sulla cultura e sulle politiche dei servizi persino quando è in gioco l’integrità (fisica e psichica) del bambino, basta pensare ai pesantissimi intralci che finora hanno incontrato gli interventi attuabili nei casi di violenza esercitata nell’ambito familiare sui figli: perché l’idea della violenza intra-familiare, dell’esistenza di cattivi genitori costituisce per la nostra cultura un contrasto insopportabile con l’immagine di famiglia ideale che ci viene continuamente riproposta.

Credo sia senz’altro accettabile l’ipotesi delle suddette autrici, secondo le quali le “riedizioni del mai sopito mito del legame di sangue” (sfidato oggi in modi imprevedibili anche dalle varie tecnologie procreative) poggiano su certe teorizzazioni contenute nella letteratura psicologica della prima metà del secolo, e riguardanti le prime fasi dello sviluppo infantile, che enfatizzavano l’unicità e insostituibilità del legame con la figura materna e del contesto genitoriale “completo” e “naturale” per la crescita del bambino8. Per cui una cattiva famiglia viene ritenuta sempre e comunque il male minore rispetto a eventuali soluzioni alternative.

Proprio per rimanere nel campo più specificamente psicologico, dopo questa premessa cercherò di mettere in luce le connotazioni attuali della coppia e della famiglia nelle loro implicazioni psicologiche e relazionali, e di sottolineare le modalità, a volte viziate da stereotipi e da “miti” tenacissimi, con cui vengono spesso disinvoltamente liquidati, con giudizi di tipo morale, i problemi connessi ai cambiamenti in corso nella famiglia italiana.

Pertanto, dopo aver preso in considerazione le tipiche dinamiche della coppia (eterosessuale od omosessuale, il che, dal punto di vista della relazione e della comunicazione, non fa differenza), affronterò l’argomento delle relazioni genitori/figli non solo nell’ambito della famiglia nucleare classica, ma anche nelle nuove tipologie (famiglia monoparentale, famiglia omosessuale, famiglia ricostituita). Seguirà una breve conclusione in cui prenderò atto anche dei limiti della mia stessa impostazione, sperando che i contributi degli altri autori riempiano le lacune da me lasciate.

1. La coppia e le sue vicende

Secondo il Primo rapporto sulla famiglia in Italia9, i cambiamenti strutturali non possono da soli giustificare certi aspetti delle trasformazioni della famiglia, che sono invece da ricondursi soprattutto a un mutato quadro di riferimenti valoriali e psicologici di portata sociale. Non vi è dubbio circa la pluricausalità e la costante interazione reciproca dei fattori causali che stanno alla base di qualsiasi tipo di mutamento istituzionale.

Questo rilievo vale anzitutto per quanto riguarda i mutamenti intervenuti nella relazione di coppia e nella sua eventuale decisione di convivenza. In questo caso il mutamento avvenuto, rispetto ad un passato ancora abbastanza prossimo, è stato tale da determinare una “differenza cruciale” rispetto alle precedenti modalità di formazione di un vissuto di coppia e familiare10.

In passato, tutto ciò che riguardava la coppia e il matrimonio era “presidiato da gruppi sociali”, determinato da alleanze fra parentele, soprattutto in riferimento a vantaggi economici; di conseguenza la relazione affettiva tra coniugi poteva esserci o non esserci, avendo solo un valore strumentale. La coppia aveva in genere davanti a sé un sicuro tragitto di vita in comune: infatti, l’inesistenza o il venir meno dell’amore non poteva cambiare i connotati di un’unione non basata su di esso. Alle relazioni d’amore erano destinati spazi clandestini e, in genere, erano vicende che si concludevano drammaticamente, attraverso la rinuncia-sacrificio o la fuga-trasgressione.

Con l’affermarsi del principio secondo cui la persona in quanto tale va rispettata nel suo diritto alla propria autodeterminazione, specialmente per quanto riguarda scelte di vita e rapporti di intimità, la decisione di essere coppia spetta unicamente ai suoi componenti, non ai loro parenti o al loro gruppo sociale, e viene presa soprattutto per motivazioni affettive: la norma fondamentale che presiede alla formazione della coppia è l’amore reciproco dei partners, i quali si scelgono liberamente l’un l’altro. Per questo gli studiosi parlano di una coppia che è “norma a se stessa”: infatti, da questo tipo di scelta deriva un vissuto a due che è fondamentalmente e prioritariamente un vissuto di intimità, di elaborazione “interna” o “intimistica” delle proprie norme e dei propri riferimenti di valore.

La coppia di oggi appare quindi caratterizzata da una spiccata differenza rispetto alla coppia di ieri: essa decide di instaurare una relazione, stabilisce le proprie norme di comportamento, costruisce il proprio progetto, fa riferimento a propri valori, desideri, aspettative. E, soprattutto, il fattore di coesione assunto dalla coppia è dato dalla priorità del “codice affettivo” rispetto all’accordo contrattuale, alla regolazione oggettiva dell’impegno.

Se la coppia è “norma a se stessa”, quel che da questa coppia risulta è, secondo la definizione del Primo rapporto sulla famiglia in Italia, una famiglia “autopoietica”, cioè auto-costruita e auto-costruentesi: e tende a costruirsi appunto come sfera soprattutto intima e privata. Ha quindi ben ragione chi afferma che “la famiglia oggi non è più la famiglia naturale, ma un prodotto culturale complesso e in un certo senso artificiale, creato dalla volontà e dai desideri degli individui”11.

Perciò, se si può dire che la positività di questo tipo di coppia e di famiglia consiste nel riconoscimento dell’importanza delle relazioni affettive, il suo limite sta nel rischio di diventare una sorta di sistema chiuso, che, pur ricevendo informazioni dall’esterno, tende a elaborarle in senso “autoreferenziale”, a proprio uso e consumo, senza la consapevolezza delle funzioni e del significato che essa comunque assume nel sociale: e spesso anzi in un rapporto di ostilità e diffidenza verso quelle forze del sociale che vengono considerate quasi “controparte”.

Ma nella coppia stessa, prima ancora che nella famiglia, sono presenti elementi di potenziale conflitto tra aspetti ideali e aspetti reali di una unione basata soprattutto sul legame affettivo. Si è osservato giustamente che, se oggi esiste una “terapia di coppia”, nata da poco, è proprio perché da poco si sono rivelati pienamente i problemi inerenti a una realtà di coppia connotata come affettivamente bastante a se stessa, auto-normativa e quindi, in un certo senso, “assoluta”.

La prevalenza del codice affettivo, la priorità conferita ad esso, comporta infatti una serie di conseguenze: i bisogni emotivi e affettivi dei partners sono messi a nudo ed enfatizzati, le attese di reciproca empatia e comprensione si fanno altissime, ciascuno dei due si aspetta che l’altro sia in grado di rispondere subito a una serie di esigenze intime, ha fiducia di trovare condivisione di sentimenti, stati d’animo, fantasie, significati.

Sarebbe davvero sbagliato credere che questo “mito” di una perfetta intesa nella coppia sia oggi patrimonio di pochi sprovveduti. In realtà, come è stato notato, “il modello della coppia unita, monolitica, fusa in un unico blocco di desideri, giudizi e volontà è estremamente diffuso anche tra persone colte che esercitano la professione di educatori e di psicologi. Si pensa che solo questo tipo di coppia parentale sia in grado di comunicare ai figli stabilità emotiva e sicurezza. Modello tanto irreale quanto nefasto. Questi duri blocchi monolitici si spezzano violentemente… ”12.

In effetti, una delle più diffuse ragioni di tante rotture di coppia, che intervengono poco dopo l’inizio della vita a due, è proprio la caduta di questo modello irreale, di questo mito, a contatto con la realtà vissuta.

Che cosa succede, in molti di questi casi?

Il partner si rivela diverso da come lo si era immaginato; ma ognuno dei due scopre anche, più o meno consapevolmente, di essere diverso da come immaginava se stesso. Quindi la decisione di vivere insieme appare sbagliata, frutto di errore, di illusione. La coppia che è norma a se stessa può anche decidere, autonomamente, di sciogliersi nelle forme che ritiene praticabili. Tuttavia il processo di separazione, che è sempre lungo e doloroso, anche quando non ci siano figli, anche quando la decisione sia presa consensualmente, mette in luce il profondo gioco di implicazioni in cui entrambi i coniugi sono coinvolti, dovendosi separare non solo dal compagno, ma anche da parti del proprio sé.

Di che tipo di “gioco” si tratta?

Si potrebbe schematizzarlo così: nelle avventure affettive le spinte “fusionali”, cioè i bisogni di intimità e quasi di identificazione con l’altro, devono fare i conti con le spinte “individuative”, cioè con i bisogni di autonomia, di autoaffermazione, precedentemente mortificati (specie nel periodo di più forte innamoramento) dal mito dell’assimilazione reciproca. Il momento della caduta del mito, quindi, è un momento cruciale ma anche potenzialmente salutare, che mette la coppia davanti alla possibilità di scegliere davvero se stessa, non semplicemente attraverso il legame d’amore, ma attraverso un lavoro di “negoziazione” nella realtà quotidiana.

Questo lavoro di negoziazione e di mediazione può in effetti risultare molto difficile, perché ognuno dei due coniugi non è portatore semplicemente delle proprie diversità, ma di un patrimonio di altre diversità legate alla vita vissuta nella famiglia di origine. E questo patrimonio, proprio perché largamente relegato nell’inconscio, esercita una estrema potenza in un contesto conflittuale di coppia.

Un buon aiuto alla comprensione di questo nodo può essere fornito dalla rilettura di analisi ormai classiche, come quelle condotte da R.D. Laing13 sulle dinamiche familiari viste in rapporto al “fantasma” delle famiglie d’origine. La famiglia di cui Laing parla, anzi la Famiglia con la maiuscola (non in quanto ideale, ma in quanto forza inconscia dominante), è la “famiglia interiorizzata”, cioè il contesto familiare di provenienza, di cui ciascuno di noi si porta dentro il “fantasma”, l’immagine inconscia: un’immagine che consiste soprattutto in rapporti, vicende, atteggiamenti delle e con le figure genitoriali, entro quella rete relazionale in cui è nata e si è sviluppata la propria identità. Il fantasma della famiglia d’origine è potentissimo, comunque queste relazioni primarie siano state vissute e qualunque sia l’atteggiamento cosciente assunto in seguito verso di esse.

Ebbene, la neo-coppia costituisce il punto d’incontro di due “fantasmi”, di due storie familiari: l’intreccio plurigenerazionale di cui ciascuno dei partners è portatore diventa il canale che veicola stili di vita, abitudini, riferimenti e atteggiamenti, norme e valori. Nel momento in cui l’amore dà spazio ai bisogni di fusione, che prevalgono sulle esigenze di autonomia, le differenze legate alle diversità delle famiglie d’origine possono sembrare facilmente superabili o armonizzabili; ma quando, a contatto con la realtà effettiva dell’altro nel vissuto quotidiano, i bisogni di individuazione si fanno sempre più imperiosi, tali differenze possono costituire stimolo al conflitto e alla contrapposizione sistematica.

È perciò necessaria una presa di coscienza e una decisa scelta circa la possibilità di iniziare un lavoro quotidiano di negoziazione che insegni poco alla volta a entrambi “come le due persone possono esser coppia”14, quali spazi, distanze, momenti possano rispondere sia ai bisogni di intimità, sia ai bisogni di autonomia personale; come sia possibile educarsi al senso del limite proprio e altrui, accettare la differenza, promuovere sempre nuovo scambio e nuova reciprocità.

Non sempre questo lavoro è possibile, o almeno non sempre può essere affrontato e condotto senza un aiuto specifico, perché ciò dipende anche da come la famiglia d’origine è stata vissuta, dal fatto che se ne sia interiorizzato un “fantasma” costruttivo o distruttivo rispetto alla propria individualità. Il che può risultare già evidente dal tipo di scelta del partner che è stato messo in atto. Infatti, se a partire dalla propria infanzia sono rimasti aperti problemi di dipendenza emotiva, di fragilità nella costruzione dell’identità, la scelta del partner sarà spesso condotta secondo criteri di “somiglianza” o di “contrasto” rispetto all’immagine genitoriale con cui sono stati vissuti i problemi emotivi. Le difficoltà si evidenziano allora, ad esempio, nella sofferenza procurata da sensazioni di perdita ogni volta che l’adattamento reciproco richieda capacità di distanziarsi dall’altro, di auto-determinarsi.

Quando la delusione e i sensi di frustrazione sono reciproci, ciascuno dei partners tende a colpevolizzare l’altro e insieme a sentirsi colpevole, riattivando così quei “fantasmi” originari nei quali ciascuno dei due ha precedentemente vissuto le stesse sensazioni, le stesse ambiguità, lo stesso dibattersi senza vie d’uscita.

Nei casi più gravi, in cui la coppia non riesce a ricuperare una dimensione di realtà e resta prigioniera del circolo chiuso della propria situazione conflittuale, si instaurano a livello di interazione vere e proprie forme di patologia comunicativa, di cui molti studiosi hanno analizzato i modelli tipici: si parla così di “giochi psicotici”, di “legami disperanti”, caratterizzati dal fatto che la coppia non riesce né a separarsi né a negoziare: il suo modo di esser coppia diventa lo scontro quotidiano, che si ripete sempre con le stesse modalità, in una circolarità che la invischia e che si auto-conferma incessantemente. È come se tra i due ci fosse un’alleanza non detta, una sorta di “collusione” che li tiene insieme, inseparabilmente, per distruggersi a vicenda giorno dopo giorno15.

Questa analisi non esaurisce, ovviamente, tutta la complessa casistica delle separazioni di coppia, ma fornisce un buon modello di riferimento per comprendere i meccanismi conflittuali che in ognuno di quei casi, comunque, si esprimono. Le motivazioni di una crisi e di una separazione possono essere diverse, ma la dinamica di fondo dei conflitti presenta una regolarità che è stata efficacemente messa in luce dagli studiosi della comunicazione umana.

Tutte le precedenti considerazioni sono ugualmente valide sia per la coppia eterosessuale, sia per la coppia omosessuale. Anzi, si potrebbe affermare che, quanto al farsi “norma a se stessa”, la coppia omosessuale si dimostri più libera dai conformismi e dagli stereotipi sociali di quanto non sia la coppia eterosessuale, che in qualche modo ne subisce sempre il condizionamento. Quanto alle dinamiche affettive, ai bisogni di fusione e di individuazione, al lavoro costante di confronto e di mediazione che permette la crescita dei partners nel rispetto e nell’amore reciproco, questi sono tutti aspetti ugualmente presenti in ogni tipo di coppia, malgrado le tante differenze (e non solo quelle sessuali!) che possono sussistere tra una coppia e l’altra.

Come sottolinea Giovanni Dall’Orto, “la felicità o infelicità di una coppia non dipende dal fatto che sia eterosessuale od omosessuale, ma dalla capacità e volontà delle/dei partners di risolvere i problemi (per quanto siano di tipo diverso a seconda che si tratti di una coppia “omo” o “etero”) e di volersi bene”16.

Infine possiamo prendere in considerazione brevemente (anche perché le ricerche in proposito sono ancora allo stadio iniziale) la situazione delle nuove coppie i cui componenti, o uno solo di essi, ha alle spalle una separazione o un divorzio.

Secondo M. Barbagli, “chi si risposa porta sulle spalle il gran peso della precedente esperienza coniugale. Così, se da un lato è attratto dall’idea di riprovare a farsi una famiglia, dall’altra vive nell’incubo di fallire ancora. Per scongiurare questo pericolo usa tutta la cautela di cui è capace. Si fa guidare da un’immagine del matrimonio meno romantica e idealizzata di un tempo. Esamina e riesamina con cura tutte le alternative che gli si presentano nella scelta del nuovo partner. Fa tutto il possibile, se ha figli, per convincerli ad accettare il nuovo coniuge. Spesso, prima di risposarsi, convive con questo per un certo periodo di tempo per mettere alla prova la solidità del nuovo rapporto”17. Malgrado ciò, le ricerche condotte finora dimostrerebbero che la fragilità delle seconde nozze è ancora più accentuata di quella delle prime, per una serie di ragioni che riguarderebbero non solo le personalità dei singoli e il peso delle esperienze precedenti, ma anche una più problematica accettazione ed elaborazione sociale dei problemi che queste coppie devono affrontare.

Ciò riguarda in modo particolare le cosiddette “famiglie ricostituite”, risultanti dall’unione di partners precedentemente sposati con altri partners: situazione di cui parleremo più avanti per le sue ripercussioni sulle esperienze dei bambini coinvolti.

Non abbiamo invece preso in considerazione il fenomeno (in aumento anche in Italia) delle “famiglie di fatto” risultanti da coppie che convivono more uxorio, in quanto tale tema interessa più per i suoi aspetti giuridici che per quelli psicologici, i quali rientrano nel quadro qui delineato delle dinamiche della coppia.

2. Genitori e figli

In un’inchiesta condotta in Italia su giovani coppie nel 1988, il 69% riteneva che il numero ideale di figli fosse due, possibilmente maschio e femmina: sembra questo un modello che idealmente propone la replicazione della coppia genitoriale e indica la centralità che essa si assegna come nucleo determinante della nuova famiglia.

In questa nuova famiglia, che, come abbiamo detto, viene definita “auto-referenziata”, “autopoietica”, “autonormativa”, e si connota come sfera affettiva e privata, c’è indubbiamente un’attenzione alla persona e ai suoi bisogni psicologici molto più evidente che in passato, e una interazione più intensa e personalizzata fra genitori e figli. Ma, come vedremo, proprio per la minore ampiezza del suo contesto e per la concentrazione emotiva sui problemi relativi ai figli, le relazioni diventano problematiche, faticose, spesso conflittuali.

Anche qui siamo in presenza di aspetti contrastanti e in una certa misura paradossali. Da un lato l’attenzione alla persona e ai bisogni individuali fa sì che la cura dell’identità, della realizzazione di sé, appaia lo scopo principale anche nel rapporto genitori-figli; dall’altro, proprio questa concentrazione sui bisogni individuali, e quindi sul modo di soddisfarli, comporta rischi notevoli dal punto di vista psicologico e interpersonale. In sintesi si può dire che la centralità del ruolo attribuito ai figli viene a creare un altro “mito” che, nel momento in cui si rivela tale, apre conflitti e disagi o rivela patologie latenti: esattamente come abbiamo visto avvenire per il mito della coppia, in cui il valore del principio di scelta libera e personale veniva a invischiarsi nella vana ricerca di una sfera intimistica e fusionale, incapsulata su se stessa ma destinata a spezzarsi a contatto con la realtà.

Già una trentina di anni fa, una studiosa scriveva: “L’allevamento dei figli è diventato la preoccupazione e l’occupazione principale sia degli uomini che delle donne; rendere i figli felici è diventata una delle cose più importanti; dare ai figli ciò che i genitori non hanno mai avuto è diventata una necessità; la crescita, lo sviluppo e i successi dei figli costituiscono ormai per i genitori uno dei modi principali per trovare una convalida del proprio valore personale; l’atteggiamento dei figli verso i genitori può ormai in larga misura contribuire a costruire o a distruggere i loro sentimenti di autostima”18.

In queste brevi frasi mi sembra sia ben espresso quello che è tuttora il disorientamento di moltissimi genitori rispetto a quel tipo di rapporto con i figli che è chiamato “relazione educativa”. In particolare possiamo chiederci come mai in un contesto familiare come quello attuale, dove il valore delle persone è posto al centro e dove i figli fin dalla nascita vengono considerati persone, il disagio (sia dei figli che dei genitori, e quindi delle relazioni che li riguardano) sia così diffuso.

Secondo P. Di Nicola è avvenuto questo: la famiglia è diventata il centro focale di riferimento per l’identità dei singoli, il rapporto genitori-figli si è affinato soprattutto dal punto di vista della comunicazione (si parla molto di più, si comunicano i propri bisogni, si esprimono le motivazioni, i desideri e s’incoraggiano i figli a farlo offrendo loro il modello di come “ci si parla”). Ma si è sempre meno capaci di fornire anche modelli normativi di comportamento: ossia c’è stato – in reazione ai precedenti tipi di educazione autoritaria – un vero e proprio “ribaltamento del modello normativo in un modello comunicazionale”. Così l’educazione dei figli viene a impostarsi essenzialmente sull’asse di un’etica dell’autorealizzazione, a spese di un’etica della responsabilizzazione19.

Il vuoto normativo in cui il figlio è lasciato – vuoto che in genere è accompagnato dalla soddisfazione di ogni bisogno materiale – viene così occupato in maniera pervasiva e anonima dai messaggi dei mass media, o da quelli del gruppo dei coetanei, o da altre presenze sociali, in genere non congruenti con i messaggi impliciti che la famiglia trasmette.

Questa diagnosi risulta abbastanza convincente, se pensiamo a come tuttora il fattore “responsabilità” venga frainteso nel rapporto genitori-figli e tradotto spesso in termini di “desiderio” piuttosto che di “impegno”. E questo, fin da quando il figlio non è ancora stato concepito: basta pensare a quanto spesso il concetto di maternità e paternità “responsabile” significhi, per la maggior parte delle persone, che un figlio deve essere desiderato e non concepito per caso. Ciò equivale a far coincidere responsabilità e desiderio (e ad avallare l’idea distorta che un figlio non desiderato sia poi un figlio poco amato e quindi infelice). Ma il concetto di responsabilità è, per sua natura, relazionale; per cui, parlare di maternità e paternità responsabili significa proporsi di assumere (anche verso la società) l’impegno di un lungo percorso di accompagnamento rispetto al figlio (sia esso stato “programmato” o no). Si apre allora l’avvio a un lavoro quotidiano quale è quello richiesto da un’esperienza di relazione particolarmente intensa: lavoro che viene a intrecciarsi con l’altro, di mediazioni reciproche e di costruzione del “noi” nell’ambito della coppia.

La conclusione che gli studiosi traggono dall’analisi di cui sopra è la seguente: si determina una situazione paradossale per cui il figlio, che è diventato affare privato della coppia, costituisce insieme il massimo investimento affettivo e valoriale e la massima fonte di difficoltà per la coppia. Da un lato, la famiglia si pone come contesto di riferimento per la crescita dell’identità personale dei figli; dall’altro, diventa essa stessa una fonte di disagio psicologico per tutti i suoi componenti.

Questo “disagio intra-familiare” appare in aumento: crescono le patologie relazionali, le crisi di identità, i casi di disadattamento, di disordini psicosomatici (anoressia e bulimia), fino ai suicidi di adolescenti e di preadolescenti. Non bisogna però dimenticare che la famiglia di oggi si trova inserita in un contesto sociale caratterizzato da quella che U. Bronfenbrenner definisce una “ecologia degradata”20, e che i suoi modi di gestire la complessità di una relazione educativa sono pesantemente condizionati da un tipo di cultura e di organizzazione collettiva che privilegia valori di riuscita, di benessere, di protagonismo raggiunto attraverso il possesso e il successo, prospettandoli come elementi costitutivi dell’autorealizzazione, e conferme di un valore intrinseco alla persona.

Fra i più recenti e significativi contributi su questo tema, citiamo quello di A. C. Moro21, il quale, parlando dei rischi sociali che minacciano oggi il processo di costruzione dell’identità nel bambino e nell’adolescente, li vede personificati in una società di adulti “deresponsabilizzati”, divenuti incapaci – a livello sia individuale, sia collettivo – di “incarnare” un codice di valori responsabilizzanti: mentre il modello prevalente è quello fornito da “culture negative”, basate sul primato dell’efficienza, del consumo, della novità, del diritto, dell’occasione da sfruttare, dell’omologazione al gruppo, del ricorso a meccanismi di delega, con il risultato di una “infantilizzazione” generale. E una società di adulti deresponsabilizzati è una società rischiosa per chi si affaccia alla vita: anche se il rischio, in se stesso, può essere uno strumento fondamentale di crescita, quando venga affrontato con adeguate risorse, rese possibili se ci s’impegna a sviluppare, a livello individuale e collettivo, una nuova e autentica “pedagogia del rischio”.

3. La famiglia “monoparentale”

Come si è visto, anche nella famiglia considerata “normale” il disagio può essere di casa. Esso anzi è uno di quegli ospiti che dal regno dell’improbabilità in cui sembrano confinati hanno ricevuto il passaporto per accedere a quello della probabilità entro il contesto familiare normale. Ci si domanda allora in nome di quale presunta superiorità i fautori di tale contesto rivolgano oggi pesanti critiche e segnali d’allarme nei confronti dell’affermarsi di altri tipi di famiglie, come quelle che risultano da separazioni, divorzi, seconde nozze, o da convivenze di un singolo genitore con i figli, o ancora da convivenze di persone omosessuali con figli avuti da precedenti unioni eterosessuali.

Giustamente Emiliani e Bastianoni osservano che già l’uso dei termini cui si ricorre per indicare questi nuclei rivela quanto sia potente la persistenza del mito della famiglia “naturale” come unico quadro di riferimento: “È così che un genitore senza partner non può che offrire ai propri figli una “famiglia incompleta o spezzata”, chi si sposa dopo un precedente matrimonio può dare avvio soltanto ad una “famiglia ricostruita” e persone legate da rapporti affettivi non sanciti da vincoli matrimoniali rimangono per sempre, agli occhi della gente, “famiglie di fatto””22.

Cominciamo dunque a parlare della famiglia chiamata “monoparentale”, sottolineando che, secondo E. Scabini23, l’espressione usata per indicare questo tipo di famiglia sarebbe adeguata solo per i casi di genitori vedovi; negli altri casi, successivi a un’unione matrimoniale o no, l’altro genitore esiste, ma viene virtualmente cancellato: tanto che si parla anche di famiglie “a genitore unico”, per indicare il nucleo formato dal genitore affidatario e dal figlio dopo un divorzio.

Questa osservazione è importante perché mette in luce un altro limite: quello per cui nelle ricerche che riguardano il nucleo familiare, e specialmente quello “ridotto”, prevale ancora una vecchia impostazione, che non tiene conto della complessità delle relazioni che attraversano la diade costituita da genitore (di solito madre) e bambino: relazioni interfamiliari oltre che intrafamiliari, presenze a volte molto significative che influiscono comunque sulla relazione di cura del figlio. “L’approccio predominante è ancora quello più squisitamente individuale o duale, nel quale la tentazione più ricorrente è quella di sacrificare la varietà dei significati dell’esperienza ad un rigido e riduttivo schematismo e a collegare, secondo schemi unicausali, determinati atteggiamenti materni e paterni ai comportamenti dei figli, annullando la portata conoscitiva dei processi interattivi e relazionali. L’esito di tutto ciò è la predominanza degli studi che affrontano il problema dando rilievo ad uno solo dei personaggi (in questo caso è soprattutto il bambino, come risulta dalla mole di studi sugli effetti della separazione sul figlio), oppure sulla diade genitore-bambino (in primis: madre-bambino, poi padre-bambino)”24.

Nel caso del nucleo costituito dal genitore affidatario e dal figlio (o dai figli), non è possibile considerarlo un nucleo “monoparentale” giacché l’altro genitore esiste, anche se non è convivente; esiste soprattutto in quei casi, purtroppo per ora abbastanza rari, ma in aumento, nei quali la divisione tra coniugi si accompagna con interventi di “mediazione familiare”, la cui finalità è quella di aiutarli ad essere, entrambi, “genitori ancora” malgrado la separazione della coppia25. E può d’altra parte esistere, in maniera negativa ma non per questo meno influente, nei casi opposti in cui, dopo la separazione, i genitori continuano, magari attraverso la persona stessa del bambino, a inviarsi segnali di conflitto, minacce, rivalse.

La presenza, attorno alla famiglia “monoparentale”, di reti di relazioni amicali con funzione di sostegno e di accompagnamento, è confermata anche per quel tipo di nucleo in cui uno dei genitori (generalmente la madre) decida o accetti di vivere col figlio, senza intrattenere una convivenza con il partner, a volte aggregandosi ad una persona amica, altre volte restando “sola”. E a questo proposito veniamo alla questione cruciale: il fatto di avere un solo genitore in “servizio permanente effettivo” è davvero una condizione “a rischio” per il bambino?

Giustamente A. Oliverio Ferraris sostiene che “lo svantaggio diventa reale soltanto quando a questa condizione se ne uniscono altre, come l’isolamento dal contesto sociale e dalle altre famiglie, oppure uno stato di conflittualità permanente o dei problemi economici”, e che “le famiglie monoparentali non sono di per sé a rischio, ma lo diventano quando sono ripiegate su se stesse e isolate”26. E aggiunge opportunamente che anche le famiglie allargate e patriarcali possono essere separate dalla società, seguire norme proprie, antagoniste rispetto a quelle pubbliche (e fa l’esempio delle famiglie mafiose…).

A livello psicologico, molte volte le difficoltà delle madri sole (anche di quelle rimaste sole per vedovanza) si possono ricondurre alla tenacia dello stereotipo interiorizzato secondo il quale lo sviluppo armonico della personalità infantile sarebbe condizionato dalla presenza delle due figure di riferimento, materna e paterna. Come vedremo tra poco parlando delle famiglie omosessuali, sul terreno scientifico questa ipotesi è oggi generalmente abbandonata, ma sopravvive tenacemente nel mito e nella concezione di una personalità che può strutturarsi solo attraverso il forte attaccamento alle figure genitoriali. Per rendersi conto della persistenza di tale mito, basta ricordare le enormi diffidenze e difficoltà che hanno caratterizzato in Italia il sorgere dei primi asili-nido, visti come luoghi di abbandono affettivo e assimilati nientemeno che alle famigerate “istituzioni totali”. Questo mito, infatti, agisce negativamente, col peso di un giudizio di valore, sia nei confronti di un nucleo familiare “incompleto”, sia, all’opposto, nei confronti di contesti di educazione extra-familiari collettivi; e spesso assume il peso di una diagnosi di buona o cattiva salute mentale.

La madre sola è spesso angustiata dalle valutazioni che percepisce attorno a sé, dai sensi di colpa per aver violato il mito della coppia genitoriale, ma viceversa può oggi contare su reti amicali, femminili e maschili, su servizi come gli asili-nido, e oggi anche su servizi alternativi al nido, che offrono momenti di socializzazione, di confronto e di sostegno con altri adulti e altri bambini.

Ma certo tutto questo fa a pugni con la concezione di una famiglia e di una “casa” come contesto gelosamente chiuso su se stesso e auto-sufficiente; una casa di questo tipo, anche se in essa vivono una coppia di genitori e un bambino, con tutte le carte in regola, è destinata a incapsularsi su se stessa e a diventare un nucleo patogeno per tutti i suoi componenti.

4. La famiglia omosessuale

Sappiamo bene quanto sia diffusa, non solo tra la gente comune, ma anche tra professionisti dell’educazione, l’idea che un bambino allevato da una coppia omosessuale non possa avere uno sviluppo equilibrato della personalità, e soprattutto non possa maturare un’adeguata identità sessuale, o meglio “di genere”, intendendosi per “identità di genere” la percezione e categorizzazione di sé come maschio o come femmina, e l’interiorizzazione di essa fino ad acquisire un orientamento psicosessuale e un comportamento di ruolo corrispondenti alle aspettative sociali circostanti.

Su questo argomento Monica Bonaccorso, autrice del primo saggio-ricerca italiano sulla famiglia omosessuale, afferma: “Una delle più significative ipotesi che muove la ricerca è che l’omosessualità genitoriale non interferisca nello sviluppo dell’identità di genere, dell’identità sessuale e del successivo orientamento sessuale del bambino. Gli studi dimostrano che l’eventuale omosessualità dei figli non dipende dal comportamento sessuale dei genitori ma da fattori di natura diversa, semmai più legati alla relazione. Ciò in nome del fatto che non si verificano sostanziali differenze nell’incidenza dell’omosessualità nei figli di genitori omosessuali e nei figli di genitori eterosessuali”.

Per quanto riguarda l’equilibrio psicologico del bambino in senso più generale, vengono riportati anche i risultati di ricerche condotte in altri Paesi (Gran Bretagna e Stati Uniti), secondo cui “un bambino il cui genitore è omosessuale non ha più probabilità di avere problemi emotivi di quanti non ne abbia un bambino il cui genitore è eterosessuale; e non ha più probabilità di adottare un comportamento sessuale anomalo o di diventare a propria volta omosessuale, di quante non ne abbia un bambino allevato in circostanze assolutamente convenzionali”29.

Queste naturalmente non sono asserzioni gratuite, ma conclusioni risultanti da ricerche comparate condotte con rigore scientifico rispetto a tematiche come la qualità della maternità e paternità omosessuali, lo sviluppo sessuale, psicologico e sociale dei bambini allevati da un single o da una coppia omosessuale, nel confronto con le stesse problematiche affrontate da genitori eterosessuali.

Ne emergono dati molto interessanti che sconvolgono alcuni stereotipi diffusissimi: ad esempio quello secondo cui, nella coppia omosessuale, soprattutto lesbica, sarebbe inevitabile una ripartizione di ruoli fissa, secondo l’ottica eterosessuale: una delle donne sarebbe cioè costretta a “fare l’uomo”, anche nei confronti del bambino da allevare. Al contrario, “i ricercatori non hanno evidenziato nel nucleo familiare lesbico alcun tentativo di riprodurre lo stereotipo eterosessuale dei ruoli: le responsabilità nella coppia lesbica sembrano essere suddivise in base al tempo a disposizione e all’intima predisposizione di una madre o dell’altra alla cura dei figli”30.

I risultati di queste ricerche contribuiscono indubbiamente a contestare gran parte delle obiezioni che oggi vengono mosse alla possibilità di adozioni di minori da parte di adulti omosessuali, in coppia o singoli. In realtà, come nota G. Dall’Orto, “l’adozione omosessuale fa paura perché pone domande importantissime: cosa fa di un genitore un buon genitore? E chi è un buon genitore?… Il genitore omosessuale propone infatti una definizione di genitore che è “buono” non per la sua tendenza sessuale, ma per il suo comportamento. Che chiede insomma di essere giudicato per quello che fa, non per quello che è”31.

Possiamo aggiungere che, mentre le obiezioni e le paure che vengono espresse nei confronti della famiglia omosessuale si richiamano a vecchie teorizzazioni che fanno capo al mito della famiglia “naturale” attraverso assunzioni e rielaborazioni della teoria iniziale di Bowlby32, disponiamo oggi di radicali revisioni di tali modelli teorici da parte dei più validi e noti studiosi dello sviluppo infantile. Ne cito due che, pur essendo di matrice culturale diversa, esprimono lo stesso tipo di valutazione su ciò che fa del genitore un buon genitore, e su ciò di cui il bambino ha realmente bisogno.

R. Schaffer, nel suo Mothering (1977), parlando della formazione del legame di attaccamento nel bambino, sostiene (e il corsivo è suo) che “non è necessario che la madre sia la madre biologica; lo può essere qualsiasi persona, indipendentemente dal sesso a cui appartiene. La capacità di allevare un bambino, di amarlo, di averne cura è principalmente una questione di personalità”33.

U. Bronfenbrenner, in una comunicazione tenuta al Congresso internazionale di Ancona per gli educatori della prima infanzia (1986), dopo aver sottolineato che il bambino ha bisogno, non solo di una figura di attaccamento (anzi, egli dice: “di un essere umano con cui egli abbia una relazione emozionale”), ma anche di un’altra figura “che dia supporto, appoggio… risalto alla persona che interagisce col bambino”, aggiunge: “È utile, ma non assolutamente necessario, che questa persona sia di sesso diverso dalla prima”34.

Va dunque chiarito che l’opposizione preconcetta alla famiglia omosessuale e alla possibilità per il bambino di crescere felicemente con uno o due adulti omosessuali non è supportata da alcuna teorizzazione valida sullo sviluppo infantile, ma solo dal disagio in cui ci pone il contrasto troppo sconvolgente di questa immagine di famiglia con quella cui siamo abituati e con lo stereotipo dominante, che non è se non una riedizione del tenacissimo mito della “naturalità” sovrapposto a quelle che sono comunque e sempre costruzioni culturali.

Possiamo ancora aggiungere che, secondo gli studi più recenti sullo sviluppo dell’identità sessuale e di genere, sono ormai abbandonate sia l’ipotesi psicoanalitica classica, sia l’ipotesi comportamentistica, che in modi diversi consideravano fondamentale il ruolo dell’adulto nel processo di acquisizione dell’identità sessuale da parte del bambino. Le più recenti teorie (interattivo-cognitiviste) privilegiano invece il ruolo svolto dall’interazione coi coetanei e dalla maturazione dei processi mentali infantili, come dinamismi congiunti che conducono il bambino a categorizzarsi come maschio o femmina e ad acquisire i comportamenti “di ruolo” corrispondenti a tale categorizzazione nell’ambito della cultura di appartenenza.

5. La famiglia “ricostituita”

L’uso delle virgolette che racchiudono il termine “ricostituita” in ogni trattazione su questo tipo di famiglia, mette in luce la difficoltà di attribuire una caratterizzazione soddisfacente a un fenomeno nuovo e complesso, che è stato indicato persino come “la creazione di un nuovo paradigma”.

La famiglia ricostituita è quel nucleo in cui almeno uno dei coniugi, con o senza figli, è al suo secondo matrimonio. Si tratta quindi di un tipo di famiglia che strutturalmente può essere più o meno complesso, e che raggiunge la massima complessità quando entrambi i coniugi hanno alle spalle precedenti matrimoni con figli, e mettono al mondo altri figli nati dalla nuova unione. I rapporti di parentela diventano allora molto intricati, e molto diversi da quelli della famiglia nucleare tradizionale.

Le secondo nozze non sono, ovviamente, un nuovo paradigma. Ma in passato esse si verificavano solo dopo la morte di uno dei coniugi, e non comportavano particolari complicazioni in quanto il nuovo coniuge veniva a sostituire quello deceduto: la struttura del nucleo familiare rimaneva fondamentalmente invariata.

Il fenomeno delle famiglie ricostituite, molto alto negli Stati Uniti e notevole negli Stati Nord-europei, è assai più contenuto in Italia, ma gli studiosi osservano che esso è indubbiamente destinato a crescere. Inoltre va tenuto conto del fatto che vi sono molte famiglie ricostituite senza che avvenga un nuovo matrimonio, ma attraverso una convivenza more uxorio.

Già si è detto, in un precedente capitolo, che le famiglie ricostituite appaiono caratterizzate da una certa fragilità. Secondo M. Barbagli, che in Italia è stato fra i primi ad occuparsi di questo fenomeno37, la causa principale di questa fragilità sarebbe la mancata “istituzionalizzazione” di tale modello familiare: non esistono ruoli ben definiti, regole collaudate, soluzioni già sperimentate per risolvere gli inediti problemi che queste unioni comportano; inoltre le norme giuridiche esistenti hanno come unico modello di riferimento quello della famiglia di prime nozze. Tutto ciò comporta una serie di incertezze, non puramente psicologiche, ma anche comportamentali: ad esempio per quanto riguarda il ruolo genitoriale del nuovo marito, che non può sostituirsi in nessuna mansione al padre naturale, neppure quando quest’ultimo sia uscito completamente dalla vita dei figli.

Ma vediamo quale possa essere la situazione relazionale e psicologica nella famiglia ricostituita e specialmente in quella a struttura complessa.

Si può dire che i ricercatori prospettino facce diverse di questa situazione, che sembra essere presentata da un lato come potenzialmente confusiva e angosciante, soprattutto per i bambini, dall’altro potenzialmente arricchente dal punto di vista affettivo e adattativo. Ciò non può meravigliare, trattandosi appunto di un contesto nuovo, che è insieme indice di adeguamento alla società complessa in cui viviamo, ma i cui processi di trasformazione, come è stato osservato, implicano sempre alti costi umani.

Questi costi umani sono testimoniati anche dai ricordi di Benjamin Spock, il famoso pediatra ed educatore americano, che si è trovato a vivere personalmente la situazione della famiglia ricostituita e che racconta le grandi difficoltà connesse con la sua posizione di padre “acquisito”.

Barbagli sottolinea che, se già il divorzio mette in crisi l’identità e il senso di appartenenza delle persone, e soprattutto dei figli, questo stato di confusione aumenta quando i genitori si risposano: viene così a decrescere il grado di sicurezza e integrità che i bambini provano nei confronti dei rischi e delle minacce che il mondo esterno comporta. Nella famiglia ricostituita non esistono infatti quegli argini (di tipo spaziale, psicologico, giuridico) che fanno della “casa” dei genitori una fonte di protezione sicura: non tutti i membri vivono sempre nella stessa casa, i punti di riferimento si moltiplicano, diviene incerta la stessa fonte di autorità, dal punto di vista psicologico come da quello giuridico.

Questa visione piuttosto drammatica del vissuto infantile nella famiglia ricostituita è però giustificata solo in una parte dei casi: quelli in cui, ad esempio, la separazione tra i genitori sia stata condotta con modalità conflittuali, l’affidamento dei figli sia stato deciso senza porre al centro i bisogni del bambino, la nuova famiglia non sia capace di dare priorità a questi stessi bisogni e non offra sufficienti garanzie di sostegno rispetto ai rischi di confusione che possono sconvolgere la mappa dei riferimenti affettivi del figlio.

Fondamentalmente diversa è la presentazione delle valenze della famiglia ricostituita da parte di Donata Francescato, nota ricercatrice esperta di “psicologia di comunità”, la quale preferisce indicare le famiglie ricostituite con l’appellativo di famiglie “aperte”. In che consiste questa apertura? Nel fatto che la loro struttura comporta la presenza di una rete di rapporti la quale, in modo inedito e originale, armonizza passato e futuro: da un lato cioè si riallaccia all’esperienza delle famiglie estese tradizionali, dall’altro appare proiettata verso forme nuove di “comuni familiari”.

Per la Francescato, che ha condotto una ricerca-pilota su cinquanta famiglie ricostituite italiane, il termine “ricostituita” ha una connotazione negativa (tende in effetti a svalutare la nuova esperienza coniugale rispetto alla precedente, che non aveva bisogno di aggettivi). Le due caratteristiche principali di questa famiglia sono: il riferimento a più di una casa, e il fatto che in ogni casa convivono persone che hanno stili di vita, modelli di comportamento, valori di riferimento diversi, dovuti – per quanto riguarda i coniugi – non solo alle famiglie di origine, ma anche alle esperienze coniugali precedenti. Queste differenze possono certamente condurre a conflitti e scontri, ma possono anche promuovere un’integrazione in positivo, insegnare la tolleranza reciproca e determinare la gestione dei conflitti in senso costruttivo.

Un esempio del potenziale positivo contenuto in un contesto così eterogeneo è fornito dalla Francescato per quanto riguarda la vita emotivo-affettiva e sessuale dei bambini. I membri della famiglia “aperta” sperimentano una più vasta gamma di sentimenti rispetto ai componenti della famiglia nucleare classica, devono imparare ad affrontare il cambiamento e i rischi connessi, sviluppano maturità e flessibilità; la vita sessuale non viene tenuta segreta, ma ha più occasioni per essere oggetto di discorso e di confronto. Insomma, la famiglia aperta diventa un vero e proprio “laboratorio di crescita emotiva”.

Anche le Kitzinger42 sottolineano la presenza di questo effetto maturativo, quando affermano che, all’interno degli intricati rapporti di famiglia esistenti in questi contesti, i bambini si allenano alla “negoziazione”, specie se sono esposti a buoni modelli; “… i figli vengono a conoscenza delle varie gamme del comportamento umano all’interno del nucleo familiare imparando come poter esercitare la propria influenza. Ed è probabile che imparino tutto questo molto più rapidamente, anche se in modo più sofferto e doloroso, in una famiglia “complicata” e dove i rapporti sono più intricati, che in un nucleo familiare semplice, nel quale i genitori condividono gli stessi valori e cercano di andare sempre d’accordo”.

Come sempre, è a partire dalla qualità delle relazioni, e non dalla struttura del contesto, che si può tentare una valutazione circa gli aspetti positivi o negativi della famiglia ricostituita o aperta. Ma è anche necessario liberarsi da alcuni pregiudizi, riguardanti le condizioni generalmente considerate rischiose per lo sviluppo infantile.

Tali pregiudizi si esprimono nella convinzione che sia dannoso per il bambino, e soprattutto per il bambino piccolo, vivere in un contesto che comporti riferimenti affettivi plurimi, che lo esponga a una diversità di opinioni, di fedi, di orientamento e stili di vita, che implichi variazioni e dislocazioni ritenute dannose per il formarsi di un senso di sicurezza derivante da stabilità e ripetitività di abitudini.

Si può obiettare a tutto questo che, fin da età molto precoci, il bambino appare felicemente disposto a sviluppare legami di attaccamento con più di una persona, e non dimostra affatto di avere un bisogno innato di attaccamento esclusivo che contrasti con l’investimento su molte figure44. In seguito, il trovarsi esposto a una varietà di convinzioni e di opinioni è un salutare antidoto a quell’educazione di tipo dogmatico, tuttora assai diffusa, che consiste nel far credere al bambino che le persone che si occupano di lui formano un blocco monolitico di credenze, ritenute naturalmente giuste e inconfutabili. In questo modo si blocca nel bambino lo sviluppo dello spirito critico e il gusto della ricerca autonoma dei significati dell’esperienza. Una disparità di vedute tra genitori nuoce al bambino solo se conduce allo scontro e alla contrapposizione tra vincenti e perdenti; non se conduce alla discussione e al confronto. Anche in questi casi, dunque, è la qualità delle relazioni e delle comunicazioni che determina il risultato.

Infine, per quanto riguarda lo sviluppo del senso di sicurezza e di stabilità, possiamo dire che esso non è affidato tanto alla semplicità e immobilità delle situazioni, quanto piuttosto alla possibilità che anche in un contesto complesso venga creato un “sistema regolare”, qualunque esso sia, tenendo conto degli impegni degli adulti: “se c’è una situazione di base a cui si ritorna, egli [il bambino] può anche tollerare alcune deviazioni dalla regolarità: l’aspetto chiave è la regolarità del sistema” nel suo complesso.

Riteniamo che lo sforzo di costruire questo “sistema” regolare sia un buon compito per la famiglia ricostituita a struttura complessa, tale da avviarla a non dimenticare la centralità del bambino nella rete di rapporti che la caratterizzano.

Conclusione

Al termine di questa breve rassegna, riguardante soprattutto le vicende psicologiche che caratterizzano il vissuto di coppia e di famiglia in un momento di rapida trasformazione come l’attuale, ci rendiamo conto che la scelta di parlare dei nuovi modelli di famiglia, nella sua apparente ampiezza, è invece basata su di un criterio limitante: non ci ha permesso, ad esempio, di parlare delle famiglie a rischio, delle famiglie marginali, delle famiglie difficili, indipendentemente dal fatto che esse rientrino o meno in qualcuno di tali modelli. In sostanza ha limitato il nostro discorso a una serie di considerazioni psicologiche non sempre sostenute dal raccordo con una prospettiva sociale più ampia e determinante, con la quale esse vanno inevitabilmente a intrecciarsi.

Lo scopo di queste pagine è stato soprattutto quello di mettere in luce come ciò che fonda la validità – o il “valore” – di un nucleo familiare non sia il suo modello strutturale o la sua supposta “naturalità”, ma esclusivamente la qualità delle relazioni tra le persone che lo compongono.

A questo fine si è cercato di condurre il discorso su due binari: da un lato rivelando il carattere mitico e illusorio dei presupposti sottostanti alla diffusa fede in una famiglia che per la sua stessa fisionomia tradizionale garantirebbe salute morale e benessere psicologico ai suoi membri; dall’altro ponendo in luce le risorse presenti in ognuno dei nuovi modelli di famiglia, che non vanno temuti come virtuali distruttori della famiglia naturale, ma anzi visti come possibili fonti di apprendimento delle risorse affettive e relazionali insite in qualsiasi tipo di aggregazione umana.

Abbiamo anche cercato, parlando della situazione dei bambini, di riferirci, molto sinteticamente, alle ricerche condotte dalla psicologia scientifica negli ultimi trent’anni; ricerche i cui risultati hanno contribuito a eliminare o a capovolgere molti dei luoghi comuni e degli stereotipi riguardanti il processo di sviluppo della personalità infantile. Gli esiti di tali ricerche, le nuove prospettive che esse aprono, costituiscono la sfida più significativa e promettente a quei pregiudizi che con tenacia mai sopita ricompaiono ogni qualvolta si tratti di negare cambiamenti, erigere difese, arroccarsi nei miti più arcaici, fingendo che la storia possa e debba rispettare, unica eccezione, la sacralità della famiglia naturale.

Come è stato giustamente rilevato, le inevitabili trasformazioni della famiglia nel corso del tempo vengono di fatto negate: e tanto più sofferte proprio in quanto non accettate. “La famiglia viene pensata come una struttura statica, rigida, senza cambiamenti: invece cambiamenti strutturali profondi caratterizzano la storia di ogni famiglia… Vengono ignorate le fasi di sviluppo dove non solo il soggetto muta, ma muta il gruppo familiare nel suo complesso… È il gruppo, non l’individuo, il protagonista della vita familiare”46.

Il che significa che veri protagonisti della storia di ogni famiglia sono i rapporti che in essa si costituiscono: rapporti che si possono considerare la vera chiave interpretativa del significato e valore di ogni nucleo aggregativo umano.Volti nuovi della famiglia – tra libertà e responsabilità.

  • Aggiornato il 11 Giugno 2015

Lessico Famigliare su RaiPlay

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La madre, il padre, il figlio, la scuola. Sono gli archetipi su cui si fonda la nostra società. Massimo Recalcati racconta questi ruoli esponendo tesi e suggestioni proprie della psicoanalisi, punteggiate e arricchite da interviste, contributi filmati, letture di testi, citazioni cinematografiche.

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