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Regole da genitori

Eccesso di disponibilità e di protezione, rifiuto dei conflitti: Daniele Novara, pedagogista, spiega come sia necessario ristabilire dei metodi educativi chiari. L’infanzia non può essere considerata una malattia“. Se non fate dormire il pomeriggio vostro figlio di tre anni perché lui non vuole, se a dieci è libero di venire nel lettone, se a dodici vi chiama al telefono in qualsiasi momento per chiedervi dove sei, cosa fai, quando torni. Se può entrare in bagno mentre ci siete voi, qualunque cosa stiate facendo in bagno, allora questo articolo vi riguarda.

Vi riguarda anche se vostro figlio non ha (non ha ancora, non avrà mai) una diagnosi medica di disturbo specifico dell’apprendimento, Dsa, o una certificazione di bisogno educativo speciale, Bes, sigle che nella scuola dell’infanzia e primaria sono di uso comune poiché un bambino su quattro (uno su quattro) in una classe elementare italiana presenta diagnosi certificate di malattie di natura neuropsichiatrica.

Negli ultimi dieci anni mentre gli alunni diminuivano, in cifre assolute, sono raddoppiate le certificazioni di disabilità e triplicate in quattro anni le diagnosi di disturbo dell’apprendimento. Esempi tratti da reali diagnosi: “il bambino ha un tono dell’umore fluttuante“, “ha un’autostima ipertrofica con senso di grandiosità“, “è fortemente attratto dai rumori dai quali si lascia distrarre“, “fatica a restare fermo“.

«L’infanzia è diventata una malattia», dice il professor Daniele Novara che per due ore desolato e appassionato si accalora a spiegarmi che i bambini non sono malati – non tutti almeno – alcuni sì, purtroppo, ma certamente non uno su quattro. Che i bambini nascono in questo mondo e tre sono le “agenzie formative” che agiscono sulla loro educazione: i genitori, la scuola e — attraverso gli adulti – il mercato. Bisogna restituire ai genitori e agli insegnanti il loro potere, non darlo ai neuropsichiatri. Ed è qui, quando inizia a parlare del «tragico mito del dialogo», dell’illusione che «gli adulti possano determinare il benessere dei figli con la disponibilità ossessiva» che la conversazione si fa interessantissima. Daniele Novara è un pedagogista, fondatore del Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti. Ha scritto molti libri, l’ultimo con Silvia Calvi si intitola L’essenziale per crescere. Educare senza il superfluo, Mondadori.
Fornisce alle famiglie circa cinquecento consulenze all’anno. L’8 aprile coordinerà a Milano l’incontro “Curare con l’educazione. Come evitare l’eccesso di medicalizzazione nella crescita emotiva e cognitiva” (Teatro Carcano, corso di Porta Romana 63, dalle 9.30). Le sue sono tesi possono dividere ma su di esse vale la pena riflettere.

Partiamo dal “mito del dialogo”, professore. «Sì. Il tragico mito del dialogo ha prodotto l’idea che educare i figli sia parlare con loro. È cresciuta una generazione di genitori che anziché decidere per il figlio decidono con lui, rinunciando al rischio della scelta e alla fatica del diniego. Genitori per i quali è inconcepibile procurare un dispiacere ai propri figli. Ma questo è un bisogno narcisistico dell’adulto: ai bambini ciò che serve per crescere è la verità del conflitto, non la saturazione apparente della sua assenza. Li inganniamo, così: non li mettiamo in condizione di affrontare la vita che presto, senza la protezione del genitore, li troverà deboli. L’iper-attenzione verso i comportamenti dei figli presume che il controllo e la soddisfazione dei loro bisogni produca il loro benessere. Un danno enorme. Il registro di conversazione, in famiglia, ha assorbito quello educativo».

Facciamo qualche esempio? «Il bambino che a tre anni non fa il pisolino il pomeriggio perché “non vuole”. Ha detto di no, il genitore non obbliga, per carità. Ma perdere il sonno – dodici ore, a quell’età – incide sulla maturazione neurocognitiva. Dormire non serve solo a riposare le membra. Serve a eliminare l’eccesso di neuroconnessioni. Il bambino che non dorme il pomeriggio potrebbe soffrire di mancanza di concentrazione, distrazione, comportamento aggressivo, instabilità elevata».

Più avanti nel tempo, ecco «il padre che deve a tutti i costi giocare col figlio, rileggergli i compiti e correggerli, che anziché dargli una paghetta che il bambino deve imparare a gestire funziona da bancomat. Sa che i bimbi italiani hanno la più alta disponibilità economica di tutta l’area Ocse? E ancora: il bambino è libero di invadere lo spazio degli adulti in ogni momento: questo genera in lui una sensazione grandiosa di sovranità. Figli che dormono nel lettone fino a dodici anni, che entrano nel bagno occupato dal genitore, che lo chiamano al telefono senza limitazione. Nessuno definisce il perimetro del loro ambito e il rispetto dell’altro. Con quali conseguenze?».

Dobbiamo preservare l’infanzia dall’invadenza digitale, dice Novara. «La tecnologia va benissimo, se guidata. Ma l’uso eccessivo sotto i nove anni rischia di farci pagare prezzi altissimi. La Finlandia, che ha pensato di andare verso il futuro con l’uso dei tablet nella scuola primaria, vede ora i danni formativi: certificati, misurabili. Oggi un marketing manipolatorio si rivolge a bambini sempre più piccoli e fa leva sulla disponibilità ad accontentarli dei genitori. Un ragazzino che combatte sei ore al giorno in un videogioco va verso il futuro? E le ragazzine che a dieci anni iniziano a postare compulsivamente le loro foto su Instagram? E poi. Un adolescente non può dormire con dispositivi led accesi, che lampeggiano e vibrano. È un rilievo igienico: è come dormire nudi al freddo. Ci si ammala. Le interferenze magnetiche luminose e sonore mandano al cervello segnali capaci di fuorviare le attività cognitivo cerebrali. Dopo sarà difficile collegare le conseguenze alle cause. Il nostro compito di studiosi è questo».

Dopo arriveranno le certificazioni. La ragazzina con diagnosi di autostima ipertrofica e sé grandioso, incapace di gestire il rifiuto di un coetaneo o il rimprovero di un maestro perché abituata a essere costantemente al centro della scena. Episodi di vomito, chiusura, isolamento, aggressività. La scuola chiama, consiglia di “farla vedere”. Il genitore corre. La certificazione di ipercinesi consentirà al bambino di alzarsi dal banco per uscire in corridoio tutte le volte che vuole, quella di disturbo dell’apprendimento di non leggere ma ascoltare cassette, usare la calcolatrice, svolgere i compiti con un quiz. Il comportamento aggressivo, o depressivo, quando diagnosticato darà al bambino un’idea di sé “fuori norma”, indurrà ulteriore bisogno con conseguenze gravi sul suo futuro.

A volte è necessario intervenire – discalculia, dislessia sono patologie reali, hanno bisogno di un sostegno – ma «è irrealistico pensare che un bambino su quattro sia malato. La diagnosi dà una percezione di efficienza istituzionale: li troviamo e li troviamo presto, si dice soddisfatto il sistema. Senza mai mettere in dubbio che il difetto sia in chi educa, non in chi è educato. Che il problema non sia nella mente dei figli ma nei metodi di chi li cresce».

Fonte: repubblica.it

  • Aggiornato il 5 Aprile 2017