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Cara mamma, questo giudice ti sta cercando per me

La Corte di Cassazione ha stabilito che i giudici, su richiesta del figlio maggiorenne, possono contattare in tutta riservatezza la madre che ha partorito in anonimato e chiederle se voglia riconsiderare la propria decisione. I giudici possono farlo subito, senza bisogno di attendere una revisione della legge. Qualche tribunale già lo fa: ecco le buone pratiche

Non è necessario attendere che il Parlamento modifichi la legge sull’adozione e sul parto in anonimato, già subito i giudici (i giudici, sia chiaro, non il figlio) possono mettere in atto le procedure necessarie per contattare in tutta riservatezza la madre che abbia partorito in anonimato e chiederle se – sapendo che il figlio ora la sta cercando – voglia riconsiderare la propria decisione e revocare l’anonimato. Tale possibilità o richiesta di “ripensamento” ci sarà una sola volta, fermo restando che il diritto del figlio a conoscere le proprie origini trova un limite insuperabile nel diniego della madre a svelare la propria identità: «il figlio non ha un diritto incondizionato a conoscere la propria origine e ad accedere alla propria storia parentale, non potendo ottenere le informazioni richieste ove persista il diniego della madre di svelare la propria identità», è scritto nella sentenza.

È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 1946 del 25 gennaio 2017, in ventotto pagine che si concludono con l’enunciazione di un «principio di diritto, nell’interesse della legge». Si mette così un punto fermo a un dibattito che si sta molto ampliando, con sempre più storie concrete che vanno ad interpellare la giurisprudenza. Se un anno fa erano una rarità i percorsi per accompagnare i figli adottivi alla ricerca delle proprie origini, questo oggi è un tema all’ordine del giorno per chi lavora in questo ambito. Tante pure le storie che stanno emergendo, al punto da arrivare anche in prima serata in tv. Anche questa sentenza della Corte di Cassazione prende spunto da un caso concreto, cioè dal reclamo di un figlio adottivo maggiorenne che nel 2015, nonostante la sentenza 278/2013 della Corte costituzionale, aveva visto il Tribunale di Minorenni di Milano non fare alcuna ricerca della donna che lo aveva partorito, sostenendo che fosse necessario attendere l’intervento del legislatore per dare corso alla richiesta del figlio a che il giudice interpellasse in via riservata la madre naturale e verificasse con lei il perdurare della sua volontà a rimanere anonima.

Lo “storico” è questo: nel 2013, per la prima volta, la Corte costituzionale ha affermato che la legge 184 del 1983 è illegittima nel punto in cui non prevede alcuna possibilità di interpellare la madre che abbia partorito in anonimato e non individua un procedimento di massima riservatezza che apra però la possibilità di una revoca della decisione. Dopo questa sentenza, i Tribunali hanno preso posizioni differenti, interpretandola diversamente. I Tribunali per i Minorenni di Milano, Catania, Bologna, Brescia e Salerno hanno sostenuto che bisogno di attendere l’intervento del legislatore perché un giudice, su richiesta del figlio, possa interpellare in via riservata la madre naturale. Al contrario, il Tribunale per i Minorenni di Trieste e del Piemonte e Valle d’Aosta, come pure la Corte d’appello di Catania, hanno ammesso la possibilità di interpello riservato anche senza legge, definendo anche dei protocolli (riportati nella stessa sentenza).

Nel «perdurante silenzio del legislatore», che fare? Tenuto conto della sentenza del 2013 e delle più recenti pronunce della Corte di Cassazione (luglio 2016 e novembre 2016) che hanno stabilito che l’anonimato della madre vale solo finché la madre è in vita e che dopo la su morte il figlio può conoscerne l’identità anche prima dei 100 anni previsti dalla legge, ecco quindi che la Corte di Cassazione ha deciso di dover intervenire sulla questione, sia per il «ravvisato contrasto di tesi tra i giudici di merito» sia perché il tema «presenta un’oggettiva rilevanza generale», soprattutto «in difetto dell’intervento di regolamentazione legislativa».

L’indicazione degli ermellini quindi è che sì, i giudici possono già subito contattare la donna e verificare con lei se intenda o meno mantenere la sua scelta per l’anonimato. Si scontrano due diritti, quello della madre e quello del figlio, è vero e anche la Corte europea ha già affermato che «la normativa italiana non tenta di mantenere alcun equilibrio tra diritti e interessi» dei due, dando una «preferenza incondizionata» al diritto della madre a mantenere l’anonimato. Ma in fondo tante storie biografiche ci dicono anche di come quella «assolutezza e irreversibilità» della scelta dell’anonimato fatta al momento del parto, «proiettandosi su di un arco di tempo eccedente la durata normale della vita umana», sia stata in tanti casi una sofferenza per le stesse madri. È questo il punto, che «non è legittimo che la volontà espressa in un dato momento non sia eventualmente revocabile» e «l’eccessiva rigidità» della legge attuale «sta nella mancata previsione, attraverso un procedimento stabilito per legge, che assicuri la massima riservatezza, della possibilità per il giudice di interpellare la madre anonima ai fini di un’eventuale revoca della sua dichiarazione».

Quindi per la Cassazione, i Tribunali che affermano che è già possibile applicare l’interpello riservato alla madre anonima hanno ragione. Non solo possono, lo devono fare, dal momento che «il mancato sforzo ermeneutico diretto a cogliere nell’ordinamento esistente, nell’attesa dell’intervento del legislatore, le condizioni di operatività del principio, determinerebbe anche un deficit di tutela di un diritto fondamentale».

Concretamente, come fare? Non serve inventarsi nulla. L’interrogazione riservata sarebbe entro un procedimento in Camera di Consiglio, con i necessari adattamenti per «preservare la massima riservatezza e segretezza nel contattare la madre», «esperibile una volta sola», con «le modalità pratiche individuate dal giudice». Niente lettera che arriva a casa, come qualcuno aveva nei mesi scorsi paventato, e che il marito ignaro potrebbe aprire. La sentenza cita ad esempio concreto le procedure già messe in campo dai tribunali: in un caso è la polizia giudiziaria che acquisisce presso l’ospedale di nascita le notizie sulla madre, poi è il servizio sociale del luogo di residenza a consegnare solo nelle mani dell’interessata una lettera di convocazione per comunicazioni orali e solo lì, in questo colloquio (che può avvenire anche a domicilio dell’interessata), in cui la donna deve essere sola, senza accompagnatori, il giudice togato le comunica il motivo della convocazione, ovvero che il figlio che mise alla luce in quel dato giorno ha fatto richiesta di conoscere la propria origine. A quel punto alla donna viene dato un periodo di riflessione, in cui possa riconsiderare se svelare o meno la sua identità. Solo se la donna acconsente il giudice redige un verbale, facendolo sottoscrivere alla donna e rivelando solo allora il nome del ricorrente. Un’altra procedura prevede che il giudice – che è la sola persona a conoscenza del nome della donna – contatti i carabinieri o i servizi sociali per verificare la possibilità di un colloquio con la donna in questione, senza comunicarne il motivo e solo quando il colloquio sia possibile, «considerando le caratteristiche personali, sociali e cognitive della donna», il responsabile del servizio sociale viene delegato al colloquio. Anche qui, il richiedente viene a conoscenza del nome della madre solo nel caso in cui lei revochi l’opzione per l’anonimato.

Fonte: vita.it

  • Aggiornato il 30 Gennaio 2017