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«Noi mamme lavoratrici in crisi. Tutto è pensato a misura d’uomo»

Non è stato semplice incontrare Silvia P. Non è stato semplice convincere ad andare avanti con il suo ragionamento la mamma che — scrivendo una lettera a Beppe Severgnini — ha acceso un dibattito così trasversale e clamorosamente condiviso.

Non immaginava che le sue parole la facessero d’improvviso portavoce di così tante mamme convinte che sì, lavorare e avere dei figli in Italia è ancora un problema. «Il giorno in cui è stata pubblicata la mia lettera anche nel mio ufficio tutti ne parlavano.GRAFICO

Diverse amiche mi hanno inoltrato il link, dicendomi: “Guarda, siamo tutte nella stessa barca”». Lei, avvocato in un importante studio, si è ritrovata di colpo ad essere l’Elena Ferrante delle mamme. E anche adesso, passata qualche settimana, non se la sente di svelare la sua identità: «Preferisco di no. Sia per il mio lavoro, sia per la mia famiglia». Ecco un punto fondamentale:

Silvia P. dice cose comuni a molte donne. Eppure, facendolo, si rischia ancora di apparire sovversive. Perché?

«Credo che abbia ragione chi sostiene che il femminismo è stato frainteso. Abbiamo inseguito dei modelli maschili pensando di raggiungere la parità. Non è andata bene. La vera rivoluzione sarebbe creare dei veri modelli femminili».

Pensa che le difficoltà delle donne sul lavoro, ad esempio, dipendano dal fatto che l’organizzazione del lavoro stesso non sia stata pensata da donne ma da uomini?

«Esattamente. Credo che se fossero le donne ad organizzare il lavoro, molti problemi non ci sarebbero o sarebbero minimizzati. La verità è che il lavoro è ancora organizzato, nella stragrande maggioranza dei casi, su criteri maschili».

Eppure ultimamente si parla molto di orari flessibili, di telelavoro…

«Però poi se anche solo vai via al tuo orario, senza fermarti di più, ti guardano strano. Non è solo norma ma cultura. Si pensa che una mamma che chiede di lavorare da casa — almeno per una parte del suo orario di lavoro — in realtà passi il suo tempo a fare le tagliatelle. Bisognerebbe riuscire a restituire dignità a pratiche tipo il part time, andrebbe rivalutata quella di lavorare da casa, considerata nella maggior parte dei casi non dignitosa».

Dopo la sua lettera non sono mancate le critiche…

«All’inizio ci sono rimasta parecchio male, poi ho capito che funziona così sul web. Mi hanno detto che mi sono lamentata. Sicuramente ho usato toni migliorabili, ma alla fine non solo facciamo questa vita di acrobazie tra lavoro e famiglia, ma non possiamo neanche lamentarcene un poco?».

Qui però bisogna cercare di andare oltre. Ha confessato che con suo marito non vi dividete la gestione dei figli al 50%. Le hanno detto che è colpa sua, di come ha impostato il suo rapporto di coppia…

«A parte che io non ho detto che è giusto che sia così. Ma mi sembra ipocrita negare che nella maggior parte dei casi il peso dei figli ricada molto di più sulla mamma. Il padre collabora. La mamma deve riuscire a incastrare tutto. Mio marito aiuta, lo ribadisco: non posso dire che ha il polso su tutto. Con il pediatra parlo io, so io dove sono tutte le cose dei bambini in casa, metto io le calzine antiscivolo nei loro sacchetti dell’asilo e non sono io che chiedo a lui i loro impegni perché me li ricordi. La gestione, la pianificazione della settimana è mia. Come credo sia per la maggior parte delle mamme. È tutto un gioco di incastri e la riuscita è un tuo problema. Sinceramente non credo di essere in una minoranza».

In Italia no di sicuro: anche i fasciatoi, di norma, sono solo nei bagni delle donne…

«Appunto. La questione culturale esiste e la strada è ancora in salita. In generale, nulla è impostato perché venga valorizzata l’infanzia. I primi tagli vengono fatti alla scuola, basta pensare a quello».

Cosa aiuterebbe una mamma che lavora, oltre a un cambio di mentalità e a un’organizzazione del lavoro pensata da donne e non da uomini?

«Asili aziendali, bonus per le tate. Se ci fosse anche solo un pullmino della scuola che, con un contributo, passasse a prendere i bambini, recupererei le due ore di tempo e l’energia che ogni volta impiego per portarli e andarli a recuperare. All’estero succede. E poi, lo ripeto, andrebbe rivalutata la pratica di lavorare da casa, oggi considerata non dignitosa. Banalmente, servirebbe una presa di coscienza culturale sull’importanza che ha fare figli per una società. Lo si dice, ma non c’è sostegno per le famiglie. E poi le scuole stesse: sarebbe bello se rimanessero aperte più a lungo. È vero che d’estate ci sono i corsi estivi ma a volte sembrano la copia sbiadita della scuola materna in cui si ritrovano».

Quello che si potrebbe ribattere, pensando alle scuole estive, è che dovrebbe imparare lei a lasciare lì i suoi figli, godere del servizio e concentrarsi sul suo lavoro…

«La materna finisce il 30 giugno. I primi quindici giorni di luglio di scuola estiva dici, ok, sono figli di una mamma che lavora. I secondi quindici, quando rimangono pochissimi e sai che gli altri bimbi sono in vacanza ti senti in colpa. Non so perché questo sentimento viene a noi e ai maschi meno, ma è così»

Intende dire che quello che viene richiesto alle mamme che lavorano non è uguale a quello che ci si aspetta dai papà?

«Non siamo uguali, lo ripeto. E non è vero che certe cose vogliamo per forza farle noi mamme: ci si aspetta proprio che le facciamo noi. Mettiamola così: io non riuscirei a pensare che devo lavorare e quindi se anche i miei figli stanno male prima lavoro e poi vado da loro. Gli uomini lo fanno in automatico, anche perché sanno che il più delle volte, vicino ai loro bambini c’è comunque la mamma. E quindi sono più rilassati nel fare quello che devono. Io mi sento in colpa se sto poco con i miei figli. Per mio marito credo sia più normale. È nello stato delle cose. Forse è una questione femminile, siamo più introspettive e complicate».

Diventare mamma toglie energie al lavoro?

«Io vedo donne ancora più produttive. Certo, non sono aiutate. Ed è vero che quelle che approfittano della maternità per lavorare di meno fanno un danno enorme a tutte le altre».

Dalla sua lettera sembra che essere una mamma e avere un lavoro siano due dimensioni quasi inconciliabili. La vede proprio così?

«Io vedo che faccio fatica a fare tutto. E vedo che questo ricade anche sui miei figli. A scuola arriviamo sempre trafelati, alla fine di ogni giornata ti sembra un miracolo essere riuscita a fare tutto. Ma non è giusto, non dovrebbe essere questa impresa. E non deve succedere che i figli delle mamme che non lavorano, in generale, stiano meglio rispetto a quelli le cui mamme hanno un impiego».

Con il secondo figlio poi, spesso la situazione degenera…

«Sì, perché se già così ogni giorno è un quasi miracolo, con il secondo, che ha esigenze e tempi diversi, senza un rete di supporto ti sembra impossibile. Per questo molte mamme lasciano il lavoro oppure lo tengono come una specie di hobby da fare nei ritagli di tempo».

Le hanno scritto che è colpa sua, che dovrebbe essere lei in grado di ingegnarsi in modo da gestire brillantemente il suo lavoro e il suo essere mamma…

«E invece no. Al di là delle soluzioni personali, io auspico una specie di “modello Ikea” anche nella società. Quando entri all’Ikea tutto è pensato anche per i bambini, per riuscire a fare quello che devi con la serenità che loro nel frattempo sono tranquilli. È una provocazione ma sarebbe bello. Ad ogni modo gli statali, ad esempio, sono iper tutelati: perché ci sono queste differenze? Chiedo solo che le mamme siano messe in condizione per lavorare meglio».

Il nido non è un aiuto?

«I nidi comunali, certo, sono riuscita ad avere i punti sufficienti per entraci. Poi la domanda che ti fanno tutti è: ma come, lasci lì i tuoi figli fino alle 17.30? E in effetti lo capisco, perché quando arrivi lì e li vedi seduti, ognuno che aspetta la sua mamma, e piangono perché arrivano le altre ma non la loro, beh, lì, per l’ennesima volta, ti senti in colpa. Anche qui, mio marito la vive molto meglio: al nido stanno bene. Ma la mia sensazione, come quella di tutte le mamme che lavorano e che incontro lì, è quella del senso di colpa».

Fonte: 27esimaora.corriere.it

  • Aggiornato il 18 Ottobre 2016