Disabilità sensoriali

Lo so che mi senti

Francesca Mazzoleni  racconta ai lettori di Oubliette Magazine il suo Lo so che mi senti vincitore del Premio Emidio Greco losochemisential Festival del Cinema Europeo 2016 di Lecce.

Puoi raccontarci il tuo percorso cinematografico?

Ho iniziato all’età di circa otto, nove anni con vari esperimenti molto analogici e particolarmente creativi: estati a creare montage musicali piazzando la mia piccola videocamera davanti alla tv, con tanto di pallino rosso riflesso in mezzo allo schermo… poi ho iniziato a filmare io, più o meno qualsiasi cosa: i viaggi con i miei, le estati in Sicilia, gli amici. Avevo voglia di raccontare e immortalare le cose per sempre, per supplire a una nostalgia quasi patologica riguardo il passare del tempo e lo scorrere delle cose. Mi piaceva l’idea di poterle trattenere, di darne un senso anche solo per pochi minuti e amavo l’idea di fare un lavoro in cui non sarebbe esistito mai un punto, una ricerca continua sulle cose, le persone, i sentimenti. Quando ho capito che volevo fare film nella vita ho iniziato a girare i primi esperimenti seri durante i primi anni all’Università di Lettere e Cinema alla Sapienza. Berlino è stata la mia seconda casa, lo stimolo nostalgico che mi dava quella città mi ha portato a sviluppare i miei lavori tra la Germania e l’Italia. Poi sono entrata al Centro Sperimentale di Cinematografia e mi sono diplomata in regia un anno fa. È stata un’esperienza unica che mi ha dato l’occasione di conoscere tanti compagni di viaggio e realizzare vari cortometraggi e raccontare delle storie riguardo alle quali sentivo un’urgenza particolare, cercando di tenere salda una poetica delle cose alla quale ero molto legata: il sentimento di una ricerca continua di libertà, esistenziale, storica, sociale. Ho sempre focalizzato l’attenzione su storie fortemente legate alla realtà, ma cercando una trasfigurazione poetica che potesse portare ancora più vicino ai personaggi. E in questo caso l’esempio del corto “Lo so che mi senti” è particolarmente calzante.

Com’è nato il progetto “Lo so che mi senti”?

Si tratta di un cortometraggio nato nel mezzo del secondo anno di CSC, quando solitamente ti senti più libero per sperimentare ed allontanarti un po’ dai tuoi porti sicuri. Avevo voglia di raccontare un universo percettivo diverso dal nostro, scoprire una realtà lontana dalla mia e contaminarla con degli elementi narrativi di genere, cosa che non avevo mai fatto. Il corto parla di un padre e un figlio sordi che intraprendono un viaggio di notte per poter vivere finalmente una vita insieme, dopo innumerevoli difficoltà riguardanti affidi e problemi economici. È una fuga, un on the road con accadimenti propri anche dell’action in cui la comunicazione tra i due è l’elemento centrale. Volevo fare un corto sulla sordità senza parlare direttamente della sordità. La cosa importante per me era immergermi in quel mondo, e raccontare quella bolla, quella particolare vicinanza emotiva che lega i due personaggi e che si crea tra due persone che parlano la stessa lingua e che è estranea al resto del mondo.

Come hai lavorato con gli attori?

Il momento più importante è stato quando ho capito che non avrei potuto proprio lavorare con degli attori. La rappresentazione coerente e sincera del mondo dei non udenti, con le sue gestualità e particolarità, avrebbe richiesto una preparazione attoriale di mesi e mesi che non avevo a disposizione. Così dopo molti casting ho trovato Francesco e Lele. Non sono davvero padre e figlio ma nessuno se n’è mai accorto, erano entrambi non udenti e volenterosi nel fare un’esperienza del genere, tra di loro si è creata da subito quel tipo di complicità di cui parlavo prima che li ha resi una coppia di lavoro formidabile. Facendo le prove insieme abbiamo preso spunti per migliorare le scene e renderle più credibili, per modificare la scrittura e immettere anche spunti narrativi nuovi. È stato un lavoro di scambio reciproco fondamentale.

Molto importante in questo film è l’uso del suono che crea nello spettatore momenti di forte immedesimazione. Puoi parlarcene?

La sperimentazione sul suono era uno dei primi motivi di attrattiva per me da un punto di vista linguistico. L’interrogativo primario era quanto restare vicini alla soggettiva sonora dei personaggi o quanto raccontarli dall’esterno usando un approccio al suono tradizionale. Alla fine ho fatto delle scelte molto emotive: ho prediletto l’oggettività nelle scene in cui i personaggi erano più distanti, e la soggettività in quelle in cui recuperano il loro rapporto privato, permettendo così al suono di accompagnare emotivamente i cambiamenti di trama. Mi sono interrogata su quali fossero gli elementi che acquistano importanza quando un approccio sonoro al mondo non è possibile: allora scopri la centralità della vista (e nel caso del cinema delle soggettive), dell’accentuazione delle espressioni facciali per comunicare un’emozione (e nel mio caso della recitazione più esasperata), delle vibrazioni dei bassi come modo di ascoltare una canzone (come nella scena principale del corto)…

Nel finale sembra quasi che nessuno, né regista, né spettatore, possano entrare nella comunicazione tra padre e figlio: è come se padre e figlio siano in grado di vivere immersi in ciò che li circonda e allo stesso tempo possano astrarsi ascoltandosi semplicemente. Come hai ottenuto questo effetto?

Il finale del corto, al quale sono particolarmente legata, doveva raccontare effettivamente l’affetto e la vicinanza tra padre e figlio, dopo innumerevoli difficoltà. Un tipo di legame che sarebbe durato per sempre perché appartiene solo a loro, una bolla indistruttibile, un microcosmo, contro il resto del mondo. L’idea è nata in modo abbastanza magico: i due personaggi dovevano stare di spalle alla camera, di fronte a un immenso campo bruciato dal sole. Non c’erano battute in sceneggiatura, ma ho detto loro di parlare un po’, in Lis ovviamente, di qualsiasi cosa. E li ho osservati mentre non capivo assolutamente nulla di ciò che stavano dicendo. Ho montato così questo ciak, lasciandoli alla loro intimità. Tutt’ora non so che cosa viene detto alla fine del mio film.

Cosa rappresentano per te il Premio Emidio Greco e il cinema di Emidio Greco?

È un premio che ha un valore tutto suo. Perché è stato conferito dal figlio di Emidio, Alessandro Greco, che ha continuato il percorso del padre nel cinema e ha sostenuto questo lavoro con delle parole per me importanti, e poi perché è dedicato a un cineasta che è stato scrittore, regista, e in primis intellettuale, che è una cosa fondamentale. Perché mi ricorda cosa per me è essenziale in quest’arte: la ricerca di libertà nell’esporre le proprie idee, nel non seguire i canali già segnati nella produzione cinematografica, nel poter creare lavori aperti a tutti ma permeati di una voglia di riflessione sulle persone e sul mondo di fondamentale importanza. E il cinema di Greco è stato tutto questo. I suoi lavori più importanti, come l’Invenzione di Morel, sono permeati di un sentimento di fugacità delle cose e di fragilità esistenziale dell’individuo, che hanno permesso al suo cinema di essere filosofico e sociale allo stesso tempo, perché mosso da idee chiare e da una voglia di esprimerle che va oltre il solo mezzo della macchina da presa. Sono felicissima che il corto abbia ricevuto un premio simile.

Progetti futuri?

Continuare a fare quello che sto facendo in tutti i modi possibili: in primis sto completando la scrittura del mio lungo italo-tedesco “1989”, ambientato a Berlino e tratto dal cortometraggio con cui mi sono diplomata al Centro Sperimentale. E nel frattempo sto portando avanti due progetti di documentario da realizzare a Roma, e molti progetti nell’ambito del videoclip.

Fonte: oubliettemagazine.com