Disabilità sensoriali

«La famiglia Beliér»: io come Paula, figlia udente di genitori sordi

Nelle sale c’è un film che vale la pena vedere, ancora più in questi giorni di Pasqua. «La famiglia Beliér» sa raccontare tante storie, partendo da una: paulabelierquella di Paula, che ha sedici anni e vive con due genitori sordi, lei che sente bene. È l’interprete per loro, che si esprimono con la lingua dei segni. Su questa storia se ne intrecciano altre, senza svelarle perché sarà bello per chi vuole scoprirle al cinema. A InVisibili (da cui riprendiamo questo post, ndr) interessa solo in parte il commento cinematografico, pur molto positivo.

La disabilità è affrontata in maniera giusta, senza enfatizzare o esaltare, miscelandola con la vita. Essere figli udenti con genitori sordi non è cosa rara. In Italia è arrivato da pochi mesi il Coda (Children of Deaf Adults), associazione che si occupa proprio di figli udenti di genitori sordi. Rispetto al film, è più difficile oggi che mamma e papà si esprimano solo con la lingua dei segni, ci sono situazioni diverse. Mirella Bolondi, scrittrice (Terra di Silenzi, edito da Zephyro, il suo ultimo romanzo) ed educatrice professionale, è udente con mamma e papà non udenti. Ha visto il film e racconta per InVisibili le emozioni che ha provato.

«La famiglia Belièr» racconterà un po’ anche di me e della mia famiglia?

Ci pensavo spesso e, con curiosità, guardavo il trailer del film, le interviste al regista e aspettavo… Cercavo tra i frammenti di immagini e parole, qualcosa della mia storia, con l’emozione e il timore di una rappresentazione fuori luogo.

Anch’io sono figlia udente di genitori sordi. Lo sono diventati, entrambi, nella primissima infanzia, in tempo di guerra, quando la medicina non era così avanzata, non esistevano protesi acustiche e di sordità se ne sapeva ancora poco.

Mio padre, nato in un piccolo paese nella provincia di Reggio Emilia, credeva di essere l’unico sordo al mondo e imparò le sue prime parole grazie all’intelligenza e alla pazienza del nonno. Mia mamma, nata a Milano, è stata più fortunata e fin da subito ha potuto frequentare la scuola speciale. Si sono incontrati da adulti a una mostra di quadri in cui mio padre esponeva i suoi dipinti e lì è nato un amore che ha attraversato il tempo e nutrito la mia vita e quella di mio fratello.

I Belier assomigliano ai miei genitori e ai tanti sordi che ho incontrato?

Me lo sono domandato più volte durante tutto il film… Le loro mani disegnavano segni che non conoscevo perché appartengono alla lingua francese e mi mancava la voce sorda, quella che i miei genitori accompagnano sempre ai segni quando parlano con me e sanno usare quando comunicano con altri udenti. Una voce che sa per me di casa e famiglia anche quando a pronunciarla sono altri sordi italiani di tutte le età, con o senza protesi, oralisti o segnanti, come preferiscono autodefinirsi. Li riconoscevo solo a tratti: nell’orgoglio della loro identità, nell’umorismo delle battute, nel rumore inconsapevole che possono provocare.

E lei, la protagonista, udente, figlia di sordi, con la dote per il canto? La osservavo muoversi sulla scena e mi sembrava di rivedere mio fratello e i tanti compagni di giochi della mia infanzia, figli udenti di amici sordi, con cui avevo condiviso feste e scampagnate, ma anche telefonate che facevano da tramite alla comunicazione dei nostri genitori. Riconoscevo quelle piccole o grandi responsabilità che l’udire ci consegna, come tradurre le parole difficili dei medici o le disattenzioni dettate dal pregiudizio. Ma io, io dov’ero?

Eccomi! Ero in un’emozione lenta, ma prepotente che saliva dal petto e invadeva la gola e gli occhi e non riuscivo a controllare. Ero nel pianto a dirotto che, mio malgrado, ha rotto il silenzio e di cui un poco mi vergognavo. Ero nella mano delicata di mia figlia ventiduenne, che mi ha accarezzato il capo con tenerezza. Sono arrivata a tradimento e senza preavviso.

Lei cantava alla festa di fine anno, davanti a un pubblico udente felice e partecipe e davanti ai suoi genitori che non potevano ascoltarla, ma c’erano. Io ero con lei, alle recite scolastiche come alle presentazioni del mio libro e anche loro, i miei genitori, c’erano. Loro ci sono sempre. Non importa se non possono o non riescono sempre a capire le parole, pronunciate frettolose e troppo distanti o nascoste. Loro sono sempre lì, e dicono con la loro presenza che vogliono esserci e sempre ci saranno nella mia vita, nei momenti importanti, nei momenti di gioia, come in quelli di dolore. Per dire che le barriere esistono, che possiamo essere diversi e non riconoscerci nella differenza dell’altro, nei suoi sogni e nelle sue scelte, ma che l’amore è capace di trovare sempre un punto di incontro.

Ho guardato, allora, mia figlia. Aveva gli occhi gonfi di lacrime… Ho pensato al mio essere madre, alla fatica di riconoscersi uguali e accettarsi diverse; al desiderio di esserci nella sua vita e alla gioia di condividere anche quel momento.

E ho trovato una risposta semplice… nella famiglia Belier c’è un po’ di me, di lei e di tutti!

Fonte: 27esimaora.corriere.it