Perché abbiamo bisogno di più dati aperti sulla disabilità

La rappresentazione mediatica passa soprattutto attraverso i dati”. Simone Riflesso è un content creator e attivista queer che da tempo si batte per un cambio della narrazione e per una rappresentazione equa di tutte le persone discriminate per il genere, l’orientamento sessuale e la disabilità. Riflesso è parte del progetto Disabled data, o Dati Disabilitati, una piattaforma digitale promossa dalla fondazione FightTheStroke e progettata da Sheldon.studio con il supporto di onData, che ha lo scopo di rendere disponibili a un pubblico più ampio i dati che riguardano la disabilità, spesso sparpagliati, incompleti o “nascosti”. Al progetto hanno collaborato, oltre ad attivisti e a chi da sempre si batte per i diritti o per una narrazione più adeguata, anche minatori di dati, designer inclusivi, giornalisti investigativi e sviluppatori. Alla piattaforma verranno aggiunte altre sezioni rispetto a quelle attuali fino al 3 dicembre, quando, in occasione della Giornata internazionale delle persone con disabilità, verrà completata.

Ancora oggi ci sono notizie di cronaca che riguardano le persone con disabilità poco efficaci per il tipo di narrazione che propongono – denuncia Francesca Fedeli, presidente di FightTheStroke -. Inoltre, abbiamo riscontrato una discontinuità nella fornitura dei dati da parte di Istat ed Eurostat. Anche il sito che dovrebbe divulgare questi dati, Disabilità in cifre, ha chiuso, ma grazie a noi ha ripreso la sua attività”.

Abbiamo iniziato cercando i dati da chi in Italia prende dati sulla salute e sulla sanità. All’inizio non abbiamo trovato un granché – racconta Andrea Borruso, presidente di OnData -. Poi ci siamo imbattuti progetto di Istat, Disabilità in cifre, un sito spento da almeno un anno, e li abbiamo contattati. Ha ripreso infatti la sua attività dopo 20 giorni“. OnData si è occupata anche di rendere più accessibile l’interfaccia di Disabilità in cifre: “Prima per accedere ai dati dal sito, era necessario fare infiniti click. Abbiamo creato un software che fa in automatico i click e genera file di insieme. Sheldon.studio, invece ha creato pagine in scrollytelling, curate anche in termini di accessibilità. Hanno trasformato dati grezzi in racconto virtuale e testuale”.

Rappresentazione mediatica

“Spesso durante la raccolta dei dati, le domande vengono poste da persone che non hanno una disabilità. Questo è determinante per il racconto che ne consegue: l’intervistatore decide a monte quello che vuole sapere – spiega Riflesso -. Vengono usano espressioni come ‘persone costrette in carrozzina’: non è un linguaggio inclusivo. La persona neurodivergente o con disabilità dai media non è concepita come interlocutrice. Si parla sempre ‘di’ disabilità, mai ‘con’, e si tende a farlo solo in chiave pietistica”.

Un altro tipo di narrazione problematica, secondo Riflesso, è la spettacolarizzazione: “Soprattutto nello sport  spiega l’attivista- gli atleti con disabilità vengono descritti come supereroi, ma anche questo tipo di narrazione stigmatizza tutti coloro che non sono altrettanto performativi”. L’attivismo per la rappresentazione delle persone disabili si interseca anche con molte altre battaglie, tra cui quella per i diritti della comunità lgbtqia+. Tramite alcuni sondaggi, per uno dei suoi progetti, Riflesso ha creato una mappatura dell’accessibilità dei Pride: “Se non si pensa in maniera accessibile, si esclude in partenza chi è già emarginato”.

Violenza di genere e disabilità

Anche il genere influisce. “Le donne con disabilità hanno minori opportunità proprio perché essere donne e avere una disabilità ancora oggi significa essere sottoposte a una discriminazione multipla – denuncia Simona Lancioni, sociologa e responsabile del centro Informare un’H -. Non ci sono dati probabilistici che documentano i maggiori svantaggi di queste donne. Non c’è l’abitudine di raccogliere i dati a seconda del genere, che sembra diventare irrilevante”.

Non solo i dati che riguardano il genere, ma anche quelli su violenza e disabilità: “Gli ultimi dati probabilistici che abbiamo in materia di violenza di genere con riferimento alle donne con disabilità sono quelli pubblicati dall’Istat nel 2014  continua Lancioni -. Dateci i dati è la campagna di sensibilizzazione con cui abbiamo chiesto che vengano disaggregati i dati per genere e disabilità nelle rilevazioni triennali, e con cui abbiamo chiesto di eseguire rilevazioni dell’accessibilità dei rifugi antiviolenza: devono tenere conto anche delle donne con disabilità. Spesso, infatti, riceviamo segnalazioni di barriere architettoniche nei centri antiviolenza. Una donna sorda, per esempio, non può comunicare nei centri se non c’è nessun operatore che conosce il suo linguaggio – segnala Lancione.

Da aprile la proposta di legge in materia di statistiche in tema di violenza di genere è stata approvata definitivamente, e grazie all’ordine del giorno dell’onorevole Lisa Noja, i dati saranno disgregati anche per disabilità: “Se non abbiamo dati non possiamo contrastare il fenomeno della violenza“, continua Lancioni -. Se la raccolta viene eseguita da un istituto di ricerca, i dati possono essere allargati all’intera popolazione, con il meccanismo che viene utilizzato per i sondaggi delle elezioni. Solo così si può descrivere il fenomeno”.

Oltre a descrivere la grandezza del fenomeno, la raccolta dei dati e la loro disgregazione per disabilità sono elementi fondamentali per l’organizzazione dell’accoglienza delle vittime di violenza e anche a creare le basi per interventi di prevenzione: “In proporzione al numero di  vittime in una determinata regione si può stimare quanti centri servono in quella zona, o quanti soggetti formati per questo tipo di utenza servono, e si può stimare il numero di servizi che possono essere attivati all’occorrenza: se non si prevedono questi dati, non si può fare programmazione. Disporre dei dati significa avere un elemento oggettivo per andare nelle scuole e parlare di prevenzione. Solo così si crea una cultura che, a sua volta, crea consapevolezza nelle donne stesse. Una delle indagini del report Vera 2020 ha mostrato come alla domanda diretta ‘Hai mai subito violenza?’, il 36% delle donne (un campione non probabilistico) ha risposto di sì. Solo quando nel questionario le domande hanno iniziato a essere più specifiche sulle forme di violenza, quasi il doppio ha risposto di averle subite“.

Fonte: wired