Cresce il cohousing, il nuovo modo di abitare

Cohousing, housing sociale, coabitazioni solidali: sono tanti i modelli di condivisione dell’abitare che, dal Nord Europa, stanno iniziando a diffondersi in Nord Italia e, più faticosamente, nel resto del nostro Paese. E la pandemia ha destato un interesse nuovo verso questa possibilità, che riduce l’isolamento e garantisce la condivisione non solo di spazi, ma anche di tempi e di servizi. Eppure, “continua a essere ancora un’esperienza di nicchia, che pochi intraprendono, sia per le difficoltà burocratiche e pratiche, sia per una resistenza culturale e, in fondo, per una diffusa ignoranza. Avremmo bisogno di mettere a sistema le esperienze positive, raccontarle e mostrarle, perché in tanti capiscano che davvero si può fare”. Il commento arriva da Chiara Casotti, lei stessa “cohouser” ma anche progettista sociale, attenta studiosa di questo modello che promuove tramite le associazioni Casematte (di cui è presidente), CoAbitare, Rete italiana cohousing e Abitare collaborativo. Una nuova soluzione che può essere molto utile soprattutto per le persone anziane e con disabilità.

“Pensiamo al ‘dopo di noi’, alla preoccupazione che i genitori hanno per il futuro dei propri figli, quando loro non ci saranno più. Anche l’assistenza, poi, può essere condivisa, portando un’ottimizzazione delle risorse. Ci hanno contattato, tempo fa, due adulti con sclerosi multipla che avevano scritto un progetto per realizzare un cohousing per persone che vivono la loro stessa condizione. Ci spiegavano che non vogliono pesare sui genitori che invecchiano, o sui fratelli che hanno diritto alla propria libertà. E poi pensavano alla possibilità di condividere momenti difficili e noiosi come le terapie, ottimizzando i costi ma anche rendendo, attraverso la condivisione, l’esperienza meno pesante e faticosa. Non siamo riusciti, finora, a trovare sostegno e finanziamento per questo progetto. Cercheremo di fare tutti i tentativi possibili. In Inghilterra è stato fatto uno studio sul risparmio economico che deriva dal mantenere una persona anziana in un contesto collaborativo: dovremmo fare studi del genere anche in Italia. Dovremmo fare tanto, nel nostro Paese, per favorire il diffondersi di un modello che può rendere il nostro futuro più semplice e bello”.

C’è però chi è più ottimista. Come Gabriele Danesi, fondatore e coordinatore dell’associazione Abitare Solidale Auser. “Con la pandemia l’approccio è cambiato, per almeno due motivi: il primo, contingente, è che stando chiusi nelle nostre case per tanto tempo e spesso in solitudine, abbiamo rivalutato la dimensione relazionale come elemento di benessere. E anche il decisore pubblico si è reso conto che il modo di pensare le politiche abitative è da ritenersi superato e sta cominciando a investire nell’evoluzione di questo settore così strategico per la coesione sociale. Il secondo motivo, non contingente ma strutturale, è che, grazie anche a progetti pilota e altre esperienze di abitare collaborativo, si sono evidenziati il successo e l’efficacia di modelli residenziali basati su rapporti interpersonali costruiti su principi solidaristici e di collaborazione tra persone, anche fragili, che diventano attori di processi virtuosi di rigenerazione urbana e di comunità”.

Non più solo l’idea di pochi “visionari”: il cohousing, o meglio ancora l’abitare solidale, si sta sempre più affermando come ipotesi politica e amministrativa, in grado di offrire soluzioni alle fragilità sociali tradizionali ed emergenti. “Rigenerazione urbana e housing sociale” è un capitolo importante del Pnrr, così come di “nuove forme della domiciliarità solidale e della residenzialità” si parla diffusamente nella proposta di legge delega “Norme per la promozione della dignità delle persone anziane e per la presa in carico delle persone non autosufficienti”, presentata dalla commissione Interventi sociali e politiche per la non autosufficienza istituita presso il ministero del Lavoro e Politiche sociali. Un modello già sperimentato con successo in alcuni contesti, grazie alla progettazione e alla creatività sociale di cooperative e associazioni. Poi ci sono le iniziative recenti. Qualche esempio?

A Roma sorgerà il cohousing dedicato all’autismo “Spazi Solari”, nato dalle esigenze di un gruppo di genitori di adulti e ragazzi autistici e realizzato in collaborazione con diverse realtà da sempre impegnate nel settore della disabilità intellettiva, tra cui Il Filo dalla Torre, Etica e Autismo, Dhyana e Accademia Peac. La struttura sorgerà a ridosso del Parco degli Acquedotti e prevede un investimento economico complessivo di circa un milione e 700 mila euro, completamente sostenuto dai promotori, che hanno costituito un’apposita impresa sociale. L’obiettivo è quello di affrontare il tema del “dopo di noi” con una risposta che fondi le sue radici in una prospettiva abitativa, sociale e lavorativa basata sull’inclusione. Saranno sette le persone, di diverse età, che inizieranno questo percorso di vita all’interno della struttura: sono previste zone comuni come la cucina e il soggiorno, le stanze dei ragazzi, spazi per le associazioni promotrici e un b&b. La convivenza all’interno dell’abitazione sarà supportata da psicologi e operatori sociali che accompagneranno le persone autistiche nel delicato passaggio di uscita dalla casa dei genitori, iniziando così un nuovo percorso di autodeterminazione e indipendenza all’insegna dell’abitare condiviso.

Ancora da venire anche il progetto di cohousing a Perinaldo (Imperia), dedicato a persone con disabilità grave vicine a essere prive del sostegno familiare. Promosso dal Comune, in partnership con LaSpes onlus di Ventimiglia e MeWe Abitare collaborativo, il progetto è volto a recuperare l’ex scuola oggi in disuso. Alla base un sodalizio che si avvale anche di un cofinanziamento di 200 mila euro da parte della Regione Liguria per arrivare a coprire il costo complessivo stimato di circa 590 mila euro. L’iniziativa prevede la realizzazione di cinque soluzioni alloggiative di tipo familiare e di cohousing sociale, che si aggiungono a un alloggio preesistente dedicato alla sistemazione dell’educatore di supporto, oltre al recupero di spazi per le attività comuni. Entro la fine di giugno, l’avanzamento dei lavori dovrà arrivare al 60%. L’intervento è parte integrante del programma comunale di rigenerazione urbana “Perinaldo: la comunità che assiste”, rivolto alle categorie più fragili. Il progetto è finalizzato, per chi risiederà nello stabile, a stimolare le autonomie abitative e relazionali, in preparazione al “dopo di noi”. Ma anche i cittadini saranno chiamati ad avere più attenzione alle dinamiche di cura, solidarietà e altruismo, in un’ottica che faccia della casa un vero e proprio strumento di welfare.

Orbassano, in provincia di Torino, invece, un geometra ha dato impulso a un “condominio dinamico” per chi, come lui, ha una disabilità. “Ho messo insieme le mie competenze professionali e la mia esperienza personale ed è venuta fuori quest’idea: un condominio in cui le persone disabili possano condividere spazi, ma anche attività e servizi”. Così Andrea Galliana, 52 anni, racconta il progetto a cui ha iniziato a pensare dieci anni fa e intorno al quale ha raccolto diversi professionisti e amici architetti, che poi lo hanno messo in contatto, tramite la Fondazione Agnelli, con la cooperativa Di Vittorio. Ed è proprio questa che recentemente ha realizzato il social cohousing di Orbassano, dove sette alloggi su 69 sono destinati a persone con disabilità. In condivisione ci sono spazi all’aperto e al chiuso, in un complesso residenziale che sostiene l‘inclusione. Il progetto si chiama “Condividere gli spazi, includere le differenze”, ed è stato promosso da Investire Sgr con il Fondo abitare sostenibile Piemonte, dedicato allo sviluppo di iniziative di social housing sul territorio. Tra gli ideatori c’è anche Gianluca Pitzianti, un ragazzo diventato tetraplegico a seguito di un incidente stradale. Galliana ha iniziato a lavorarci quando, dopo 25 anni di professione, di cui gli ultimi cinque in carrozzina, ha dovuto gettare la spugna. “È allora che ho iniziato a pensare a quanto sarebbe stato utile e prezioso un cohousing adattato a esigenze patologiche, che metta insieme il bisogno di avere una casa indipendente con quello di avere zone in condivisione dedicate, trasformando gli spazi comuni in ambienti per tutti: cucina, svago, sala tv, palestra, ma anche stanze per le badanti condominiali, con il loro bagno. Insomma, una condivisione dei luoghi, delle attività e dei servizi, con un’ampia possibilità di scelta, che comprenda anche un coworking e un giardino”.

Purtroppo, ora che l’idea sta prendendo forma, “per me è impensabile un trasloco: la malattia è avanzata e io non posso spostarmi da casa mia, dove comunque non ci sono barriere architettoniche e posso contare sull’aiuto di mia sorella, che abita nello stesso condominio. Vorrei però che l’idea circolasse e si diffondesse, sostenuta anche dal ministero della Disabilità: certo, bisogna pensarci in tempo e scegliere questa formula prima di diventare non autosufficienti. Ma è un modello molto utile, non solo per le persone disabili, ma anche per gli anziani. Il governo dovrebbe impegnarsi per fare in modo che più condomini possibili in Italia si trasformino in cohousing, magari sfruttando gli incentivi del 110%. L’indipendenza diminuisce con l’aumentare della vecchiaia o di una patologia invalidante: investire nel cohousing significa essere lungimiranti e prevenire un problema prima che questo diventi emergenza”.

E lo scorso dicembre i primi ospiti sono entrati ne L’Alveare, a Carugate, vicino Milano, una palazzina con sei appartamenti in ciascuno dei quali possono vivere due o tre persone con disabilità seguite da un educatore. “Il passo più difficile è stato il distacco, sia per i genitori che per i figli”: Vittorio Tresoldi è il presidente della Fondazione Oltre, nata nel 2017 per dare una vita autonoma ai giovani disabili. “Ho un figlio con la sindrome di Down e mia moglie e io ci siamo posti il problema di cosa sarà di lui quando noi non ci saremo più. Ma ci siamo anche resi conto che dovevamo andare oltre e coinvolgere il territorio così da potere, insieme ad altri, pensare al futuro non solo di nostro figlio ma anche di altri ragazzi del territorio”, spiega Tresoldi. “Abbiamo creato una fondazione perché era l’unico modo per dare una continuità negli anni al progetto”. Uno dei sei appartamenti, quello più grande, è stato pensato come “palestra di autonomia”, ossia un luogo dove le persone con disabilità potranno sperimentare una vita indipendente. “Il vero ‘dopo di noi’ deve poter decollare quando i genitori sono ancora in vita. È molto importante anche il percorso di preparazione della famiglia a lasciare andare i propri figli, un percorso culturale che stiamo cercando di portare avanti insieme”. La palazzina è stata donata dalla stessa famiglia Tresoldi. Per far funzionare L’Alveare ci vorranno almeno 200 mila euro all’anno, per pagare il personale e le varie spese. I progetti sul “dopo di noi” devono fare i conti con la sostenibilità sul lungo periodo. Per questo viene coinvolto il territorio, gli istituti bancari della zona, l’amministrazione comunale e le fondazioni bancarie.

Appena un anno fa, poi, inaugurava anche i “Borghi per l’abitare”, in provincia di Varese, un progetto di housing sociale voluto dalla Fondazione Sacra Famiglia per rispondere all’esigenza di quelle persone disabili, anziane o fragili con competenze e autonomie tali da non richiedere la permanenza in Rsa o in altre strutture residenziali, ma che comunque non riuscirebbero ad abitare in autonomia e senza sostegno o supporto sociale nel proprio appartamento. Le location del progetto sono Il Borgo di Cocquio Trevisago e Il Borgo di Leggiuno, tra il lago Maggiore e il lago di Varese. Nel complesso si tratta di 11 unità abitative con due posti letto ciascuna, accessibili, con bagno attrezzato e un cortile comune. Ma il vero valore aggiunto di questo progetto sono i servizi di cui gli inquilini possono avvalersi, in base alle loro esigenze e disponibilità economiche: gli operatori che Sacra Famiglia mette a disposizione vanno dall’educatore all’assistente sociale, dall’assistente sanitario ausiliario al fisioterapista, fino all’infermiere. A richiesta, e con costi a parte, si può contare anche sulla reperibilità di un operatore 24 ore al giorno 7 giorni su 7, un servizio di pulizia settimanale dell’appartamento, la fornitura di biancheria e, solo per il Borgo di Cocquio, del consumo dei pasti in mensa.

Ormai consolidate sono invece le due esperienze sotto le Due Torri, gestite insieme da Asp Città di Bologna, Comune, Ausl e Aias (Associazione italiana assistenza spastici). La prima a vedere la luce è stata quella del “condominio solidale e partecipato” di via Bovi Campeggi, un modello abitativo intermedio di contrasto sia all’istituzionalizzazione sia all’isolamento sociale delle persone con disabilità motoria. La struttura si compone di otto mini-appartamenti tutti al piano terra, completamente accessibili e inseriti in un parco anch’esso privo di barriere architettoniche. Al primo piano c’è l’alloggio destinato al portierato sociale, assegnato a una persona disabile che funge da portiere e la cui presenza è estremamente importante per il buon andamento del condominio. Inoltre è fondamentale in caso di emergenze. Sempre al primo piano si trovano inoltre alcuni locali per attività dell’Ausl. L’Aias dà il suo contributo, attraverso un educatore professionale, per supportare il gruppo e per la promozione di percorsi di auto mutuo aiuto. Poi, nel 2018, è arrivato “l’Oasi”, il cohousing dove persone disabili e di origine straniera condividono la stessa palazzina, fatta di sette appartamenti: sei monolocali di circa 28 metri quadrati e uno leggermente più grande. Ma la novità del progetto è l’essere multietnico. Gli inquilini pagano un affitto a canone concordato abbastanza basso per il mercato bolognese e possono usufruire dei locali comuni al piano terra, destinati ad accogliere i servizi che non trovano spazio negli appartamenti (stireria, lavatrici o lavasciuga), ma anche attività di relazione e socializzazione decise insieme in base ai loro interessi o alle loro esigenze. “Quella dell’Oasi è una normale esperienza di coabitazione, con alcuni servizi in più che permettono di migliorare la qualità della vita di chi vi alloggia”, spiegano da Aias, come anche la presenza di un educatore per fare due chiacchiere con gli abitanti della palazzina, magari davanti a un caffè, ascoltare i loro problemi e le loro difficoltà e cercare di risolvere, per quanto possibile, i piccoli inghippi della vita quotidiana.

Probabilmente a dare impulso a tutte queste esperienze è stata la legge n. 112/2016, la cosiddetta “legge sul dopo di noi”. Una norma che non è stata pensata soltanto nelle aule parlamentari, “ma è nata in gran parte da esperienze già presenti nella società su iniziativa del terzo settore, di associazioni di famiglie, di fondazioni e di enti locali”, si legge nella prefazione di Dopo di noi: l’attuazione della legge 112/16. Monitoraggio 2019-2020, un’analisi realizzata dal Comitato Officina dopo di noi ed edita da Maggioli. “Tuttavia, nonostante sia stata pensata come una norma stabile, per rafforzare l’indipendenza e migliorare l’autonomia delle persone con disabilità, al momento attuale, di fatto, anche le Regioni più virtuose si stanno comportando come se fosse una legge di emergenza”. Ben vengano, allora, nuovi cohousing.

Spesso, però, quando si parla di cohousing, in materia di disabilità, non ci si riferisce tanto alla condivisione di palazzi o villette dotati di spazi comuni, quanto piuttosto alla coabitazione in appartamento. È più semplice, meno costoso e quindi molto più diffuso. Ne abbiamo parlato più di una volta sulle pagine di questa rivista, ma nascono sempre nuove realtà e nuove esperienze. Come il progetto che la Fondazione Dopo di Noi di Bologna ha chiamato “6 a casa”: un nuovo appartamento in città per sei uomini con disabilità pronti a scrivere una nuova pagina della loro vita. “6 a casa”, contemporaneamente voce del verbo essere e numero: abitare una casa, vivere con altre persone che stanno procedendo verso lo stesso obiettivo, ovvero autodeterminarsi. Di questi sei coinquilini, tre vengono dal progetto “Casa fuoricasa” e tre dall’appartamento di via Mazzini dove convivono già da quattro anni in autonomia, con un piccolo monitoraggio educativo.

Nella stessa ottica si è mossa anche la Fondazione Progettoautismo Fvg con “Home special home, un centro che ospita anche due gruppi appartamento dotati di otto camere singole con bagno per persone autistiche e due camere con bagno per gli operatori, due zone cucina-pranzo e salotto, un locale lavanderia e stireria e il magazzino. Attualmente è in ristrutturazione anche un terzo appartamento.
“Dopo la morte della mamma sono stata inserita prima in una comunità, poi in un appartamento con un’altra persona che non conoscevo”, racconta Antonella, seguita dalla cooperativa sociale Trieste Integrazione. “Piangevo sempre, ero sempre triste. Mi mancava la mia mamma, la mia casetta con il giardino, la mia Chiesa, e anche Diego il barista vicino la mia casa. Mi mancava anche prendere l’autobus 34, con il quale arrivavo in piazza Oberdan e vedevo il fiorista, l’edicola, il tram. Mi mancava tutto. Ora sono di nuovo nella mia casa, con Liliana che mi aiuta e Vito che è venuto a vivere con me: siamo diventati una famiglia, e sono di nuovo felice. E tutti i giorni vado all’Anffas, lì c’è sempre qualcuno che mi ascolta e mi parla, e io capisco. Ora so usare anche il cellulare e fare le video chiamate, così dalla mia casetta posso sentire i miei amici”.

Questa è una delle testimonianze raccolte in “Buone prassi sul “durante e dopo di noi” e sulla costruzione del progetto individuale ai sensi dell’art. 14 della legge 328/2000”, una delle pubblicazioni frutto del progetto “Liberi di scegliere… dove e con chi vivere”, realizzato dall’Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale in varie parti d’Italia e concluso lo scorso dicembre. Un esempio di come anche la propria casa possa diventare sede di questo tipo di cohousing. Per il potenziamento dei percorsi di accompagnamento per l’uscita dal nucleo familiare di origine e per la deistituzionalizzazione delle persone con disabilità gravissima esiste il Fondo per il “dopo di noi”, che ammonta a 76 milioni di euro per il 2022 e altrettanti per tutto il 2023.

Fonte: redattoresociaale