“Sono cieco e vinco tornei”: quei golfisti disabili che si sfidano sul green

Foto di Cian Arthus golfistaGli occhi di Stefano si chiamano Giovanni, cioè la sua guida sul campo da golf: perché Stefano è cieco. Invece Cian Arthus colpisce di mancino con l’unico braccio che ha. Le gambe di Mariano Tubio sono il “paragolfer”, una sedia a rotelle da 25 mila euro in grado di assumere la posizione verticale, così Mariano può centrare la pallina e mandarla più lontano che può.

Succede su un pianeta noto come Royal Park, in quello che un tempo era il parco del re nella tenuta della Mandria, poco distante da Torino. Qui, 42 creature aliene eppure umanissime in rappresentanza di 12 nazioni vogliono vincere oggi il “22nd Italian Open for Disabled”. Avete capito bene: golf per disabili fisici. Ovvero una buca di 10,8 centimetri di diametro da centrare da una distanza che può arrivare fino a 400 metri, e c’è chi lo fa senza un braccio, senza gambe, senza occhi. Ma proprio nessuno sembra mancante di qualcosa.

Il silenzio al “tee” numero 1, dove si comincia, è frastagliato dal cinguettio degli uccellini. Nella debole brezza del mattino, Cian l’irlandese prepara il suo colpo e poi lo sferra in un rumore secco di legna frantumata. “Un tiro ampiamente sopra la media di moltissimi amatori, tecnicamente perfetto”. Marco Aquilino è il giovane direttore del circolo “I Roveri”. “Vedo cose che sarebbe difficile anche soltanto immaginare, invece noi sappiamo che è tutto vero”. Verissimo è il dondolare degli atleti sulle protesi e poi la torsione, lo “swing” prima di colpire. Asimmetrie apparenti e prodigiose compensazioni: “È un complicato sistema di contrappesi e spostamenti, e qui c’è chi lo fa dopo avere imparato a sentire pezzi del proprio corpo che non ci sono più”.

 
Qualcuno arriva in stampelle, le appoggia a terra e poi stringe il ferro o il legno. Qualcuno si sposta con la golf car da una buca all’altra. Qualcuno cerca la traiettoria giusta pur essendo un nano, è il caso dello svedese Joakim Björkan. Tutto è l’opposto di ogni pregiudizio anche culturale legato al golf, sport popolare in molte parti del mondo ma ancora gravato, in Italia, da numerosi preconcetti: i golfisti disabili li abbattono a uno a uno essendo semplicemente ciò che sono, ovvero atleti che vogliono vincere. Come Tommaso Perrino, primo l’anno scorso, giocatore professionista che un giorno ebbe un gravissimo incidente in motorino. Rischiò di perdere la gamba, ora si muove come può e continua a giocare come sa. E nessuno di loro suscita pietà o pena, solo stupore e ammirazione. Tutto vola lontano, la pallina e il resto.

“Il cervello è un organo meraviglioso che adatta e trasforma le richieste del corpo: si chiama plasticità neuronale. Poi c’è l’allenamento, ma vale per chiunque”. Giuseppe Plebani è il fisioterapista della Nazionale italiana. Lo ascolta Il tecnico Stefano Bertola: “Facendo questo lavoro ho incontrato, tra gli altri, un giocatore che non ha le braccia e tiene il ferro tra collo e orecchio, poi tira e vedeste come. C’è chi non vuole la protesi, come Juan Postigo o Manuel Dos Santos, e colpisce in elevazione, saltando, dopo avere trovato la posizione in perfetto equilibrio su una gamba sola. E sia chiaro che sono atleti mirabili, agonisti anche arrabbiati, non certo persone che portiamo a giocare perché si svaghino un po’. Questa è gente che morde. E poi, vabbé, poi c’è Stefano”.

Eccolo che arriva, tuta azzurra e occhiali scuri. Sorride, Stefano Palmieri. “Ho 50 anni, sono di Follonica e facevo il parrucchiere. Vent’anni fa guidavo l’auto smanettando col cellulare: risultato, un frontale con un tir, diciassette ore in sala operatoria e un mese di rianimazione. Mi sono svegliato cieco. A quel punto ero disastrato dentro, ma ho capito che potevo sopravvivere solo cercando le difficoltà, non evitandole. Ho scoperto su Internet il golf per disabili e ho provato. All’inizio, come tutti, non centravo neppure la pallina, poi sono arrivato a vincere tornei in tutto il mondo perché ho progressivamente alzato l’asticella della mia disabilità. Lo dovevo a Mirko, il bambino che era nato nel frattempo”.

Cinque amici, tra cui Giovanni Ricceri che ha accompagnato Stefano al torneo della Mandria, sono diventati i suoi occhi: “Mi spiegano com’è il campo e dov’è la buca, mi guidano, mi indicano la direzione e mi fanno assumere la posizione giusta, poi dipende da me. La pendenza la sento camminando, la distanza la misuro contando i passi. La cecità mi ha aperto gli occhi, mostrandomi chi ero: nessuno di noi lo sa veramente finché non viene messo alla prova. Quello che vediamo non è davvero tutto. Ora vado nelle scuole, racconto la mia storia, ogni tanto i ragazzini mi abbracciano e si commuovono. Certo, essere ciechi è la peggiore tra le limitazioni di un atleta e di un golfista: diciamo che il mio caso dà nell’occhio”. Scherza, Stefano, e intanto spiega una cosetta che si chiama vita.

Fonte: repubblica.it

(la)