Discriminate due volte

Immagine di discriminazioneLa convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità ribadisce all’articolo 6 la necessità, per gli stati che l’hanno ratificata, di adottare misure “per garantire il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle donne e delle minori con disabilità”.

Eppure le donne con disabilità sono vittime di una discriminazione doppia: rispetto alla loro condizione, che le sfavorisce nei confronti delle donne “abili”; e relativamente al genere, che le penalizza in misura maggiore degli uomini con disabilità.

Uno svantaggio, quest’ultimo, che in Italia non è possibile quantificare in modo organico perché i dati disaggregati in base al genere sono rari . “La mancanza di dati che fanno capire meglio il fenomeno produce la povertà delle politiche”, spiega Giampiero Griffo, coordinatore del comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sulla condizione delle persone con disabilità.

Lo studio è l’unica eccezione. Gli ultimi dati disponibili dell’Istat rilevano che il 6,7 per cento degli uomini disabili non ha un titolo di studio, contro il 5,5 per cento delle donne. Inoltre, nella fascia fra i 35 e i 54 anni, le donne in possesso almeno del diploma sono il 46,3 per cento contro il 44,5 per cento degli uomini.

Marta Sodano, 28 anni, è una donna con sindrome di Down. Vive in provincia di Bergamo, ha frequentato l’istituto professionale di studi sociali Marisa Bellisario di Inzago e l’Istituto statale di istruzione superiore Einaudi a Dalmine. Al termine degli studi ha svolto un tirocinio formativo di due anni nell’azienda Comac di Bonate e nel 2019 è stata assunta a tempo indeterminato come addetta al controllo e all’archiviazione dei certificati e dei documenti di trasporto merci per la logistica.

Lo squilibrio di potere tra uomo e donna è presente anche nelle associazioni di persone con disabilità e quindi si creano gli stessi divari

“Il lavoro mi ha permesso di acquisire competenze, di fare conoscenze e anche qualche amicizia, e di sentirmi realizzata”, racconta. “Guadagno uno stipendio che mi fa sentire libera e autonoma. Con il responsabile e i colleghi la relazione è buona, non mi sono mai sentita discriminata”.

Ma studiare di più non sempre equivale a entrare più facilmente nel mercato del lavoro. Le lavoratrici con disabilità sono una minoranza rispetto agli uomini. La nona relazione sullo stato di attuazione della legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) al parlamento rileva un’occupazione femminile al 41,2 per cento contro il 58,8 per cento di quella maschile.

Nel 2016 l’Italia è stata richiamata dall’Onu, che ha raccomandato al governo di intervenire con misure specifiche per garantire il lavoro alle donne con disabilità. Da allora poco è cambiato.
Servizi inaccessibili
Anche l’esercizio del diritto alla salute sessuale e riproduttiva per una donna con disabilità non è scontato.

“L’ambulatorio che mi ha seguito durante la gravidanza ovviamente non era attrezzato. La mia carrozzina è reclinabile, quindi la inclinavo e così riuscivano a farmi l’ecografia. Altrimenti mio marito doveva sollevarmi. Anche durante il parto lui mi ha dovuto aiutare, altrimenti sarebbe stato impossibile”, racconta Sonia Veres, 39 anni, donna con disabilità motoria, madre di Leila, 4 anni.

I dati in merito scarseggiano, ma un’indagine dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare (Uildm) ha evidenziato come nella maggior parte dei casi gli ambulatori ginecologici siano sprovvisti degli ausili di base, come un lettino elettrico e un sollevatore.

L’inaccessibilità dei servizi di ginecologia e ostetricia compromette il diritto delle donne con disabilità alla prevenzione e alla cura delle patologie della sfera sessuale e riproduttiva.

Secondo il rapporto Osservasalute 2015 nelle regioni italiane le donne con disabilità che si sottopongono allo screening per la prevenzione del tumore al collo dell’utero sono il 52,3 per cento, contro il 67,5 per cento delle altre, mentre quelle a cui viene eseguita una mammografia sono il 58,5 per cento contro il 75 per cento della restante popolazione femminile.

Anche la maggior parte dei prodotti o servizi per l’infanzia, come i passeggini, è costruita a misura di genitori abili. Dietro a tutte queste barriere si nasconde l’idea secondo cui le donne con disabilità non hanno una vita sessuale attiva e, di conseguenza, non diventano madri. “Una volta ero con Leila, una mia amica e sua figlia, un anno più piccola della mia”, ricorda Sonia Veres. “Una signora si è rivolta alla mia amica credendo che anche Leila fosse sua figlia: ‘Che carine le sorelline’. Non l’ha minimamente sfiorata l’idea che io potessi essere la mamma’”.
Barriere
Le donne con disabilità hanno più probabilità di subire violenza fisica o sessuale. I dati Istat rilevano che ad averla subita è il 36 per cento di loro, contro il 31,5 per cento delle donne senza disabilità, mentre il rischio di stupri o tentati stupri è doppio.

“Marta (nome di fantasia), mia figlia, è una persona con sindrome di Down e lavora in una cooperativa a Padova”, racconta Renata Trevisan. “Aveva poco più di vent’anni quando è stata aggredita. Un giorno, tornando a casa dopo il lavoro, è stata seguita da un uomo che l’ha messa in un angolo e ha cercato di toglierle i pantaloni. Per fortuna è riuscita a scappare ma, una volta arrivata a casa, non mi ha raccontato niente.

Alcuni giorni più tardi un’educatrice della cooperativa dove lavora l’ha sentita raccontare l’accaduto a una collega. Mi ha subito avvisata, così sono riuscita a farmi raccontare tutto da mia figlia. Siamo andate a fare la denuncia ai carabinieri e quando Marta ha finito di deporre ho capito che si era liberata di un peso enorme”.

A livello nazionale mancano i dati relativi agli uomini con disabilità vittime di violenza, ma disponiamo di quelli raccolti dal Servizio antiviolenza disabili di Torino nel biennio 2019-2020. È uno dei quattro centri antiviolenza accessibili a persone con disabilità in Italia e l’unico a prendere in carico anche gli uomini. Nel 2019 i casi seguiti sono stati 57, di cui 11 uomini e 46 donne, mentre nel 2020 le donne sono state 55 e gli uomini 17.

“Il minor numero di uomini che accedono al servizio non significa che siano meno colpiti dalla violenza”, spiega Giada Morandi, coordinatrice del servizio. “Penso siano vittime della cultura patriarcale che ancora ci domina, secondo cui non è opportuno che un uomo chieda aiuto. Gli uomini con cui ho fatto il colloquio tendevano a minimizzare l’accaduto, si vergognavano.

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(ca/la)