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Per un museo scolastico diffuso

La scuola: un luogo molto comune

Pochi altri luoghi sono altrettanto condivisi come la scuola. A scuola sono andati davvero tutti, in tempi vicini o lontani, per più o meno anni, in una fase comunque cruciale dell’esistenza: di crescita e di formazione. I ricordi di scuola restano tra i più vivi dell’infanzia, spesso resi tangibili da un piccolo insieme di oggetti d’affezione: libri e quaderni, pagelle, foto di classe.... Della scuola della propria infanzia restano soprattutto i luoghi: le scuole in cui si è stati, che capita di vedere soprattutto da fuori, per rientrarvi magari molti anni dopo, nel ruolo di genitori. Forse non proprio nella stessa, ma in un edificio assai simile o comunque in grado di portare in superficie immagini e sensazioni che riportano indietro nel tempo.

Il patrimonio scolastico

Capita spesso, allora, di scoprire un’altra scuola: diversa, più piccola di quella che si ricordava, rinnovata negli arredi, più animata e libera, nell’aspetto delle aule come per la vita che si svolge al loro interno. Ma forse parte degli arredi di allora esiste ancora negli scantinati; gli archivi, più o meno ordinati, restano a serbare memoria del nostro e dell’altrui passaggio; chiusi in qualche armadio sopravvivono sussidi didattici ormai desueti: vecchie carte geografiche, tabelloni e suppellettili inutilizzate da tempo; in biblioteca libri che nessuno consulta da anni riposano in seconda fila o ammonticchiati in un angolo: un piccolo grande patrimonio sopravvissuto all’evoluzione e alla naturale eliminazione.

Relitti di un passato, a volte prossimo, a volte lontano, che vivono quella fase della vita delle cose che i museologi definiscono “archeologica” indipendentemente dal fatto che gli oggetti si trovino sepolti, abbandonati nelle soffitte o nelle cantine, e che corrisponde al momento in cui essi hanno perso il loro valore d’uso (e di scambio) e non hanno ancora acquisito quello di «bene culturale» o museale quando acquisiscono il valore di cimeli: cose divenute preziose in quanto testimonianza storica, documenti, involontari monumenti del passato.

Un patrimonio da riscoprire

A questo patrimonio è necessario, e bene, riservare un’attenzione diversa da quella loro attribuita nella maggior parte dei casi. Vale la pena riordinare gli archivi; salvare le vecchie biblioteche, conservandole se possibile negli scaffali originali che parlano quanto i titoli dei libri sul loro senso; recuperare in cantina e nel solaio i banchi, le lavagne, le cattedre, le pedane; aprire gli armadi chiusi da anni, svolgendo i rotoli delle carte e dei tabelloni didattici, spolverando modelli geometrici in legno e fiori in cartapesta, riesumando calamai, cancellini, suppellettili di varia natura. In alcuni casi si avrà la sorpresa di trovare veri e propri tesori: collezioni di minerali, erbari, animali impagliati, attrezzature da laboratorio, testimonianza di un’epoca e di una pedagogia fondata sull’esperienza delle cose di ottocentesca memoria.

Un patrimonio da valorizzare

È un patrimonio da valorizzare anche se non si tratta di opere d’arte, se gli oggetti non sono così antichi, così rari, così preziosi: non tanto in omaggio a una sorta di dovere di ricordare che dilaga oltre misura, in forma di culto nostalgico del passato, ma perché possono tornare effettivamente utili. Possono «servire», nel senso migliore del termine: svolgere un servizio reale, giustificando l’impegno di risorse, umane e finanziarie, che ogni operazione di tutela e valorizzazione, per quanto minima e gestita in economia, in ogni caso esige. Ne vale la pena per almeno tre ragioni fondamentali.

Primo

Abbiamo la memoria corta, e della scuola, che è un’istituzione centrale non solo nella nostra vita, ma anche per la nostra società, finiamo per conservare una memoria del tutto parziale, nostalgicamente affezionata a una visione che, nella sua forma più banale e angusta, corrisponde all’idea che «quando si stava peggio, si stava in fondo meglio». E «ai miei tempi …» è una frase che, purtroppo, è sulla bocca di molti, minaccioso preludio a confronto tutto negativo tra presente e passato, fondato su una pregiudiziale diffidenza nei confronti dei metodi d’insegnamento attuali. Di cui si critica in definitiva la portata innovativa, che non si capisce e di cui non s’interpreta il senso, per quanto faticosamente spiegato da parte degli insegnanti. Può anche accadere l’esatto opposto: ritrovare la scuola d’oggi pressoché identica a quella di ieri, ma allora dovrebbe venir spontaneo chiedersi come sia possibile che mentre tutto intorno è cambiato, l’istituzione scuola abbia potuto restare ferma, o essersi trasformata così impercettibilmente da apparire la stessa dei nostri tempi.

Un museo della scuola (naturalmente, dipende quale museo) potrebbe allora aiutare a comprendere, con maggiore oggettività, le differenze fra ieri e oggi, e sostituire ai ricordi personali, necessariamente individuali e soggettivi, un’immagine più organica e insieme realistica del sistema scolastico nella sua evoluzione nel tempo, con i suoi pregi e i suoi difetti. Potrebbe contribuire a illustrare i presupposti pedagogici che ne hanno presieduto la trasformazione e soprattutto a capire meglio la scuola d’oggi, a misurarne il rapporto con il passato. Un museo di questo tipo avrebbe un suo pubblico naturale nei genitori, nei nonni, un gruppo tutt’altro che esiguo della popolazione adulta, e naturalmente nei bambini stessi, aiutandoli a collocarsi in un divenire di cui sono oggetto e soggetto al tempo stesso.

Secondo

Un museo «scolastico» (e con questa espressione ci avviciniamo alla definizione del museo della scuola a cui faremo cenno in conclusione) potrebbe costituire anche un utile esercizio per gli insegnanti. Un’occasione per ripassare la storia della pedagogia, riletta non più sul piano delle idee, , ma nelle sue espressioni più concrete, in quanto sistema scolastico fatto di leggi e regolamenti, di edifici e spazi interni, di arredi e oggetti, di pratiche e comportamenti che, ricomposti in insiemi coerenti, permetterebbero di osservarne l’evoluzione sino al presente. E naturalmente di compiere anche l’operazione inversa, che è quella che in fondo presiede ogni buona operazione museografica, che si propone di rileggere il passato alla luce dei valori contemporanei: quelli del suo pubblico, oltre che dei suoi autori. In operazioni di questo genere gli insegnanti potrebbero anche far leva sulla complicità dei genitori, coinvolgerli utilmente in processi utili a questi ultimi per avvicinarsi ai problemi della pedagogia contemporanea, di cui sono normalmente digiuni.

Terzo

La terza ragione che può essere portata a sostegno della creazione di tanti piccolo musei scolastici (che nel loro insieme potrebbero dar vita a un museo «diffuso») è che la sua realizzazione consente di dar vita a un’esperienza didattica condivisa con gli stessi allievi, di qualunque età, dalle elementari in su. Un’esperienza in grado di svolgere due funzioni: quella di far loro capire in che scuola si trovano rispetto a quella dei loro genitori e nonni, o anche dei propri fratelli maggiori; e dall’altra per avviarli alla comprensione di cosa è un museo. S’impara molto più su cos’è un museo facendolo che non visitandolo: è banale e scontato, ma anche così raramente praticato che può valere la pena di ripeterlo. La complessa serie di operazioni che portano a individuare gli oggetti e i reperti, ad analizzarli, classificarli, schedarli, ordinarli, presentarli, disponendoli nello spazio, accompagnandoli con didascalie e altri apparati comunicativi, rappresenta un modo pratico e alla portata di tutti per capire non solo in che modo funziona un museo, ma a cosa può servire e come se ne può fare esperienza. Non si tratta per nulla di una novità, perché la pratica del museo scolastico ha più di un secolo di vita ed è bene saperlo, magari cogliendo l’occasione per rivisitarla criticamente. E per riprenderla, soprattutto in un momento in cui la visita ai musei costituisce una pratica didattica sempre più diffusa senza essere tuttavia preceduta da una formazione alla comprensione del medium, dei suoi codici, delle sue regole costitutive che ne depotenziano la funzione pedagogica.

Quale museo della scuola?

Perché tutto questo possa realizzarsi, abbia cioè qualche ragionevole speranza di divenire realtà, assolvendo le tre funzioni che abbiamo provato a delineare, un museo della scuola non può che essere:

- Diffuso: dislocato in altre parole nelle stesse scuole che conservano un patrimonio, più o meno significativo e ampio, occupando magari uno spazio ridotto (una, due aule al massimo) per la parte espositiva e utilizzando altri locali per il deposito.

- Realizzato dagli insegnanti: come condizione per diventare parte costitutiva della scuola, al pari della palestra o della biblioteca, strumento di lavoro e di valorizzazione del proprio fare, costruito con i propri mezzi, se necessario con l’assistenza esterna di esperti (archivisti, bibliotecari, museologi).

- Inserito nella programmazione didattica (per quanto possibile): non solo per l’utilità che questa esperienza può avere sui bambini/adolescenti, ma anche per il contributo che essi possono portare alla costruzione del museo stesso, con il loro punto di vista, sovente più acuto e critico di quello degli adulti.

Si potrebbe obiettare che in questo modo si corre il rischio di avere tanti, troppi, piccoli musei tutti uguali tra loro, e che sarà forse meglio programmare fin dall’inizio una loro specializzazione, concentrando le forze su alcune realtà in particolare, riuscendo così a sostenerle in modo più significativo di quanto si potrebbe fare se “tutti” si mettessero a fare un museo nella propria scuola. Non è così: intanto perché non tutte le scuole sono interessate a creare dei musei scolastici e in secondo luogo perché ognuno di essi si rivolgerebbe in ogni caso a un’utenza locale, e quindi diversa e differenziata. In terzo e ultimo luogo, e penso sia la ragione fondamentale, perché sarebbe molto negativo pensare che, una volta fatto, un museo scolastico debba restare così in eterno. Un museo scolastico dovrebbe essere fatto e rifatto in continuazione. Come tutti i musei, ma con la motivazione aggiuntiva che solo in questo modo se ne può fare uno strumento didattico utile, si può sperare di mantenere viva l’adesione degli insegnanti e ricreare costantemente un rapporto vitale con il pubblico.

Il progetto

La proposta è dunque quella di avviare un programma aperto, realizzabile in tempi medio lunghi e solo all’espressa condizione che ne esistano i presupposti, materiali e umani. Che vi sia cioè un più o meno significativo patrimonio, che vi siano insegnanti interessati a occuparsene, che essi lo facciano con piacere e per libera scelta, per diletto e non per dovere e che tutto questo rientri, se possibile, nella programmazione d’istituto o di circolo. E inoltre che vi siano occasioni di confronto tra le scuole attive, e tra ogni scuola e il territorio e la comunità in cui essa è inserita, che da parte delle istituzioni (il Comune innanzitutto, nelle sue diverse componenti – dal Settore educativo, a quello edilizio, dai Servizi museali a quelli bibliotecari e archivistici – ma anche in collaborazione con le Soprintendenze e gli istituti di ricerca e di alta formazione, come l’Università) vi sia il necessario sostegno e la disponibilità a offrire sedi di coordinamento, mezzi e assistenza tecnica e scientifica.

A queste condizioni un progetto può dare continuità e senso a un impegno di tutela realmente partecipato, sostenibile e anche durevole. Cosa rara, ottenibile grazie a quell’equilibrata combinazione fra impegno locale e coordinamento centrale, fra sostegno pubblico e azione volontaria, fra azione di salvaguardia del patrimonio e opera di valorizzazione e comunicazione che è garanzia di successo di ogni opera museale, e non solo di quella dei musei scolastici.

Daniele Jalla
Coordinatore dei servizi museali della Città di Torino

12 gennaio 2009

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