Giulio
Mozzi, con "Il culto dei morti nell'Italia contemporanea" (Einaudi,
Torino, 2000), ha dato una scossa salutare al panorama autoreferenziale
della scrittura in versi. Giocato su più registri, stilisticamente
eclettico, il lavoro di Mozzi è improntato ad un profondo bisogno
comunicativo, come se, per una volta, il linguaggio della poesia potesse
contribuire ad estendere la dicibilità dell'esperienza umana. Colpisce
anche il caso di un narratore affermato che esce allo scoperto come poeta:
fatto ormai raro, in una comunità letteraria dove vige la più
rigida separazione dei ruoli, anche a livello editoriale, tra prosa e poesia.
Per questi e per altri motivi abbiamo deciso di aprire il primo numero di
"Verso" con un'intervista a Mozzi, cercando di ragionare sulle
ragioni personali e teoriche della sua poetica. Per gentile concessione
di Mozzi, oltre all'intervista, riproduciamo anche la prima sezione del
libro, dal titolo "Vari tipi di eternità: esempi e riflessioni".
Nel tuo itinerario
di scrittura, perlomeno dal punto di vista di un osservatore che dall'esterno
rifletta sulle tue pubblicazioni, c'è come un'emergenza della scrittura
in versi, che via via, da mero contorno, pausa della narrazione, intermezzo,
si autonomizza, fino a diventare infine, con Il culto dei morti nell'Italia
contemporanea, uno spazio a sé. Questa impressione mi porta a chiederti
quali siano le ragioni, come tu te le rappresenti, per cui un insieme
di esperienze vuole essere messo in versi piuttosto che in prosa, per
cui i frammenti vissuti di una vita chiedono, quasi da sé, di essere ricomposti
in forma poetica. Nel "Finale" de Il male naturale, scrivevi
di credere che quello sarebbe stato il tuo ultimo libro di racconti o
almeno che, da quel momento in poi, lo scrivere sarebbe stato per te una
cosa completamente diversa: e a questo proposito mi chiedevo anche quale
ruolo abbia giocato per te la poesia in questo distacco dal tuo precedente
modo di scrittura, visto che anche in Fantasmi e fughe il peso dei versi
nella struttura del libro è centrale.
Intanto: io ho scritto il mio primo
racconto nel 1991. Negli anni precedenti - in particolare nel 1986/'88
- avevo scritti dei versi (molto pochi). Uno dei miei amici più antichi
è Stefano Dal Bianco, che è un poeta (La bella mano, Crocetti; ha anche
curato l'apparato di note alle poesie di Zanzotto, nel recente Meridiano
Mondadori). Con lui, o più esattamente al suo seguito, ho partecipato
a Scarto minimo, una rivista che Stefano ha prodotto per qualche anno
insieme a Fernando Marchiori (che poi si gettò nell'avventura della casa
editrice Il Sestante, durata purtroppo poco) e Mario Benedetti: altri
due poeti. Per me Scarto minimo è stato un'esperienza altamente pedagogica.
Io infatti non ci facevo niente: stavo a vedere, e a sentire, Stefano
Fernando e Mario.
Nella mia libreria, se tolgo la saggistica, ci sono più libri in versi
che libri in prosa.
In somma: voglio dire che per me i versi non sono stati una scoperta dei
quarant'anni: piuttosto una possibilità sempre considerata. Confesso che,
a trattenermi dallo scrivere in versi, per parecchio tempo, c'è stato
il fatto banale che la poesia non la legge quasi nessuno. Non sono mai
stato capace di pensare alla scrittura se non in termini di comunicazione:
e che comunicazione è, una rivista letta da pochi intimi (stimatissimi,
per carità
) o un libro che vende se va bene cinquanta copie? È una
comunicazione in cui alla fatica non corrisponde un risultato degno.
So che questo ragionamento non è del tutto giusto; comunque, è il mio
ragionamento.
Ho scritto il Culto dei morti è pressoché in contemporanea a Fantasmi
e fughe (credo che si veda), ed entrambi li ho scritti anche come antidoto
a un libro fallito (doveva chiamarsi Introduzione ai comportamenti vili).
Fantasmi e fughe è stato una specie di vacanza, un libro abbastanza "di
mestiere", o almeno così pare a me. Il Culto invece è proprio il
risultato del fallimento dell'Introduzione. Visto che di certe cose non
ero capace di parlare in prosa, perché non provare con i versi?
La mia domanda riguardava la visibilità e il peso pubblico/edito della
tua scrittura in versi: dunque i versi non come scoperta dei quarant'anni,
ma appunto come possibilità differita sino a quel punto. Rispetto a ciò,
il ragionamento sull'impotenza comunicativa della poesia - io direi, sulla
poesia come ghetto - non mi sembra banale, anzi, tocca la sostanza "drammatica"
della questione. Nello stesso tempo, la poesia, nel tuo ragionamento,
si impone come risposta/antidoto ad un libro fallito: si impone per una
sua capacità comunicativa, la capacità parlare di ciò che si sottraeva
alla prosa. La poesia che da un lato amplia la comunicabilità dell'esperienza,
ma dall'altro rischia di rendere questa comunicazione autoreferenziale.
Questo situazione paradossale mi sembra descrivere abbastanza fedelmente
qualcosa che non riguarda solo te. A questo punto ti chiedo: l'urgenza
di dire quelle cose era tale da spingerti a dimenticare delle ragioni
che ti avevano precedentemente trattenuto? Oppure, vuoi per la tua posizione
"riconosciuta", vuoi perché, speriamo, i tempi stanno cambiando,
con il tuo libro intendevi in qualche modo contribuire a spezzare quel
cerchio? (Tra parentesi, tra i giovani a anche meno giovani scrittori
italiani, me ne vengono in mente ben pochi che scrivano sia in prosa che
in versi: un fatto questo che, se non mi inganno, non è generalizzabile
a livello europeo. Se penso a una realtà che conosco un poco, cioè la
letteratura tedesca più recente, noto che c'è stata una forte esplosione
- soprattutto nel dopo muro - della produzione poetica da parte di personaggi
che da noi si limiterebbero al romanzo. Basta guardare i cataloghi Suhrkamp
per restare impressionati)
C'è un fatto banale. Dopo aver pubblicato tre libri di racconti (che
hanno venduto decentemente), un libro-inchiesta sugli adolescenti (che
ha venduto bene), un libro di saggi sullo scrivere (che ha venduto pochissimo),
un ricettario di scrittura (fortunatissimo), un'antologia di nuovi narratori
(di discreto successo), un libro misto di prosa e versi (di discreto successo)
- be', in somma, chi poteva dirmi di no, se volevo fare un libro di versi?
Addirittura: poiché in Einaudi mi percepiscono come un "narratore",
il libro di versi l'hanno pubblicato nella collana di narrativa - risultato:
una visibilità che una pubblicazione nella "collana bianca"
non mi avrebbe mai dato.
Poi, è chiaro, il Culto non venderà come un libro di racconti. Ma anche
un libro di racconti non venderà mai come un romanzo
Non si può
avere tutto
Sinceramente non credo che "i tempi stiano cambiando". I miei
"colleghi" coetanei narratori non leggono un verso che sia uno
(generalizzo ed estremizzo, sia chiaro), e quanto ai miei coetanei poeti,
non mi sembrano (in generale) particolarmente propensi alla comunicazione.
Poi, tanto per fare un esempio contrario, c'è un Claudio Donati (classe
1957; La miniera, 1997; Eroi, 2000) che scrive poesie di grande comunicativa,
e ha pure la fortuna (o la bravura sua?) di avere un editore (Fazi) che
propone i suoi libri con vigore.
Qualche tempo fa, prima che il Culto uscisse, un mio amico poeta mi diceva:
"Non è giusto, che perché tu hai pubblicato dei racconti, ti pubblichino
con tanto lusso il libro di versi; e le mie poesie, che sono tanto più
belle, devo sempre farle uscire alla macchia, con queste edizioni sommerse
".
Ora: l'amico - le cui poesie sono effettivamente molto più belle delle
mie - ha ragione nel contingente. Ha torto però in generale. A me pare
che la poesia italiana abbia fatta una scelta, un tot di anni fa: una
scelta di appartamento, di autoascolto, e così via.
Io, per parte mia, sto attentissimo a non dire che ho fatto un libro "di
poesia". Dico: ho fatto un libro "di versi". Anche perché
sono il primo a pensare, che la poesia è un'altra cosa.
Nel racconto "Super Nivem", e poi ancora
in "Coro", si ha l'impressione di trovarsi di fronte a delle
dichiarazioni di poetica, o meglio, di antipoetica, visto che scrivi che
la letteratura "non vale niente", perlomeno in quanto letteratura,
è che il suo valore ha a che fare piuttosto con la redenzione: "tutto
ciò che io scrivo è scrittura sacra in quanto io racconto solo storie
della redenzione". La letteratura, come storia sacra, ha un valore
testimoniale: essa testimonia dell'amore delle persone e con ciò le salva,
come parola di salvezza. Ho letto questi testi dopo Il culto dei morti,
pensando in un primo momento di capire di più attraverso di essi anche
quest'ultimo libro. La domanda che vorrei ora porti ritorna sul tema della
precedente, forse in modo più determinato, forse svelando che cosa avevo
in mente anche prima. A fronte di questo valore testimoniale e redentivo
della testimonianza letteraria, quale è, nella tua esperienza, lo specifico
della poesia? C'è una perfetta continuità rispetto alla prosa, oppure
il tuo orientamento, almeno nel Culto, verso la scrittura in versi, riguarda
anche la maggiore prossimità della poesia a questa funzione testimoniale
di parola di salvezza?
No, no, per carità. Le mie scelte sono opportunistiche. La composizione
in versi ha risorse retoriche in più e in meno, rispetto alla composizione
in prosa. Permette "cambi di scena" velocissimi; passaggi non
motivati da un contenuto a un altro; produzione di specifici significati
per mezzo di rime, assonanze, ripetizioni; produzione di altri significati
per mezzo di richiami a forme tradizionali o desuete (lais, danse macabre,
canzonetta
); suddivisione del testo in unità anche molto piccole
(libro / sezione / componimento / strofa / verso / parola isolata / fonema);
esplicitazione di una certa natura "teatrale" del tutto; e così
via.
Poi vorrei far osservare che nel Male naturale si nega il valore redentivo
della letteratura. In "Finale" scrivo: "Non credo che un
perdono potrà salvarmi, né credo che potranno salvarmi una terapia o il
pensiero razionale o tanto meno la letteratura" ("salvezza"
e "redenzione", per un cattolico come me, sono parole evidentemente
sinonime). E qualche pagina prima avevo citato Tondelli: "La letteratura
non salva mai tanto meno l'innocente".
Devo riformulare la domanda, per migliorare la
comunicazione e capire se effettivamente ho frainteso oppure sono stato
frainteso. Nel Male naturale, e pure altrove, mi sembra, distingui nettamente
tra la salvezza di chi scrive, dell'io - non ottenibile mediante la letteratura
- e la redenzione degli altri, di coloro di cui l'atto di scrittura -
non in quanto letterario - conserva la traccia e testimonia l'amore. Nella
precedente domanda mi riferivo a questo secondo senso di redenzione, che
ho trovato, credo, più volte nei tuoi testi, e che è più difficile da
comprendere: è questo secondo senso, non so quanto metaforicamente inteso,
che mi sembrava costituire una idea di poetica - o meglio, di antipoetica
- e che credevo di sentire alla base del Culto.
D'accordo. Chiedo scusa per la precedente incomprensione, ma - è la
forza dell'abitudine. Mi succede spesso di essere accusato di voler "redimere
me stesso" per mezzo delle belle lettere, e così ho maturato un automatismo.
Se le nostre preghiere possono scorciare le pene alle anime nel purgatorio
- e se una narrazione caritatevole può essere considerata una forma di
preghiera - mi pare sensato dire che il raccontare, appunto non in quanto
"atto letterario", bensì in quanto "atto d'amore",
può forse giovare alla salvezza altrui.
E poiché ubi maior minor cessat, posso dire che della letteratura non
me ne importa un fico secco. "Ma tu fai della letteratura!".
"Certo: la letteratura è il mio strumento".
Il viaggio è un luogo ricorrente della tua scrittura.
E' l'asse portante di Fantasmi e fughe, libro che, stando al risvolto
di copertina, parla di uno scrittore che viaggia a piedi per mezza Italia,
nell'estate più calda del secolo. Un libro di viaggio può essere considerato
anche il Culto, come un viaggio nelle rappresentazioni della morte nell'Italia
di oggi, un viaggio nell'immaginario personale e collettivo, lungo i cigli
delle strade, sui cavalcavia, negli schermi televisivi, dentro i cimiteri,
le piazze universitarie della penisola, in tutti quei luoghi fisici e
mentali dove si officiano i riti della scomparsa. Si può parlare a tuo
avviso, per il Culto, di poesia di viaggio?
Ho il sospetto che l'evocatività della parola "viaggio" sia
eccessiva. Io poi, che sono pieno di metafore territoriali
Che lavoro
con gli architetti e gli urbanisti
Una delle cose che mi girano
per la mente in questi mesi, è una specie di poema urbanistico (che non
scriverò mai, credo, ma che intanto mi gira per la mente). Diciamo che
il Culto è - se è poesia - una poesia di luoghi: di luoghi fisici, ma
anche di loci communes, di luoghi linguistici e culturali
Può andare?
In realtà a me, che il Culto sia o non sia poesia di viaggio, non mi cambia
mica la vita
Prima di ritornare al Culto, seguendo l'onda
del viaggio, permettimi di togliermi una curiosità. In Fantasmi e fughe
utilizzi, negli "Otto passi verso il toro", brani sforbiciati
presi da Camminare di H. D. Thoreau. Un'impressione che avevo avuto già
leggendo il tuo primo libro, Questo è il giardino (da cui poi sono passato
direttamente al Culto, per procedere quindi a ritroso attraverso il Male
naturale e Fantasmi e fughe), è che alle spalle o a fianco della tua scrittura
si possa collocare l'esperienza di un altro grande camminatore, vale a
dire Robert Walser - tra l'altro citato in Fantasmi e fughe. Non so quanto
sia giustificata questa idea, ma la tua scrittura, così precisa e nello
stesso tempo divagante, mi ricordava qualche tratto della prosa di Walser.
E qui non alludo solo alla Passeggiata, perché, consapevole o no, ho ritrovato
qualcosa di Walser anche in altri luoghi, penso alla figura del fattorino
in Questo è il giardino, oppure al servitore di "Richesse",
che potrebbe essere Jakob von Gunten stesso, o perlomeno un servitore
uscito dal suo stesso collegio: e qui l'affinità non è più solo formale,
ma rimanda anche quel tema dell'abnegazione e della felicità nel servizio
che mi sembra emergere anche in certi tuoi racconti.
Chastel, il servo, è Jakob von Gunten; e Richesse, il padrone che muore
nella stanza accando, è Michel de Montaigne (numerose citazioni letterali
dagli Essais sono sparse qua e là). Il ragazzo del racconto "L'apprendista"
(in Questo è il giardino) è tutto sortito dalle prime due o pagine dei
Fratelli Tanner.
Ritornando al Culto, questo libro, forse anche
per la sua dimensione di viaggio, di ricerca, riesce ad esprimere una
forma di scrittura nello stesso tempo privata e pubblica, con una forte
impronta soggettiva, diaristica, ma con un respiro vorrei dire civile.
In fondo non sarebbe la prima volta che, nella nostra tradizione poetica,
proprio la morte, l'esperienza più intima e personale, diventa l'occasione
di un uso civile della poesia - e qui penso naturalmente al Parini e soprattutto
ai Sepolcri di Foscolo - che tra l'altro era delle tue parti: "neh,
Pindemonte". Ora, il discorso sulla funzione civile o sociale della
poesia sembra, anche per giustificate ragioni, aver segnato il passo dopo
le sbornie ideologiche degli scorsi decenni; tuttavia, leggendo il Culto,
ho pensato che questo libro, proprio perché non muove da prese di posizioni
ideologiche, dalla prospettiva di un impegno, proprio perché filtra le
immagini del vivere comune attraverso una ineliminabile presa soggettiva,
finisce per assumere veramente una valenza civile di inusuale potenza
rispetto alla poesia italiana contemporanea. Tu che ne pensi?
Ma, secondo me le "prese di posizione ideologiche" ci sono,
nel Culto; e la "prospettiva di un impegno" pure. Se poi non
si vedono - non si fanno vedere nel modo fastidioso che è proprio della
"poesia a programma" -, sono contento. In realtà il Culto è
abbastanza "poesia a programma"
Credo che la "poesia italiana contemporanea" sia, presa nel
suo complesso, più civile e più politica di quel che si pensa. Di questi
tempi, anche se solo "la tua privata, unica voce / metti in salvo",
come scriveva Antonio Porta in Europa cavalca un toro nero, è un atto
civile e politico.
I guai cominciano quando si vuol negare il contenuto civile e politico
di ciò che si fa
Perché allora, credo che non ci sia scampo, si
finisce col fare l'elogio del potente. Oggi, in Italia, qualunque attività
(dal nutrirsi allo scrivere versi) alla quale si voglia negare contenuto
civile e politico, diventa un elogio del potente. Perché ciò che oggi
il potente ci chiede, non è di servirlo, ma di divertirci
La citazione da Europa cavalca un cavallo nero
mi sembra emblematica per il problema che volevo sollevare: una valenza
civile che nasce non tanto da una presa di posizione a priori, astratta,
quanto piuttosto dal tentativo di dire, di nominare la propria posizione,
privata, ineliminabile - e proprio per questo pubblica - nel mondo. Questo
mi sembra uno degli aspetti che più colpiscono nella tua scrittura, in
termini di riuscita, e mi fa venire in mente le righe finali del Culto:
"So che quando scrivo il pronome "io", o lo sottintendo,
sto facendo della fiction. Non è una scelta, se a qualcuno fosse venuto
in mente. In queste stesse pagine ci sono diverse voci che parlano. Nessuna
di queste voci è esattamente la mia, eppure mi prendo la responsabilità
di tutte e firmo: "Giulio Mozzi"".
Ma perché disprezzare le prese di posizione a priori? Tutti noi facciamo
delle prese di posizione a priori; quindi, perché disprezzarle? Io ho
delle prese di posizione a priori.
Sono cristiano. Appartengo quindi a una storia. Tutto ciò che vedo avvenire,
lo vedo avvenire dentro questa storia. Le mie stesse narrazioni, le considero
parti di questa storia. Questa storia riguarda le persone umane, la persona
divina, il mondo, il tutto, e tutto il resto.
Certo: essendo la mia "presa di posizione a priori" una storia,
e non un'ideologia, non posso pretendere che essa sia difendibile sul
piano razionale. Essa è difendibile solo in quanto è credibile (alle storie,
ci si crede o no). E la credibilità, è una cosa che ti mette un po' in
gioco, no? Ad esempio, la prima cosa per essere credibili, è non mentire
sulla propria identità. Il che, nell'"era della fiction", è
una faccenda complicata
Leggendo il Culto, non riuscivo a non pensare alla Ragazza Carla di Pagliarani,
anche se in verità non mi spiegavo esattamente questa cosa, non avevo
delle ragioni specifiche per pensarlo, se non il fatto che mi sembrava
che, dopo il poemetto di Pagliarani, il tuo poema fosse uno dei pochi
esempi riusciti di scrittura in versi nello stesso tempo narrativa e sperimentale,
personale e civile. Solo in seguito ho letto la poesia "Apertura",
contenuta nel Male naturale e dedicata "con rispetto" a Pagliarani,
dove si parla di Lorenza, anche lei, come Carla, una ragazza lavoratrice.
A questo punto ho pensato che forse il motivo più forte che mi faceva
pensare a Pagliarani non erano questioni di affinità formali o contenutistiche
- che in effetti nel Culto non ci sono - quanto piuttosto l'atto stesso
del raccontare in versi, un atto che nel nostro Novecento, dove sembra
dominare una linea lirica, è inusuale e ha pochi modelli di riferimento
in fondo, giusto il Pavese di Lavorare stanca, il Bertolucci della Camera
da letto e La ragazza Carla di Pagliarani. Vorrei dunque chiederti non
solo qualche parola sul tuo tributo a Pagliarani, ma soprattutto su che
cosa significa narrare, raccontare in versi, su quali sono i problemi
formali che questa scelta ti ha posto e su quali sono stati i tuoi modelli
di riferimento, anche stranieri.
I miei problemi formali li ho risolti alla spicciolata, andando a caccia
di modelli a destra e a manca. Nel momento in cui decisi che ciò che volevo
fare era "un poema", mi misi a leggere poemi. Moderni, contemporanei.
O almeno libri che avessero, complessivamente considerati, un carattere
poematico (esempio: Le avventure complete della signorina Richmond, di
Nanni Balestrini, pubblicate giusto nel maggio del 1999).
A questo punto va detto: che niente è paragonabile alla lettura dei poeti
anglosassoni "modernisti". Da Gerald Manley Hopkins all'estremo
Ezra Pound. Ma forse - per formare un vero "poeta narratore"
- basterebbe una buona scelta da Eliot
Semplificiando. Io sentivo di avere, diciamo così, tre problemi: un problema
di forma generale, un problema di montaggio, un problema di forma locale.
Il problema di forma generale, alla fin fine ho rinunciato a pormelo.
Quand'è venuto il momento di "chiudere" il libro - e quindi
di buttare via tutto ciò che non sembrasse strettamente necessario - mi
sono messo a provare e riprovare, e ho dato al libro la forma che a occhio
e croce mi sembrava più sensata: le varie sezioni si susseguono in ordine
cronologico di ideazione (non di composizione, però).
Il problema di forma locale l'ho affrontato con l'imitazione. Tutti vedono
che nella sezione "Vari tipi di eternità: esempi e riflessioni"
il modello è Paterson di William Carlos Williams, che in "Uccisioni
rituali di animali, e altri riti" c'è Balestrini con la sua particolarissima
quartina, dietro "Uno sguardo fuori di casa" c'è Antonio Porta
con le sue strofe "a posizioni sintattiche fisse", eccetera.
Ciro di Pers è usato esplicitamente come modello in "Recitativo:
cadaver talks", "Il nome della persona amata" è fatto a
quattro mani con Giuseppe Caliceti
Il montaggio è stato invece il grande lavoro di questo libro. Trascrivo
tre frasi di Edoardo Sanguineti: "Può dirsi così, con veloce leggerezza,
che questo fu il secolo delle avanguardie, perché fu il secolo delle anarchie,
perché fu il secolo del montaggio. Ogni struttura linguistica apparve,
e appare, articolata, organizzandosi ideologicamente, in un sistema di
correlazioni tra elementi nucleari, immagini e sequenze, parole e sintagmi,
suoni e ritmi. Per questo mondo, per così dire, non c'è che collage. Perché
infine non c'è che contestualità assemblate, in un perpetuo lavoro di
intratestualità e intertestualità" ("Le linee della ricerca
avanguardistica", in Letteratura italiana del Novecento. Bilancio
di un secolo, a c. di Alberto Asor Rosa, Einaudi 2000, p. 434). Ecco,
io la vedo così. Ho cercato di lavorare sapendo che la condizione della
letteratura oggi è così.
Tra parentesi: ogni volta che mi trovo a parlare di ciò che faccio, saltano
fuori questi nomi: Porta, Balestrini, Sanguineti, Pagliarani. Nel 1996
ci fu questa scemissima voga giornalistica del pulp, e si discettava sul
fatto che i nuovi narratori pulp erano o sembravano essere gli "eredi"
del gruppo '63. Io venivo collocato nell'"opposizione buonista":
una posizione sostanzialmente da reazionario. Il bello è che, nel giro
dei cosiddetti giovani scrittori, forse l'unico ad essere veramente cresciuto
leggendo - da adolescente - Porta, Balestrini, Sanguineti e Pagliarani:
be', sono io.
Cosa che non mi ha impedito di essere, fondamentalmente, uno scrittore
elegiaco e sentimentale
Nella nota finale al Culto scrivi: "Resisto
alla tentazione di fare un discorso sulla scrittura modernistica e neoavanguardistica
diventata ormai "arte da museo", cioè repertorio di forme oggi
imitabili indipendentemente dalle ragioni che le hanno fatte cercare e
inventare". Nonostante la resistenza, queste righe sembrano già dire
molto sulle tue scelte formali e sulle loro ragioni. Da un lato è abbastanza
chiaro che nelle tue scelte formali c'è una netta impronta della neoavanguardia,
che tu attingi al serbatoio di forme da essa resa disponibile. Nello stesso
tempo questa opzione non sembra essere motivata dalle ragioni che avevano
fatto cercare e inventare quelle forme. Qui c'è un discorso generale,
che riguarda l'esaurimento della spinta avanguardista nell'arte contemporanea:
e la tua opzione, in termini generazionali, sembra accostabile a quella
di tanti artisti che, perlomeno rispetto alla generazione precedente -
la quale in rivolta contro il neoavanguardismo aveva cercato un recupero
della poesia a tutto tondo - si sentono liberi dalla dicotomia arte tradizionale-arte
avanguardistica, liberi di pescare ora qui, ora là, senza uno schema ideologico
preconcetto. Ma, se le cose stanno così, non si deve trascurare anche
il discorso personale: perché tu, Giulio Mozzi, ritieni di doverti servire,
in funzione anti-lirica, di repertori dell'avanguardia? Quali sono le
tue ragioni, indipendenti da quelle che avevano mosso chi aveva inventato
quelle forme? Un'ulteriore ragione per porti questa domanda è costituita
dal fatto che l'idea testimoniale del valore della letteratura, la sua
stretta connessione alla redenzione, sarebbe in linea di principio compatibile
anche con opzioni formali molto più tradizionali, molto più vicine ad
una linea lirica.
Calma, calma. Intanto: il Culto è forse anti-lirico? Non si conclude
forse con due sezioni decisamente liriche?
Poi: chi, in Italia, dal 1960 in qua, neoavanguardisti a parte, ha prodotto
delle "forme" che possano essere imitate? Mica tanti, eh! (Mi
viene in mente: la strofa "puskiniana" di Giudici, ovvero quella
di Salutz; l'andatura di Caproni; e poi?). Milo De Angelis, per dire,
ha dissolto molte più forme che non Nanni Balestrini o Adriano Spatola.
Come diceva Porta (cito a memoria): "Della pars destruens dell'avanguardia
non m'importa nulla; m'importa la pars construens".
Ora l'avanguardia è diventata, come auspicava a suo tempo credo Sanguineti,
"arte da museo". Cioè a suo modo classica, imitabile. Non sono
io che decido di usare queste forme, è che queste forme sono ormai diventate
"da museo" e quindi si possono usare
A proposito della questione lirica-antilirica,
ricordo, a memoria, di aver letto una tua intervista su un giornale/fanzine
di Venezia (o di Mestre), dove mi sembrava che tu prendessi posizione
esplicitamente verso la poesia "lirica" - almeno classicamente
intesa. Questa cosa mi aveva colpito - perché a me, effettivamente, la
tua poesia sembra, per larghi tratti, lirica - e deve essermi rimasta
sottotraccia quando ho formulato la domanda. Però, questa dimensione lirica
è ottenuta mediante uno straniamento, per una via certamente non usuale
alla lirica tradizionale, volta a recuperare l'effetto lirico mediante
l'uso di forme, materiali, situazioni estranee ai luoghi classici del
"lirismo poetico". Qui, tra l'altro, mi sembra risiedere quell'elemento
personale - di cui ti chiedevo ragione - della tua appropriazione delle
forme sperimentali dell'avanguardia. Comunque, anche in questo caso, la
citazione da Porta mi sembra emblematica (e condivisibile).
Ci sono cose che si dicono magari estremizzando un po', per farsi capire
nella situazione. A una persona che confonda - come molti fanno, oserei
dire quasi tutti - "poesia" e "lirica", io sono costretto
a dire che il Culto non è lirico, bensì, che so, "epico-pedagogico".
Poi: credo veramente che bisognerebbe, oggigiorno, piantarla con questa
confusione tra "poesia" e "lirica". E bisognerebbe
anche piantarla col voler leggere tutta la "poesia" come se
fosse "lirica". O siamo tutti dei crociani di ritorno?
Poi: alla frase: "Questa dimensione lirica è ottenuta mediante uno
straniamento, per una via certamente non usuale alla lirica tradizionale",
bisogna aggiungere una determinazione: "
non usuale alla lirica
tradizionale italiana fino agli anni sessanta". Quanto c'è di lirico
nella Ragazza Carla? Quanto c'è di lirico nelle Postkarden di Sanguineti?
Quanto c'è di lirico di Trasumanar e organizzar? Parecchio, secondo me.
Sinceramente: non mi sembra di aver fatto niente di particolarmente nuovo.
Credo che dal punto di vista "critico", tutto nel Culto possa
essere descritto nei termini di "epigonismo modernista", o qualcosa
del genere.
(Mi sento un po' buffo. Di solito si rivendica la novità più o meno assoluta
di quel che si fa
).
Il primo pezzo del Culto, quello che segue l'"Intro",
si apre con la morte televisiva di Antonio Porta, dietro le quinte del
Costanzo Show. Mi chiedevo perché hai messo proprio questo fatto in apertura
del tuo libro. Qui la domanda ha delle ragioni personali: infatti, quando
morì Porta, io, che allora avevo 16-17 anni, credo, ne rimasi molto colpito,
perché, da ragazzino che spulciava gli anfratti delle librerie in cerca
di libri di poesia, mi ero imbattuto nei suoi libri, particolarmente in
Cara e ne Il giardiniere contro il becchino, e me ne ero innamorato. Anche
in seguito ho continuato a pensare che l'esperienza poetica di Porta fosse
ingiustamente sottovalutata e che, nel panorama della neoavanguardia,
egli era stato forse il meno ideologico nelle sue scelte formali e probabilmente
il più ispirato, per usare un termine enfatico. Per questo vorrei chiederti
se, oltre il rimando alla sua morte televisiva, e all'effetto involontariamente
ironico che questa morte ha, con quel "sì" alla vita che Porta
avrebbe pronunciato morendo - lo stesso "sì" che aveva articolato
ne Il giardiniere contro il becchino - vorrei chiederti quale è per te,
se c'è, il valore dell'opera di Porta. E qui, muovendomi al livello di
pure suggestioni, devo dire che lo stesso titolo del suo ultimo libro,
appunto Il giardiniere contro il becchino, mi rimanda a qualcosa di tuo.
Non ho messo in apertura del libro un fatto, ma una leggenda. Porta
non è morto in quel modo, almeno non è morto esattamente in quel modo.
Ma le leggende, com'è nella loro natura, sono molto più significative
della cronaca. Mi sembra chiaro che Antonio Porta è il giardiniere, e
Maurizio Costanzo è il becchino. Per il momento il becchino è convinto
di essersela cavata, ma non sa ancora che cosa l'aspetta
Per parte mia dico: sì.
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