di Anna Pozzi

Avvenire, 16 aprile 2022

A colloquio con Cosima Buccoliero, direttrice del penitenziario di Torino, sui temi della giustizia riparativa. “Bisogna spostare l’attenzione dalle strutture di reclusione e dai detenuti ai percorsi di mediazione possibili”.

La prima cosa che tiene a far notare è che la Costituzione italiana non parla mai di carcere. La prima che si nota è che lei non parla mai di detenuti. Parla di persone detenute, ponendo l’accento sulla persona, appunto. Detenuto è l’aggettivo che la qualifica per un periodo più o meno lungo della sua vita. Cosima Buccoliero è molto attenta alle parole, dal momento che si occupa di persone in una condizione di privazione della loro libertà.

Perché hanno commesso un reato, certo, ma anche perché il sistema italiano della pena continua a mettere al centro quasi esclusivamente il carcere. Buccoliero è attualmente direttrice del penitenziario di Torino, ma sino a pochi mesi fa ha guidato il carcere “modello” di Bollate e l’Istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano. Esperienze che, in modo diverso, testimoniano della possibilità di creare contesti di umanità e dignità anche dietro le sbarre e di costruire occasioni di inclusione e di “apertura” alla comunità affinché – dice – “il carcere riesca nel suo mandato istituzionale di rieducazione e di creazione di percorsi di accompagnamento, che offrano competenze e professionalità sia per minori che per adulti”.

“Il carcere deve poter realizzare un ponte con l’esterno – precisa Cosima Buccoliero che si è molto spesa proprio in questo – per dare un senso al tempo trascorso in detenzione: la comunità deve entrare e il carcere deve uscire. Anche per abbattere pregiudizi e scardinare la mentalità per cui se non è carcere non è pena”.

Non solo. Specialmente riguardo ai minorenni, Buccoliero rimarca l’importanza del confronto con specialisti e psicologi per far sì che la reclusione non sia stigmatizzante e neppure pregiudizievole per la salute psico-fisica del ragazzo. “A volte ci siamo sentiti impotenti. Specialmente quando il carcere diventa luogo di separazione e di alienazione, luogo di “invisibilità”, che aggrava la pena e la situazione del detenuto. In questi casi diventa un luogo che non ha senso”.

Che fare dunque per portare una luce dietro le sbarre, per non togliere la speranza e provare a ricostruire prospettive di futuro? “Bisogna superare l’ottica della centralità del carcere, ma anche della centralità del condannato. Bisogna spostare l’attenzione sulla vittima e attivare percorsi di mediazione e di giustizia riparativa. Non è facile, anzi. Sono molto difficili da far recepire e da condividere intimamente. A Bollate, ci sono stati tanti esempi e abbiamo visto che funzionano. Non solo di incontro della persona detenuta con la vittima specifica, ma anche con vittime aspecifiche, ad esempio comunità o gruppi colpiti dallo stesso reato”.

La giustizia minorile ha già avviato da diversi anni questi percorsi, anche grazie all’intervento delle istituzioni. A Milano, ad esempio, il Comune ha un ufficio specifico per la giustizia riparativa e la mediazione penale, sia attraverso la partecipazione ai percorsi individuali all’interno del carcere sia soprattutto all’esterno con persone che vengono segnalate dal tribunale dei minori. “Per gli adulti è più complicato – deve ammettere la direttrice – anche in una città come Milano che ha un contesto favorevole. E poi non ci si improvvisa in questi percorsi che sono sempre molto delicati: servono professionisti preparati in grado di accompagnarli”.

Insiste, tuttavia, sulla necessità di diffonderli e rafforzarli. “Quello che ho potuto vedere è che la cultura della mediazione e della conciliazione serve non solo alla persona detenuta, ma a tutti quelli che sono intorno e ne beneficiano”. Racconta di un uomo condannato alla detenzione e della famiglia che se n’era allontanata, in particolare del figlio che rifiutava di incontrarlo. Dopo la sua morte improvvisa, altri detenuti hanno espresso il desiderio di incontrare la famiglia per raccontare, dal loro punto di vista, chi era quell’uomo, come lo avevano conosciuto e come era riuscito ad aiutare altre persone.

“Con molte cautele – racconta Buccoliero – abbiamo contattato la famiglia che ha accettato di fare una serie di incontri con gli altri detenuti. Questo ha smosso qualcosa nei familiari che si sono riconciliati non solo con il loro congiunto, ma si sono riappacificati intimamente anche con loro stessi e con il loro senso di colpa per averlo abbandonato. La giustizia riparativa in fondo fa questo: “ripara” le ferite. È un esempio di quello che può fare la cultura del perdono e della riconciliazione”. Perdono e riconciliazione, del resto, non appartengono solo alla dimensione del passato, ma aprono a una prospettiva di liberazione e dunque di futuro. E alla speranza, come possibilità concreta e responsabile di riannodare fili spezzati.

Carcere, ripartire dalle vittime