A cosa serve la pena? Da secoli i filosofi del diritto hanno risposto a questa domanda elaborando teorie diverse che si intrecciano fra loro. Si deve punire il colpevole perché a un comportamento antisociale si risponde con una reazione negativa che riaffermi l’autorità dello Stato. Si deve dissuadere chi ha commesso un reato dal commetterne altri. Si deve dissuadere la generalità dei consociati dal commettere reati: dimostrando che chi viola la legge subisce delle conseguenze negative. Da tempo, però, a queste domande se ne sono aggiunte altre, più radicali. A cosa serve il carcere? Come far finta di non vedere che il carcere, escludendo una persona dalla comunità e dalle relazioni con gli altri, confligge insanabilmente con la dignità della persona? Se la vera identità del carcere è la segregazione, non c’è mutamento dell’istituzione che la possa cambiare. E dunque, se vogliamo rispettare quel tanto citato articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui le pene non possono consistere in «trattamenti inumani e degradanti», non rimane che abolire il carcere.

Se badiamo solo alla coerenza dei princìpi, gli amici che ci pongono queste domande hanno ragione. E probabilmente ha ragione Francesco D’Agostino quando ci dice che la detenzione ha poco a che vedere con quella «rieducazione del condannato» promessa dall’articolo 27 della Costituzione. Si potrebbe rispondere che la stessa Costituzione vieta soltanto la pena di morte e dunque, implicitamente, ammette il carcere. Ma è risposta troppo facile, che non ci appaga. E allora, a costo di apparire cinici (ma in certi casi è meglio rischiare d’essere cinici anziché ipocriti), dobbiamo ammettere: è vero, oggi la pena carceraria è una «pratica di difesa sociale», una «tecnica di prevenzione dei reati». È vero: oggi, nel governo della ‘città terrena’, la privazione della libertà personale del colpevole di reati gravi è una necessità sociale. Faccio un esempio estremo: cosa accadrebbe se l’autore di una strage di bambini in un asilo, pochi giorni dopo passeggiasse liberamente per la strada? Ma, anche senza estremizzare, noi sappiamo che la comunità dei cittadini non può tollerare di avere con sé, immediatamente dopo la commissione di un delitto, l’autore di un fatto grave. Se ciò avvenisse, lo Stato tradirebbe il patto fondamentale che esso stringe con i cittadini e che in sostanza dice: ‘Tu, cittadino, rinunci a farti giustizia da solo e a esercitare la violenza per garantire la tua sicurezza, perché in cambio io, Stato, ti garantisco di farmi carico della tua sicurezza e di rispondere alla violenza che da altri potrai subire’.

La finalità dell’articolo 27 – la pena deve aiutare il condannato a reinserirsi nel consorzio dei cittadini – non cancella completamente le altre finalità tradizionalmente affidate alla sanzione, escluso soltanto il fine di vendetta. In particolare, la Costituzione non esclude lo scopo che i giuristi chiamano di «prevenzione generale». Punendo l’autore di un delitto, lo Stato tende anche a far capire agli altri cittadini che commettere un reato non conviene: perché c’è il rischio d’essere scoperti e d’essere condannati e puniti. Se lo Stato incarcera un grande spacciatore di droga lo fa anche perché altre persone, che si trovano nella stessa condizione sociale dello spacciatore e hanno scelto invece di lavorare onestamente (guadagnando, in un mese, quello che lo spacciatore guadagna in due ore), non siano tentate di seguire anche loro la strada del delitto.

Dopodiché, ammesso che in alcuni casi sia indispensabile segregare (per il minor tempo possibile) l’autore di un fatto grave, questa ‘segregazione’ non deve mai essere disumana: per nessuno, neppure per l’autore del delitto più odioso. Per questo, lo Stato dovrà cercare di ridurre al minimo gli effetti della privazione della libertà, attenuando il più possibile la differenza tra la vita libera e quella detentiva. E dunque, adoperarsi affinché il tempo trascorso in carcere dal condannato non sia uno spazio vuoto. Ma sia riempito di opportunità, di cui il condannato può usufruire per la sua ‘rieducazione’. Il termine ‘rieducazione’ può non piacere: perché la vocazione dello Stato a rieducare è tipica dei regimi totalitari. Ma la ‘rieducazione’ di cui parla la nostra Costituzione non è imposizione bensì opportunità. L’articolo 27 dice che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato »; non che ‘rieducano’ il condannato. Non è solo una differenza lessicale. Opportunità di reinserimento significa libri da leggere, palestre, laboratori in cui imparare un mestiere, possibilità di confronto con i ministri di culto (oggi di varie religioni, possibilmente in dialogo tra loro).

Dunque, la ‘rieducazione’ è l’orizzonte cui la pena deve tendere: è la luce che il condannato deve poter vedere in fondo al tunnel. Questa luce non può essere spenta per nessuno: per questo siamo contrari a tutte le preclusioni automatiche di accesso ai benefici. Per questo pensiamo che l’aver riposto in un cassetto le parti principali della riforma dell’ordinamento penitenziario tesa a umanizzare il carcere – che la ‘Commissione Giostra’ aveva elaborato nella scorsa legislatura – sia stato un errore. Ma gli errori si possono sempre rimediare.

 

Fonte: Avvenire.it

Link: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/quel-patto-necessario-e-luce-in-fondo-al-tunnel?fbclid=IwAR0s2dLDIHdrmYSH0faM-7VBcBQdKR2jDKfnz9bTNneXIUuAcI9zRAH64vU

Legge e carcere: parola di magistrato. Quel patto necessario e luce in fondo al tunnel