Dal caso di Moussa Balde, una riflessione sui Centri di Permanenza per il rimpatrio

La presentazione del libro presso la Moschea Taiba di via Chivasso 10F

La presentazione del libro di Maurizio Veglio “La malapena”, avvenuta ieri sera nell’ampia sala di preghiera della Moschea Taiba di via Chivasso 10F, Borgo Aurora, è stata l’occasione per una più amplia riflessione  sul tema della detenzione amministrativa. L’iniziativa, svoltasi nell’ambito del Salone Off, gli appuntamenti  del Salone Internazionale del Libro spalmati sul territorio cittadino, era stato promosso dall’Ufficio della Garante per i diritti delle persone private della liberà personale della Città di Torino, Monica Cristina Gallo. Spunto del libro, la dolorosa e per certi versi incredibile vicenda del giovane migrante guineano Moussa Balde, vittima  a Ventimiglia di un’aggressione a sfondo razzista e quindi ritrovatosi rinchiuso nel CPR di Torino, in corso Brunelleschi, all’interno del quale si è poi tolto la vita, poco meno di un anno fa, il 23 maggio 2021.

Moussa Balde, morto suicida nel CPR di Torino. Aveva subito un’aggressione razzista in Liguria

Ma a ad essere messa in luce, attraverso questa tragica storia, è la situazione dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), che nel corso degli anni hanno cambiato denominazione ma non la funzione, che è quella di trattenere di fatto in stato di carcerazione persone il cui unico crimine è quello di non avere documenti in regola. Persone rinchiuse non dopo un processo con giudice togato, ma con un procedimento di detenzione amministrativa, che può protrarsi, in attesa del rimpatrio forzato (che peraltro avviene in un caso su sei), anche per diciotto mesi. Per fare un esempio, ha spiegato ai presenti l’autore del libro, che è anche un avvocato, è come se si finisse in carcere per essere andati a pesca senza la relativa licenza, un illecito puramente amministrativo.  Quella del CPR è stata definita da Veglio una sorta di Apartheid etnica, dove alcune categorie di persone sono private della libertà in base a un documento di identità, in un CPR strutturato come una gabbia.

Il CPR è infatti un luogo troppo chiuso, dove associazioni e cittadini non possono entrare, dove è proibito l’uso di telefoni cellulari, dove  le persone sono rinchiuse con modalità troppo simili a quelle di un carcere. Su questo, la Garante ha espresso la speranza che la nuova gestione recentemente subentrata possa aprire ulteriori possibilità di intervento sul CPR: e dei segnali in questo senso ci sono, ad esempio sui colloqui con le persone trattenute nella struttura. Resta il problema, è stato sottolineato dal dibattito, di una legislazione italiana ed europea che nel corso degli anni si è irrigidita ulteriormente, non solo verso i migranti ma anche verso gli stessi richiedenti asilo, in una filiera della detenzione che spesso comincia dalle stesse navi sulle quali hanno trovato aiuto e salvezza e porta direttamente ai CPR precludendo contatti con avvocati e volontariato. Eppure, per i profughi ucraini, a loro volta non comunitari, ci sono state 2.600.000 pratiche di protezione e rifugio in pochi mesi, prova che un altro approccio  ai flussi migratori è possibile, è stato sostenuto nel dibattito. L’assessore comunale al welfare, da parte sua, ha poi sottolineato come si auspicabile un rapido superamento dei CPR – poiché la detenzione amministrativa è contraria alla Costituzione –  e di un certo mainstream securitario, ma pragmaticamente occorre immergersi nella realtà esistente e tentare da subito di migliorarla.

Claudio Raffaelli