Povertà globale: un’apocalisse che può essere sconfitta

di Thomas Pogge

FILOSOFO

Nonostante un elevato e crescente livello del reddito globale medio, miliardi di esseri umani sono ancora condannati a una vita di grave povertà, con tutte le pene conseguenti di bassa aspettativa di vita, emarginazione sociale, salute precaria, analfabetismo, sottomissione e riduzione in schiavitù.

Il bilancio dei morti per cause legate alla povertà è di circa 18 milioni all’anno, ossia un terzo di tutti i decessi umani, per un totale di circa 320 milioni di morti dalla fine della Guerra Fredda.

SE SOLO TENTASSIMO...

Questo problema non è irrisolvibile, malgrado la sua enormità. Anche se rappresentano oltre il 45 per cento della popolazione mondiale, 3085 milioni di persone – che la Banca Mondiale calcola vivere al di sotto della più ottimista linea di povertà internazionale, stimata a 2,5 dollari al giorno – consumano solo l’1,38 per cento del prodotto globale, e sarebbe sufficiente soltanto l’1,13 per cento in più per permettergli di sfuggire alla povertà calcolata secondo quel parametro.

I paesi ad alto reddito, per contro, con i loro 1056 milioni di cittadini, dispongono di oltre il 75 per cento del prodotto globale.

Con il nostro reddito medio pro capite di quasi 180 volte superiore (ai tassi di cambio di mercato), potremmo sradicare la povertà grave in tutto il mondo, se solo tentassimo, anzi, avremmo potuto debellarla da decenni.

I cittadini dei paesi ricchi sono tuttavia condizionati a minimizzare la gravità e la persistenza della povertà nel mondo e a prefigurarla come questione di assistenza caritatevole. Grazie in parte alle razionalizzazioni fornite dai nostri economisti, molti di noi ritengono che la grave povertà e la sua persistenza siano dovute esclusivamente a fattori locali. Pochi di noi la percepiscono come danno grave e permanente, inflitto ai poveri globali.

Se la maggior parte di noi comprendesse la vera entità del problema e il nostro coinvolgimento attivo tra le cause della povertà, si potrebbe compiere ciò che è necessario per sradicarla.

Pare del tutto incredibile alla maggior parte dei cittadini dei paesi ricchi che la povertà mondiale sia un danno inflitto da noi. Consideriamo tragico il fatto che i diritti umani fondamentali di tante persone rimangono insoddisfatti, e siamo disposti ad ammettere che dovremmo fare di più per aiutarle, ma sarebbe impensabile, per noi, concludere che stiamo attivamente provocando questa catastrofe.

Se davvero fosse così, noi, civili e raffinati abitanti dei paesi sviluppati, saremmo colpevoli del più grande crimine contro l’umanità mai commesso, il cui bilancio delle vittime sarebbe superiore, ogni settimana, a quello del recente tsunami e, ogni tre anni, a quello della seconda guerra mondiale – campi di concentramento e gulag inclusi.

Cosa c’è di più assurdo?

Ma immaginiamo l’impensabile per un momento.

Ci sono cose che i paesi ricchi potrebbero fare per ridurre la povertà grave all’estero?

Sembra molto probabile che ci siano, considerate le enormi disparità di reddito e di ricchezza già menzionate.

La tesi più comune, tuttavia, è che la riduzione della grave povertà all’estero sarebbe un gesto generoso da parte nostra, ma non qualcosa di dovuto, e che la nostra incapacità di realizzarla si spiega, tutt’al più, in una mancanza di generosità che non ci rende peraltro moralmente responsabili delle continue privazioni subite dai poveri.

L’ONERE DELLA SPIEGAZIONE

Io nego questa ipotesi popolare. Nego che 1011 milioni di cittadini dei paesi ricchi abbiano moralmente diritto al 79 per cento del prodotto globale, a fronte di un numero tre volte superiore di persone bloccate nella e dalla povertà grave.

Può forse questa disuguaglianza radicale, tra la nostra ricchezza e il loro bisogno disperato, attribuirci almeno l’onere di spiegare il motivo per cui noi dovremmo essere moralmente autorizzati a tanto e loro a così poco?

Nel volume Povertà mondiale e diritti umani, discuto l’ipotesi popolare, dimostrando che la giustificazione del nostro enorme vantaggio, adottata usualmente, non regge. (...)

Molti credono che la disuguaglianza radicale che abbiamo di fronte possa essere giustificata con la storia della sua evoluzione, ad esempio, riferendosi alle differenze di operosità, cultura, istituzioni sociali, suolo, clima, o fortuna.

Sfido questa sorta di giustificazione ricordando la storia molto violenta che ci accomuna, attraverso cui l’odierna disuguaglianza radicale è venuta a prodursi. Gran parte di essa è il risultato dell’epoca coloniale, quando i paesi ricchi di oggi governavano sulle regioni povere del mondo: commerciando quei popoli come bestiame, distruggendo le loro istituzioni politiche e le loro culture, depredando le loro terre e le loro risorse naturali, e forzandoli a consumare prodotti e ad adottare costumi diversi.

Ribadisco questi fatti storici specificamente ai lettori che credono che la disuguaglianza, anche la più radicale, sia moralmente giustificabile se ha origine da un processo legittimo. Questi lettori non concordano sulle condizioni che il processo storico deve soddisfare perché possa fornirci una giustificazione dell’enorme disparità nelle speranze di vita. Ma posso ignorare tali divergenze, poiché i crimini storici furono così orrendi, molteplici e decisivi, che nessuna concezione storica o teoria delle acquisizioni e dei trasferimenti legittimi dei possessi potrebbe sostenere in modo credibile la tesi secondo la quale la nostra storia comune fu abbastanza benigna per giustificare la disparità enorme che oggi caratterizza le posizioni sociali di partenza.

Sfide come questa vengono spesso respinte facendo appello alla pigra considerazione che non ci possiamo ritenere responsabili di ciò che altri fecero molto tempo fa.

Questa considerazione è vera ma irrilevante.

Infatti, noi non possiamo ereditare le responsabilità dei peccati dei nostri antenati. Ma allora come possiamo rivendicarne plausibilmente i frutti? Come potevamo, nel periodo postcoloniale, ereditare quella posizione di grande vantaggio che ci ha permesso di dominare e plasmare il mondo? E come possiamo avere diritto ai conseguenti ed enormi vantaggi sui poveri globali, di cui godiamo fin dalla nascita?

Il percorso storico da cui emerse la nostra eccezionale ricchezza indebolisce notevolmente la nostra pretesa morale su di essa – certamente di fronte a coloro cui lo stesso processo storico ha consegnato una realtà di acute privazioni.

Loro, i poveri globali, hanno un diritto morale molto più forte del nostro su quell’1 per cento del prodotto globale che consentirebbe loro di soddisfare bisogni di base, mentre noi continueremmo ad assorbirne l’80 invece che l’81 per cento.

Così, scrivo, «a una storia moralmente molto torbida non deve essere permesso di produrre disuguaglianza radicale».

 

2 giugno 2010 pubblicato nell'edizione Nazionale dell’UNITA’ (pagina 36) nella sezione "Culture"

 

 

 

Non aiutate i poveri difendetene i diritti

«Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche», si legge nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 (art. 25), in cui si enuncia anche il diritto di ciascuno «ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati» (art. 28). E tuttavia la globalizzazione e l'immenso progresso tecnologico ed economico degli ultimi anni, lungi dall'appianare le differenze tra i popoli, ne ha accentuato le disparità: il cinquanta per cento della popolazione mondiale vive in condizioni di estrema povertà, nell'indifferenza del mondo occidentale: come emerge dai dati raccolti dalla Banca mondiale oltre un miliardo di persone non ha cibo sufficiente, circa un miliardo non dispone di acqua potabile, due miliardi e mezzo non fruiscono delle misure igieniche basilari, due miliardi circa non dispongono dei medicinali essenziali.

Viceversa, l'ottanta per cento della spesa globale destinata ai consumi è appannaggio di quella fetta di popolazione più fortunata, pari a circa un miliardo di persone.

Alle cause e alle implicazioni di tale fenomeno è dedicato il volume di Thomas Pogge, docente di filosofia e affari internazionali nell'Università di Yale, dal titolo Povertà mondiale è diritti umani, da poco pubblicato per i tipi della Laterza (pp. XXIV - 401, euro 28,00) e che raccoglie nove saggi scritti nell'arco di quasi un ventennio, dal 1990 al 2007. Come può la parte più evoluta del globo essere complice di quella che è «una strage di innocenti di fronte alla quale l'Olocausto o i gulag furono mere raffiche di vento che annunciavano la tempesta?». Come può questa terribile responsabilità non essere considerata moralmente riprovevole? Come può l'Occidente, patria dei diritti umani, glissare sulla più grande tragedia della storia dell'umanità? In che modo è possibile riformare l'ordine globale per debellare la povertà e affermare i diritti individuali anche nelle zone periferiche del mondo?

L'analisi di Pogge mira a comprendere le ragioni globali del persistere di ampie fasce di povertà, individuate nel nuovo ordine economico mondiale e non già nei soli fattori locali o nazionali, come una tranquillizzante visione diffusa nei paesi benestanti potrebbe far credere. Il sistema dell'Organizzazione mondiale del Commercio (World Trade Organization) non ha prodotto negli ultimi vent'anni, tranne che in Cina, una diminuzione della povertà estrema e, anzi, le diseguaglianze tra le persone di tutto il mondo sono drammaticamente aumentate: il nuovo ordine economico globale è estremamente duro con i poveri, e questo perché le sue regole sono forgiate in negoziati internazionali nei quali i paesi più sviluppati la fanno da padrone, ignorando gli interessi dei poveri del mondo e cercando di «massimizzare gli interessi delle persone e delle aziende del proprio paese», ci ricorda il filosofo tedesco, e i successi dei loro delegati nelle trattative globali significano la morte per povertà dí tantissime persone.

Certo, l'impreparazione, la corruzione e le dittature diffuse nei paesi poveri costituiscono, insieme ai caratteri delle istituzioni sociali e della cultura, una concausa importante di questa sconfitta generalizzata dei poveri, ma spesso tali fattori sono stimolati dalle caratteristiche dell'attuale ordine globale, i privilegi concessi ai paesi più avanzati costituiscono un vantaggio anche per dittatori ed élites dei paesi meno sviluppati.

Ma, soprattutto, occorrerebbe mutare l'approccio alla questione povertà nel mondo, non concependola più in termini di mero aiuto ma, piuttosto, come intervento teso a difendere i paesi poveri dalle ingiustizie derivanti dai nuovi equilibri globali, cercando di rimuoverne le cause attraverso riforme istituzionali che mettano fine alla necessità di ricorrere a misure tampone di natura correttiva. Solo così sarà possibile riconoscere a tutti i più elementari diritti umani.

Sergio Lorusso

Da: La Gazzetta del Mezzogiorno - martedì 18 maggio 2010

 

 

Thomas Pogge
Povertà mondiale e diritti umani
Responsabilità e riforme cosmopolite

Edizione Laterza 2010, p.432

 

Indice

Prefazione di Luigi Caranti - Introduzione generale - 1. Fioritura umana e giustizia universale - 2. Come devono essere concepiti i diritti umani? - 3. Scappatoie nelle moralità - 4. Universalismo morale e giustizia economica globale - 5. I limiti del nazionalismo - 6. Realizzare la democrazia - 7. Cosmopolitismo e sovranità - 8. Estirpare la povertà sistemica: istruzioni per un Dividendo Globale delle Risorse - 9. Innovazione farmaceutica: dobbiamo escludere i poveri? - Parole conclusive - Note - Bibliografia - Indice analitico

Quattro comode ragioni per ignorare la povertà mondiale

In virtù di quali ragioni le persone che vivono nell’Occidente sviluppato non si preoccupano della persistenza della povertà grave all’estero? Ci imbattiamo qui in una difficoltà: chi ritiene che un problema non sia degno di attenzione morale non può avere elaborato un’argomentata difesa in merito, perché una tale difesa presuppone proprio l’attenzione morale che è stata esclusa. Ciononostante, deve sussistere qualche elemento, nella sua visione morale, che spieghi il motivo per cui i dati sulla povertà che ci sono noti non sembrano moralmente salienti. Se un fatto di questa portata appare ad alcune persone come non meritevole di una seria indagine e riflessione, ci si potrebbe aspettare di imbattersi almeno in una ragione superficiale. Ma quali ragioni apparenti hanno queste persone per non ritenere importanti la povertà e la disuguaglianza globali? E quanto queste ragioni possono rimanere in piedi dopo una riflessione critica? Mi sono imbattuto in quattro di queste ragioni. Le prime tre esemplificano bene i tre differenti tipi di pessimismo distinti da Albert Hirschman nella sua superlativa analisi sulla retorica reazionaria: futilità, pericolo e perversione. Una quarta ragione risiede invece nella convinzione ottimistica che tutto andrà bene comunque, anche senza un ulteriore sforzo da parte nostra. Esemplificando la tesi della futilità nella classificazione di Hirschman, una facile supposizione è che, come dimostra la storia dei falliti tentativi di assistenza allo sviluppo, la povertà nel mondo non può essere sradicata «gettando denaro sul problema». Questa affermazione è supportata dalla nostra percezione del problema della povertà, come un solo insormontabile compito – ciclopico o forse infinito – al quale noi, come singoli individui o anche come società, non possiamo contribuire in modo significativo. Offriamo un contributo in caso di calamità, per esempio dopo un terremoto, e vediamo che due anni più tardi la città danneggiata è stata in gran parte ricostruita con il nostro aiuto. Offriamo un contributo per la riduzione della povertà e vediamo che, due anni più tardi, il numero di persone che vivono e muoiono in condizioni di estrema povertà è ancora incredibilmente alto. Il primo contributo ci sembra utile perché lo pensiamo come relativo a un solo disastro, piuttosto che essere rivolto agli effetti di tutte le catastrofi naturali. Il secondo contributo appare inutile. Ma tali apparenze sorgono dalle nostre categorie classificatorie convenzionali. Guardando alla povertà mondiale come a un’immensa, omogenea massa, trascuriamo il fatto che salvare dieci bambini da una dolorosa morte per fame costituisce una reale differenza, fa tutta la differenza per questi bambini, e che questa differenza è molto significativa anche quando molti altri bambini continuano a soffrire la fame. Oggi viene spesso affermato che i nostri sforzi non raggiungono nemmeno piccoli miglioramenti sul fronte della povertà, che non sappiamo con certezza nemmeno se gli aiuti pubblici allo sviluppo (Official Development Assistance, ODA), elargiti per decine di miliardi, abbiano prodotto più benefici che danni. Ma tutto ciò, anche se fosse vero, non dimostra la conclusione voluta, perché la maggior parte di questi aiuti non è finalizzata a promuovere lo sviluppo. Piuttosto, i nostri politici riservano benefici a coloro che sono in grado e disposti a ricambiare: imprese esportatrici nei paesi donatori ed élites politiche di Stati in via di sviluppo strategicamente importanti. Questa diagnosi è sostenuta da un dettagliato studio sulle modalità effettive di stanziamento degli aiuti da parte dei vari paesi «donatori». È inoltre sostenuta dal fatto che l’ODA è stata fortemente ridotta dopo la fine della guerra fredda, quando diminuì il nostro bisogno di sostegno politico da parte degli Stati meno sviluppati (mentre il bisogno dei poveri e la nostra capacità di offrire protezione aumentavano). La diagnosi è ulteriormente sostenuta dal fatto che solo una minima parte dell’ODA (circa 12 miliardi di dollari nel 2008) è destinata in modo specifico al soddisfacimento dei bisogni basilari. I mediocri risultati dell’ODA, perciò, non dimostrano che il denaro non possa essere utilizzato efficacemente per la riduzione della povertà. In realtà, la porzione dell’ODA impiegata in maniera adeguata ha prodotto grandi benefici. Senza dubbio le buone intenzioni non sempre portano al successo. Anche le organizzazioni maggiormente impegnate contro la povertà, talvolta, sprecano denaro e sforzi, ma questo è semmai un motivo per pensare maggiormente alla povertà nel mondo e a come combatterla, piuttosto che per non farlo. Dove la corruzione è un ostacolo si può cercare di ridurla, eluderla, o concentrare i nostri sforzi altrove. Se le donazioni di cibo deprimono la domanda, i prezzi e, di conseguenza, disincentivano la produzione nel paese di destinazione, si potrebbe invece aumentare il reddito dei poveri. Dove i trasferimenti di denaro diretti alle famiglie povere creano dipendenza, possiamo concentrarci particolarmente sui bambini, finanziare forniture nutrizionali, programmi di vaccinazione, una decente assistenza sanitaria, istruzione di base, mense scolastiche, acqua potabile e fognature, alloggi, impianti e reti di distribuzione elettrica, banche e microprestiti, strade, ferrovie o altre vie di comunicazione. Simili progetti aumentano la capacità dei poveri di cavarsela da soli e il loro accesso ai mercati, anche stimolando la produzione locale. Questi progetti, spesso finanziati con fondi pubblici, hanno svolto un ruolo di primo piano per l’estirpazione della povertà nei paesi (ora) benestanti. E più recentemente, nelle regioni povere, progetti come questi sono stati realizzati con successo da agenzie delle Nazioni Unite, da ONG e singoli Stati donatori. Certamente ci sarà sempre qualche esperto pronto a ipotizzare che progetti del genere potrebbero produrre altrove o successivamente effetti negativi, non immediatamente visibili, che neutralizzano il bene apparente – e forse pronto a sostenere che, nonostante le apparenze, la spesa pubblica a livello nazionale (ad esempio, il New Deal di Franklin D. Roosevelt) o internazionale (ad esempio, il Piano Marshall) non ha contribuito alla riduzione della povertà nei paesi benestanti di oggi. Per quanto inverosimili, tali argomenti meritano ascolto e dovremmo cercare di imparare da essi come identificare, prevenire e correggere gli effetti negativi indesiderati. Ma questi argomenti non possono giustificare la conclusione, sbrigativa e interessata, che ogni possibile progetto di riduzione della povertà sarebbe del tutto inefficace in qualsiasi paese povero. Inoltre, il nostro contributo finanziario per estirpare la povertà nel mondo non deve assumere la forma del trasferimento di denaro. In modo più efficace, forse, possiamo semplicemente alleggerire il grave fardello che imponiamo alle popolazioni di questi paesi: possiamo ridurre le ingenti somme che prendiamo sotto forma di interessi, di rimborso dei debiti e di rendite di monopolio della nostra «proprietà intellettuale» sui farmaci e sulle sementi. Possiamo pagare l’istruzione che nei paesi poveri forma professionalità qualificate che poi importiamo. Possiamo smettere di attrarre il denaro corrotto proveniente dai paesi poveri nei nostri sistemi bancari. Possiamo arrestare il finanziamento a giunte militari e tiranni che conducono i «loro» paesi verso l’indebitamento e la svendita delle risorse naturali. Possiamo strappare condizioni meno lucrative sul commercio internazionale e sui sistemi finanziari, magari accettando di ristrutturare l’ordine istituzionale globale per renderlo capace di favorire il governo democratico, la crescita economica e la giustizia, l’assistenza sanitaria alla portata di tutti e l’istruzione nei paesi poveri. Facendo tali concessioni, sosterremmo, per aver ridotto la povertà nel mondo, costi di opportunità dovuti al fatto di non aver sfruttato il nostro potere contrattuale per ottenere termini a noi più favorevoli. Tali opzioni indeboliscono ulteriormente la comoda assunzione di «futilità» secondo cui i paesi occidentali non possono fare nulla per ridurre la povertà nel mondo. Una seconda, comoda assunzione afferma che la povertà nel mondo rappresenta un problema così gigantesco da non poter essere eliminato se non a un costo che le ricche società non potrebbero sopportare. Questa ipotesi, esemplificata dalla tesi del «pericolo» nella classificazione di Hirschman sulla retorica reazionaria, è diffusa. Richard Rorty, ad esempio, ha sollevato dei dubbi riguardo alla possibilità che abbiamo di aiutare i poveri appellandosi alla considerazione che «un progetto di redistribuzione egualitaria della ricchezza politicamente realizzabile richiede che vi siano abbastanza soldi per garantire che, dopo la redistribuzione, i ricchi saranno ancora in grado di riconoscere se stessi, continueranno a pensare che la loro vita sia degna di essere vissuta. [...] Le parti ricche del mondo potrebbero trovarsi nella situazione di chi propone di condividere il proprio pezzo di pane con un centinaio di persone che muoiono di fame. Anche se lo condividessero, tutti, loro compresi, morirebbero di fame». Sebbene il rapporto matematico in questione non sia nemmeno di 1/3, per non parlare di 1/100, ciò che Rorty presume sembra evidente: la fine della povertà grave per oltre 2,5 miliardi di esseri umani rappresenta un pericolo per un miliardo di persone che vivono nei paesi ad alto reddito, poiché sottrarrebbe linfa vitale alle nostre arti, alla nostra cultura e alla nostra capacità di raggiungere la giustizia sociale a casa nostra. Ciò danneggerebbe fortemente le nostre vite e le nostre comunità e sarebbe quindi politicamente non praticabile. Questa presunzione ignora l’enorme portata della disuguaglianza globale. Come abbiamo visto, il deficit aggregato di tutte queste persone in una situazione di povertà grave ammonta a malapena a 500 miliardi di dollari all’anno – ben al di sotto dell’1% del totale del reddito nazionale lordo annuo delle economie ad alto reddito. Data una plausibile interpretazione delle capacità di riconoscimento di Rorty, e delle nostre, lui e tutti noi potremmo continuare a «riconoscerci» piuttosto agevolmente anche dopo aver accettato delle riforme che, allo scopo di sradicare la povertà nel mondo, comportano una riduzione dell’1% del nostro standard di vita. Anzi, in un’accezione che Rorty non avrebbe concesso, potremmo riconoscere noi stessi per la prima volta. Una terza, comoda assunzione è che la prevenzione delle morti legate alla povertà sia controproducente – quindi, nociva – perché porterebbe al sovrappopolamento e, di conseguenza, a una mortalità superiore in futuro. Ma questa assunzione non quadra con i fatti. Ora, vi sono abbondanti prove del fatto che i tassi di natalità tendono a diminuire sensibilmente ovunque diminuisca la povertà e ovunque le donne ottengano migliori opportunità economiche, un ruolo più importante nelle loro famiglie e un migliore accesso alle informazioni in ambito contraccettivo e riproduttivo. Accelerare il progresso contro la povertà e la subordinazione della donna potrebbe in realtà risultare la migliore strategia contro il sovrappopolamento, verso un livellamento della popolazione umana a circa 10 miliardi di individui. In ogni caso, gli elementi che abbiamo a disposizione non supportano la tesi che gli sforzi per ridurre la povertà debbano necessariamente moltiplicare la sofferenza umana e i decessi nel corso del tempo. Una quarta, comoda assunzione non esprime pessimismo riguardo all’eliminazione della povertà, ma grande ottimismo: grazie agli sforzi combinati dei governi dei paesi ricchi e dei paesi poveri, la povertà nel mondo sta rapidamente scomparendo. Quindi, non vi è davvero nulla da fare in questo senso. La popolarità di questa ipotesi tra i paesi ricchi ha poco a che vedere con le tendenze attuali. È sostenuta da argomenti teorici sui benefici della globalizzazione, da economisti che definiscono e misurano la povertà in modi che dimostrano l’esistenza di miglioramenti e dalla retorica attivista dei politici del mondo. I cittadini dei paesi benestanti sono fin troppo impazienti di credervi. Esaminiamo questa retorica attivista: al vertice mondiale sull’alimentazione, organizzato a Roma nel 1996 dalla Fao, i 186 governi partecipanti hanno accettato di «garantire la nostra volontà politica e il nostro impegno comune e nazionale per il raggiungimento della sicurezza alimentare di tutti e un continuo sforzo per sradicare la fame in tutti i paesi, con l’obiettivo immediato di ridurre il numero delle persone sottoalimentate a metà del loro livello attuale, non oltre il 2015». Queste parole forti, negando le tre ipotesi pessimistiche, incoraggiano la convinzione che sia in atto un enorme sforzo per annientare la povertà nel mondo. Ma anche prendendo per buono questo impegno, ci è permesso concludere che il problema della povertà nel mondo stia per essere risolto e che quindi non richieda più alcuna attenzione da parte nostra? Immaginiamo che Franklin D. Roosevelt nel 1942, rispondendo alle preoccupazioni per la terribile sofferenza che la Germania nazista stava infliggendo a molti dei suoi cittadini e al resto d’Europa, assicurasse che la diplomazia e le risorse americane sarebbero state impiegate per ridurre della metà la sofferenza di questi individui... entro il 1961. Sarebbe stata una risposta moralmente adeguata? E se non lo era, perché dovrebbe esserlo l’analogo piano d’azione, concepito per dimezzare, entro 19 anni, la ben più grande sofferenza causata dalla povertà nel mondo? Il piano del 1996 prevede che, anche nel 2015, ci saranno ancora 828 milioni di esseri umani estremamente poveri e, proporzionalmente, 9 milioni di decessi all’anno causati dalla povertà. Sono questi i livelli che possiamo accettare? Con una diminuzione lineare, che comporta una riduzione annuale di 474.000 decessi per povertà, il piano presume 250 milioni di morti legate alla povertà, nel corso dei 19 anni previsti. Un così grande numero di morti è accettabile soltanto perché questi decessi avrebbero una frequenza progressivamente calante?

 

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