I testi sotto proposti sono tratti dal foglio di approfondimento elaborato dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo,
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ALDO CAPITINI: TEORIA DELLA NONVIOLENZA

Carattere della nonviolenza
Della nonviolenza si puo' dare una definizione molto semplice: essa e' la
scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o
distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani.
Perche' questa scelta? Per amore: ecco, vediamo subito che si tratta di una
cosa positiva, appassionata. Ma e' l'amore che non si ferma a due, tre
esseri, dieci, mille (i propri genitori, i figli, il cane di casa, i
concittadini, ecc.); e' amore aperto, cioe' pronto ad amare altri e nuovi
esseri, o ad amare meglio e piu' profondamente gli esseri gia' conosciuti. E
qui si capisce uno dei caratteri essenziali della nonviolenza bene intesa:
essa non e' mai perfetta e non finisce mai, appunto perche' e' una cosa
dell'anima; e' un valore, e' come la musica, la poesia, e si puo' sempre
fare nuova musica, nuova poesia; e la vecchia musica, la vecchia poesia,
possono essere vissute piu' profondamente.
Il paragone con la musica ci fa comprendere anche un'altra cosa: come
nessuno puo' desiderare di ascoltare e comporre la "musica ", tutta la
Musica; ma desidera ascoltare e comporre "delle musiche particolari e
concrete"; cosi nessuno abbraccia l'astratta "Nonviolenza", ma compie atti
particolari di nonviolenza, in situazioni concrete. La nonviolenza e',
dunque, dire un tu ad un essere concreto e individuato; e' avere
interessamento, attenzione, rispetto, affetto per lui; e' avere gioia che
esso esista, che sia nato, e se non fosse nato, noi gli daremmo la nascita:
assumiamo su di noi l'atto del suo trovarsi nel mondo, siamo come madri.
Nell'agire secondo la nonviolenza ha grande rilievo non uccidere, non dare
la morte. Si potrebbe obbiettare: quella persona morra' ugualmente, prima o
poi. Rispondiamo che anzitutto c'e' una grande differenza; e noi stiamo
parlando con serieta', per cui l'atto nostro ha il suo valore non nel fatto,
ma nel proposito. E' ben diverso che io uccida mia madre e che essa muoia
assistita amorevolmente da me. Sono non solo due modi di vivere diversi, ma
due mondi. Inoltre: chi ci dice che la morte sia un fatto costante,
ineliminabile? Abbiamo tentato di non dare la morte ne' col pensiero ne' con
l'atto, per vedere se la realta' ci seguisse? Che ragione abbiamo noi di
rimproverare la realta' che da' dolore e morte, se diamo dolore e morte?
Sicche' chi non da' la morte, produce due cose: in se', tanto e'
l'appassionamento all'esistenza delle persone, il senso della loro presenza
anche se muoiono; e nella realta' introduce un'iniziativa che la puo'
trasformare.
Proprio l'amore per le persone, fino al rispetto della loro esistenza e fin
sull'orlo della morte, prende su di se' la presenza di quelle persone,
quando e' amore non per uno, due, dieci, ma aperto a tutti. Il nostro agire
innocente sente che quelle persone, se muoiono, restano unite all'intima
presenza; mentre l'omicida, soltanto se si pente amorevolmente, ritrova in
se' la presenza della persona uccisa; altrimenti sente il vuoto intorno a
se'.
Con la nonviolenza, dunque, s'impara concretamente che i modi di
manifestarsi attuali della realta' (tra cui la separazione, il dolore, la
morte) non sono permanenti, ma possono trasformarsi in meglio; e' una prova
che vale la pena di tentare, e percio' la nonviolenza e' appello al mondo
per una grande mobilitazione dell'unita' amore, con la fede nella
trasformazione della realta' stessa.
E' percio' un errore credere che la nonviolenza si collochi nel mondo
lasciandolo com'e'; piu' si pensa alla nonviolenza e si cerca di attuarla,
piu' si vede che essa ha un dinamismo tale che non puo' accettare il mondo
com'e', ma essa porta tutto verso una trasformazione: l'umanita', la
societa', la realta'. Come strumento di conservazione del mondo, la
nonviolenza e' discutibile; come strumento di trasformazione in meglio, essa
ha un valore inesauribile, appunto perche' non fa modificazioni e
spostamenti in superficie, ma va nel profondo, al punto centrale.
E un altro e simile errore e' credere che la nonviolenza sia contro le
violenze attuali, ma accetti quelle passate, dell'umanita', della societa',
della realta'. Se fosse cosi' la nonviolenza sarebbe conservatrice e
accetterebbe il fatto compiuto, le prepotenze avvenute, le oppressioni, le
monarchie, gli sfruttamenti. La vera nonviolenza non accetta nemmeno le
violenze passate, e percio' non approva l'umanita', la societa', la realta',
come sono ora. Non accetta la realta' dove il pesce grande mangia il pesce
piccolo; e percio' cerca di stabilire unita' amore anche verso gli animali,
appunto per iniziare il bene; non accetta che i viventi prendano il posto
dei morti, e percio' tende a soccorrere i deboli, gli stroncati; non accetta
il potere e la ricchezza privata, e percio' tende a costituire forme di
federalismo nonviolento dal basso e forme di aiuto e reciprocita' sociale e
fruizione comune di beni sempre piu' larghe. Essa ha come guida instancabile
la presenza di tutti, e il principio che ogni singolo essere e'
insostituibile.
Percio' essa tende a ridurre ed eliminare gli schemi generici e impersonali.
Noi viviamo troppo di questi schemi, e molte volte non ci curiamo d'altro;
ma non esistono gli schemi (gli amici, i nemici, i malati, gl'italiani, i
religiosi, gli autisti, ecc.); esistono i singoli individui, e la vita
fondamentale e' quella che li considera nella loro singolarita'
insostituibile. Noi usiamo lo schema, per esempio se cerchiamo un autista, e
poi un altro autista, un librario ecc. Ma il progresso e' proprio nel
ridurre questo uso di schemi. La guerra invece e' il mostro piu' immane di
questo uso di schemi, che divora le singole individualita': non ci sono che
i nostri e i nemici; e' percio' sommamente diseducatrice.
Ci avviciniamo cosi ad alcuni punti problematici della nonviolenza. Che cosa
succede nella societa' cosi' com'e' ora costituita? La risposta deve
richiamare a quello che gia' si e' detto: la nonviolenza non puo' mettersi
nel mondo com'e', e lasciarlo tale e quale; la nonviolenza e' lotta (contro
se stessi, le proprie tendenze. i propri sogni di quiete), e' dramma
tormentoso, e' spinta a scegliere cio' a cui uno tiene di piu', a fare una
prospettiva; e se uno continua a vedere la vita come la vedono tutti, trova
assurda la nonviolenza; poi vengono le disgrazie e la morte, e uno non ci
capisce nulla. Invece la nonviolenza fa una prospettiva che da' una
preparazione religiosa per tutte le disgrazie e la morte: l'unita' amore con
le persone, come singole e come eternamente presenti, l'unita' amore che si
perde di sentirla se noi compiamo atti di violenza e di distruzione delle
persone. Tenuto fermo questo senso di eterno, esso si allarga a comprendere
tutto cio' che di bello, di buono viene creato, ed uno si sente in un mondo
piu' vero di quello apparente nel tempo e transeunte. Ora, in una societa'
se io sto inerte, sono colpevole. Ma se io, pur essendo per la nonviolenza,
sono attivissimo, e con quella scelta e quella fede la vivo e la concreto e
la diffondo con il mio costume, sono a posto verso la societa'. Nella quale
percio' saranno due gruppi di persone: quelle che useranno eventualmente la
violenza, e quelle che non la useranno, ma esplicheranno una intensa
attivita'.
Ci siamo cosi preparati per affrontare una delle obbiezioni piu' insistenti;
se usiamo la nonviolenza, trionfano i cattivi. Rispondiamo che, anzitutto,
l'uso della violenza non ci da' sufficiente garanzia che trionfino i buoni,
perche' l'uso della violenza con efficacia richiede che si facciano tanti
compromessi e tanti addestramenti che si perde una parte di quella bonta',
di quella elevatezza; e questo si vede dopo le guerre, quando c'e' un
diffuso trionfo di violenti, e ci vuole l'azione di nuclei puri per cercare
di guarire (ecco la fortuna di idee religiose in ogni dopoguerra). Ora, gli
uomini non hanno bisogno soltanto di ordine nella societa', ma che ci siano
vette alte e pure. Se per tener testa ai cattivi, bisogna prendere tanti dei
loro modi, all'ultimo e' realmente la cattiveria che vince. La cosa e' piu'
evidente se i cattivi posseggono armi potentissime, e noi per avere armi
piu' potenti ancora, mettiamo tutta la nostra forza: alla fine scompare la
differenza tra noi e loro, e c'e' bisogno che sorga una differenza netta tra
chi usa le armi potenti, e chi usa altri modi, con fede che essi trasformano
il mondo.
Gia' queste poche considerazioni mostrano quali modi spirituali piu' ricchi
scaturiscono dalla nonviolenza. E anche in questo essa ha un grande ufficio
nel mondo d'oggi, nel quale sembra che tutto si risolva nell'organizzazione
sociale. C'e' il pericolo di restringere l'orizzonte dello spirito.
L'organizzazione sociale non e' che un aspetto, e se noi piegassimo tutto ad
essa, perderemmo cose anche piu' importanti. E' certo che Gesu' Cristo
porto' scompiglio, divisioni, altri modi nell'organizzazione sociale; eppure
siamo convinti che egli era ben degno di nascere. Forse col Settecento si e'
accentuata questa tendenza politico-sociologica; ma non bisogna dimenticare
che la civilta' vuol dire essenzialmente non ripetizione, ma creazione. Per
di piu' lo sviluppo tecnico ha portato il beneficio di tali comodi e
servizi, che uno si e' affezionato troppo ad essi; e allora la civilta'
perde in serieta' confrontata con civilta' passate, che saranno state devote
a miti, ma erano piu' evolute. Bisogna quindi tornare ad una gerarchla o
prospettiva di valori; e allora si vedra' che i valori che si difendono o
acquistano con la violenza sono inferiori a quelli che si difendono o
acquistano con l'attivita' nonviolenta.
Insieme con questa prospettiva, che si diffondera' a poco a poco negli
uomini, specialmente se dovranno subire una nuova guerra, c'e' un fatto che
appare nuovo. Fino ad ora chi ha attuato la nonviolenza in una parte, per
esempio in India, non si e' sentito perfettamente unito a chi ha usato la
nonviolenza in un'altra parte, perche' uno diceva di farlo per una ragione,
uno per un'altra; e ci rientravano miti, dogmi diversi. Oggi c'e'
un'unificazione e noi lavoriamo per questo. E l'unificazione delle ragioni
della nonviolenza porta, tra l'altro, che consideriamo violenza e
nonviolenza non come un fatto privato e personale, ma internazionale. E
percio' puntiamo prima di tutto sul fatto guerra, ci opponiamo alla violenza
internazionale.
Una volta c'e' stato un pacifismo molto blando, tanto e' vero che davanti
alla prima guerra mondiale e alla seconda vacillo'. Esso credeva di arrivare
alla pace molto facilmente attraverso la cultura, la scienza, l'interesse al
benessere, il cosmopolitismo delle classi dirigenti. Si e' visto poi che non
bastavano, e si capisce perche'. Non era stato affrontato il lato religioso
del rifiuto della violenza, che cioe' la violenza si rifiuta in nome
dell'amore (e non dello star bene), di una realta' liberata dagli attuali
limiti (e non della continuazione di una realta' insufficiente), e con una
disposizione al sacrificio, ad essere come il seme del Vangelo che muore per
far sorgere la nuova pianta. Il vecchio pacifismo era ottimista e di corta
vista, il nuovo e' drammatico e di fede nella liberazione
dell'uomo-societa'-realta' dagli attuali limiti.
Percio' anche a proposito dell'attuale mondialismo la nonviolenza da'
un'ottima guida. Non si oppone, sia perche' c'e' tanta gente che in quella
forma esprime per ora quello che vuole la nonviolenza, sia perche' c'e'
sempre qualche cosa di educativo in questo dirsi "cittadini del mondo",
tanto piu' in presenza a tanti persistenti nazionalismi, e alquanto torbidi:
una prima purificazione puo' esser quella di dire, "conveniamo insieme tutti
nel mondo", vediamo di intenderci, ascoltiamo e parliamo. La' dove la
nonviolenza interviene e' nei primato da dare; il mondialismo dice: facciamo
un'assemblea mondiale e un governo, e un codice, e una polizia mondiale; la
nonviolenza dice: persuadiamoci dell'interna ragione dell'unita' umana
attraverso l'impegno nonviolento, poi vedremo le forme sociali che ne
conseguono. Il mondialismo sembra piu' concreto, ma corre il rischio di
mantenere la violenza e di appoggiarsi a un impero vincente, e tutto resta
quasi come prima; diminuira' qualche guerra, perche' il diritto di farla
rimane al centro dell'impero, ma e' grave l'inconveniente che se questo
governo mondiale fa ingiustizie, non c'e' scampo (mentre ora, almeno, si
puo' mutare Stato). Il mondialismo sembra troppo facile accettarlo (e questa
facilita' dovrebbe rendere attenti). La nonviolenza pone impegni precisi,
chiede fede; e' difficile, ma va in profondo, si occupa della radice: ha
fiducia di trarre da se' e dalla trasformazione che porta nuovi modi anche
sociali, diversi dai vecchi del codice, dello Stato, della polizia, della
distruzione repressiva.
La nonviolenza, per quello che vede finora, considera ogni rapporto non in
senso di autorita', potere, repressione, ma in senso federativo,
orizzontale, aperto. Per questo nella societa' circostante porta un modo
diverso che agisce sia direttamente per le persone che coltivano in se'
questo senso orizzontale, fraterno (e che ne sono trasformate), sia
indirettamente per le persone che ricevono questo nuovo agire nonviolento,
purche' costante e convinto. Bisogna tener presente questa trasformazione
dell'uomo, e allora se si dice che la nonviolenza tende ad un "federalismo
nonviolento dal basso", si capisce che non si tratta di un federalismo in
cui ognuno resta tale e quale, ma di un federalismo nel quale opera un
elemento dinamico, che e' la nonviolenza intesa in quel senso aperto.
Da quello che si e' detto risulta chiaramente che la nonviolenza tende anche
a trasformare le strutture delle comunita', e stabilire rapporti diversi da
quelli repressivi. Tuttavia si puo' osservare che l'azione dell'organo di
"polizia" in una comunita' e' lontana da quegli eccessi di distruzione e di
eccitazione psichica e di impersonalita' che ci sono per gli eserciti e le
guerre: quell'azione e' circoscritta, diretta specificamente contro chi
porta violenza e con lo scopo piu' di distogliere dalla tentazione che
altro. Naturalmente il nonviolento tende ad altro, e a smobilitare polizie e
prigioni, ed ha fiducia che questo sia possibile, perche' crede alla
superabilita' del male e alla attuabilita' di migliori rapporti umani; e per
intanto compie un'opera instancabile perche' la repressione sia umana, non
torturatrice, educatrice, non vendicatrice, ma cooperante al bene anche del
criminale stesso. Ma si rende anche conto che quello della polizia e della
coercizione giudiziaria e' l'ultimo strumento a cui una comunita' rinuncia,
e solo quando ci sia un ampio sviluppo di modi nonviolenti di convivenza. Il
nonviolento si dedica a questo, specialmente con l'apertura verso il
probabile violento, rimovendo le cause, rafforzando l'unita' sociale gia'
nell'intimo.
(Da La nonviolenza, oggi, 1962)
*
La nonviolenza nei casi personali
Nei rapporti personali (che e' il campo dei "casi" e delle critiche nelle
discussioni sulla nonviolenza) la persuasione della nonviolenza si manifesta
come tendenza generale, come una direttiva che va applicata pazientemente, e
con la buona volonta' di cercare di evitare l'uso della violenza, e con la
lealta' di correggersi se si devia, e di affrontare il dolore conseguente.
Chi si mette su questa linea puo' errare mille volte, ma fa uno sforzo, apre
una via, incide nella realta' abituale e fuga l'inerzia: non merita il
rimprovero di chi sta inerte a non tentare nulla. Si', e' vero, e' difficile
essere nonviolenti integralmente: e' piu' facile rifiutarsi agli eserciti e
alle guerre; ma nell'ambito personale e immediato e' piu' difficile
purificare dalla violenza i nostri atti, e ci possiamo trovare in situazioni
nelle quali spingiamo la difesa fino alla violenza. L'importante e' non
stancarsi di tendere ad attuarla, vivendola nelle sue profonde ragioni; che
cosa fa il musicista, se non tendere a realizzare musica meglio che puo'?
eppure puo' riuscirgli anche musica non sempre di valore, pura, alta.
Se uno mi assale per colpirmi, che cosa debbo fare? E' chiaro che dal punto
di vista della nonviolenza io debbo evitare di colpirlo, e tanto piu' se il
mio colpo sarebbe per lui la morte. Se sono capace di tenerlo nella
incapacita' di colpirmi, cerchero': lo faro' con il dolore di esser tirato
ad un contrasto con una persona ma posso tentare di farlo, e sappiamo che
sono costruibili arnesi con i quali si puo' senza uccidere e senza ferire,
impedire ad uno di colpire. E' probabile anche che io possa fare dei
tentativi di parlare e di distogliere l'avversario. Certo e' che, nel punto
estremo, nel quale o muore lui o muoio io, la nonviolenza mi dice quale e'
la scelta da fare. E tuttavia le circostanze, le ragioni, significano molto
se io decidessi diversamente; e con molto dolore dopo, per la tristezza del
caso.
Cosi e' nelle altre ipotesi tormentose. Per esempio: se uno volesse uccidere
un bambino? E' molto probabile che vi siano mezzi per immobilizzare chi vuoi
compiere quell'atto, e che sia alquanto raro il caso che egli lo possa
compiere senza che lo si cerchi di tener fermo e disarmato. In ogni modo,
nel caso estremo, si puo' arrischiare anche la propria vita davanti a quella
del bambino. Sara' stimabile chi, in omaggio alla nonviolenza e per tutto
cio' che essa significa e produce, non compie la violenza di uccidere
l'aggressore. Sara' stimabile anche chi compia questa violenza, con il puro
scopo di difesa del bambino. Sarebbe un'impostazione errata del problema
dire che non c'e' che un modo d'agire; e ogni altro e' delittuoso e
traditore. L'atto vale per tutta la sua sostanza, e la sostanza della
nonviolenza e' rispettabile tanto quanto quella della difesa, purche' siano
entrambe serie e profonde. Del resto, non e' detto che tutte le volte che si
opera con violenza si riesca ad impedire il misfatto; mentre se ci si desse
a diffondere un'educazione alla nonviolenza si agirebbe anche sul sorgere di
atti di violenza dove che siano, perche' nell'intimo siamo tutti un'unita'.
Del resto, la nonviolenza oggi si presenta con un accento straordinario.
Appunto perche' la violenza, in atto o potenziale, e' salita a un culmine
straordinario, la nonviolenza interviene per coordinare i tentativi di
decongestione, e la cosa vale bene il sacrificio di qualcuno di noi se sara'
offeso ed egli non reagira' con la violenza. Non che il sacrificio di noi,
di altri o di cose, sia cercato di proposito; ma il fatto e' che si sta non
salvando la bianchezza delle proprie mani, ma intervenendo perche'
l'umanita'-societa'-realta' prendano un nuovo corso, si trasformino. E la
trasformazione essenziale, da cui mille altre, e' quella di aprirsi ai
singoli esseri, elevandoli coralmente, infinitamente, eternamente, ai valori
puri. Il non usare violenza verso singole persone e', insieme, simbolo e
realta': volere che i singoli siano presenti e partecipi in eterno; iniziare
la realizzazione paradisiaca in terra, che richiede (naturalmente)
iniziativa e sacrificio. Quest'aria eccezionale di ora religiosa, di fine di
una realta' e di inizio di una realta' migliore, questa luce festiva tocca i
sacrifici che la nonviolenza richiede.
Viene talvolta obbiettato che e' bene arrestare il violento con altrettanta
violenza, proprio per il suo bene, per amore di lui, perche' conosca cio'
che e' giusto, e trovi, fuori di se', un aiuto di forza per costringere la
propria bestialita' e cattiveria. Rispondiamo che se fosse sempre cosi,
sarebbe realmente gia' miglior cosa della violenza che trascura la
situazione della persona che la riceve. Tuttavia e' da notare che
l'efficacia di un tal metodo per migliorare gli altri e' ben discutibile, e
nella realta' il violento si vede vinto da una violenza maggiore, e non
impara a trasferirsi su un altro piano. Anzi vede che non c'e' che il piano
della forza, e che vince chi ne ha di piu'. E' molto male che agli uomini
non si porga l'esempio, l'ipotesi, l'insegnamento di tutto un altro modo di
comportarsi. E fanno male i sacerdoti ad abdicare, quando abdicano, su
questo punto. Inoltre chi usa questa "violenza pedagogico-giuridica", si
cristallizza in essa: i romani la usarono, risparmiando i sottomessi e
debellando i superbi; ma solo il cristianesimo porto' liberta' e autentica
cittadinanza mondiale, e al posto dell'intenzione pedagogico-giuridica, mise
la costruttiva e reale apertura dell'anima. In quel modo, opponendo violenza
al violento, si ottiene, se mai, un risultato nel momento; mentre opponendo
la nonviolenza e i suoi modi si otterra' un risultato piu' lontano, ma
veramente di qualita' migliore.
Non si puo' sperare che poco dalla persuasione! viene obbiettato.
Ammettiamolo, ma rispondendo: che se non si tenta, non si puo' dire, e
bisogna dunque tentare con cuore intrepido; e poi, il valore della
nonviolenza non sta nel persuadere subito di colpo: essa afferma se stessa e
stabilisce unita' amore, apre una migiore realta'; questo atto viene deposto
nell'unita' che lega tutti gli esseri; prima o poi dara' il suo effetto,
anzi esso ha cominciato gia' a darlo se c'e' stato chi ha iniziato.
Ma voi persuaderete i buoni, i gia' persuasi; mentre i cattivi non vi
daranno ascolto; ci vien detto. Noi non crediamo, invece, che le persone
siano divisibili in due gruppi netti, ma se, col parlare di nonviolenza, si
riuscisse a ritagliare un gruppo di persuasi, meglio cosi, che non, tacendo
sulla nonviolenza, avere tutte persone violente. E poi: tante volte si parla
di cattivi, e dei peggiori, che si volgono energicamente al bene; ed e' vero
che spesso i fortemente buoni sono dei mancati briganti: che vuol dir
questo? che non dobbiamo guardare a nature fisse, precostituite,
predeterminate; ma piuttosto a impulsi, esempi, forze spirituali pure che
entrano nel campo della vita delle persone; ed e' qui che la nonviolenza
puo' fare piu' che puo'.
(Da La nonviolenza, oggi, 1962)
*
Ragioni della nonviolenza
1. La nonviolenza prende in considerazione il nostro rapporto con gli altri
esseri viventi, con la fiducia di renderlo sempre piu' reciprocamente
amichevole, comprensivo, soccorrente, lieto, malgrado le difficolta' che gli
altri stessi possono metterci. Questa fiducia non cessa di colpo al confine
degli esseri umani e spera anche per gli esseri viventi non umani; ma si
rende conto che la storia con la sua spinta vitale ha separato da noi finora
questi esseri (animali e piante) in forme di piu' difficile educazione,
trasformazione, liberazione.
2. La nonviolenza e' aperta all'esistenza, alla liberta', allo sviluppo di
ogni essere. Quando nel Settecento sono stati banditi i principi di
liberta', eguaglianza, fratellanza, non e' stato fatto tutto. La liberta'
era piu' la liberta' propria come diritto che la liberta' degli altri come
dovere; l'eguaglianza era un bel principio, ma si fermava a meta' perche'
restavano i miseri e gli sfruttati; la fratellanza era piu' quella generica
con i lontani che quella difficile, nonviolenta e perdonante verso i vicini.
3. La bellezza della nonviolenza e' che essa preferisce non di distruggere
gli avversari, ma di lottare con loro in modo nobile e dignitoso, con il
metodo nonviolento, che fa bene, prima o poi, a chi lo applica e a chi lo
riceve. In fondo e' piu' coraggioso volere vivi e ragionanti gli avversar!,
che farli a pezzi.
4. Ma sarebbe errore credere che la nonviolenza consista nel non far nulla,
nell'incassare i colpi, le cattiverie e le stupidaggini degli altri. La
nonviolenza e' sveglia e attiva, e protesta apertamente, anzi cerca i modi
non solo per convincere gli autori delle ingiustizie, ma per informare
l'opinione pubblica, di cui ha la massima considerazione: la nonviolenza per
nessuna ragione crede che si possa sospendere la liberta' e la possibilita'
abbondante di informazione e di critica per tutti, fino all'ultimo essere
umano. Anche qui la nonviolenza attua al massimo un principio del
Settecento, che la borghesia ha poi alterato a proprio vantaggio: la
formazione libera dell'opinione pubblica, comprendente tutti.
5. La nonviolenza puo' rinnovare veramente la vita interna di un paese,
perche' nell'insieme di un'opinione pubblica, tutta sveglia e
obbiettivamente informata, porta eventuali piani di non collaborazione e
perfino, in casi estremi, di disobbedienza civile, che servono a bloccare
iniziative autoritarie dall'alto. In Italia un popolo privo di esatta
informazione e critica responsabilita' fu portato ad uccidere e a morire, e
poi al popolo privo del metodo di opposizione nonviolenta fu imposta una
dittatura. L'uso del metodo nonviolento avrebbe salvato e trasformato
l'Europa, a cominciare dall'Italia e dalla Germania.
6. Trasformare la situazione interna dei paesi vuoi dire anche avere un
continuo promovimento di campagne giuste e rinnovatrici, in cose piccole e
in cose grandi, e senza portare il terrorismo della guerra civile nelle
strade e nelle case. E' un metodo nuovo, il tenere attiva una societa' con
il metodo nonviolento, controllando e smascherando, protestando e agitando,
sacrificandosi e cosi educando i giovanissimi a cercare coraggiosamente di
migliorare le societa' dal di dentro. Anche qui la nonviolenza salva i
giovani, occupandoli bene (rivoluzione permanente).
7. La nonviolenza e' strettamente congiunta col punto a cui e' giunta la
guerra, con la sua attrezzatura tecnica e le armi nucleari. L'esasperazione
della ferocia e della vastita' distruttiva della guerra, specialmente dopo
Hiroshima, ha posto il problema di arrivare a un altro modo di condurre le
lotte e la stessa difesa. Come ci si difende alle frontiere da missili che
varcano i continenti e in pochi minuti distruggono citta', specialmente le
industrie, i civili? Si puo' arrischiare una tale strage e un tale
avvelenamento dell'educazione delle generazioni? Dietro e dopo le soluzioni
provvisorie dell'equilibrio del terrore, mentre e' enorme nel mondo la
fabbricazione di armi di tutte le specie e la loro distribuzione anche ai
popoli sottosviluppati, la nonviolenza prepara la svolta storica del
possesso in tutto il mondo di un metodo di lotta che esclude la distruzione
dei nemici, attraverso la non collaborazione con il male, la solidarieta'
aperta dei giusti. Questo metodo non ha bisogno di armi e percio' di
appoggiarsi ad una nazione con industrie capaci di darle, come sono
costretti a fare i guerriglieri violenti, che usano anche i vecchi modi del
terrorismo tra gli avversari e della tortura dei prigionieri.
8. Il metodo nonviolento esige prima di tutto qualita' di coraggio, tenacia,
sacrificio, e di non perdere mai l'amore; poi esige un addestramento fisico
e psicologico, ma possibile anche per persone di forze modeste. Un metodo in
cui un cieco puo' essere piu' utile di un gigante. Cosi il metodo
nonviolento si rivela come la possibilita' di partecipazione attiva,
appassionata ed eroica, di persone che non hanno altro che il loro animo e
le loro giuste esigenze: la nonviolenza le valorizza, illumina, e rende
presenti anche moltitudini di donne, di giovinetti, folle del Terzo Mondo,
che entrano nel meglio della civilta', che e' l'apertura amorevole alla
liberazione di tutti. E allora perche' essere cosi' esclusivi (razzisti)
verso altre genti? Oramai non e' meglio insegnare, si', l'affetto per la
terra dove si nasce, ma anche tener pronte strutture e mezzi per accogliere
fraternamente altri, se si presenta questo fatto? La nonviolenza e' un'altra
atmosfera per tutte le cose e un'altra attenzione per le persone, e per cio'
che possono diventare.
9. Davanti a questa svolta storica in anni e decenni, il prevalere di gruppi
violenti per un certo periodo rimane un episodio. L'unica forza che scava
loro il terreno e' la nonviolenza, ma ci puo' volere pazienza, tempo,
costanza. E' vero che un atto di violenza puo' fronteggiare un altro atto di
violenza, ma poi? Nel quadro generale e' meglio attuare un altro metodo. Si
possono conservare ancora forze coercitive per piccoli fatti, di ordine
quotidiano, ma nel piu' e nell'insieme e' il metodo del rapporto nonviolento
che va risolto e articolato sempre piu'. In esso, nel fatto che esso e'
amorevolezza, approfondimento dell'unita', festa della vicinanza, inizio di
una storia nuova con nuovi modi di realizzarsi, sta il compenso per i
sacrifici della lotta nonviolenta e per il ritardo delle vittorie.
10. La nonviolenza e' la porta da aprire per non sentirsi soli. La
nonviolenza cerca sempre di essere con gli altri. E questo e' molto
importante oggi, perche' sta dilagando il bisogno di una democrazia diretta,
dal basso, con il controllo di tutti su tutto. Contro i poteri imperiali dei
capi degli eserciti e delle industrie che li servono (private o statali), la
democrazia diretta costituira' i suoi strumenti con la continua guida della
nonviolenza, per smontare la varia violenza dei potenti (violenza
burocratica, giudiziaria, nella scuola, nel lavoro, negli enti di
assistenza, nella stampa e nella radio), non con assalti sanguinari che non
trasformerebbero, ma con la preparazione al controllo serio e aperto.
11. Dire nonviolenza e' come dire apertura in tutti i campi, occuparsi degli
esseri viventi in modo concreto e aiutarli (che e' anche un modo per avere
forza in se stessi); tenersi pronti per sostenere cause giuste e meritare il
nome di essere perfettamente leale; riconoscere che negli errori degli altri
c'e' sempre una qualche responsabilita' e possibilita' attiva per noi;
perdonare facilmente al passato nella serieta' di impegni migliori per il
futuro; invidiare Dio che puo' conoscere piu' da vicino tutti gli esseri e
aiutarli infinitamente; tendere a costituire comunita' di vita con piu'
persone e famiglie in modo che ci sia uno scambio piu' attivo e
un'educazione comune dei piccoli; essere piu' sensibili ad ogni altro valore
pratico e contemplativo (l'onesta', l'umilta', la musica, ecc.); essere piu'
fermi nella serieta' e severita' quando occorra (per esempio contro le
ingiuste e molli raccomandazioni); cercare di estendere il rispetto della
vita quando e' possibile (per esempio col vegetarianesimo, ma facendolo bene
perche' non sia dannoso) e assecondare dalla fanciullezza la zoofilia;
utilizzare l'appassionamento universale per la massima valorizzazione degli
esseri per arricchire l'attenzione nel tu rivolto a un singolo essere,
perche' non sia isolato e stagnante; attuare quotidianamente la gentilezza
costante, senza ipocrisia e con franchezza; portare in ogni situazione
un'aggiunta di ragionevolezza umana e di comprensione reciproca; garantire
una riserva di serenita' per il fatto che la nonviolenza e' qualche cosa di
piu' rispetto alla semplice amministrazione della vita.
12. La nonviolenza non sta in un individuo astratto, ma e' da individui a
individui in situazioni, strutture, grandi problematiche e urgenti
realizzazioni. Un modo in cui si fa presente e', come abbiamo visto, quello
del pacifismo integrale. Il che vuol dire non solo il rifiuto di collaborare
alla guerra e guerriglia, e a cio' che inevitabilmente le accompagna, il
terrorismo contro i civili e la tortura sui prigionieri; ma anche la scelta
del disarmo unilaterale, unito all'addestramento all'azione del metodo
nonviolento. Percio' la nonviolenza indica il pericolo dell'equilibrio del
terrore, durante il quale eserciti e industria alimentano di armi tutto il
mondo, da cui conflitti grandi e piccoli; indica gli spegnimenti della
democrazia che vengono fatti per allinearsi in grandi blocchi
politico-militari; mostra l'immenso consumo di denari nelle spese militari
invece che nello sviluppo civile. Le Nazioni Unite, come insieme di sforzi
per dominare razionalmente le situazioni difficili e per provocare
continuamente la cooperazione, sono sostenibili, anche perche' tutte le
trasformazioni rivoluzionarie che la nonviolenza porta, sono sempre il
fondamento e l'integrazione di quelle decisioni razionali e giuridiche che
gli uomini prendono, quando esse sono un bene per tutti. Certo, il
nonviolento non si scalda per il governo mondiale, che potrebbe diventare
arbitrario e oppressivo, ma per il suscitamento di consapevoli e bene
orientate moltitudini nonviolente dal basso.
13. La nonviolenza vuole la liberazione di tutti, e non cessa mai di portare
l'eguaglianza a tutti i livelli. Ora un problema molto importante e' che
l'uomo non subisca la violenza mediante il lavoro. Il lavoro e' uno dei modi
che l'uomo ha (non il solo) per esprimere la sua personalita', ed e' percio'
positivo, un diritto-dovere, una partecipazione alla comunita'. Ma va sempre
piu' realizzato il fatto che ogni lavoro e' verso tutti, e in certo senso
pubblico, non privato e sottoposto a condizioni di servitu' e di
sfruttamento. Difendere e sviluppare la posizione di tutti i lavoratori vuol
dire renderli sempre piu' capaci di eguaglianza di fruizione della vita
comune, nei beni materiali e nei beni culturali, mediante la formazione
nell'adolescenza e mediante il tempo libero, e capaci di partecipazione
attiva, civica, critica, costruttiva. Percio' i provvedimenti per cui la
proprieta' viene resa pubblica e controllata, cioe' aperta e non chiusa
(socialismo) snidano la violenza sostanziale di chi si vale della proprieta'
per alienare gli uomini staccandoli dal loro pieno sviluppo nonviolento e
creativo sul piano orizzontale di tutti.
14. Il grande fatto della meta' di questo secolo e' il discorso sul potere.
La nonviolenza, meglio di ogni altro atteggiamento, puo' indicare quanta
violenza si annidi nel vecchio potere. Si e' constatato che la
statalizzazione della proprieta' non toglie la durezza del potere. Non basta
far cadere le posizioni della proprieta' privata perche "il potere operaio"
abbia il diritto di tutto costruire. Il problema non e' che nuova gente
arrivi, in un modo o in un altro, al potere; ma che il potere sia esercitato
in modo nuovo; altrimenti e' meglio continuare a lottare e formare un
terreno piu' favorevole per arrivare ad un "potere nuovo", magari
cominciando da forme di potere locale, dove e' meglio possibile attuare tipi
di "potere aperto", che conta sulla costante collaborazione degli altri e
possibilmente di tutti.
15. Che fa la nonviolenza davanti alla legge? La scruta per intenderla, per
integrarla con l'animo, per migliorarla, per ridurre la violenza. La legge,
come decisione razionale, che riguarda azioni da comandare o da impedire,
non puo' essere respinta senz'altro per sostituirla con la naturale
istintivita' individualistica umana. La legge e' una conquista della
ragione, e spesso merita di essere aiutata. Ma il nonviolento l'aiuta a modo
suo. L'accetta quando e' molto buona. Consiglia di sostituire
progressivamente alla esclusiva fiducia nei mezzi coercitivi, lo sviluppo di
mezzi educativi e di controllo cooperante di tutti. Fa campagne per
sostituire leggi migliori, quando le attuali sono insoddisfacenti e
sbagliate. Errato e' insegnare a ubbidire sempre alle leggi e a non volerle
riformare, come se non esistesse la coscienza e la ragione. La nonviolenza
aiuta a capire che non basta dire: "Noi siamo autonomi e ci diamo percio' le
nostre leggi". Bisogna aggiungere: "E le nostre leggi hanno l'orientamento
di realizzare la nonviolenza come apertura all'esistenza, alla liberta',
allo sviluppo di tutti".
16. In questo tempo in cui la nonviolenza allarga e approfondisce le sue
responsabilita', essa si trova davanti il potere delle autorita' religiose,
e l'urto e' inevitabile. Tali autorita' pretendono di decidere su violenza e
nonviolenza. La nonviolenza porta una sua prospettiva, di un sacro aperto e
non chiuso, del valore di raggiungere l'orizzonte di tutti come superiore al
cerchio dei credenti. Il credente nonviolento finisce col trovarsi piu'
volentieri a fianco del nonviolento di un'altra fede che con l'"autorita'"
della propria fede. Lo spirito di autoritarismo che pervade tutto il corpo
ecclesiastico cerca di scacciare proprio quello spirito della nonviolenza
aperto all'interesse per ogni singolo nel suo contributo e nel suo sviluppo,
e impone una assenza di violenza che e' passiva obbedienza. Ben altro e' la
nonviolenza aperta, che non ha paura di nessuna autorita', ed e' sicura di
farsi valere prima o poi.
17. La nonviolenza non e' soltanto una cosa della vita e nella vita. Nel suo
sforzo continuo di migliorare il rapporto tra gli esseri, e di congiungere
piu' saldamente la vita del singolo con la vita di tutti, avviene
effettivamente un'influenza sulla cosi' detta "natura", che e' la vitalita',
la volonta' di forza, di vita come vita, come piacere, come guadagno e
profitto, come potenza, come riposo utile, come schiacciante energia dal
seno stesso della realta' fisica. Il Vesuvio sterminatore osservato dal
Leopardi e che uccise tanta gente; l'acqua di un'inondazione, che copre
indifferente un sasso e il volto di un bambino, sono aspetti della natura.
Ma natura e' anche la vitalita' che spinge il bambino a nascere e a
crescere; la forza che ci affluisce ogni giorno mediante il cibo, il riposo,
l'aria. Non si puo' tagliare da noi tutta la natura; ma si puo' scegliere: o
svilupparci come bruta natura, o svilupparci come crescente nonviolenza
verso gli esseri, rimediando la crudelta' della natura e proseguendola nel
buono, nel vivo, trasformandola progressivamente. Perche' al limite estremo
c'e' la sua trasformazione e il suo portarsi al servizio di tutti gli esseri
affratellati. Un atto di nonviolenza e' percio' anche un atto di speranza in
questa trasformazione della cruda forza della natura.
18. Ma la nonviolenza non soltanto progredisce come rapporto. Essa qualche
volta ha a che fare direttamente con la morte: e' rifiuto di dare quella
morte determinata, e' constatazione dell'impotenza davanti ad una morte, e'
l'improvviso trovarsi a dire un tu ad un essere che ci sembra non lo riceva
piu' perche' e' morto. Il nonviolento, che fonda molto della sua decisione
sul rispetto della vita, puo' anche semplicemente confermare, davanti alla
morte, il proposito di non darla, e accomunare i morti in una cara memoria
dei singoli e in una generale pieta'. Ma puo' anche considerare ogni morte
come una crocifissione che la natura fa di ogni essere, come l'impero di
Roma la faceva per i ribelli; e se ogni morte e' una crocifissione, il morto
non e' spento ma risorge nella compresenza di tutti. Cosi la nonviolenza
puo' condurre a vivere questo grande mistero della compresenza di tutti,
viventi e morti.
19. Vista ora nell'insieme di queste possibili attuazioni e prese di
influenza e di azione su una realta' che oggi parrebbe cosi' contraria ad
essere penetrata dalla nonviolenza, essa mostra il suo posto, l'aggiunta che
fa al mondo presente. E' facile la profezia che ancora gli imperi
militari-industriali del mondo concentreranno forze immani. Ma la
nonviolenza ha cominciato ad aprire in ogni paese un conto, in cui ognuno
puo' depositare via via impegni e iniziative. Se si pensa alla creativita'
teorica e pratica di pochi decenni, si sente la crescita potenziale di una
Internazionale della nonviolenza. Bisogna riconoscere che, indipendentemente
dalle altre sue teorie, Gandhi, con la formazione del metodo di azione
nonviolenta, ha dato il piu' grande contributo all'era della nonviolenza; e
cosi ogni altro grande attuatore del metodo nonviolento, e suo testimone, ci
e' fratello e padre. Nessuna paura e nessuna fretta, nessuna gelosia e
nessuna presunzione, per l'organizzazione: possono sorgere innumerevoli
centri per l'addestramento alle tecniche del metodo nonviolento.
20. E se da questo largo quadro torniamo al semplice e singolo individuo che
prende interesse per la nonviolenza, che prova a sceglierla, che vede di
poter resistere al pensiero della violenza come soluzione, che non
s'impiglia nella casistica dello schiaffo e del non schiaffo, del bambino
ucciso e non ucciso, perche' non tutto sta li', e bisogna rifarsi al quadro
generale, vediamo che Io stesso processo di sviluppo c'e' in grande come
c'e' in piccolo, nel mondo e nel singolo individuo. Noi abbiamo ancora molta
violenza addosso, come ce l'ha il mondo. Se uno per togliersela si isolasse
da eremita, sbaglierebbe, perche' si priverebbe di tutte le occasioni per
far progredire in se' e nel mondo la nonviolenza, che e' amore concreto, e
per riprenderla, se l'avesse trascurata.
(Dalla rivista "Azione nonviolenta", agosto-settembre 1968)
*
Tanto dilagheranno violenza e materialismo che ne verra' stanchezza e
disgusto; e dalle gocce di sangue che colano dai ceppi della decapitazione
salira' l'ansia appassionata di sottrarre l'anima ad ogni collaborazione con
quell'errore, e di instaurare subito, a cominciare dal proprio animo (che e'
il primo progresso), un nuovo modo di sentire la vita: il sentimento che il
mondo ci e' estraneo se ci si deve stare senza amore, senza una apertura
infinita dell'uno verso l'altro, senza una unione di sopra a tante
differenze e tanto soffrire. Questo e' il varco attuale della storia.
(Da Elementi di un'esperienza religiosa, 1936)

2. ET COETERA

Aldo Capitini e' nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato,
docente universitario, infaticabile promotore di iniziative per la
nonviolenza e la pace. E' morto a Perugia nel 1968. E' stato il piu' grande
pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo Capitini:
la miglior antologia degli scritti e' (a cura di Giovanni Cacioppo e vari
collaboratori), Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977 (che
contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoche' integrale -
ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche dell'epoca -
bibliografia degli scritti di Capitini); recentemente e' stato ripubblicato
il saggio Le tecniche della nonviolenza, Linea d'ombra, Milano 1989; una
raccolta di scritti autobiografici, Opposizione e liberazione, Linea
d'ombra, Milano 1991, nuova edizione presso L'ancora del Mediterraneo,
Napoli 2003; e gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996;
segnaliamo anche Nonviolenza dopo la tempesta. Carteggio con Sara Melauri,
Edizioni Associate, Roma 1991; e la recente antologia degli scritti (a cura
di Mario Martini, benemerito degli studi capitiniani) Le ragioni della
nonviolenza, Edizioni Ets, Pisa 2004. Presso la redazione di "Azione
nonviolenta" (e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org)
sono disponibili e possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di
Capitini non piu' reperibili in libreria (tra cui i fondamentali Elementi di
un'esperienza religiosa, 1937, e Il potere di tutti, 1969). Negli anni '90
e' iniziata la pubblicazione di una edizione di opere scelte: sono fin qui
apparsi un volume di Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, e un
volume di Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1994, seconda edizione
ampliata, Fondazione centro studi Aldo Capitini, Perugia 1998. Piu' recente
e' la pubblicazione di alcuni carteggi particolarmente rilevanti: Aldo
Capitini, Walter Binni, Lettere 1931-1968, Carocci, Roma 2007 e Aldo
Capitini, Danilo Dolci, Lettere 1952-1968, Carocci, Roma 2008. Opere su Aldo
Capitini: oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il
messaggio di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda almeno:
Giacomo Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Clara Cutini (a cura di),
Uno schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988;
Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di
Fiesole (Fi) 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini.
Tra religione ed etica laica, Clueb, Bologna 1991; Fondazione "Centro studi
Aldo Capitini", Elementi dell'esperienza religiosa contemporanea, La Nuova
Italia, Scandicci (Fi) 1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per
una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini,
Pisa 1998, 2003; AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume
monografico de "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante,
La realta' liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del
Rosone, Foggia 1999; Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta
2001; Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini,
Cittadella, Assisi 2004; Massimo Pomi, Al servizio dell'impossibile. Un
profilo pedagogico di Aldo Capitini, Rcs - La Nuova Italia, Milano-Firenze
2005; Andrea Tortoreto, La filosofia di Aldo Capitini, Clinamen, Firenze
2005; Marco Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della nonviolenza
di Aldo Capitini, Ega, Torino 2007; cfr. anche il capitolo dedicato a
Capitini in Angelo d'Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi,
Torino 2001; per una bibliografia della critica cfr. per un avvio il libro
di Pietro Polito citato; numerosi utilissimi materiali di e su Aldo Capitini
sono nel sito dell'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini:
www.aldocapitini.it, altri materiali nel sito www.cosinrete.it; una assai
utile mostra e un altrettanto utile dvd su Aldo Capitini possono essere
richiesti scrivendo a Luciano Capitini: capitps@libero.it, o anche a
Lanfranco Mencaroni: l.mencaroni@libero.it, o anche al Movimento
Nonviolento: tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail:
azionenonviolenta@sis.it o anche redazione@nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

***

1. AFGHANISTAN. "PEACEREPORTER": ANCORA STRAGI DI CIVILI
[Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo la seguente
notizia del 21 agosto 2008 col titolo "Afghanistan, 23 civili uccisi in un
raid aereo Nato. Morti altri tre soldati Isaf" e il sommario "Secondo una
fonte di PeaceReporter, nel raid aereo portato a segno ieri dalla coalizione
Nato sono rimasti uccisi decine di civili, oltre i trenta presunti
talebani"]

Le operazioni, condotte nella provincia di Laghman, circa 80 chilometri a
est di Kabul, hanno provocato, in due attacchi separati, la morte di 23
persone e il ferimento di altre 14. Tutti civili. Un aereo della coalizione
ha colpito e distrutto un edificio nel villaggio di Bad Pesh, all'interno
del quale si stava organizzando una festa di matrimonio: 19 morti, 14
feriti. Nell'altro raid aereo, sempre ieri, altri quattro civili uccisi. A
quanto pare, anche in questo caso si trattava di una festa di matrimonio,
scambiata probabilmente per un raduno di guerriglieri. Un portavoce del
comando Usa ha, tuttavia, riferito di non essere in possesso di dati circa
la morte di non combattenti.
Il problema delle uccisioni di civili provocate dalle forze della
coalizione, ha portato a una rottura tra Kabul e i paesi occidentali
coinvolti nelle operazioni militari. Proprio all'inizio del mese, il
presidente Hamid Karzai aveva sentenziato: "Gli attacchi aerei della
coalizione servono solo per uccidere civili e non per vincere la guerra".
Tre militari Nato sono morti in seguito all'esplosione di una bomba,
nascosta sotto il manto stradale, al passaggio del convoglio sul quale
viaggiavano. Il fatto sarebbe accaduto nella provincia di Ghazni, dove sono
di pattuglia i soldati dell'esercito polacco. Sebbene il comando Isaf non
abbia rilasciato le generalita' dei militari uccisi, l'agenzia di stampa
polacca Pap, ha citato un ufficiale della missione polacca il quale ha
affermato che l'attacco e' avvenuto a 20 chilometri dalla loro base.

2. PROFILI. ERMANNO PACCAGNINI: ANNA MARIA ORTESE (1997)
[Dal mensile "Letture", n. 536, aprile 1997 col titolo "I dolori
dell'angelica Ortese" e il sommario "Nell'opera prima ci sono la
trasfigurazione di momenti autobiografici in chiave universale e il primo
termine della dialettica sogno-realta' che giungera' a sintesi in Alonso e i
visionari: con il Puma summa dei dolori del mondo e la confessione d'un
itinerario della mente e del cuore".
Ermanno Paccagnini e' docente di Letteratura italiana contemporanea
all'Universita' cattolica di Milano; si e' occupato in particolare di
Scapigliatura milanese, di fonti manzoniane (i processi alla monaca di Monza
e agli untori), di rapporti letteratura-giornalismo, curando altresi'
riedizione di testi seicenteschi e otto-novecenteschi; si segnala in
particolare il commento alle due redazioni della Storia della colonna infame
di Manzoni nei Meridiani Mondadori; per un quindicennio critico letterario
del supplemento domenicale del "Sole-24 ore", poi collaboratore del
"Corriere della sera". Tra le opere di Ermanno Paccagnini: (con Edmondo
Berselli), Mille libri per il Duemila, Il Sole 24 Ore Libri, 1999; (con
Giuseppe Farinelli e Antonia Mazza), La letteratura italiana dell'Ottocento,
Carocci, 2002.
Anna Maria Ortese (Roma 1914 - Rapallo 1998), giornalista e narratrice, e'
una delle maggiori e piu' originali scrittrici italiane del Novecento. Opere
su Anna Maria Ortese: per un avvio cfr. Monica Farnetti, Anna Maria Ortese,
Bruno Mondadori, Milano 1998]

Affrontare l'opera letteraria di Anna Maria Ortese, nata a Roma il 13 giugno
1914, significa imbattersi innanzitutto in un problema editoriale
determinato dalle schizofrenie dell'industria culturale, con ricadute
potenzialmente distorcenti sulla lettura delle sue opere. Dimenticata per
anni, ogni qual volta e' intervenuta nei suoi confronti la giustizia di un
premio letterario, ecco regolarmente scattare riproposte che hanno creato
situazioni anche imbarazzanti. Il riferimento e' ai numerosi titoli della
sua bibliografia e al carattere di ripetitivita' di alcuni di essi, con gran
parte dei racconti delle sue due prime opere, Angelici dolori (Bompiani
1937) e L'infanta sepolta (Milano-Sera 1950), riciclati in raccolte
successive spesso con titolo mutato e senza alcuna indicazione editoriale.
Cosi' e' avvenuto per i sedici racconti de I giorni del cielo (Mondadori
1958), otto dei quali provengono dalla prima raccolta e sette dalla seconda;
accade lo stesso con i 6 racconti de La luna sul muro (Vallecchi 1968), due
dei quali ripresi dall'Infanta sepolta (e rititolati) e con i quindici de
L'alone grigio (Vallecchi 1969), tre soli dei quali non presenti in
precedenti raccolte ("racconti apparsi molti anni fa su periodici o in
edizioni poco diffuse" dice una noterella di G. P[ampaloni]).
Il problema non e' di poco conto e, data la ricaduta interpretativa, deve
suggerire cautela al critico onde evitare affermazioni quali (e' solo uno
dei tanti esempi): "Nel romanzo L'Iguana (1965) e nella raccolta di racconti
L'alone grigio (1969) la Ortese supera i moduli neorealistici de Il mare non
bagna Napoli per proiettarsi in una dimensione fantastica non priva di
elementi surreali". Che e' indubbiamente vero per L'Iguana; assai meno per
l'altro, visto che undici dei suoi quindici racconti erano stati editi
vent'anni prima.
Quindi, e semmai, non mutamento di rotta, ma ripresa d'un percorso da
leggersi guardando alle connotazioni nuove intervenute; e, sul piano piu'
propriamente critico-filologico, la valutazione da dare a tali riedizioni,
anche nella considerazione del tasso di volonta' dell'autrice a ricomporre
nuove sillogi o della sua disponibilita' a lasciar fare a critici, redattori
e strategie editoriali conseguenti a premiazioni (il Viareggio 1953, con Il
mare non bagna Napoli ex aequo con Novelle del ducato in fiamme di Gadda; lo
Strega 1967 con Poveri e semplici).
*
All'insegna di un premio
Del resto, la carriera dell'Ortese parte proprio all'insegna di un premio.
Angelici dolori approda alle stampe dopo che l'inedito viene encomiato,
"primo tra gli encomi letterari letti", alla seduta reale dell'Accademia
d'Italia con la motivazione (riportata da Massimo Bontempelli sulla
"Gazzetta del popolo" del 22 aprile 1937): "Rivela una rara potenza di
creazione fantastica, un istinto sicuro di espressione, un senso religioso
delle realta' quotidiane, che per virtu' di poesia appaiono ivi
continuamente trasfigurate in luce di bellezza". Non tutta la critica
concorda con il riconoscimento e con il giudizio entusiastico di
Bontempelli. Falqui, per fare un esempio, avanza severe critiche
all'aggettivazione esagerata, all'abbondanza di maiuscole e all'angelicita'
dei personaggi ("rozzezza decadentissimamente partenopea, pur nella sua
illusoria auroralita'").
*
Una novecentesca "Vita nova"
Di certo, al di la' dei comprensibili difetti da opera prima consistenti in
un elevato e persin troppo ricercato tasso di letterarieta', il volume - e
la situazione si ripetera' con tutte le successive opere - spiazza la
critica proprio per la sua inappartenenza ai generi; e se pur s'avvicina ai
moduli del realismo magico di Bontempelli, avanza comunque stilemi propri.
Quei racconti si propongono - e per il titolo, e per i raccordi interni di
nomi, personaggi, situazioni, leitmotiv anche coloristici (il giallo,
l'oro), e forse un po' troppe lacrime - quale novecentesca Vita nova (con
momenti da Cantico dei cantici) trascorrente tra realta' e sogno in un
territorio abitato da immagini e figure del fantastico o del ricordo (tra
essi spicca il fratello Manuele, marinaio, morto alla Martinica, oggetto
delle sue prime poesie ora riunite con altre in Il mio paese e' la notte,
Empiria, Roma 1996); territorio popolato da cose che si animano (lumi che
chiamano, luna che parla, vento dalle "mani meravigliose") o che fanno
esplodere improvviso da un mobile, da un libro, da una minuzia un
fantasmatico e fantasmagorico viaggio che si traduce in spostamenti da
deriva, trascinati dalle sotterranee correnti del fantastico (tra l'altro,
maggio e' il mese principe di questo libro giocato sulla struttura di un io
che narra la propria "terribile" vita oscillante "tra l'incanto e la
tristezza, tra i cieli e la squallida gente", pervasa dall'"incubo di una
imminente voragine" sempre in agguato).
Ecco quindi le stanze, luoghi privilegiati di questo narrare ("prigione
tetra e disperata" si legge nella "Collana dei Tappi Sacri" dell'Infanta
sepolta; "In tutte le stanze m'aspetta il dolore", ribadira' la poesia "Gli
ambasciatori" del 1980), che si riempiono trasformando la propria realta' di
luogo chiuso in scatole magiche del sogno e dell'onirico, che poi esplodono
quale specchio dell'esplosione dell'interiorita', aprendo sul mondo finestre
che restano pero' invalicabili, secondo la via ossimorica suggerita dal
titolo (e d'ossimori l'opera e' sin troppo ricca: da "male di gioia" a
"terribile e squisito male", per un cammino avviato alla "prediletta
penombra del sogno"). Del resto gia' il primo, letteratissimo racconto,
"Isola", col suo scarno dialogo mutuato dalle fiabe, suggerisce atmosfere
fiabesche. E l'ossimoro principe, dopo quello del porto - luogo protetto, ma
pure di partenze e separazioni spesso definitive -, e' la "solitudine
popolatissima" che chiama a se' cio' che ha perso (si veda il magistrale
"Solitario lume").
Angelici dolori, pur con le incertezze ricordate e una scrittura alla cui
ricercatezza formale pare essere demandata una valenza catartica, e' libro
fondamentale per capire la Ortese. Non solo perche' offre gia' un esauriente
catalogo di cose e oggetti (il dialogo con le cose, il mare, la casa e il
muro, il sole, la luna, gli alberi, gli uccelli) oltre alla trasfigurazione
tangenziale di momenti autobiografici tesa a una cifra di
universalizzazione, poi costanti nella sua opera; soprattutto perche' qui si
esplicita con chiarezza, e i successivi recuperi dei racconti lo dimostrano,
il primo termine di quella dialettica sogno-realta' che gradualmente apre
alla sperimentazione anche del secondo termine: si' da poter in seguito
approdare a quella loro forma narrativamente connaturata in sintesi attiva
anche nel recentissimo Alonso e i visionari.
*
L'esperienza in un quotidiano
Ed e' quanto accade a partire dai diciassette racconti de L'infanta sepolta,
nati a contatto dell'esperienza giornalistica di inviato per "Milano-Sera"
(cio' che spiega lo stile piu' secco): una raccolta inferiore e piu'
discontinua della precedente, ma con taluni esiti felicissimi. Un volume
chiaramente di transizione che, dal racconto iniziale, "Indifferenza della
madre", dichiarazione di poetica ancora nel senso di Angelici dolori col suo
riattraversare il mondo interiore dell'infanzia nel segno del conforto della
"felicita' solitaria", della "potenza amara dei sogni", dello spauramento di
fronte alle "cose immense" senza "il prodigarsi di una maternita' infinita e
giusta per tutti" cui si puo' reagire "amando e proteggendo qualche cosa:
forse un filo d'erba, un uccello ferito" ("a volte, il cuore di un fanciullo
e' veramente una cella troppo stretta per i suoi sorrisi, per i suoi
dolori", si legge nel secondo brano dal significativo titolo "Occhi
obliqui"), approda con Il mare di Napoli della terza parte alla prevalenza
del reale nei termini tra reportage ed elzeviro narrativo. Meno
impalpabilmente trasfusi risultano, rispetto ad Angelici dolori, le
tonalita' autobiografiche (un gioco di presenze-assenze costante, dal
racconto "Che?... Che cosa?..." a Poveri e semplici, Il porto di Toledo, Il
cappello piumato); che pero' fungono da veicolo a una lettura piu' estesa,
generalizzata: per un occhio che si abbassa sulla condizione di miseria
dell'uomo; per una piu' immediata traduzione dell'auscultazione della vita
del mondo e del problema del male che vi regna; non pero' senza momenti
propri della tradizione letteraria (il Leopardi del jardin en souffrance,
Kafka). Sicche' - e lo annuncia "Un personaggio singolare" che apre la parte
terza dedicata a Napoli, "una citta' veramente eccezionale" - il reale resta
tale nella sua essenza, ma vien reso stilisticamente con lo sguardo che
sublima senza tradire la condizione di terrestrita' dei personaggi (si pensi
a quelli del racconto "Gli Ombra"): tutti quanti circonfusi dalla tematica
forte del senso della perdita, della separazione, dell'abbandono (della
madre, del padre-Dio), dello smarrimento dell'anima; e dell'animismo che
opera nel mondo (tra l'altro, su "Milano-Sera" del 12 aprile 1950 si legge
un quanto mai significativo "Gli animali sono importanti").
Da materiale di iniziale destinazione giornalistica viene pure il dittico
Napoli-Milano de Il mare non bagna Napoli (Einaudi 1953) e Silenzio a Milano
(Laterza 1958; poi La Tartaruga 1986). Un volume, il primo, che solleva
polemiche puntualmente ripropostesi in occasione della ristampa Adelphi
1994, arricchita, oltre che da una "rivisitazione", da una pacificatrice
"Guida alla lettura". Questo perche', a una lettura attenta a strutture e
scrittura visionaria del libro, altri hanno preferito uno sguardo piu'
referenziale che ha comportato l'accusa all'autrice di far ricorso a "un
gusto un po' morboso e naturalistico di descrivere cio' che di sporco, di
disgustoso, di orrido si puo' trovare nelle vie e nelle case di Napoli, un
gusto minuzioso, curioso e un po' pettegolo" (Salinari) e di intenzioni
denigratorie verso gli intellettuali cittadini, peraltro nell'ultimo
racconto resi talora "al vetriolo" (ci sono Domenico Rea, Michele Prisco e,
simbolo d'un modo di essere intellettuale napoletano "errato", perche'
implicito a Napoli, quasi da funzionario dell'intellighenzia, Luigi
Compagnone). Sennonche' e' poi proprio Prisco a invitare i lettori a
"correre a comperarlo", perche' "costa poco, e comincia con uno dei piu' bei
racconti che siano stati scritti negli ultimi vent'anni".
*
La ragazza "cecata" con gli occhiali
Il riferimento e' a "Un paio di occhiali", stupendo racconto di una ragazza
"cecata" che vive visionariamente e nel desiderio degli occhiali: ma che,
avutili, nel guardarsi intorno sta male (di spirito analogo e' "Interno
familiare", ove la vicenda di "cecatura" e' interiorizzata a livello di
sentimenti). La lettura piu' opportuna resta quella che non distingue tra i
due racconti veri e propri e i tre a struttura giornalistica, facendo cosi'
coesistere "Il silenzio della ragione", disilluso viaggio tra gli
intellettuali napoletani, col "Paio d'occhiali" in forza del riferimento
agli occhiali della illusione-disillusione, d'un impegno che, abortito per
ragioni umane e politiche, consegna alla storia quegli intellettuali come
relitti.
Di qui la sfiduciata rabbia, a tratti taglientemente perfida, della Ortese;
ma anche la sua angoscia che, bloccata in "Oro a Forcella" nel bozzettismo
ben confezionato pur felicemente disturbato da squarci di sottrazione al
realismo, assume piu' spesso le forme contrarie di visionarieta'
espressionisticamente esasperata da "ai confini della realta'": la quale
nella "Citta' involontaria" consegna all'apparentemente giornalistico
reportage un procedere da viaggio dantesco che, nei richiami anche numerici
(Granili III, IV), si traduce in una sorta di raffigurazione da gironi
infernali.
*
Metafora della condizione cittadina
Che e' poi lo stesso clima che pervade i sette racconti-reportage di
Silenzio a Milano, la' dove la ricerca del materiale per un articolo
abbastanza tecnico, nel caso di "Una notte alla stazione", viene cadenzato
da un campo onomasiologico che verte sul nero, il malessere, l'oscura e
inumana grandezza del luogo, l'incubo, e converte il reportage in metafora
della condizione cittadina e, ancor piu', dell'umano dolore (gli incontri
sono sempre con una umanita' emarginata, sola e sofferente).
Qui il dato realistico (nel caso de "I ragazzi di Arese" un realismo
addirittura patetico) incuba e fa gradualmente scaturire l'allucinazione,
che negli angoli bui dello Shangai, "paradiso di carta" delle notti milanesi
("Locali notturni"), si popola d'un universo femminile scandito dai colori
forti dei vestiti e di uno maschile animalizzato (l'uomo-topo,
l'uomo-uccello). Un universo di solitudine che ha il suo spazio piu'
rappresentativo nelle monadi che popolano gli alveari delle Case-Albergo
dalle stanze di "pulita e disperata atmosfera" (una loro vivisezione
dall'interno la fornira' l'io narrante femminile di Poveri e semplici e Il
cappello piumato, che li abita). Un universo che tritura ogni possibilita'
di autentico rapporto umano e schiaccia chi non vuol farsi omologare ("Il
disoccupato").
Un universo di gente che "continua a vivere per timidezza, per non
disturbare", come i due fratelli de "Lo sgombero": la "muta, goffa, matta"
Masa, "ferma in mezzo alla vita", "pietra, selciato nella vita" con le sue
tenerezze e durezze, frutto di parole di cui si sente ricca ma che non sanno
uscire o escono depotenziate; e Alberto, amorevole e protettivo sin quasi a
farsi odiare da lei, cui resta solo la ricchezza anche dolorosa dei ricordi,
delle speranze infrante, dei sogni irrealizzati. Uno dei racconti piu' belli
della Ortese, in cui s'affaccia pure la problematica della disillusione
dell'utopia comunista dopo i fatti d'Ungheria, che trovera' voce piu'
articolata in Poveri e semplici e nel Cappello piumato; e nel quale la
scrittura si fa concreta testimonianza del dolore dell'umanita'
impregnandosene palpabilmente.
Con la ricordata "antologia" I giorni del cielo si chiude praticamente la
prima stagione narrativa della Ortese, caratterizzata unicamente dalla
narrazione breve. Non mancheranno in futuro volumi di racconti, come La luna
sul muro (Vallecchi, 1968) e L'alone grigio (Vallecchi, 1969), con testi
inediti in cui s'affaccia la tematica dell'inesorabile e duramente
indifferente ma pure miracoloso fluire della vita e con approdi (nel brano
che titola il secondo volume) a un'inquietante allucinazione in cui la
detemporalizzazione del vivere ricrea situazioni da "ritorni dal/al
passato", con una situazione potenzialmente da fantascienza o apocalisse
intrecciata a un atteggiamento spirituale del singolo di incanto e attesa,
di annullamento della paura del vivere tradotta, una volta sparito il
miracolo e tornata "a imporsi l'infinita lontananza di sempre" tra gli
esseri, in coscienziale domanda sul senso del vivere, sul come
quotidianamente affrontarlo.
*
La sintesi del reale-fantastico
Una misura, quella del racconto, che caratterizza anche le dieci tra novelle
e prose di varia natura e consistenza di In sonno e in veglia (Adelphi
1987), che ripropone tematiche ormai consuete della scrittrice ora nel
versante della confessione in pubblico (in "Piccolo drago" rilegge la lotta
con san Michele come prevaricazione dell'istituzione, della forza e del
"diritto" sulla condizione di doglianza del vivere dell'animale), ora della
sintesi di reale-fantastico propria delle sue ultime opere ("La casa del
bosco"). Quelli del dopoguerra sono anche anni di diversi viaggi in Italia e
all'estero quale corrispondente (esperienze poi rivissute in Poveri e
semplici e Il cappello piumato e che le fruttano due Premi Saint-Vincent di
giornalismo): pagine tra il giornalistico e il narrativo raccolte dapprima
in sillogi (Il treno russo, Pellicanolibri 1983; Il mormorio di Parigi,
Theoria 1986; Estivi terrori, Pellicanolibri 1987), quindi integralmente
recuperate in La lente scura, Marcos y Marcos 1991).
*
"L'Iguana" apre una nuova stagione
La seconda stagione narrativa della Ortese si inaugura dunque nel 1965 con
L'Iguana (Vallecchi; ora Adelphi 1986), romanzo dall'andamento anomalo, tra
fiaba e ironia, "ballata, filastrocca, sogno, delirio, allegoria psichica"
(Manganelli), con tratti che richiamano Cervantes; e che si presenta - si
legge nel romanzo - quasi come "una tormentata storia del Seicento spagnolo,
pazzesca nella nostra epoca tanto chiara" coi suoi "continui passaggi da un
luogo all'altro, e mutamenti di scena, e spezzati dialoghi, e rapido
inserirsi di un luogo in un altro" e incessanti "intarsi di casa, di vento,
di pozzo, di sentieri frementi e muti interni, [...] di cammino e di stasi,
di immobilita' e movimento, e soprattutto di un crescente dolore, di una
tristezza senza requie, di una rabbia indicibile, mista a parole usuali".
E' l'avventura senza ritorno del milanese conte Daddo nell'isola di Ocana
per acquistare terreni in cui costruire "ville e circoli nautici" per la
buona societa' milanese in cerca di natura incontaminata (una delle tante
"rabbie" ortesiane che attraversano il libro; altre riguardano l'industria
culturale e la societa' letteraria); e che s'innamora dell'Iguana Estrellita
che gli appare non come personificazione del Male (tale il giudizio altrui),
ma come creatura abbandonata alla fredda disperazione della solitudine dai
padroni che, dopo averla vezzeggiata, la abbandonano a se stessa e se ne
disfano ("essendo la bonta' e la grazia cose non di questo mondo") di fronte
all'occasione d'un matrimonio economicamente salvifico per il padrone. Che
e' soltanto un generico riferimento all'andamento di un libro praticamente
irriassumibile nella sua straordinaria e felice liberta' inventiva che si
muove con modularita' mozartiane in costante, reciproca trasfusione di
realta' e sogno, immaginazione e allucinazione, visione e "straziata
esigenza del reale", grazia e "sotterranea malinconia", entro un libero
gioco inventivo dalle strategie depistanti, ove ad esempio un'aura da grande
mistero (ad esempio la fanciulla-Iguana) si puo' risolvere nel segno del
"mistero semplice" (un matrimonio combinato), salvo poi intervenire una
allucinazione che rimette nuovamente tutto in gioco (del resto, si legge,
"il reale e' a piu' strati, e l'intero Creato, quando si e' giunti ad
analizzare fin l'ultimo strato, non risulta affatto reale, ma pura e
profonda immaginazione").
Da qui scaturisce anche la possibilita' di muoversi ad ampio raggio nelle
allegorie della Ortese tra le possibili e tutte avallabili interpretazioni
(politiche, economiche, culturali, metafisiche), siano esse relative alla
vicenda, a Daddo ("spirito estatico, che dappertutto, nel meccanismo della
natura, scorgeva un'anima uguale, e avvertiva un appello alla propria
fraternita'", con risvolti da vittima autosacrificale), oppure a Estrellita,
un ulteriore ritratto dell'ormai ricca galleria dei "puri" reietti ortesiani
sfumato nei significati troppo specifici.
*
Memoria di fatti e luoghi immaginari
Forma su cui la Ortese non indugia (la riprendera' piu' tardi con Il
cardillo addolorato), virando stilisticamente ancora una volta e ponendo al
centro della sua narrativa direttamente se stessa e le diverse forme di
spersonalizzazione. Ne viene un capitolo in tre atti, l'uno diverso
dall'altro: la rivisitazione delle utopie degli anni Cinquanta (Poveri e
semplici); quindi, con brusca virata, il furente riattraversamento del suo
apprendistato letterario tra anteguerra e immediato dopoguerra (Il porto di
Toledo); la ripresa delle vicende del dopoguerra dal punto di abbandono in
Poveri e semplici, ma con diverso stile e prospettiva, nel malinconico
acquetamento del Cappello piumato. Romanzi di memoria ("non c'e' nulla che
dimentichiamo, portiamo con noi tutto", si leggeva nello "Sgombero"): ma
d'una memorialita' sempre diversa, d'una "forma autobiografica" che
l'Avvertenza di Poveri e semplici vuole intesa "come una normale narrazione
di fatti e luoghi immaginari".
E' la Milano del dopoguerra e delle Case-Albergo a darsi come luogo d'azione
sia di questo racconto di memoria e di innamoramento, sia del romanzo di
memoria e d'amore che lo continua, seppur in un universo umano piu'
circoscritto, col passaggio dalla comunita' di piccoli amici del primo libro
al rapporto a due tra Bettina e Gilliat del secondo (stando alla
dichiarazione d'autrice, Poveri e semplici sarebbe una rielaborazione delle
prime 40 pagine d'un "fascetto di carte" memoriali, mentre Il cappello
piumato riprenderebbe, con pochi interventi tra cui un capitolo-sutura
iniziale, le restanti 100 pagine del brogliaccio originario).
*
Le utopie politiche bruciate
Romanzi-interrogazione, Poveri e semplici e Il cappello piumato: sul proprio
essere artisti, sui modi della propria appartenenza a un clima in cui si
bruciano le utopie (i fatti d'Ungheria, i crimini di Stalin) e la passione
politica interferisce inesorabilmente con i sentimenti dell'amicizia e
dell'amore; sulla propria essenza. Romanzi-ricordo: di una esistenza.
Romanzi-nostalgia: di una fede in una "ferma bonta' alle radici del Cosmo",
e della sua traduzione in "grande febbre" collaborativa "affinche' il
mondo - da triste e ingiusto che era - divenisse lieto e provvido per
tutti". Romanzi delle ragioni del cuore, ma anche "dello spavento del
vivere": dei "piu' bei giorni della mia vita" (il primo), attraversato dalla
sensazione sottile della "fine" malinconia, dal dittico speranza-tristezza,
dal senso del tempo che se ne va inesorabilmente. Un romanzo, Poveri e
semplici, che si offre con un pudore e un candore che si bagnano nello stile
semplice, in una dimessa quanto avvincente colloquialita' da Fioretti;
caratteristica che non avra' invece Il cappello piumato, in cui il ricorso
all'arma dell'autoironia non riesce a far velo al senso della definitiva
perdita di un mondo e a un tono di mesta amarezza per gli inaridimenti umani
(qui di Gilliat).
Con, in mezzo, quel senso di perdita e allontanamento dal "paesaggio scuro e
doloroso che si chiama gioventu'" avvertito in Poveri e semplici, che si
traduce nel furioso tentativo di riappropriazione del Porto di Toledo.
Ricordi della vita irreale. Libro dai bagliori mistici nella memorialita'
deformata di Damasa, "proiezione perversa" dell'autrice dotata di propria
percettivita' e autonomia ("onorava lo scrivere un solo istante; nel
successivo, lo deformava. Fino a piegarlo, sprezzarlo e cancellarlo del
tutto"). Quindi anche stilisticamente furioso, con tutte le sue sofferte,
continue riscritture nel corso del quindicennio 1969-'85 che sul piano
strutturale hanno comportato alle oltre 500 fitte pagine sbandamenti che ne
costituiscono a un tempo il limite ma anche il perverso fascino (ne' si
dimentichi, con quanto di allegorico comporta, che Anna Hurdle, dedicataria
del libro, e' una ventitreenne impiccata due secoli fa a Londra per spaccio
di moneta falsa).
C'e' qui un modo antipodico di rivivere il ricordo e riappropriarsi del
proprio passato: anche materialmente, perche' nello sperimentalissimo
romanzo confluiscono i materiali piu' disparati, dal racconto alla
digressione, al commento, dai testi poetici agli inserti epistolari, da
brevi note a pie' di pagina esplicative d'un modo di dire o d'un concetto
alla riscrittura d'una decina di racconti di Angelici dolori (la prima idea,
poi deflagrata nella complessa struttura irriducibile all'esposizione d'una
trama, era d'una loro semplice riscrittura).
Un riattraversamento, dunque, piu' che un recupero degli anni dell'infanzia,
quello del Porto di Toledo, che la Ortese compie attraverso la figura di
Damasa, al tempo stesso suo "se'" ma pure "altro da se'" (sino ad apparire a
tratti personaggio maschile, oltre che femminile): cio' che le consente la
duplicita' della riappropriazione, ma pure della spersonalizzazione e
trasfigurazione in funzione di una cifra di dolore universale per tale
perdita. Reale e visionario si intersecano a ogni passo nel segno
dell'allucinazione: a partire dal titolo stesso, che mentre richiama una
delle vie piu' antiche di una Napoli, qui "citta' di sogno, ispanica,
terribile, leggendaria e mortuaria" (cosi' Dario Bellezza per il quale Il
Porto e' il "suo romanzo piu' angelico e infernale, summa di tutte le sue
maniere narrative"), si permea anche del ricordo, e dei colori, e delle
deformazioni fisiognomiche suggerite dal Seppellimento del Conte D'Orgaz, il
quadro di El Greco da lei visto proprio a Toledo.
Del pari si incrociano personaggi reali appena travestiti (tra essi i
genitori Apo e Apa; "El Rey fragile e piccolo", quel suo "vicere'" Don
Pedro, infine "per i piedi appeso affinche' i corvi lo beccassero") e altri
ricifrati in una oscurita' che li ripropone "a chiave"; e lo stesso modo del
linguaggio risulta digitato su varie scale stilistiche, sino al neologismo
allusivo.
Un libro destinato ad accompagnare negli anni la sua autrice con i suoi
fantasmi, a dispetto di cifre piu' malinconicamente lievi, quali quelle del
Cappello piumato. E dei due ultimi romanzi, dalla gestazione parallela, pur
nello scarto editoriale che vede Il cardillo addolorato (Adelphi, 1993)
scavalcare Alonso e i visionari (Adelphi, 1996).
*
Il segreto di donna Elmina
Il cardillo e' la "strana storia del viaggio di Bellerofonte e i suoi amici
a Napoli, del segreto di donna Elmina, di tante fantasticherie - passioni e
grazia -, tanti interventi del Cardillo, nella Napoli assediata dalle sirene
e dai Francesi", tra Borboni e rivoluzione, in cui i tre amici si recano per
vedere le leggendarie figlie "belle e insopportabilmente mute" del Guantaio
di Santa Lucia, tra cui Elmina.
Un'opera che, impiegando quale collante l'ambiguo sorriso ironico,
"pasticcia" felicemente romanzo d'appendice e racconto orale, gotico e nero,
cronaca e leggenda, storia e chiacchiera, menzogna e fiabesco, fantastico
alla Hoffmann & dintorni e pseudoscioglimenti che si rivelano in realta'
aperture di nuovi misteri in un ventaglio inarrestabile, romanzo di viaggio
settecentesco e dialoghi con il lettore per avvisarlo o depistarlo,
illuderlo o deluderlo, metanarrativita' e digressione, richiami all'oggi,
analessi prolessi e agnizioni che si falsificano vicendevolmente tra figlie
che figlie non sono, fratelli e sorelle che tali non sono e cosi' via, in un
tourbillon di sorprese e viaggi nel fondo della levita' stessa delle parole,
nel buco nero che si apre subito dietro ogni presunta realta' in una discesa
agli inferi della inattingibile conoscenza (sia operata con la Ragione, la
Natura o col magico negromantico).
*
Il bugiardo e depistante "Cardillo"
E tra personaggi grandi e piccoli nessuno dei quali alla fine e' cio' che
era, o cio' che sembrava essere, o cio' che si credeva o che l'autrice
"perfidamente" suggeriva che fosse. Un romanzo bugiardo e depistante, che
gioca tra testo, paratesto ed extratesto, racconto e commento, sogno e
ipotesi, visioni e onniscienza narrativa, subito ribaltata dallo sguardo
stupefatto dello stesso narratore di fronte ad avvenimenti che dichiara di
scoprire insieme al lettore; salvo poi, con dosi che da inizialmente
inavvertite si fanno via via piu' tangibili, intriderlo d'un senso di
mistero, inquietudine, angoscia.
Un libro insomma in persistente commistione di solarita' e cupezza,
divertissement frenato dall'amarezza e sgomento rialzato da un sorriso, in
cui i "tempi" (allegro, grave, scherzo...) da struttura sinfonica si
decompongono in sette movimenti da poema sinfonico il cui tono baldanzoso, a
mezzo tra divertita ballata popolare e romanzo picaresco da Siglo de oro,
del primo tempo, scivola in un viaggio che si impregna del "secondo" mondo
(quello del "vero reale", opposto a quello ombra della quotidianita'), per
poi tradurre il fiabesco dall'iniziale tenue atmosfera di sogno in un
onirico popolato di morti che tornano per maledire o contrattare vendite ed
eredita', e che cifra di inquietudine anche i piccoli misteriosi e sfuggenti
folletti di trecent'anni in perenne sporgenza su una morte che non viene:
tutto scandito dal canto-verso del Cardillo, quell'Oh! Oh! a un tempo
stupido e irridente, angelico e demoniaco, accorato e addolorato sempre,
solo cerchio non chiuso dei tanti anelli strutturali di continuo aperti e
sapientemente sigillati dall'autrice.
"Storia tanto intricata e oscura che abbiamo la sfortuna di narrare", diceva
del Cardillo la Ortese. "Non-storia" dice di Alonso e i visionari, racconto
calibrato sull'invisibile discrimine continuamente valicato nei due sensi di
realta'-visione e allucinazione (e allucinazione, e fors'anche follia era
pure l'approdo degli Eroi del Cardillo). "Diario" lo definisce l'io
narrante, l'americana Stella Winter.
"Deposizione-confessione" lo direi, piuttosto: scritto testimoniale e
testamentario che, nella volonta' di ricostruzione puntigliosa d'ogni
passaggio (orale, epistolare, documentale) d'una vicenda sempre sfuggente al
reale per farsi visione, si offre quale autentico Itinerarium mentis et
cordis ad... deum. Ove deum e' Alonso, piccolo Puma che il bimbo Decio
raccoglie nel deserto dell'Arizona morendo per salvarlo; e che portato in
Italia dal padre, il professore nichilista Antonio Decimo, si fa elemento di
contraddizione per lui e l'altro figlio, Julio, sanguinario terrorista
"metafisico" in lotta contro lo Spirito del Mondo.
Uno zigzagante "itinerario" depistante nel travalicare la struttura
romanzesca, e dai diversi, anche diseguali, ritmi della scrittura: dandosi
si' come racconto ricostruibile quale puzzle anche oltre la stessa lettura
(il thriller della misteriosa morte di Julio); ma soprattutto come
mescolanza di elementi raziocinanti (dialoghi filosofico-metafisici serrati,
talora ingarbugliati) con altri visionariamente favolistici che travalicano
i primi, reclamando atti e impegni di fede; e, ancora, di silenzi e paesaggi
parlanti. Itinerario di comprensione e adesione tra ragione e cuore, non
senza resistenze al voler sapere, quello di Stella, alter-ego ma soltanto
parziale della Ortese nel cammino di formazione, dandosi l'alter-ego piu'
importante in Jimmy Opfering, professore americano dal cuore puro,
totalmente aderente a cio' che crede e vuol testimoniare, difendendolo sino
al sacrificio di se' (offerta, vittima, sacrificio, martire: quindi
testimone, significa il suo cognome; e anche in questo e' un ideale fratello
del Daddo dell'Iguana). Riferimenti, questi, che ben indicano l'ipostasi del
romanzo: una religiosita' tra cristianesimo e paganesimo, tra Dio, Uomo e
Natura; d'un evangelismo riletto attraverso san Francesco e deteologizzato,
che in piu' punti riprende il modello non solo narrativo del Vangelo in
quanto "buona novella" e che nell'opzione antifrastica del Puma Alonso,
summa dei dolori del mondo, "piccolo cristo" che non sai quando ma che "non
visto, verra'", incarna in una fiera il simbolo della mitezza dallo sguardo
catartico, elemento di contraddizione con la ferinita' del mondo umano.
*
L'ultimo "Corpo celeste"
Un Puma il cui messaggio si radica nelle Beatitudini; che attraversa
risurrezioni, apparizioni quali segni da cogliere, reincarnazioni, ritorni a
sollecitare coscienze e responsabilita', non senza la valenza del "giudizio"
che ti rende evidente in un solo attimo, al suo solo apparire, la tua reale
condizione di miseria interiore. E che ha in Op il proprio apostolo. Puma
quindi come luogo e possibilita' del mutamento per i personaggi. Puma come
ancestralita': luogo incorrotto del desiderio del ritorno; come condizione
primordiale di pace con se stessi e con gli altri, e agnello sacrificale per
quel ritorno. Puma come insieme di valori sprezzati da una societa' come la
nostra: simbolo del richiamo a una scelta di responsabilita' e di armonia
col mondo: a quella purezza e mitezza di cuore che, sole, faranno "ereditare
la terra". Tutto cio' dovrebbe trovare una conferma, stando alle
dichiarazioni della stessa Ortese, in Corpo celeste (che sta per uscire da
Adelphi).

***

1. EDITORIALE. LE NOSTRE STRAGI QUOTIDIANE

Quanti poveri cristi abbiamo ammazzato oggi in Afghanistan?
Quanti ne abbiamo lasciati affogare nel Mare nostrum?
Quanti ne abbiamo lasciati ridurre in schiavitu'?
E quanti futuri terroristi stanno allevando i nostri massacri?
Di cosa andiamo cianciando se non facciamo neppure un gesto per contrastare
la guerra in corso?
La violazione della Costituzione e' il tuo silenzio che la consente.
*
L'Italia diventa di nuovo un paese di fosca barbarie. Tutto comincio'
accettando la guerra, i campi di concentramento, la persecuzione dei
migranti, la partecipazione alle nuove guerre terroriste e stragiste,
imperialiste e razziste. Tutto comincio' consentendo la violazione dei
principi fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana.
*
Opporsi alla guerra, al riarmo, al militarismo: adesso occorre.
Opporsi al razzismo, alle persecuzioni, alla violenza degli oppressori, ai
poteri criminali: adesso occorre.
Opporsi alla distruzione della biosfera: adesso occorre.
Adesso.
*
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

2. AFGHANISTAN. "PEACEREPORTER": UNA DONNA E DUE BAMBINI
[Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo la seguente
notizia del 18 agosto 2008 col titolo "Una donna e due bambini uccisi da un
razzo britannico"]

Una donna afgana e due bambini sono rimasti uccisi dal lancio di un razzo da
parte di un soldato britannico, in un piccolo villaggio del sud del paese,
dove il contingente e' impegnato da giorni per contrastare gli attacchi dei
talebani. Altri quattro civili sono rimasti feriti, nella provincia di
Helmand, in un incidente che ha visto coinvolti altri soldati inglesi.

3. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: SOLO AI DISPERATI E' DATA LA SPERANZA
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli@wooow.it) per
questo intervento.
Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo
notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre
nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

Due sentimenti sembrano caratterizzare la nostra societa': paura e
rassegnazione.
Soltanto che gli italiani, come e' stato giustamente scritto, hanno paura
non della mafia, ne' della camorra, e nemmeno della 'ndrangheta, e neppure
della della "sacra corona unita", i poteri criminali che controllano vari
settori della cosa pubblica, che gestiscono diversi traffici industriali,
commerciali e finanziari, e che si occupano di pressoche' ogni attivita' che
dia profitto, lecita o illecita che sia.
Gli italiani non temono l'inquinamento, che sta devastando il pianeta e di
conseguenza la salute loro e dei loro figli.
Non sono spaventati da quei giocolieri travestiti da imprenditori dell'alta
finanza, che con i loro trucchi volatilizzano fortune nel giro di qualche
minuto, lasciando i piccoli risparmiatori a bocca aperta davanti a banche
indifferenti e tribunali impotenti.
Gli italiani non sembrano neanche preoccupati del fatto che nel loro paese
la liberta' di stampa e' considerata a rischio. Ora attaccata anche sul
terreno della finanza, con i tagli ai contributi pubblici per l'editoria
cooperativa e politica, previsti dalla manovra economica del governo
Berlusconi.
No. Gli italiani hanno paura dei rumeni e dei rom. Invece, nei confronti
degli insospettabili che rubano ben protetti in alto, di chi ruba
quotidianamente in cravatta e doppiopetto, si puo' persino provare invidia
per la facilita' con cui accumula successo e denaro. Del resto colpire i
reati minori e lasciare da parte i grandi crimini e' da ormai troppi anni il
messaggio della destra berlusconiana ed ha costituito senza dubbio un
tassello importante della sua vittoria elettorale.
Questa paura e' estremamente diffusa, anche grazie alla sua scellerata
rappresentazione mediatica: un paese in balia del crimine, del "nemico" che
ci porta via il lavoro, la donna, il crocefisso. Gli "invasori" sono ogni
giorno sui nostri schermi, protagonisti della cronaca nera, scodellati
nell'ora del telegiornale sulle tavole italiane.
Eppure questa paura non appartiene a tutta la popolazione; parti consistenti
della nostra societa', non da oggi, si battono contro questa deriva
essenzialmente razzista, con la consapevolezza che la paura e' la risposta
sbagliata al disagio quotidiano. Perche' la paura non e' la causa
scatenante, la causa scatenante e' il disagio, la crisi di societa', di
umanita', e quindi di civilta'.
La paura e' un rimedio mobilitante per chi non ha difese, e dunque le cerca,
per chi non ha la sicurezza del futuro e dunque cerca sicurezza almeno del
presente. Il guaio e' che fino a quando non gli si opporra' un'altra idea di
socialita', vincera' sempre e comunque la destra xenofoba e razzista.
Sulla costruzione di quest'altra idea di socialita' pesa pero' come un
macigno la rassegnazione, che ha colpito anche le minoranze piu' attive
della societa' italiana e che ha spinto e spinge molti alla disaffezione. Il
peggio, che gia' avviene, e' il pensare di non farcela, che tanto tutto e'
inutile; e questo e' un lusso che non possiamo e non dobbiamo permetterci.
*
Continuare a sperare (solo ai disperati e' data la speranza, diceva Brecht),
a impegnarsi nella direzione del cambiamento, e' piu' che mai necessario.
E' il compito urgente che spetta a chiunque non si rassegni a essere
soltanto una vittima, oppure, a secondo dei casi, un complice e uno
spettatore dell'oppressione degli altri, un cliente dei potenti piu' furbi,
un numero nei sondaggi.
E' un dovere per chi si ricorda della propria e dell'altrui dignita', nella
quale e' inserita la responsabilita' di esercitare al meglio la
soggettivita' civile e politica di persone libere, lucide, solidali e
creative.
Per tutto questo bisogna continuare a sfidare la fatica dell'impegno
diretto, la fragilita' che tutti ci segna, toccare anche l'impotenza e
sentire lo scacco, ma senza rassegnarsi.
Perche' l'indifferenza, come il silenzio, e' complicita', come scriveva
Mario Benedetti: "Se quarantamila bambini soccombono ogni giorno / nel
purgatorio della fame e della sete / se la tortura dei poveri corpi /
svilisce ad una ad una le anime / e se il potere si gloria delle sue
quarantene / e se i poveri in solennita' / sono sempre meno solenni e piu'
poveri / e' gia' abbastanza grave / che un solo uomo / o una sola donna /
contemplino distratti l'orizzonte neutro / ma e' atroce / semplicemente
atroce / se e' l'umanita' a scrollare le spalle".

4. MEMORIA. LODOVICA CIMA RICORDA ASTRID LINDGREN
[Dal mensile "Letture", n. 587, maggio 2002 col titolo "Astrid Lindgren" e
il sommario "La scrittrice svedese, scomparsa a 94 anni, invento' la sua
storia piu' famosa per intrattenere la bambina ammalata. Scopri' cosi' un
secondo mestiere. E creo' tanti altri libri di cui ha venduto ben 130
milioni di copie"]

I Paesi nordici, da sempre terreno fertile per la letteratura per ragazzi,
hanno dato vita a grandi autori: basti pensare a Selma Lagerlof o a Tove
Jansson. Quasi tutti hanno attinto dalla loro ricchissima riserva di
tradizioni e folklore, producendo innumerevoli racconti di boschi, muschi e
profumi della natura, mescolati a strane creature in miniatura che vivono
seguendo bioritmi meravigliosamente naturali o conoscono segreti fatati.
Solo allo scoccare della meta' del '900 ecco irrompere in questo panorama
letterario quieto e rassicurante, un personaggio assolutamente nuovo e
rivoluzionario: si chiama Astrid Lindgren, ha l'aspetto di una amorevole
signora della media borghesia e comincia a scrivere quasi per caso. Da quel
momento la sua vita e' un susseguirsi di storie inventate e di premi
conquistati. Piu' di 80 libri pubblicati, poi tradotti un po' ovunque. Piu'
di 130 milioni di copie vendute. Sono cifre ancora in evoluzione perche' i
suoi romanzi continuano ad essere ristampati in piu' di 50 Paesi. I suoi
lettori sono come rapiti dalla modernita' del linguaggio e dalla carica di
energia vitale che tutti, in un modo o nell'altro, trasmettono. Ma chi era
questo turbine innovativo che ha invaso le librerie di Svezia dal 1944 in
poi e subito dopo gli scaffali di tutto il resto del mondo?
Era una madre di famiglia, che aveva alle spalle un'infanzia serena e
tranquilla, passata nella fattoria paterna nel sud della Svezia e un impiego
da segretaria a Stoccolma. Fin qui nulla di strano, si direbbe. Eppure
questa donna aveva qualcosa in se' che doveva esplodere prima o poi.
"Scrivere era una delle cose che non avrei mai pensato di fare! Ricordo che
a scuola mi chiamavano la Selma Lagerlof di Vimmerby e questo mi dava
particolarmente sui nervi", racconta lei stessa in un'intervista. "Fu una
coincidenza, niente di piu'", dice ancora.
Ma le coincidenze o meglio i segnali del destino furono due, e molto
ravvicinati nel tempo.
*
Capito' infatti che la figlia Karin ebbe una brutta polmonite, nell'inverno
del '44. Astrid stava al suo capezzale e la intratteneva raccontandole delle
storie. Si trattava delle avventure di Pippi Calzelunghe. Che nome bizzarro
per una bambina del '44: fu proprio la piccola Karin a suggerirlo, in fondo
era una sua coetanea.
La seconda coincidenza fu che Astrid, quello stesso inverno, scivolo' sul
ghiaccio di un marciapiede di Stoccolma e fu costretta al riposo forzato per
un brutto strappo alla caviglia. Seduta nel silenzio della sua casa le venne
lo strano e inaspettato istinto di mettere nero su bianco la storia di
Pippi. Doveva essere un regalo per il decimo compleanno di Karin. Da allora
niente e nessuno la fermo' piu'. I suoi libri invasero il mercato a macchia
d'olio e la sua fantasia fu come liberata, lasciata a briglie sciolte. Pippi
Calzelunghe, la prima delle sue creature, non era una bambina qualsiasi e la
sua storia non apparteneva al genere realistico al quale gli svedesi erano
abituati. Pippi e' un personaggio sorprendente che da' voce a un nuovo
mondo, o meglio, un mondo sconosciuto agli adulti di allora: l'universo dei
desideri dei bambini. Pippi rappresenta e manifesta l'esigenza profonda dei
bambini di allora di giocare e divertirsi. Proclama, nella sua
eccentricita', che e' giunto il momento, per gli adulti, di porsi in un
atteggiamento educativo differente: il bambino deve essere il vero centro
dell'interesse educativo, un bambino con dei bisogni e dei diritti da
rispettare.
Al giorno d'oggi sembrano principi banali, ormai acquisiti dalla pedagogia
moderna, ma allora, nel 1944, il bambino era ancora oggetto di educazione e
non soggetto da educare. Ecco quindi le novita' di Pippi: una bambina che
vive sola, che e' orfana di madre e ha un padre che va per mare. Sempre sola
gestisce la casa e il denaro che le serve per vivere e affronta il
quotidiano con la spontaneita' e la vitalita' che solo i bambini riescono ad
avere. Pippi pero' non e' un personaggio del tutto reale, ma una sapiente
fusione tra realta' e fantasia: la bambina infatti e' straordinaria, ha la
forza di sollevare un cavallo e dice di aver girato il mondo, e' generosa e
sempre in atteggiamento positivo verso la vita e il prossimo. Vive secondo
le sue regole, non frequenta la scuola e si rifiuta di essere accudita nella
Casa degli Orfani.
Ma la sua trasgressione non e' mai irrispettosa delle regole altrui. Pippi
e' estremamente gentile con i poliziotti che tentano di prelevarla, con la
Signora Prusselius, la maestra del paese. Non ha l'aria di essere una
rivoluzionaria, ma ha una forza positiva e vitale che sembra contagiare chi
le sta attorno. Pippi rappresenta una invincibile forza della vita e insieme
il desiderio di liberta' che ogni uomo, adulto o bambino, nasconde dentro di
se'. La sua vita e' una continua trasgressione gentile alle regole degli
adulti che Pippi, sorridendo, rimanda agli adulti, chiamandosene fuori in
quanto bambina.
*
Questo primo lavoro di Astrid Lindgren non fu ben accolto, anzi, venne
definito sovversivo nei confronti della societa'. Ma la scrittrice aveva
magicamente acquisito lo slancio d'inizio e scrisse subito un'altra storia.
Infatti il primo libro pubblicato da Astrid Lindgren fu Britt Mari, un
racconto epistolare nel quale una ragazzina piu' grande di Pippi, di 13
anni, si confida con la sua amica di penna. Con questa tenerissima ragazzina
ci addentriamo nei pensieri dei preadolescenti e assorbiamo la realta'
attraverso i loro occhi. I dettagli della vita quotidiana ci appaiono chiari
o scuri a seconda dell'umore di Britt. I colori sono meravigliosamente
cangianti e tutto scorre in un linguaggio attualissimo.
E' un racconto piu' convenzionale rispetto al primo, anche se la scrittura
in prima persona fa vivere le emozioni della protagonista in modo autentico.
Gia' in questa prima prova pubblicata appare pero' chiara la capacita'
straordinaria della Lindgren di entrare nel mondo dei bambini e dei ragazzi
e di raccontare la loro crescita senza mediazioni adulte. Con Britt Mari,
Astrid vince il secondo premio del concorso indetto da una delle piu'
conosciute case editrici del suo Paese: la Raben & Sjogren. Il primo
riconoscimento di una serie innumerevole di premi che celebreranno il suo
talento.
Ma tornando ad affacciarsi dentro le storie, notiamo che, mentre in Pippi
Calzelunghe e' evidente in ogni pagina una perfetta commistione tra fantasia
e realta', in Britt Mari leggiamo una delle realta' possibili: quella
vissuta dalla protagonista. Gia' in questo racconto scopriamo immagini care
alla Lindgren che ritroveremo anche nelle storie piu' tardive, come Vacanze
all'Isola dei gabbiani (1964). Una delle piu' sottolineate e' la centralita'
della famiglia, quasi sempre numerosa, nella quale i fratelli hanno continui
scontri-incontri che testimoniano una grande intimita' nei rapporti.
Quell'intimita' vista come valore e come forza che accompagna ognuno nella
vita. L'intimita' che affianchera' anche i due Fratelli Cuordileone, nella
loro allegorica impresa. Sempre per restare all'interno del nucleo
familiare, e' singolare come la madre resti una figura in ombra in Britt
Mari, defunta in Pippi Calzelunghe e in Vacanze all'Isola dei gabbiani e
addirittura rimasta nel mondo dei vivi ne I fratelli Cuordileone.
Quando la madre non c'e' o ha troppo da fare per occuparsi del menage
familiare, spesso per Astrid emerge la figura della sorella maggiore, una
dolce ed eterea sorella che pensa a curare i piccoli, a fare la spesa, a
preparare pranzi e cene e a far da segretaria al padre. La sorella che i
fratelli piu' giovani temono di perdere ogniqualvolta si avvicina un nuovo
corteggiatore... Astrid fa parlare teneramente i piccoli che come cuccioli
goffamente aggressivi cercano di proteggere la loro sorella maggiore dalle
smanie sconosciute di "esseri schifosi" ai loro occhi: cioe' i pretendenti.
Sono immagini di grande tenerezza che l'autrice ripete nei due libri, Britt
Mari e Vacanze all'Isola dei gabbiani, a distanza di vent'anni. In tutti e
due i casi la sorella non cede mai alle proposte dei corteggiatori, ma
mantiene il suo ruolo di colonna familiare, anzi rassicura i piccoli dicendo
che non si sposera' mai. Uno strano gioco di dettagli che e' in contrasto
con l'immagine di grande famiglia che cresce e che si moltiplica che
leggiamo nei libri e vediamo nella vita stessa dell'autrice, nonna di ben
sette nipoti e cinque pronipoti.
I protagonisti di questi due romanzi sono femmina la prima e maschio il
secondo, hanno eta' diverse, tredici anni la prima e sette anni il secondo,
eppure raccontano, in prima persona, con la stessa vitalita' e immediatezza.
Lo stile semplice, diretto e a volte di essenziale crudezza, ci trasporta
quasi a partecipare davvero alla vita dei protagonisti. I commenti
dell'autrice sono imperscrutabili, perche' l'atmosfera e i messaggi nascono
sapientemente dalla storia stessa: da cio' che succede. Solo in
un'occasione, Astrid Lindgren ci offre una definizione che potremmo ritenere
valida per tutte le sue creature: "Il babbo sostiene che in lei (Ciorven di
Vacanze all'Isola dei gabbiani) c'e' qualcosa dell'eternamente fiducioso dei
bambini, del calore e della luminosita' che in realta', nelle intenzioni di
Dio, tutti i bambini dovevano avere".
*
Dal 1946 al 1953 Astrid Lindgren si dedica a un nuovo personaggio: Kalle
Blonkvist. Con questi romanzi rilancia un genere adattandolo ai ragazzi: il
giallo. Kalle, curioso e intraprendente diventa Grande Detective. Si tratta
di una trilogia: Kalle Blonkvist grande detective, S.O.S per Kalle Blonkvist
e Kalle Blonkvist e Rasmus. Anche in questo caso le avventure si svolgono
durante l'estate, quella lunga estate di vacanza nella quale i ragazzini non
sanno come passare il tempo. Kalle ha due amici-assistenti che con lui
inventano passatempi, il piu' importante dei quali e' la guerra tra bande
rivali. Si tratta pero' di bande innocue che si inviano biglietti misteriosi
e che giocano ad usare parole grosse. Tra uno scontro e l'altro pero',
Kalle, Grande Detective, smaschera dei ladri di gioielli e conquista la sua
fama. Il personaggio riscuote grande favore da parte dei piccoli e tanta
tenerezza da parte di noi adulti che immaginiamo il sorriso amorevole della
scrittrice mentre delinea i suoi tratti.
Il genere giallo per ragazzi era assai raro in quel periodo e sono proprio
questi racconti che gli danno nuovo slancio. Stanno ancora oggi alla base
dei gialli moderni per ragazzi. Sono da considerare classici, non ancora
contaminati dall'horror o dal mostruoso. Questi nuovi prodotti si possono
definire di derivazione piu' "televisiva", mentre Astrid Lindgren si basa
sui meccanismi del giallo classico "alla Agatha Christie".
*
Nel 1949 una tipologia stilistica differente incuriosisce Astrid Lindgren
che sperimenta uno stile narrativo piu' lirico e costruisce un racconto con
una trama surreale nella quale fantasia e realta' si fondono perfettamente,
senza sbavature ne' cedimenti. Si tratta del racconto Karlsson sul tetto,
nel quale la scena si apre in un condominio come tanti, in cui vive una
famiglia come tante. Tre fratelli: Bosse, Betta e Svante, detto il
Fratellino. La Lindgren si concentra su quest'ultimo ragazzino di sette anni
e gli dedica attenzione: sara' infatti Svante a scoprire uno strano
inquilino del palazzo, Karlsson, che vive sul tetto. Karlsson e' un vero e
proprio personaggio fiabesco: un ometto piccolo e rotondo, sicuro di se',
che sta solo sulle tegole dei tetti e che puo' volare perche' la sua schiena
e' dotata di un'elica. Karlsson schiaccia un bottoncino vicino all'ombelico
e l'elica si mette in moto.
Chi volete che creda a una storia simile? Svante non riesce a conquistare la
fiducia di nessuno, tutti credono che questo Karlsson sia il suo amico
immaginario. Finche' un giorno, due compagni di scuola vengono a casa e
succede qualcosa di insolito. Alla fine del racconto naturalmente Svante si
prendera' una bella rivincita e tutti crederanno a Karlsson. L'avventura
reale e insieme surreale ci accompagna nel magico mondo aereo di Karlsson,
che vola sopra i tetti di Stoccolma, i tetti di un quartiere in cui Astrid
Lindgren ha abitato per quasi sessant'anni.
*
Nel 1954 esce un racconto che e' considerato da molti un piccolo capolavoro:
Mio piccolo mio. La storia narra di un povero orfanello malinconico, che in
realta' e' il figlio di un re in esilio. L'esilio di questo re fu un
terribile errore. E ancora oggi si aspetta che qualcuno sconfigga il perfido
Cavaliere Kato. Una storia quasi epica che la Lindgren utilizza per far
passare messaggi sociali: l'inesauribile lotta tra bene e male e la
situazione dei poveri.
Lo spirito di solidarieta' e la vera gerarchia dei valori esiste anche tra
un gruppo di bambini di campagna, protagonisti di I bambini di Billerby
(1952), una trilogia di racconti nei quali si affrontano si' problemi
sociali, ma il bene vince grazie alla forza e all'amicizia pulita che
resiste ancora negli ambienti rurali.
Ed e' la stessa matrice narrativa quella che conduce l'autrice attraverso la
scrittura delle varie avventure di Emil (1963, 1966, 1970 fino all'ultima
avventura uscita nel 1985) raccolte in Italia in un solo volume edito da
Vallecchi. Emil e' un vero campione di monellerie, che vive nel piccolo
villaggio dove l'autrice e' nata: l'atmosfera delle fattorie, delle feste
campestri e la vita libera permette al protagonista di esprimersi in tutta
la sua vivacita' creativa. Questa luce vivificante e pura, che solo la vita
di campagna offre, secondo la Lindgren e' uno straordinario ingrediente per
crescere bene.
In un'intervista, infatti, sosteneva: "Io scrivo di quello che conosco: ho
vissuto in una fattoria di campagna, sono figlia di un contadino e provengo
da quel mondo in cui le donne non erano piccole e deboli appendici degli
uomini, ma erano pienamente pari a loro, forti ed energiche...". Ed e'
proprio questa la vita di cui leggiamo nei suoi libri, un luogo nel quale i
bambini sono liberi di esprimersi nelle forme che sentono di piu' e nel
quale l'amicizia e il tempo passato insieme hanno grande valore.
*
In un'altra occasione la Lindgren spiega la sua capacita' di narrare storie
di bambini come se lei stessa fosse rimasta tale: "Scrivo sempre i miei
libri pensando a me stessa bambina e man mano che la bambina cresce e muta
di interessi, anche il mio stile, l'intonazione dei miei libri, i miei
personaggi cambiano, si fanno piu' complessi". Ed e' questo il caso del
libro che usci' nel 1958 e che le procuro' il Premio Andersen: Rasmus e il
vagabondo. Si tratta di un libro tutto reale, con venature in giallo o
poliziesco e nel quale la poesia dei sentimenti e del paesaggio si mischia a
una sottile ironia che ricorda ancora Pippi. Rasmus non delude gli
affezionati di Pippi, ma raggiunge piu' intimamente il lettore, dando
soddisfazione anche ai bisogni di ragazzi piu' grandi. Il racconto esordisce
con scene da un orfanotrofio, come ce lo immaginiamo in tanti: ragazzini
grigi, invitati piu' o meno gentilmente a svolgere lavori umili, e
direttrici spietate. La signorina Poiana, direttrice dell'orfanotrofio, non
conosce momenti di intimita' con i suoi bambini, ma ha una sola parola
d'ordine: disciplina. Al contrario Rasmus e il suo amico Gunnar hanno
"fisicamente" bisogno di uscire, anche se per poco, dagli schemi di quella
vita. E' cosi' che alla signorina, come in un cartone animato, capita di
prendersi addosso un intero mastello di acqua e sapone. La storia si colma
poi di autentica emozione, quando i bambini si preparano per ricevere una
coppia benestante che adottera' uno di loro.
"Finisce sempre che scelgono una bambina con i riccioli biondi. Ma ci sara'
pure qualcuno che vuole un ragazzino con i capelli lisci...". Rasmus e' un
bambino dai capelli lisci che non sopporta quella vita di attesa e scappa.
La sua vita cambia e le sue paure aumentano: improvvisamente si ritrova
veramente solo, in un mondo vasto e sconosciuto; in fondo all'orfanotrofio
non si stava mai soli e le regole scandivano inesorabilmente la giornata. E'
cosi' che Rasmus incontra Oscar, il vagabondo. Sara' proprio lui ad
accettarlo e ad amarlo cosi', con i suoi capelli lisci. Anche questa volta
la Lindgren, agganciandosi a elementi concreti della vita, come per esempio
i capelli, il letto in cui dormire o le caramelle mou che tanto piacciono ai
bambini, fa passare ben altri messaggi. La naturalezza con la quale la
storia si evolve, senza analisi stucchevoli o commenti retorici, conduce il
lettore ad assimilarne, quasi inconsapevolmente, il succo: i diritti
dell'infanzia.
Rasmus desidera una famiglia e una casa e, a suo modo la trova. Rasmus ha il
diritto di vivere giocando e riposando quanto si addice alla sua eta' e
Oscar, l'adulto che lo accompagna, ne e' consapevole. Ma questa figura
adulta, cosi' comprensiva e saggia, non appartiene alla societa': Oscar e'
un emarginato, un vagabondo. Ecco che Astrid denuncia la rigidita' del
sistema e la poca sensibilita' del mondo adulto verso queste esigenze
dell'infanzia. E la sua denuncia aveva ragion d'essere, perche' la
Convenzione per i diritti del fanciullo, adottata dall'Assemblea generale
delle Nazioni Unite, e' stata sottoscritta da venti Paesi, tra i quali la
Svezia e l'Italia, soltanto nel 1989!
*
Seguendo poi una forte esigenza interiore di integrare il realismo con la
fantasia e di affrontare temi importanti e quasi mai proposti ai ragazzi,
Astrid si mette alla prova con una storia profondamente simbolica: I
fratelli Cuordileone, pubblicata nel 1973. Si tratta di un'avventura vissuta
da due fratelli che in realta' e' un'allegoria sulla lotta tra il bene e il
male e sul passaggio dalla vita alla morte. La Lindgren, cosi' intensa e
diretta nel raccontare le gioie e le spensieratezze dei bambini, non perde
la sua penetrante forza comunicativa nemmeno in questo caso, in cui affronta
temi come l'ansia, la malattia, il dolore e la morte. Briciola, in realta'
Karl Leone, e' il fratello minore di Jonatan. E' affetto da una grave
malattia e deve restarsene tutto il giorno sdraiato sul divano di casa, ma
Jonatan gli racconta ogni sera le sue giornate e lo intrattiene dicendogli
di quel meraviglioso paese dove si ritroveranno dopo la morte: Nangijala. Un
luogo dove tutto e' rimasto come al tempo delle leggende e delle saghe. I
due fratelli muoiono davvero e si ritrovano a Nangijala, sono sani e forti,
cavalcano in valli meravigliose. Il legame tra i due fratelli e' cosi'
intenso che quando sara' Jonatan a rimanere paralizzato a causa del morso di
un terribile mostro, Briciola lo sosterra' fino a salvarlo. L'inversione dei
ruoli permettera' loro di passare in un altro nuovo mondo che li aspetta:
Nangilima. Un mondo dove finalmente il conflitto tra bene e male e' stato
superato.
Nel mondo intermedio infatti esistono tutti gli elementi allegorici
classici: mostri primordiali, malefici tiranni, un corno fatato capace di
addormentare draghi e serpenti. I fratelli Cuordileone combattono
coraggiosamente questi simboli del male, non senza conseguenze, che pero', a
loro volta, si lasciano alle spalle per andare a destinazione, nel paese del
bene.
Il racconto simbolico vira decisamente verso la fiaba nell'ultima fase di
scrittura della Lindgren, fase che sfocia nel romanzo Ronja, la figlia del
brigante (1981). La trasposizione cinematografica di questa storia, che
parla di pace e di amore, le valse, nel 1985, l'Orso d'Argento al Festival
del cinema di Berlino. La storia narra di una ragazzina alle soglie
dell'adolescenza che vive in un mondo senza tempo e che, non andando a
scuola, impara a conoscere se stessa e la vita attraverso l'esperienza
diretta. Figlia di un brigante temuto da tutti, vive in un castello
diroccato nel mezzo di un bosco popolato da creature fantastiche: gnomi,
elfi, troll, ma anche terribili strigi che danno la caccia all'uomo. Ronja
vive in pace con se stessa e con la natura fino a quando non incontra Birk,
figlio del brigante Borka, nemico e rivale del padre di lei. Ne nasce una
difficile amicizia, ostacolata dai genitori.
I due ragazzi comunque si mostrano piu' saggi dei padri e superano le
difficolta', facendo del loro legame un sostegno vitale. Il tema
dell'amicizia e' qui affrontato molto realisticamente, perche' proposto come
un percorso da fare insieme, ricco di difficolta', litigi e riconciliazioni.
Questa amicizia cosi' importante per Ronja, la costringe pero' a pagare uno
scotto: l'allontanamento dal padre. I conflitti degli affetti sono cosi'
prospettati come l'ingresso nell'adolescenza.
Ancora una volta la Lindgren miscela magistralmente la fiaba dei boschi e
l'allegoria con una struttura narrativa estremamente realistica che vede
crescere la protagonista. La miscela dei generi risulta perfettamente
riuscita nel risultato stilistico: il linguaggio e' autentico e vivace nei
dialoghi, ma ricco di poesia e atmosfera incantata nelle descrizioni o
rimandi all'ambiente.
*
Concludendo il percorso professionale e artistico di questa grande
scrittrice, la vediamo impegnata politicamente anche in prima persona per la
difesa dei diritti dell'infanzia e degli animali. Nel 1987, per il suo
ottantesimo compleanno, la Svezia diede il suo nome a una legge per la
protezione degli animali. Un monumento la ricorda in un parco di Stoccolma e
il suo sorriso "viaggia" sui francobolli svedesi da sei corone.
Astrid Lindgren e' un personaggio nazionale che ha esportato quasi tutti i
suoi libri, tradotti in piu' di cinquanta lingue, tra le quali il kirghiso,
l'esperanto e lo zulu'. Molti sono diventati film, telefilm, cartoni animati
e perfino musical. La Lindgren comunque viene ricordata come "la mamma di
Pippi", la sua prima creatura. E' Pippi che ha aperto la strada
all'espressione dei desideri piu' intimi dei bambini. Donatella Ziliotto,
alla quale dobbiamo la traduzione italiana di questo capolavoro, dice:
"Pippi ha potere e comunica questo appagamento ai lettori. Ha forza e
denaro, ma e' anche molto furba e si serve di una sua speciale logica a
sorpresa che fa apparire tutto cio' che e' normale e convenzionale meschino
e ridicolo. In un certo senso e' il contrario di Alice, bambina logica e
beneducata in un mondo assurdo, quanto Pippi e' inaspettata e assurda in un
mondo che segue una logica tradizionale" (100 Libri, Salani, 1999).
*
Da una fattoria nel sud della Svezia agli ottanta titoli tradotti in tutto
il mondo
1907. Astrid nasce in una fattoria il 14 novembre a Vimmerby, in Svezia,
seconda di quattro figli di August e Hanna Ericsson.
1914. Astrid frequenta la scuola.
1923. Astrid termina i suoi studi.
1924. Collabora con il giornale locale: il "Vimmerby Tidningen".
1926. Si trasferisce a Stoccolma per frequentare un corso per segretarie. Il
4 dicembre nasce il figlio primogenito Lars.
1931. Si sposa con Sture Lindgren.
1934. Il 21 maggio nasce la figlia Karin.
1944. Scrive la sua prima storia: Pippi Calzelunghe. Conquista il secondo
posto a un concorso di letteratura per ragazzi per il suo primo libro
pubblicato: Britt Mari.
1945. Viene pubblicato il racconto di Pippi Calzelunghe, che vince il primo
premio del concorso indetto da Raben & Sjogren.
1946. Lavora come editor alla casa editrice Raben & Sjogren. Vince il
concorso indetto da "Svenska Dagbladet", quotidiano di Stoccolma, sempre per
Pippi Calzelunghe.
1949. Friedrich Oetinger della Hamburg Publisher acquista i diritti per la
traduzione tedesca di Pippi Calzelunghe.
1950. Targa Nils Holgersson, massima onorificenza svedese per la letteratura
per ragazzi.
1952. Muore il marito Sture.
1956. Astrid conquista il Sonderpreis, premio tedesco per la narrativa per
ragazzi, con Mio piccolo mio.
1957. Riceve il contributo statale svedese per scrittori di grande merito
artistico.
1958. Astrid Lindgren riceve il premio Hans Christian Andersen per Rasmus e
il vagabondo, libro per cui avra' anche il Boys' Club of America Junior Book
Award.
1961. Muore la madre Hanna.
1963. Premio Children's Sprig Book Festival per Sia vive sul Kilimangiaro,
assegnato dal "New York Herald Tribune".
1965. Astrid riceve un vitalizio statale svedese per artisti.
1967. Raben & Sjogren e Friedrich Oetinger istituiscono l'Astrid Lindgren
Award.
1969. Muore il padre August.
1970. Lascia il lavoro di editor alla Raben & Sjogren. Golden Ship Award of
the Swedish Society per la promozione della letteratura e il Lewis Carrol
Shelf Award per l'albo illustrato Natale nella stalla.
1971. Medaglia d'oro dell'Accademia Svedese.
1973. Riceve una laurea ad honorem presso l'universita' di Linkoping, in
Svezia, e ancora il Lewis Carrol Shelf Award per Pippi Calzelunghe.
1974. Premio Sorriso per l'adattamento radiofonico in russo di Karlsson sul
tetto e Pippi Calzelunghe.
1975. Dal re di Svezia premio Litteris et Artibus. Premio olandese
Silvergriffel per I fratelli Cuordileone.
1977. Premio dell'Accademia svedese per i libri gialli assegnato a Kalle
Blonkvist il grande detective.
1978. German Booksellers' Peace Award. Astrid devolve meta' della somma
vinta ai bambini tedeschi e l'altra meta' ai bambini svedesi. Laurea ad
honorem dall'Universita' di Leicester in Inghilterra.
1979. Premi Wilhelm Hauff e Janusz Korczak per I fratelli Cuordileone.
1984. Premi Mildred L. Batchelder e Dag Hammerskjold in Svezia e Premio John
Hansson negli Stati Uniti per Ronja.
1985. Con oltre due milioni di prestiti all'anno dei suoi libri nelle
biblioteche, Astrid Lindgren e' l'autrice piu' letta in Svezia. Riceve la
Medaglia d'oro dal Governo. Orso d'Argento al Festival del cinema di Berlino
per il film tratto da Ronja.
1986. Muoiono il figlio Lars e l'editore e amico Friedrich Oetinger.
1993. International Book Award dell'Unesco.
1994. Vince il Premio Jacob von Wexkull, considerato un Nobel alternativo.
1996. Prima statua di Astrid Lindgren nel parco Tenerlunden di Stoccolma.
1996. E' ritratta su un francobollo postale svedese del valore di 6 corone.
2002. Il 28 gennaio muore a Stoccolma a 94 anni.
*
Libri "di" e "su" Astrid Lindgren
Gli scritti di Astrid Lindgren: I fratelli Cuordileone, collana Istrici,
Salani. Karlsson sul tetto, collana Superistrici, Salani. Martina di Poggio
di giugno, collana Superistrici, Salani. Mio piccolo mio, collana Istrici,
Salani. Novita' per Martina, collana Superistrici, Salani. Pippi
Calzelunghe, collana Superistrici, collana Istrici, Salani. Rasmus e il
vagabondo, collana Istrici, Salani. Vacanze all'Isola dei gabbiani, collana
Superistrici, collana Istrici, Salani. Emil, collana Criceti, Salani. Emil
il terribile, collana Criceti, Salani. Emil non molla, collana Criceti,
Salani. Pippi Calzelunghe a fumetti, Criceti, Salani. Ronja, la figlia del
brigante, collana Junior, Arnoldo Mondadori.
Questi invece i titoli su Astrid Lindgren: Johanna Hurwitz, Astrid Lindgren:
storyteller to the world, Viking Kestrel, 1989. Lena Tornqvist, Astrid of
Smaland - and of the world, Bookbird, 1992.  Eva Maria Metcalf, Astrid
Lindgren, Twayne Pubs, 1995.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir@peacelink.it, luciano.benini@tin.it,
sudest@iol.it, paolocand@libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info@peacelink.it
***

MOHANDAS K. GANDHI: UN SOLO MONDO
[Dal sito www.avoicomunicare.it riprendiamo la traduzione (purtroppo
inadeguata) del discorso tenuto da Gandhi alla Conferenza delle relazioni
interasiatiche svoltasi a New Delhi il 2 aprile 1947, nel sito presentata
col titolo "Fate battere i vostri cuori all'unisono con le mie parole" e la
premessa "In questi giorni e' stato ritrovato l'audio completo di questo
discorso di Gandhi: oggi piu' che mai, un omaggio alla riflessione di
tutti"]

Signora Presidente e amici,
non credo di dovermi scusare con voi per il fatto che sono costretto a
parlare in una lingua straniera. Chissa' se questi altoparlanti porteranno
la mia voce fino ai confini di questo immenso pubblico. Quelli di voi che
sono lontani possono alzare la mano, se sentono quello che dico? Sentite?
Bene. Bene, se la mia voce non vi giunge, non e' colpa mia, ma colpa degli
altoparlanti.
Quello che volevo dirvi e' che non devo scusarmi. Non oso, visti tutti i
delegati che si sono riuniti qua da tutta l'Asia, e gli osservatori - ho
imparato questa parola pronunciata da un amico americano che disse: "Non
sono un delegato, sono un osservatore". Di primo impatto con lui, vi
assicuro, pensavo venisse dalla Persia, ma ecco davanti a me un americano e
gli dico: "Sono terrorizzato da te, e vorrei che mi lasciassi stare". Potete
immaginare un americano che mi lasci stare? Non lui e, quindi, ho dovuto
parlargli.
Quello che volevo dirvi e' che il mio idioma per me madrelingua, non lo
potete capire, e non voglio insultarvi insistendo su di esso. Il linguaggio
nazionale, hindustani, ci mettera' tanto tempo prima di rivaleggiare con un
linguaggio internazionale.
Se ci deve essere rivalita', c'e' rivalita' tra francese e inglese. Per il
commercio internazionale, indubbiamente l'inglese occupa il primo posto. Per
discorsi e corrispondenza diplomatici, sentivo dire quando studiavo da
ragazzo che il francese era la lingua della diplomazia e se volevi andare da
una parte all'altra dell'Europa dovevi provare ad imparare un po' di
francese, e quindi ho provato ad imparare qualche parola di francese per
riuscire a farmi capire. Comunque, se ci deve essere rivalita', la rivalita'
potrebbe nascere tra francese e inglese. Quindi, avendo imparato l'inglese,
e' naturale che faccia ricorso a questa parlata internazionale per
rivolgermi a voi.
Mi chiedevo di cosa dovessi parlarvi. Volevo raccogliere i miei pensieri, ma
lasciate che sia onesto con voi, non ne ho avuto il tempo.
Pero' ieri ho comunque promesso che avrei provato a dirvi qualche parola.
Mentre venivo con Badshah Khan, ho chiesto un piccolo pezzo di carta ed una
matita. Ho ricevuto una penna invece di una matita. Ho provato a
scarabocchiare qualche parola. Vi spiacera' sentirmi dire che quel pezzo di
carta non e' qui con me. Ma questo non importa, ricordo cosa volevo
enunciare, e mi sono detto: "I miei amici non hanno visto la vera India, e
non ci stiamo incontrando in una conferenza nel cuore della vera India".
Delhi, Bombay, Madras, Calcutta, Lahore - queste sono tutte grandi citta' e
quindi hanno subito l'influenza dell'Occidente, sono state fatte, magari
eccetto Delhi ma non New Delhi, sono state fatte dagli inglesi.
Poi ho pensato ad un breve saggio - credo che dovrei chiamarlo cosi' - che
era in francese. Era stato tradotto per me da un amico anglo-francese, e lui
era un filosofo, era anche un uomo altruista e diceva che mi aveva dato la
sua amicizia senza che io lo conoscessi, perche' lui parteggiava per le
minoranze ed io rappresentavo, assieme ai miei connazionali, una minoranza
senza speranze, e non solo senza speranze ma una minoranza disprezzata.
Se gli europei del Sudafrica mi perdonano per quello che dico, eravamo tutti
"coolies" [lavoratore non qualificato a basso costo]. Io ero un
insignificante avvocato "coolie". A quei tempi non avevamo dottori "coolie",
non avevamo avvocati "coolie". Ero il primo nel campo. Ma sempre un
"coolieî". Magari sapete cosa si intende con la parola "coolie" ma questo
mio amico, si chiamava Krof - sua madre era francese, suo padre inglese -
disse: "Voglio tradurre per te una storia francese".
Mi perdonerete, chi di voi sa la storia, se nel ricordarla faccio degli
errori qua e la', ma non ci sara' nessun errore nell'avvenimento principale.
C'erano tre scienziati e - ovviamente e' una storia inventata - tre
scienziati uscirono dalla Francia, uscirono dall'Europa alla ricerca della
Verita'. Questa era la prima lezione che mi aveva insegnato quella storia,
che se bisogna cercare la verita', non la si trova su suolo europeo. Quindi,
indubbiamente neanche in America.
Questi tre grandi scienziati andarono in parti diverse dell'Asia. Uno trovo'
la strada per l'India e diede inizio alla sua ricerca. Raggiunse le
cosiddette citta' di quei tempi. Naturalmente, cio' avvenne prima
dell'occupazione inglese, prima anche del periodo Mughal, cosi' e' come ha
illustrato la storia l'autore francese, ma visito' comunque le citta', vide
la gente delle cosiddette caste alte, uomini e donne, fino a che non si
addentro' in un'umile casa, in un umile villaggio, e quella casa era una
casa Bhangi, e trovo' la verita' che stava cercando, in quella casa Bhangi,
nella famiglia Bhangi, uomo, donna, forse due o tre bambini (lo dico come me
lo ricordo) e poi lui descrive come la trovo'. Tralascio tutto questo.
Voglio collegare questa storia a quello che voglio dire a voi, che se volete
vedere il meglio dell'India, dovete trovarlo in una casa Bhangi, in un'umile
casa Bhangi, o villaggi simili, 700.000 come ci insegnano gli storici
inglesi. Un paio di citta' qua e la', non ospitano neanche qualche crore
[unita' di misura indiana che equivale a 10 milioni] di persone. Ma i
700.000 villaggi ospitano quasi 40 crore di persone. Ho detto quasi perche'
potremmo togliere una o due crore che stanno in citta', comunque sarebbero
38 crore.
E poi mi sono detto, se questi amici sono qui senza trovare la vera India,
per cosa saranno venuti? Ho poi pensato che vi preghero' di immaginare
quest'India, non dal punto di vista di questo immenso pubblico ma per come
potrebbe essere. Vorrei che leggeste una storia come questa storia dei
francesi o altre ancora. Magari, qualcuno di voi vada a vedere qualche
villaggio dell'India e allora trovera' la vera India.
Oggi faro' anche questa ammissione: non ne sarete affascinati alla vista.
Dovrete raschiare sotto i mucchi di letame che sono oggi i nostri villaggi.
Non voglio dire che siano mai stati dei paradisi. Ma oggi sono veramente dei
mucchi di letame; non erano cosi' prima, di questo sono abbastanza certo.
Non l'ho appreso dalla storia ma da quello che ho visto io stesso
dell'India, fisicamente con i miei occhi; e io ho viaggiato da una parte
all'altra dell'India, ho visto i villaggi, i miserabili esemplari
dell'umanita', gli occhi senza vita, eppure sono l'India, e ciononostante in
quelle umili case, nel mezzo dei mucchi di letame troviamo gli umili
Bhangis, dove troverete un concentrato di saggezza. Come? Questa e' una
grande domanda.
Bene, allora voglio illustrarvi un altro scenario. Di nuovo, ho imparato dai
libri, libri scritti da storici inglesi, tradotti per me. Tutta questa ricca
conoscenza, mi spiace dire, arriva qui da noi in India attraverso i libri
inglesi, attraverso gli storici inglesi, non che non ci siano storici
indiani ma neanche loro scrivono nella loro madrelingua, o nella loro lingua
nazionale, hindustani, o se preferite chiamarli due idiomi, hindi e urdu,
due forme della stessa lingua. No, ci riferiscono quello che hanno studiato
sui libri inglesi, magari gli originali, ma attraverso gli inglesi in
inglese, questa e' la conquista culturale dell'India, che l'India ha subito.
Ma ci dicono che la saggezza e' arrivata dall'Occidente verso l'Oriente. E
chi erano questi saggi? Zoroastro. Lui apparteneva all'Oriente. Fu seguito
dal Buddha. Lui apparteneva all'Oriente, apparteneva all'India. Chi ha
seguito il Buddha? Gesu', di nuovo dall'Asia. Prima di Gesu' ci fu Musa,
Mose', che apparteneva anche lui alla Palestina, ma verificavo con Badshah
Khan e Yunus Saheb ed entrambi sostenevano che Mose' appartenesse alla
Palestina, sebbene fosse nato in Egitto. Poi venne Gesu', poi Mohammad.
Tutti loro li tralascio. Tralascio Krishna, tralascio Mahavir, tralascio le
altre luci, non le chiamero' luci minori, ma sconosciute in Occidente,
sconosciute al mondo letterario.
In ogni modo, non conosco una sola persona che possa uguagliare questi
uomini d'Asia. E poi cosa accadde? Il Cristianesimo, arrivando in Occidente,
si e' trasfigurato. Mi spiace dire questo, ma questa e' la mia lettura. Non
diro' altro al riguardo. Vi racconto questa storia per incoraggiarvi e per
farvi capire, se il mio povero discorso puo' farvi capire, che lo splendore
che vedete e tutto quello che vi mostrano le citta' indiane non e' la vera
India. Certamente, il massacro che avviene sotto i vostri occhi, mi
dispiace, vergognoso come dicevo ieri, dovete seppellirlo qui. Il ricordo di
questo massacro non deve oltrepassare i confini dell'India, ma quello che
voglio voi capiate, se potete, e' che il messaggio dell'Oriente, dell'Asia,
non deve essere appreso attraverso la lente occidentale, o imitando gli
orpelli, la polvere da sparo, la bomba atomica dell'Occidente.
Se volete dare di nuovo un messaggio all'Occidente, deve essere un messaggio
di Amore, un messaggio di Verita'.
Ci deve essere una conquista (applausi) per favore, per favore, per favore.
Questo interferisce con il mio discorso, e interferisce anche con la vostra
comprensione. Voglio catturare i vostri cuori, e non voglio ricevere i
vostri applausi. Fate battere i vostri cuori all'unisono con le mie parole,
e io credo che il mio lavoro sara' compiuto.Voglio lasciarvi con il pensiero
che l'Asia debba conquistare l'Occidente. Poi, la domanda che mi ha fatto un
mio amico ieri: "Se credevo in un mondo unico". Certo, credo in un mondo
unico. Come posso fare diversamente, quando divento erede di un messaggio di
amore che questi grandi, invincibili maestri ci hanno lasciato? Potete
esprimere questo messaggio di nuovo ora, in questa era di democrazia,
nell'era del risveglio dei piu' poveri dei poveri, potete esprimere questo
messaggio con maggiore enfasi. Poi completerete la conquista di tutto
l'Occidente, non attraverso la vendetta perche' siete stati sfruttati, e
nello sfruttamento voglio ovviamente includere l'Africa, e spero che quando
vi reincontrerete in India la prossima volta ci sarete tutti: spero che voi,
nazioni sfruttate della terra, vi incontrerete, se a quell'epoca ci saranno
ancora nazioni sfruttate.
Ho forte fiducia che se unite i vostri cuori, non solo le vostre menti, e
capite il segreto dei messaggi che i saggi uomini d'Oriente ci hanno
lasciato, e che se veramente diventiamo, meritiamo e siamo degni di questo
grande messaggio, allora capirete facilmente che la conquista dell'Occidente
sara' stata completata e che questa conquista sara' amata anche
dall'Occidente stesso.
L'Occidente di oggi desidera la saggezza. L'Occidente di oggi e' disperato
per la proliferazione della bomba atomica, perche' significa una completa
distruzione, non solo dell'Occidente, ma la distruzione del mondo, come se
la profezia della Bibbia si avverasse e ci fosse un vero e proprio diluvio
universale. Voglia il cielo che non ci sia quel diluvio, e non a causa degli
errori degli umani contro se stessi. Sta a voi consegnare il messaggio al
mondo, non solo all'Asia, e liberare il mondo dalla malvagita', da quel
peccato.
Questa e' la preziosa eredita' che i vostri maestri, i miei maestri, ci
hanno lasciato.

2. TARA GANDHI BHATTACHARJEE: UN MESSAGGIO AL MONDO
[Dal sito www.avoicomunicare.it]

Come voi tutti sapete, L'Onu ha dichiarato il 2 ottobre, data di nascita di
Mahatma Gandhi, la Giornata internazionale della nonviolenza. Oggi il
Mahatma Gandhi appartiene a tutto il mondo. Siamo nel contesto della
celebrazione mondiale del Satyagraha - la verita' e la nonviolenza - come
praticata, sperimentata e vissuta da Mohandas Karamchand Gandhi. Mi chiedo
se durante la storia, i concetti filosofici e morali della verita' siano
stati oggetto di una celebrazione cosi' collettiva e cosciente nel mondo.
Satyagraha - nonviolenza e verita' - sono inseparabili dal coraggio del
Mahatma Gandhi. Il coraggio di Gandhi ha ispirato l'amore e la fiducia negli
altri. La verita', l'audacia e la compassione saranno sempre rilevanti, e
oggi ne abbiamo disperatamente bisogno.
E' molto significativo ed importante che Telecom Italia non limiti la
celebrazione della filosofia di Gandhi al 2 ottobre e che stia pensando di
diffondere il suo messaggio a tutto il mondo attraverso il vostro grande e
bellissimo Paese: l'Italia, amata da tutti. Personalmente ho compreso la
filosofia di Gandhi non come studiosa o storica, ma dalle impressioni dei
primi 14 anni della mia vita, quando ero molto vicina a lui e a sua moglie
Kasturbai. E adesso capisco sempre di piu' che il messaggio di Gandhi e' una
sfida diretta per la propria coscienza.
Insieme a tutti voi rendo omaggio ai piu' grandi flussi spirituali e
creativi dell'umanita' e della natura, del passato e del presente, che hanno
mantenuto in vita in ognuno di noi la scintilla dell'amore eterno. Insieme a
voi, con l'impegno di onorare tutta la vita questa consapevolezza.

3. UNA POSTILLA

Che un'azienda di telefonia abbia deciso di diffondere massicciamente
attraverso un sito dedicato e soprattutto in supplemento ai quotidiani in
edicola il testo di un discorso di Gandhi ci sembra una cosa comunque buona,
e ad un tempo rivelatrice di molte ambiguita' e contraddizioni dell'ora
presente.
Abbiamo ritenuto opportuno riprodurre qui quel testo, senza ulteriori
commenti.
Chi legge abitualmente il nostro foglio sa gia' cosa noi si pensi di certe
vicende, questioni, operazioni. E tanto qui basti.

4. ET COETERA

Mohandas K. Gandhi e' stato della nonviolenza il piu' grande e profondo
pensatore e operatore, cercatore e scopritore; e il fondatore della
nonviolenza come proposta d'intervento politico e sociale e principio
d'organizzazione sociale e politica, come progetto di liberazione e di
convivenza. Nato a Portbandar in India nel 1869, studi legali a Londra,
avvocato, nel 1893 in Sud Africa, qui divenne il leader della lotta contro
la discriminazione degli immigrati indiani ed elaboro' le tecniche della
nonviolenza. Nel 1915 torno' in India e divenne uno dei leader del Partito
del Congresso che si batteva per la liberazione dal colonialismo britannico.
Guido' grandi lotte politiche e sociali affinando sempre piu' la
teoria-prassi nonviolenta e sviluppando precise proposte di organizzazione
economica e sociale in direzione solidale ed egualitaria. Fu assassinato il
30 gennaio del 1948. Sono tanti i meriti ed e' tale la grandezza di
quest'uomo che una volta di piu' occorre ricordare che non va  mitizzato, e
che quindi non vanno occultati limiti, contraddizioni, ed alcuni aspetti
discutibili - che pure vi sono - della sua figura, della sua riflessione,
della sua opera. Opere di Gandhi:  essendo Gandhi un organizzatore, un
giornalista, un politico, un avvocato, un uomo d'azione, oltre che una
natura profondamente religiosa, i suoi scritti devono sempre essere
contestualizzati per non fraintenderli; Gandhi considerava la sua
riflessione in continuo sviluppo, e alla sua autobiografia diede
significativamente il titolo Storia dei miei esperimenti con la verita'. In
italiano l'antologia migliore e' Teoria e pratica della nonviolenza,
Einaudi; si vedano anche: La forza della verita', vol. I, Sonda; Villaggio e
autonomia, Lef; l'autobiografia tradotta col titolo La mia vita per la
liberta', Newton Compton; La resistenza nonviolenta, Newton Compton;
Civilta' occidentale e rinascita dell'India, Movimento Nonviolento; La cura
della natura, Lef; Una guerra senza violenza, Lef (traduzione del primo, e
fondamentale, libro di Gandhi: Satyagraha in South Africa). Altri volumi
sono stati pubblicati da Comunita': la nota e discutibile raccolta di
frammenti Antiche come le montagne; da Sellerio: Tempio di verita'; da
Newton Compton: e tra essi segnaliamo particolarmente Il mio credo, il mio
pensiero, e La voce della verita'; Feltrinelli ha recentemente pubblicato
l'antologia Per la pace, curata e introdotta da Thomas Merton. Altri volumi
ancora sono stati pubblicati dagli stessi e da altri editori. I materiali
della drammatica polemica tra Gandhi, Martin Buber e Judah L. Magnes sono
stati pubblicati sotto il titolo complessivo Devono gli ebrei farsi
massacrare?, in "Micromega" n. 2 del 1991 (e per un acuto commento si veda
il saggio in proposito nel libro di Giuliano Pontara, Guerre, disobbedienza
civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996). Opere su Gandhi:
tra le biografie cfr. B. R. Nanda, Gandhi il mahatma, Mondadori; il recente
accurato lavoro di Judith M. Brown, Gandhi, Il Mulino; il recentissimo libro
di Yogesh Chadha, Gandhi, Mondadori. Tra gli studi cfr. Johan Galtung,
Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele; Icilio Vecchiotti, Che cosa ha veramente
detto Gandhi, Ubaldini; ed i volumi di Gianni Sofri: Gandhi e Tolstoj, Il
Mulino (in collaborazione con Pier Cesare Bori); Gandhi in Italia, Il
Mulino; Gandhi e l'India, Giunti. Cfr. inoltre: Dennis Dalton, Gandhi, il
Mahatma. Il potere della nonviolenza, Ecig. Una importante testimonianza e'
quella di Vinoba, Gandhi, la via del maestro, Paoline. Per la bibliografia
cfr. anche Gabriele Rossi (a cura di), Mahatma Gandhi; materiali esistenti
nelle biblioteche di Bologna, Comune di Bologna. Altri libri particolarmente
utili disponibili in italiano sono quelli di Lanza del Vasto, William L.
Shirer, Ignatius Jesudasan, George Woodcock, Giorgio Borsa, Enrica Collotti
Pischel, Louis Fischer. Un'agile introduzione e' quella di Ernesto Balducci,
Gandhi, Edizioni cultura della pace. Una interessante sintesi e' quella di
Giulio Girardi, Riscoprire Gandhi, Anterem, Roma 1999; tra le piu' recenti
pubblicazioni segnaliamo le seguenti: Antonio Vigilante, Il pensiero
nonviolento. Una introduzione, Edizioni del Rosone, Foggia 2004; Mark
Juergensmeyer, Come Gandhi, Laterza, Roma-Bari 2004; Roberto Mancini,
L'amore politico, Cittadella, Assisi 2005; Enrico Peyretti, Esperimenti con
la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini)
2005; Fulvio Cesare Manara, Una forza che da' vita. Ricominciare con Gandhi
in un'eta' di terrorismi, Unicopli, Milano 2006; Giuliano Pontara,
L'antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ega,
Torino 2006.
*
Tara Gandhi Bhattacharjee e' nipote di Mohandas Gandhi e ne prosegue
l'impegno di promozione della nonviolenza.

***

EDITORIALE. SI PUO', NON SI PUO'

Si puo' andare in Afghanistan a commettere stragi.
Non si puo' venire in Italia per cercar di salvarsi dalle stragi.
*
Si puo' avvelenare e devastare l'Italia intera.
Non si puo' leggere un libro sdraiati in un parco.
*
Si puo' saccheggiare il pubblico erario.
Non si puo' chiedere la carita' per la via.
*
Si puo' essere ricchi e assassini.
Essere poveri e onesti e' vietato.

2. LE ULTIME COSE. IL GOLPE FLACCIDO

Proviamo a dirlo ancora una volta in poche semplici parole.
Primo: una persona che molti reati ha commesso, per sottrarsi ai rigori
della legge s'inventa un partito e vince una, due, tre volte le elezioni.
Vinte le elezioni, impone per legge - illegalissima legge - la sua
impunita'.
Secondo: governo e parlamento ripetutamente violano la Costituzione e
precipitano l'Italia in una guerra guerreggiata, una guerra terrorista e
stragista, imperialista e razzista, che nessuno sa quanto tempo ancora
restera' lontana dal nostro paese. Anche le guerre di Mussolini cominciarono
al di la' dei confini della penisola. Ed evidentemente finche' le persone
uccise lo sono in luoghi remoti (o a distanza di tempo dall'esposizione, ad
esempio, nelle aree contaminate dall'uso di proiettili all'uranio
impoverito) la cosa non turba il popolo della pizza e del mandolino.
Terzo: governo e parlamento ed enti locali guidati da personaggi
inqualificabili perseguitano i migranti, perseguitano i rom, perseguitano i
poveri, violano flagrantemente fondamentali diritti umani. Ma chi ha ancora
il salotto buono e la televisione perennemente accesa finge di non vedere la
pulizia etnica e la guerra di classe che i barbari rapinatori al potere
conducono contro gli sfruttati con una ferocia pari a quella di prima del
sorgere delle organizzazioni del movimento operaio.
Quarto: non si fa piu' mistero del saccheggio e della volonta' di
saccheggio. Non si fa piu' mistero del razzismo, della disumanita'. Non si
fa piu' mistero della complicita' con la mafia - i cui esponenti vengono
ormai pubblicamente definiti "eroi" in campagna elettorale. Non si fa piu'
mistero della volonta' di distruggere la separazione dei poteri e
l'autonomia della magistratura che e' alla base dello stato di diritto. Non
si fa piu' mistero dell'uso della menzogna e della corruzione e del crimine
come arte di governo. Non si fa piu' mistero della volonta' di devastare
ogni cosa al solo fine di arraffare quanto piu' possibile. Non si fa piu'
mistero del patto scellerato che lega in un blocco sociale e in un comitato
d'affari coeso razzisti, neofascisti, mafiosi, poteri occulti e criminali,
rapinatori in doppiopetto, speculatori assassini, ideologie e prassi della
violenza.
Quinto: le macchine politiche che ancora qualche mese fa proclamavano
(mentendo, certo, ma almeno eran costrette a proclamarlo - e diceva quel
francese che l'ipocrisia e' l'omaggio che il vizio rende alla virtu') di
rappresentare l'opposizione al berlusconismo si sono estinte per loro intima
consunzione: il cosiddetto Pd votato all'eterna rincorsa di un accordo
consociativo con chiunque governi e sia dsponibile a spartire le spoglie
della cosa pubblica - fosse pure Al Capone; i partiti della cosiddetta
"sinistra arcobaleno" o "sinistra radicale" inabissatisi nel loro
totalitarismo e nella loro corruttela.
Questa e' la situazione.
*
Cosa resta?
Resta la sinistra della nonviolenza.
Il movimento reale delle oppresse e degli oppressi. Le persone di volonta'
buona che di fronte a tanta barbarie continuano la lotta per la democrazia,
per la legalita', per la pace con mezzi di pace, per il riconoscimento di
tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani, per la liberazione comune,
per la solidarieta' che tutte e tutti raggiunge, per la comune
responsabilita'.
Resta l'umanita' sofferente che ovunque resiste contro l'oppressione, che
ovunque difende con le parole ed i fatti la dignita', la civilta', la
biosfera; che ovunque e' in lotta per la vita e i diritti delle persone oggi
viventi e delle generazioni future.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

3. DOCUMENTAZIONE: "FAMIGLIA CRISTIANA": UN PAESE DA MARCIAPIEDE
[Dal sito del settimanale "Famiglia cristiana" (www.sanpaolo.org/fc)
riportiamo l'editoriale del n. 33 del 2008 col titolo "Militari in strada e
sindaci sceriffi: il rischio e' ua guerra tra poveri. Il presidente spazzino
nel 'paese da marciapiede'" e il sommario "Bene fa il Governo a prendere
provvedimenti su annosi problemi. Ma riuscira' a fugare il sospetto che
quando e' al potere la destra i ricchi si impinguano e le famiglie si
impoveriscono?"]

E' un "Paese da marciapiede" quello che sta consumando gli ultimi giorni di
un'estate all'insegna della vacanza povera, caratterizzata da un crollo
quasi del 50% delle presenze alberghiere nei luoghi di vacanza. Dopo vari
contrasti tra Maroni e La Russa, sui marciapiedi delle citta' arrivano i
soldati, stralunati ragazzi messi a fare compiti di polizia che non sanno
svolgere (neanche fossimo in Angola), e vengono cacciati i mendicanti senza
distinguere quelli legati ai racket dell'accattonaggio da quelli veri.
A Roma il sindaco Alemanno, che pure mostra in altri campi idee molto piu'
avanzate di quelle che il pregiudizio antifascista gli attribuisce, caccia i
poveri in giacca e cravatta anche dai cassonetti e dagli avanzi dei
supermercati. Li chiamano scarti, ma li' si trovano frutta e verdura che non
sono belli da esporre sui banchi di vendita. E allora se vogliamo salvare
l'estetica, perche' non facciamo il "banco delle occasioni", coprendo con un
gesto di pieta' (anche qui "estetico") un rito che fa male alle coscienze?
Nei centri Ikea lo si fa, e nessuno si scandalizza. Anzi.
Ma dai marciapiedi sparisce anche la prostituzione (sara' la volta buona?) e
sarebbe ingeneroso non dare merito al Governo di aver dato ai sindaci i
poteri per il decoro e la sicurezza dei propri cittadini. A patto, pero',
che la "creativita'" dei sindaci non crei problemi istituzionali con
questori e prefetti e non brilli per provvedimenti tanto ridicoli quanto
inutili; e che il Governo non ci prenda gusto a scaricare su altri le sue
responsabilita', come con l'uscita tardiva e improvvida (colpo di sole
agostano?) della Meloni e di Gasparri, che hanno chiesto ai nostri
olimpionici di non sfilare per protesta contro la Cina (il gesto forte, se
ne sono capaci, lo facciano loro, i soliti politici furbetti che vogliono
occupare sempre la scena senza pagare pegno!).
Tornando al "Paese da marciapiede", ha fatto bene il cardinale Martino,
presidente del Pontificio consiglio per i migranti, ad approvare la lotta al
racket dell'accattonaggio senza ledere il diritto di chiedere l'elemosina da
parte di chi e' veramente povero. Il cardinal Martino ha posto un dubbio
atroce: la proibizione dell'accattonaggio serve a nascondere la poverta' del
Paese e l'incapacita' dei governanti a trovare risposte efficaci, abituati
come sono alla "politica del rattoppo", o a quella dei lustrini?
La verita' e' che "il Paese da marciapiede" i segni del disagio li offre (e
in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa,
sviando l'attenzione con le immagini del "Presidente spazzino", l'inutile
"gioco dei soldatini" nelle citta', i finti problemi di sicurezza, la lotta
al fannullone (che, pero', e' meritoria, e Brunetta va incoraggiato). Ma
c'e' il rischio di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non
la si riconduce ai giusti termini, con serieta' e senza le "buffonate", che
servono solo a riempire pagine di giornali.
Alla fine della settimana scorsa sono comparse le stime sul nostro prodotto
interno lordo (Pil) e, insieme, gli indici che misurano la salute delle
imprese italiane. Il Pil e' allo zero, ma le nostre imprese godono di salute
strepitosa, mostrando profitti che non si registravano da decenni. L'impresa
cresce, l'Italia retrocede. Mentre c'e' chi accumula profitti, mangiare
fuori costa il 141% in piu' rispetto al 2001, ma i buoni mensa sono fermi da
anni. L'industria vola, ma sui precari e i contratti e' refrattaria. La
ricchezza c'e', ma per le famiglie e' solo un miraggio. Un sondaggio sul
tesoretto dei pensionati che sara' pubblicato su "Club 3" dice che gli
anziani non ce la fanno piu' ad aiutare i figli, o lo fanno con fatica: da
risorsa sono diventati un peso.
E' troppo chiedere al Governo di fugare il sospetto che quando governa la
destra la forbice si allarga, cosi' che i ricchi si impinguano e le famiglie
si impoveriscono?

4. MEMORIA. PASQUALE DI PALMO RICORDA CRISTINA CAMPO
[Dal mensile "Letture", n. 644, febbraio 2008 col titolo "Cristina Campo" e
il sommario "L'opera di Cristina Campo affronta, tra 'furia e dolcezza' come
rileva Citati, gli argomenti piu' disparati, la poesia e la prosa, la
traduzione e il testo critico, rendendo un'alta testimonianza sulla
spiritualita' del nostro tempo"]

La figura di Cristina Campo, con il passare degli anni, sembra seguire un
itinerario inverso rispetto all'aura di rigorosa circospezione che dominava
in vita la sua variegata attivita'. Se infatti durante la sua breve
esistenza la scrittrice era conosciuta soltanto da una ristretta cerchia di
specialisti, dopo la pubblicazione postuma della raccolta di saggi
intitolata Gli imperdonabili, effettuata da Adelphi nel 1987, il suo lavoro
si e' imposto all'attenzione del pubblico e della critica come uno dei piu'
rappresentativi del secolo scorso, affermandosi definitivamente con gli
altri titoli apparsi in seguito.
L'autrice, nonostante si misurasse con le piu' svariate attivita', fece di
tutto per rimanere nell'ombra: adopero' vari pseudonimi per firmare
traduzioni e collaborazioni a riviste e giornali (Cristina Campo era infatti
un nom de plume, in quanto il suo vero nome era Vittoria Guerrini) e
pubblico' in vita soltanto tre libri: la silloge poetica Passo d'addio
(All'Insegna del Pesce d'Oro, 1956) e le raccolte di saggi intitolate Fiaba
e mistero (Vallecchi, 1962) e Il flauto e il tappeto (Rusconi, 1971).
Proprio sulla bandella di quest'ultimo libro appare quella significativa
nota che sembra caratterizzare cosi' bene il suo percorso letterario, mai
disgiunto da una macerazione spirituale che rasenta un'ascesi di ascendenza
quasi monacale: "Cristina Campo e' uno pseudonimo. E' cresciuta a Firenze
nell'ambiente del padre compositore. Ha scritto poco e le piacerebbe avere
scritto meno. [...] Oltre alla poesia il suo maggiore interesse e' la
liturgia: l'ex romana, la bizantina".
E' quanto mai significativo che, in un'epoca dominata dal dogmatismo
ideologico che aveva irretito gran parte dell'intellighenzia italiana, gli
interessi di Cristina si orientassero in direzione pressoche' antitetica: la
poesia e la liturgia. Strano connubio che contraddistingue un percorso
isolato e rigoroso, che sembra fare di Cristina Campo una sorta di Simone
Weil autoctona. E non e' un caso che sara' proprio l'opera della scrittrice
francese a segnare in maniera inimitabile il lavoro della Campo, con quella
netta contrapposizione tra La pesanteur et la grace, come si intitola una
fondamentale raccolta di saggi weiliana del 1948, che sembra presiedere alla
sua stessa poetica.
E' presente negli scritti di Cristina un profondo legame tra le materie
predilette, che spaziano dalla poesia alla traduzione, dal saggio di taglio
erudito all'investigazione esegetica che conserva tratti molto personali e
profondi. Risulta percio' un po' riduttivo circoscrivere i suoi interessi
cosi' variegati nell'ambito di un "genere" tout court, definito in maniera
netta e lineare. Si dovra' considerare il fatto che qualsiasi occasione puo'
costituire lo spunto per disquisire su un determinato tema: la nervatura di
una foglia, il ricamo di un tappeto, l'eco di una fiaba rappresentano, come
una madeleine proustiana, il richiamo per modulare delle variazioni che
indulgono a una dimensione spirituale autentica e dolorosa.
*
Poesia e liturgia
Passo d'addio, il suo esordio poetico che rappresenta anche l'unico libro di
liriche pubblicato in vita, raccoglie significativamente soltanto undici
componimenti, dominati da uno stile che si differenzia notevolmente rispetto
ai canoni letterari del tempo, modulati sulle tendenze piu' contrastanti: da
una parte il neorealismo, dall'altra le derive dell'ermetismo, con l'avvento
ormai incombente degli stilemi dettati dalle neoavanguardie. La poesia della
Campo sembra invece risentire di uno stile semplice e lineare, che si basa
su una compostezza di tipo classico derivata dai suoi innumerevoli lavori di
traduzione e dai suoi maestri dichiarati come Hofmannsthal e la Weil. Scrive
Margherita Pieracci Harwell, che oltre a essere raffinata esegeta dell'opera
della Campo, fu una delle sue piu' care amiche: "Per penetrare piu' a fondo
nel pensiero di Cristina Campo le due guide piu' sicure sono Hugo von
Hofmannsthal e Simone Weil - fino ai tardi anni Sessanta i piu' costanti
phares di questa instancabile, ma soprattutto selettiva e fedelissima
lettrice".
I versi che figurano in questa silloge, composti tra il 1954 e il 1955, con
eccezione della prima poesia datata 1945, risentono degli spunti e delle
atmosfere piu' varie, nel tentativo di rendere "bianche tutte le mie
lettere, / inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa". Sembra un inno
alla grazia che si riverbera talora in versi di una delicatezza
dickinsoniana, talaltra in enigmatiche asperita' di derivazione eliotiana:
"Ora non resta che vegliare sola / col salmista, coi vecchi di Colono". E
non e' un caso che sia Emily Dickinson sia Eliot furono tra gli autori
prediletti della Campo che li tradusse da par suo.
Gia' Leone Traverso, in una recensione apparsa sulla rivista "Letteratura"
nel 1957, rimarcava sia le fonti plurime d'ispirazione che sottendono alla
nascita di certe poesie (con riferimenti piu' o meno espliciti alle Mille e
una notte, a Lawrence d'Arabia, a Paolo di Tarso), sia l'oscurita' di taluni
passaggi: "Ci si incontra in altre liriche a passi che sembrano a prima
vista invalicabili, non per arbitrii sintattici o lessicali, ma perche'
occulto rimane il pozzo profondo da cui sorgono certe immagini".
La Tigre Assenza, pubblicato da Adelphi nel 1991, raccoglie tutta la
produzione poetica della Campo, comprese le traduzioni in versi. Oltre a
Passo d'addio figurano altre due brevi sezioni, intitolate rispettivamente
Quadernetto e Poesie sparse. In tutto si tratta di una trentina di liriche
che, per il loro potere ipnotico e la loro intrinseca bellezza, si
configurano tra le espressioni piu' perfette e compiute della sua opera. La
poesia che da' il titolo alla raccolta si ispira alla morte dei genitori che
ebbero una profonda influenza sulla formazione di Cristina: "Ahi che la
Tigre, / la Tigre Assenza, / o amati, / ha tutto divorato / di questo volto
rivolto / a voi! La bocca sola / pura / prega ancora / voi: di pregare
ancora / perche' la Tigre, / la Tigre Assenza, / o amati, / non divori la
bocca / e la preghiera...".
Bisogna segnalare inoltre gli ultimi versi, composti negli anni Settanta e
ispirati a una religiosita' dominata da figure bibliche o attinenti al mondo
della liturgia (la Campo, oltre a condurre una strenua battaglia a favore
dell'opera di monsignor Marcel Lefebvre per il ripristino della Messa in
latino, predilesse il rito bizantino-slavo). In quest'ottica risaltano i
versi di Missa Romana e dell'intenso poemetto intitolato Diario bizantino, a
proposito del quale rileva Roberto Calasso: "Il testo della Campo resiste a
questa letterale prova del fuoco. E resiste anche alle due prove
sperimentali a cui la poesia deve sottomettersi e da cui deve uscire
vittoriosa. La prima: che le sue parole agiscano anche se il lettore non sa
con sicurezza a che cosa alludano. La seconda: che la conoscenza delle cose
a cui alludono le parole della poesia dilati infinitamente la loro risonanza
e il loro spessore".
*
La perfezione della prosa
Il secondo titolo della Campo fu Fiaba e mistero, edito da Vallecchi nel
1962 nella collana dei "Quaderni di pensiero e di poesia". Il volumetto,
contenente cinque tra i piu' riusciti saggi della scrittrice, fu pubblicato
in un'edizione numerata di 600 esemplari. Nella stessa collana vedra' la
luce anche la raccolta di saggi intitolata Spagna di Maria Zambrano, che fu
amica della Campo.
Entrambi i primi due titoli pubblicati denotano la scarsa propensione
dell'autrice a diffondere i propri testi in maniera indiscriminata, bensi'
la tendenza a rendere note con parsimonia le proprie pubblicazioni. Non e'
un caso che, a parte qualche sparuta segnalazione, i due libri venissero
subito relegati nel dimenticatoio. La stessa autrice scriveva
significativamente a Leone Traverso il 10 ottobre 1962 a proposito di Fiaba
e mistero: "Ora anche di questo libretto mi e' venuto un enorme desiderio
che nessuno si accorga. Una parola e' sufficiente per toglierti tutto il
piacere di averlo scritto, farti sentire 'as public as a frog', il che
equivale a non scrivere piu'".
Il flauto e il tappeto, pubblicato da Rusconi nel 1971, costituisce il terzo
e ultimo libro pubblicato in vita. Si tratta di una raccolta di saggi
(alcuni di questi ripresi dal volumetto precedente) in cui l'autrice
disquisisce intorno agli argomenti piu' disparati creando insospettabili
accostamenti. Il punto di partenza collima con il punto di arrivo solo
grazie a un procedimento narrativo che persegue tale obiettivo attraverso
una sequenza di corrispondenze di ardua decifrazione agli occhi del profano.
Il cerchio si chiude in maniera affascinante ed enigmatica, dopo un continuo
peregrinare intorno ai simboli della redenzione e della perdizione.
Dall'intreccio di un tappeto persiano a una "frase glaciale" di Proust,
dalle considerazioni sul tema della "sprezzatura" alle suggestioni del rito
gregoriano, la prosa della Campo si delinea come un perfetto emblema
araldico miracolosamente scampato alla distruzione e alla rovina incombenti.
Come Borges, la Campo si interroga a lungo sui propri ideali e modelli
letterari, stabilendo un'opera di interpretazione quanto mai preziosa, anche
se dai tratti atipici.
La letteratura rappresenta per la Campo una sorta di modello che riesce a
coniugare mirabilmente, nei suoi esiti piu' riusciti, etica ed estetica. Non
e' un caso che la vita stessa della scrittrice risentisse in maniera
esclusiva di questo connubio dagli intrecci indissolubili: si pensi, in tal
senso, alle relazioni che Cristina allaccio' con il finissimo traduttore
Leone Traverso e, in seguito, con quella straordinaria figura di
intellettuale a tutto tondo che fu Elemire Zolla, o al fascino che esercito'
su di lei il poeta Mario Luzi.
Pietro Citati osservera' al riguardo: "Aveva un senso acutissimo della
forma, come quasi nessuno ai nostri tempi: non voglio dire il dono della
pura creazione, che in lei urtava contro troppi vincoli. Adorava la forma
che coltiva se stessa, come nelle grandi creazioni dell'estetismo. La sua
intelligenza non era la pura, liberata intelligenza di Dostoevskij e di
Kafka, ma l'intelligenza provocata dalle tensioni e dai limiti della forma.
Gli scrittori erano, per lei, dei re in incognito, dei sacerdoti nascosti; e
la perfezione suprema a cui poteva giungere la letteratura era l'ombra della
vestizione del vescovo, l'ombra della Missa Solemnis".
Dopo la morte le prose della Campo, che si possono considerare come il punto
piu' alto e significativo della sua opera, furono riproposte ed integrate in
due volumi adelphiani, usciti rispettivamente nel 1987 e nel 1998: Gli
imperdonabili e Sotto falso nome. Quest'ultimo volume raccoglie tutti gli
scritti che Cristina pubblico' in svariati periodici con diversi pseudonimi,
spesso declinati al maschile: da Puccio Quaratesi a Bernardo Trevisano, da
Benedetto P. d'Angelo a Giusto Cabianca.
*
Le lettere dell'anima
Le lettere della Campo rappresentano una fucina preziosa per chi voglia
addentrarsi in una vicenda biografica spoglia ma che sottende un'inimitabile
esperienza umana e spirituale, risolta con un rigore che ha pochi referenti
nella letteratura italiana del secolo scorso. Pensando alla sua esperienza,
intrisa di una religiosita' che trova nel rituale arcaico della liturgia la
sua espressione piu' compiuta, vengono in mente le lettere che l'ebrea non
praticante Simone Weil indirizzava a Jean-Marie Perrin, un giovane sacerdote
cattolico, raccolte in quello straordinario libro intitolato Attesa di Dio.
Nell'indimenticabile passaggio presente in una di queste lettere Simone Weil
scrive: "Nel 1938 ho passato dieci giorni a Solesmes, dalla domenica delle
Palme al martedi' di Pasqua, seguendo tutte le funzioni. Avevo emicranie
violente, ogni suono mi faceva male come un colpo, e solo un estremo sforzo
di attenzione mi permetteva di uscire dalla mia misera carne, di lasciarla
soffrire sola, rannicchiata in un angolo, e di trovare una gioia pura e
perfetta nella inaudita bellezza del canto e delle parole".
Le lettere della Campo conservano lo stesso nitore, la stessa inesausta
ricerca di una dimensione spirituale in grado di riscattare l'esistenza da
una sequela di abitudini meschine. In una delle Lettere a Mita, nomignolo
dato da Cristina all'amica Margherita Pieracci Harwell, si legge: "Cara,
quanto dovra' sembrarle assurda questa lettera, scompigliata e priva di
centro [...] Ma io non ho, davvero, che la poesia come preghiera - ma posso
offrirla? E quando mai la sentiro' cosi' vera (non dico pura, ma e'
differente?) da poterla deporre a quell'altare - di cui non vedo e forse non
vedro' mai che i gradini - come un cesto di pigne verdi, una conchiglia, un
grappolo? Di giorno in giorno mi persuado sempre piu' che non ho altro
rosario, altra spada, altro libro, altro cilizio che questo. E io non parto
dall'amore di Dio - sto nel buio; ma vorrei fare qualche cosa che agli altri
sembrasse nato alla luce".
I corrispondenti della scrittrice non furono numerosi: si tratta di amici
con i quali condivideva gli interessi di tipo letterario o religioso.
Cristina aveva l'abitudine di firmarsi con pseudonimi o nomignoli vari come
La Pisana (ricavato da un personaggio del romanzo Le confessioni d'un
italiano di Ippolito Nievo) o Vie (singolare diminutivo di Vittoria che, con
l'aggiunta della "e" finale, forma in francese la parola "vita"). Del pari i
suoi stessi corrispondenti erano designati con vezzeggiativi o nomi di
fantasia: si pensi, oltre al caso della suaccennata Mita, a quello di Leone
Traverso, chiamato Bul.
Le lettere costituiscono un insostituibile strumento per conoscere piu' a
fondo una scrittrice che, pur non avendo una particolare prestanza fisica
essendo cardiopatica, non lesinava le sue forze pur di soccorrere gli amici
in difficolta' o per sostenere le cause ritenute giuste: si pensi in tal
senso al sostegno dato all'attivita' umanitaria di Danilo Dolci o alle prese
di posizione, all'epoca considerate reazionarie, in favore dell'operato di
monsignor Lefebvre. L'elemento privato appare solo a tratti, circonfuso da
un alone poetico che ne altera i contorni realistici, relegandoli in una
sorta di mondo iridato fatto di preghiere e di silenzi, di attese e di
rinunce, di frasi appena sussurrate e di melanconici inviti.
*
Traduzioni e curatele
"In certi momenti mi sembra che potrei finalmente, p.e., imbarcarmi e vagare
pel mondo o magari cominciare a scrivere - non piu' al servizio di testi
altrui - e sento che me ne verrebbe una strana forza, come da una difficile
prova; in altri, basta un rumore a togliermi non solo una minima pace, ma la
voglia di vivere. Cosi' mi rassegno a questo ufficio d''impiegato della
poesia altrui' - forse un po' come Lawrence ai servizi di aviere; ma non
arrivo, come lui, alla solidarieta', ma a un senso piu' sgomento e morboso
di isolamento senza vera solitudine. C'e' qualcosa di piu' mostruoso che
questa vita di riflesso, di tramite ai sentimenti e alle parole altrui?",
scriveva Leone Traverso in una lettera indirizzata a Cristina Campo, nella q
uale si rievocano le disillusioni nei confronti di una disciplina tra le
piu' oscure e misconosciute in ambito letterario.
L'esempio di Traverso, che fu uno dei piu' geniali traduttori italiani del
Novecento (memorabili le sue versioni che spaziano dai classici come Pindaro
ed Eschilo ai grandi autori di lingua tedesca Hoelderlin, Kleist,
Hofmannsthal, Rilke, Trakl per approdare ai modelli linguistici piu'
disparati: da Gongora a Yeats a Eluard), influenzo' notevolmente Cristina
che tradusse gli autori da cui si sentiva particolarmente coinvolta.
Numerose sono le versioni della Campo che considerava l'attivita'
traduttoria, al pari di Traverso, non in maniera meccanicistica e passiva
bensi' come qualcosa di estremamente creativo e rigoroso.
Tra gli scrittori affrontati non potevano mancare gli amati Hofmannsthal e
Simone Weil, della quale ricordiamo la tragedia Venezia salva (1963) e i
saggi di La Grecia e le intuizioni precristiane (1967, con la collaborazione
di Margherita Pieracci Harwell). Ma non si possono altresi' dimenticare le
versioni da William Carlos Williams che intrattenne con l'autrice un
interessante epistolario, riprodotto in Il fiore e' il nostro segno (2001)
che riprende e amplia l'edizione del 1958, o quelle, superbe, delle Poesie
amorose, poesie teologiche di John Donne (1971). Si tratta spesso di
traduzioni effettuate in collaborazione con autori che le erano
particolarmente vicini come Vittorio Sereni, con il quale portera' a termine
il progetto delle Poesie dello stesso Williams nel 1961, o come Piero Draghi
insieme al quale curera' i Detti e fatti dei Padri del deserto, uscito nel
1975.
Le prime versioni, firmate con il suo vero nome, riguardano autori come
Bengt von Toerne, Katherine Mansfield, Eduard Moerike e Virginia Woolf.
Bisogna ricordare inoltre che le traduzioni in versi, originariamente
disperse in antologie e riviste, sono state raccolte nella seconda parte del
volume adelphiano La Tigre Assenza che rappresenta cosi' uno straordinario
spaccato della raffinata interprete dei versi altrui. Da Giovanni della
Croce ai metafisici inglesi, dalla Dickinson a Hoelderlin, da Eliot a
Murena, gli autori tradotti formano una carrellata quanto mai esauriente
riguardo ai gusti enciclopedici e alla versatilita' conoscitiva della
scrittrice di Fiaba e mistero.
*
L'ombra e la grazia
"Perfezione, bellezza. Che significa? Tra le definizioni, una e' possibile.
E' un carattere aristocratico, anzi e' in se' la suprema aristocrazia. Della
natura, della specie, dell'idea" scriveva la Campo nel saggio Gli
imperdonabili. Gli imperdonabili sono i poeti che vanno controcorrente, che
corteggiano lo stile nell'epoca in cui tutto scivola irrimediabilmente verso
il basso, che, come Pound, scelgono di tacere laddove regna il piu'
assordante dei vaniloqui. La stessa Cristina Campo si puo' annoverare tra
quelli che lei aveva definito "imperdonabili", questi araldi della
perfezione che scelgono l'ombra, il silenzio, l'anonimato nel periodo in cui
impazzano l'arrivismo piu' sfrenato, la volgarita' piu' truce, le "cupezze
ideologiche".
Cristina decise di scomparire, di vivere da postuma, per una scelta polemica
adottata contro un tempo che le proibiva di essere se stessa, di coniugare
magistralmente la sua idea di perfezione e bellezza con la noncuranza dello
stilita che domina il mondo dalla sua posizione arroccata fra i merli delle
nuvole. Osserva Alessandro Spina: "Non fece parte di nessuna scuola, di
nessun gruppo e, ancor meglio, il lettore non puo' assegnarla a nessuna
scuola, a nessun gruppo, almeno del panorama nostrano, gremito e talvolta
opprimente. Basta scorrere i nomi che ricorrono nelle sue lettere, nelle sue
memorabili traduzioni - di autori, allora, estranei alla moda, ai dibattiti
(lessico dell'epoca). La sua cultura non era intercambiabile con quella
altrui e cio' indica un itinerario solitario (l'itinerario in se' e' gia'
cultura), che le fece a suo tempo il vuoto intorno, e che oggi invece attira
il lettore".
Basta scorrere le pagine dei libri stampati dopo la sua morte per sincerarsi
dell'innata predisposizione a scrivere "Con lievi mani", come
emblematicamente si intitola una sua prosa, da cui ritagliamo questo piccolo
cammeo in cui si poteva riconoscere il suo elegante profilo: "Si direbbe che
la grazia sia la materia prima della Grazia e indubbiamente i santi
avventurieri, i lucenti eroi di fiaba che con lieve cuore, con lievi mani
gettarono la vita nell'Immutabile erano tagliati di quella stoffa".
*
In vita soltanto tre libri. Opere
Cristina Campo pubblico' in vita soltanto tre libri: la plaquette poetica
Passo d'addio (All'Insegna del Pesce d'Oro, 1956) e le raccolte di saggi
Fiaba e mistero (Vallecchi, 1962) e Il flauto e il tappeto (Rusconi, 1971).
Collaboro', a volte usando fantasiosi pseudonimi, a numerose riviste, tra
cui "Paragone", "Conoscenza religiosa", "Antaios", "Elsinore", "Sur". Dopo
la sua morte apparvero i seguenti volumi: Gli imperdonabili, Adelphi, 1987;
Lettere a un amico lontano, Libri Scheiwiller, 1989; La Tigre Assenza, a
cura di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi, 1991; Sotto falso nome, a cura
di Monica Farnetti, Adelphi, 1998; "L'infinito nel finito". Lettere a Piero
Polito, a cura di Giovanna Fozzer, Via del Vento, 1998; Lettere a Mita, a
cura di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi, 1999; Caro Bul. Lettere a
Leone Traverso (1953-1967), a cura di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi,
2007. La Morcelliana ha proposto integralmente nel 2007 il Carteggio tra
Cristina Campo e Alessandro Spina.
Le traduzioni apparse con il vero nome di Vittoria Guerrini sono le
seguenti: Bengt von Toerne, Conversazioni con Sibelius, Monsalvato, 1943;
Katherine Mansfield, Una tazza di te' ed altri racconti, Frassinelli, 1944;
Eduard Moerike, Poesie, Cederna, 1948; Virginia Woolf, Diario di una
scrittrice, Mondadori, 1959 (in collaborazione con Giuliana de Carlo). Con
lo pseudonimo di Cristina Campo firmo' invece queste altre traduzioni:
William Carlos Williams, Il fiore e' il nostro segno, All'Insegna del Pesce
d'Oro, 1958 (ristampato dalla Libri Scheiwiller nel 2001 con una congrua
sezione di inediti, tra cui il carteggio con l'autore americano e con Vanni
Scheiwiller); William Carlos Williams, Poesie, Einaudi, 1961 (in
collaborazione con Vittorio Sereni); Simone Weil, Venezia salva,
Morcelliana, 1963; Simone Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane,
Borla, 1967 (in collaborazione con Margherita Pieracci Harwell); John Donne,
Poesie amorose, poesie teologiche, Einaudi, 1971; Detti e fatti dei Padri
del deserto, Rusconi, 1975 (in collaborazione con Piero Draghi). Postumo e'
apparso il volumetto di Cristine Koschel, L'urgenza della luce, a cura di
Amedeo Anelli, Le Lettere, 2004.
Bisogna inoltre menzionare la Storia della citta' di rame, tradotta
dall'arabo da Alessandro Spina, con introduzione di Cristina Campo,
originariamente proposta da Scheiwiller per la sua sigla editoriale
All'Insegna del Pesce d'Oro nel 1963 e ristampata dalle Edizioni L'Obliquo
nel 2007, oltre all'antologia I mistici, curata da Elemire Zolla per
Garzanti nel 1963, e riproposta da Adelphi nel 1997 con il titolo I mistici
dell'Occidente, contenente diversi contributi della Campo.
*
Critica
I contributi critici stanno conoscendo una stagione sempre piu' fertile. Ci
limitiamo a segnalare i principali: Alessandro Spina, Conversazione in
Piazza Sant'Anselmo. Per un ritratto di Cristina Campo, Libri Scheiwiller,
1993, riproposto dalla Morcelliana con una sezione di inediti nel 2002;
Monica Farnetti, Cristina Campo, Luciana Tufani Editrice, 1996; Per Cristina
Campo, a cura di Monica Farnetti e Giovanna Fozzer, All'Insegna del Pesce
d'Oro, 1998; Cristina Campo in immagini e parole, a cura di Domenico
Brancale, Ripostes, 2002; Margherita Pieracci Harwell, Cristina Campo e i
suoi amici, Edizioni Studium, 2005; L'opera di Cristina Campo al crocevia
culturale del Novecento europeo, a cura di Arturo Donati e Tommaso Romano,
Provincia Regionale di Palermo, 2007. Va inoltre citata la fondamentale
biografia di Cristina De Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di
Cristina Campo, Adelphi, 2002. Da ricordare anche il sito
www.cristinacampo.it
*
Una vita all'insegna della frugalita'
1923-1929 Vittoria Guerrini (che in seguito adottera' lo pseudonimo Cristina
Campo) nasce il 28 aprile 1923 a Bologna da Guido Guerrini, compositore
faentino, e da Emilia Putti, sorella del chirurgo ortopedico Vittorio Putti
che accoglie la famiglia, fino al 1929, nella residenza sita nel parco
dell'Ospedale Rizzoli di Bologna. Cristina e' affetta da una forma di
cardiopatia che non le permette di intraprendere un normale iter scolastico.
1930-1944 I Guerrini si trasferiscono a Firenze dove il padre e' chiamato a
dirigere il Conservatorio Cherubini. Cristina compie studi irregolari.
Stringe amicizia con Anna Cavalletti, una coetanea con la quale condivide le
prime infatuazioni letterarie e che morira', giovanissima, nel 1943, in un
bombardamento. Pubblica, con il suo vero nome, la prima traduzione: le
Conversazioni con Sibelius di Bengt von Toerne, cui seguira', nel 1944, la
versione di Una tazza di te' ed altri racconti di Katherine Mansfield per
Frassinelli.
1945-1951 Frequenta l'ambiente letterario fiorentino dove conosce Leone
Traverso cui si lega affettivamente e che le fa scoprire l'opera di
Hofmannsthal. Nel 1948 pubblica con l'editore Cederna la versione delle
Poesie di Eduard Moerike. Nel 1951 da' vita, insieme a Gianfranco Draghi,
alla "Posta letteraria" del "Corriere dell'Adda", che avra' tra i suoi
collaboratori Luzi, Bigongiari e De Robertis. Fu Draghi a iniziare la Campo
al culto di Simone Weil, facendole conoscere La pesanteur et la grace.
1952-1962 La scrittrice lavora alacremente al progetto di un'antologia che
non riuscira' a realizzare: il Libro delle ottanta poetesse annunciato
dall'editore Casini per il 1953. Collabora a varie riviste e dedica
particolare attenzione all'opera di Luzi. Nel 1955 si trasferisce con la
famiglia a Roma dove il padre va a dirigere il Conservatorio di Santa
Cecilia. Frequenta Francesco Tentori, Maria Zambrano e Margherita Dalmati,
ma anche il "mitico" Bobi Bazlen e il dottor Ernst Bernhard che introdusse
per primo l'opera di Jung in Italia. Nel 1956 pubblica il suo primo libro,
un'esile raccolta di poesie intitolata Passo d'addio per All'Insegna del
Pesce d'Oro di Vanni Scheiwiller che, due anni dopo, stampera' anche le
traduzioni da Williams: Il fiore e' il nostro segno. Nel 1962 lo stesso
editore pubblica Storia della citta' di rame, tradotta da Alessandro Spina e
con un'introduzione della Campo. Si lega sentimentalmente ad Elemire Zolla.
Nel 1961 firma con Sereni la traduzione delle Poesie di Williams per
Einaudi. Nel 1962 esce da Vallecchi il volume di saggi Fiaba e mistero.
1963-1977 Collabora all'antologia I mistici, curata da Zolla nel 1963 per
Garzanti. La Morcelliana pubblica la traduzione della Venezia salva di
Simone Weil. Nel 1965 e' la volta de La Grecia e le intuizioni precristiane
della stessa Weil per l'editore Borla. Tra il 1964 e il 1965 muoiono sia la
madre che il padre. Nel 1966 da' vita alla sezione italiana di "Una voce",
associazione internazionale in difesa del rito cattolico in latino. Nel 1971
escono il libro di saggi Il flauto e il tappeto, pubblicato da Rusconi, e le
Poesie amorose, poesie teologiche di John Donne per Einaudi. Per diversi
anni intrattiene un rapporto epistolare con il filosofo Angelo Emo. Nel 1975
cura con Piero Draghi i Detti e fatti dei Padri del deserto, edito da
Rusconi. Frequenta regolarmente le funzioni religiose dell'Abbazia
benedettina di Sant'Anselmo e, successivamente, del Russicum, affascinata
dal rito bizantino. Si spegne il 10 gennaio 1977.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir@peacelink.it, luciano.benini@tin.it,
sudest@iol.it, paolocand@libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info@peacelink.it
***

GIUSEPPE MONTALBANO INTERVISTA UMBERTO SANTINO
[Dal sito del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" ( via
Villa Sperlinga 15, 90144 Palermo, tel. 0916259789, fax: 0917301490, e-mail:
csdgi@tin.it, sito: www.centroimpastato.it) riprendiamo la seguente
intervista dal titolo "Mafia e politica. Giuseppe Montalbano della Scuola
Normale di Pisa intervista Umberto Santino"]

- Giuseppe Montalbano: Un rapporto tra la politica e la mafia, o meglio "le
mafie" declinato al plurale, puo' essere tracciato in maniera trasversale
lungo l'intero arco della storia della Repubblica. Diversi sono invece i
rapporti di forza che si sono delineati dalla Liberazione ai giorni nostri,
come differenti sono le interpretazioni date dagli studiosi sulla natura del
fenomeno. Riferendoci inizialmente alla mafia siciliana, definita a partire
dalle confessioni del pentito Tommaso Buscetta "Cosa Nostra", che tipo di
rapporto si instaura nel dopoguerra con l'egemonia democristiana in Sicilia?
E' corretto parlare di un rapporto di sudditanza della politica a un sistema
di potere che ha trovato dopo lo sbarco degli alleati un terreno fertile su
cui riattecchire? Questa posizione mi sembra possa esprimersi nel quadro
tracciato dall'avvocato Giuseppe Alessi, rifondatore della Dc in Sicilia e
primo presidente della Regione, in un intervento sul dopoguerra in Sicilia
tenuto a Caltanissetta il 26 aprile 1984: racconta infatti di un vero e
proprio scontro col "partito" del cosiddetto "Vallone" (un insieme di comuni
del nisseno che e' stato patria dei capimafia piu' potenti di allora) e di
un asservimento al capo dei capi Calogero Vizzini, in cui un ruolo centrale
avrebbe giocato la Chiesa nella figura di monsignor Jacono, allora vescovo
di Caltanissetta. Abbiamo quindi inizialmente un rapporto di sudditanza
della politica alla mafia? Un'organizzazione onnipotente che detta le sue
leggi alla politica? E' corretto interpretare con questo modello i complessi
rapporti tra Dc e mafia che si sarebbero sviluppati a livello nazionale?
Il noto concetto andreottiano di "quieto vivere" esprime l'ideale del
compromesso, dell'equilibrio possibile tra criminalita' organizzata e
politica da garantire e mantenere in Sicilia e a livello nazionale. Come si
e' realizzata storicamente questa pax mafiosa? Puo' essere letta come una
definitiva sconfitta da parte delle istituzioni o al contrario come il
trionfo di una mediazione che e' servita ad "addomesticare" la mafia alla
politica?
- Umberto Santino: Penso che il rapporto mafia-politica sia stato e sia piu'
complesso dello schema autonomia-dipendenza. Mi sembra piu' corretto parlare
di interazione e di convergenza o identita' di interessi. Alla base di
questa impostazione c'e' la mia analisi della mafia come soggetto politico
in senso weberiano, cioe' di un gruppo che ha un suo complesso di regole,
valide entro un dato territorio, un apparato e dei mezzi per farle attuare,
comminando sanzioni per chi non le rispetta. Come tale la mafia ha un
rapporto duale con le istituzioni: non riconosce il monopolio statale della
forza ma intrattiene con esse una serie di rapporti. Questo vale per
l'organizzazione criminale (Cosa nostra e altri gruppi) ma il quadro si
complica se si considera che aspetto costitutivo del fenomeno mafioso e' il
sistema di relazioni, che vanno dagli strati sociali piu' bassi a quelli
piu' alti, e che danno vita a un blocco sociale, dominato da soggetti
illegali e legali: capimafia, professionisti, imprenditori, amministratori,
politici, rappresentanti delle istituzioni, definibili come borghesia
mafiosa. Questo rapporto interattivo comincia con la formazione dello Stato
unitario ed e' preceduto da una lunga fase di incubazione (quelli che chiamo
"fenomeni premafiosi" sono documentabili fin da XVI secolo).
La mafia nell'immediato dopoguerra e' un soggetto decisivo nella repressione
del movimento contadino e l'assunzione diretta del potere da parte di
capimafia, nominati sindaci e amministratori, configura una criminocrazia
formale. Successivamente si pone il problema di arrestare con tutti i mezzi
le lotte contadine e battere le sinistre che, sull'onda delle mobilitazioni
contadine, avevano vinto le elezioni regionali del 20 aprile 1947. La
risposta fu Portella della Ginestra e la fine della coalizione antifascista
al governo dal 1944, con l'esclusione delle sinistre dal potere. Quindi il
problema non e' solo Caltanissetta, come nell'analisi di Alessi, e'
l'assetto di potere nazionale e regionale, con l'affermazione del centrismo,
cioe' della supremazia democristiana con il contorno dei partiti
conservatori, che furono indicati come mandanti della strage del primo
maggio. Non vedo pertanto una mafia onnipotente che detta le leggi alla
politica e la politica che obbedisce ed esegue. Direi piuttosto che c'e' un
matrimonio consensuale che consente all'assetto politico di riprodursi e
perpetuarsi e alla mafia di prosperare e di inserirsi in posizione
privilegiata dentro un quadro sociale in mutamento, con la spesa pubblica
che diventa la risorsa fondamentale, una volta ridimensionata l'agricoltura
e sviluppatosi il settore terziario-parassitario.
Il "quieto vivere" di Andreotti e' un modo molto soft di riconoscere questa
convivenza che serviva tanto alla mafia quanto alla politica e alle
istituzioni. Puo' essere utile il concetto di mediazione? Direi che
l'aspetto prevalente e' la comunanza di interesse a tenere fuori dal potere
le sinistre e a controllare il conflitto sociale. La mafia e' stata un
baluardo nella lotta anticomunista (anche la Chiesa cattolica metteva al
centro della sua azione l'anticomunismo), finche' c'e' stato un forte
Partito comunista, ma in Sicilia la partita con il Pci e le sinistre era
stata vinta gia' nel corso degli anni '40 e '50, con un'autonomia regionale
gestita dalle forze conservatrici e una riforma agraria che spinse
all'emigrazione circa un milione e mezzo di persone e dissanguo' la Sicilia
delle sue forze piu' combattive e ridusse a minoranze i partiti di
opposizione.
*
- Giuseppe Montalbano: Con la fine dell'egemonia delle famiglie mafiose
palermitane, sancita con l'eliminazione dei Bontade, e l'instaurazione della
dittatura sanguinaria dei corleonesi il sottile equilibrio si rompe dando
vita all'epoca stragista. Come interpreta una simile rottura nei rapporti
mafia-politica?
- Umberto Santino: La convivenza pacifica tra mafia e politica governativa
dura fino alla fine degli anni '70 e ai primi anni '80, quando
l'accumulazione illegale straripa e la mafia chiede molto di piu',
abbattendo gli ostacoli che incontra al suo processo di espansione, anche
all'interno dello schieramento al potere. Leggo in quest'ottica il delitto
Mattarella del gennaio 1980. Hanno volutamente colpito un uomo-simbolo:
figlio ed erede di Bernardo, da piu' fonti indicato come politico
"chiacchierato", anche se non ci sono riscontri sul piano giudiziario
(Danilo Dolci, che pure aveva fatto denunce puntuali, fu condannato per
diffamazione), ma impegnato in una politica di moralizzazione e di apertura
al Pci, sulla linea di Aldo Moro. Piu' che di rottura con la politica
parlerei di un alt a tentativi di rinnovamento che potevano ostacolare o
contenere la strategia espansiva della mafia. Questa strategia nasce dalla
lievitazione dell'accumulazione illegale, che porta a una lievitazione della
richiesta di spazi di potere, e si mischia con la volonta' di dominio dei
corleonesi, fino ad allora parenti poveri della mafia cittadina. I
corleonesi impongono una dittatura monarchica a un'organizzazione
tradizionalmente repubblicana e colpiscono a morte anche chi all'esterno si
oppone o non e' "affidabile". Vincono la guerra interna ma con il delitto
Dalla Chiesa e con le stragi del '92 e del '93 suscitano effetti boomerang:
la legge antimafia, approvata dieci giorni dopo il delitto Dalla Chiesa, il
maxiprocesso, gli arresti e le condanne.
*
- Giuseppe Montalbano: Diversi studiosi hanno datato a questi anni il
delinearsi da parte dello Stato di una risposta forte alle mafie e la
nascita di una "lotta antimafia" che partendo dalla societa' civile avrebbe
presto coinvolto le istituzioni e la politica nella costituzione di un
fronte comune. Si puo' davvero parlare di una "nascita dell'antimafia"
nell'epoca post-stragista? Quale e' stata la reazione dello Stato e della
politica? Come si ridefinisce in quegli anni il rapporto mafia e politica?
Si assiste davvero a una completa inversione di rotta o ad un'inversa
strategia di rapporti?
Quanto le leggi antimafia adottate a partire dall'omicidio del generale
Dalla Chiesa e la lotta condotta dalle istituzioni hanno intaccato il
"sistema di rapporti" del potere mafioso che fa da filo conduttore dei suoi
libri? Quanto sono state incisive a suo avviso le risposte della politica da
quel momento, in particolare in Sicilia?
- Umberto Santino: L'antimafia nasce gia' alla fine dell'Ottocento, con i
Fasci siciliani, e prosegue con le lotte contadine degli anni precedenti e
successivi al Fascismo. Dal 1944 al 1947 la mobilitazione contadina e'
sollecitata e sostenuta dai governi di unita' antifascista, dopo viene
condotta solo dalle forze dell'opposizione.
Negli anni '80 e '90 piu' realisticamente abbiamo l'impegno di alcuni
settori delle istituzioni, soprattutto di parte della magistratura che gode
di una sorte di delega a tempo, in una logica di risposta emergenziale
all'escalation della violenza mafiosa. La legge antimafia e' stata un fatto
storico, intervenuto con piu' di un secolo di ritardo rispetto alla realta',
ma essa e le altre leggi antimafia piu' che costituire una risposta organica
sono una risposta emergenziale a un fenomeno considerato soprattutto come
emergenza delittuosa, cioe' come fabbrica di omicidi. Non si pongono
adeguatamente il problema dei rapporti, tanto che per affrontarlo si e'
dovuto ricorrere al concorso esterno, che e' una elaborazione
giurisprudenziale.
Il "fronte comune" costituitosi negli anni '80 e '90 raccoglie minoranze,
sia all'interno delle istituzioni sia all'esterno. Le grandi manifestazioni
successive alle stragi coinvolgono centinaia di migliaia di persone,
sull'onda dell'emozione e dello sdegno suscitato dai grandi delitti, ma a
svolgere un lavoro continuativo, nelle scuole, nell'antiracket, per l'uso
sociale dei beni confiscati, si era e si e' rimasti in pochi, anche se c'e'
stato un relativo incremento.
Il pool antimafia invece di essere rafforzato viene smantellato dopo il
maxiprocesso, buona parte della legislazione antimafia viene attenuata
(penso in particolare alle restrizioni per i collaboratori di giustizia),
Falcone e' costretto a lasciare Palermo dopo una serie di traversie che
preparano il terreno all'assassinio. Lo stesso puo' dirsi per Borsellino,
isolato e osteggiato in vita e osannato da morto. Chinnici, che ha il merito
storico di aver avviato l'azione del pool antimafia, ha avuto grossi
problemi ed e' per giunta dimenticato.
Sul piano politico l'autoelisione della Democrazia cristiana, partito di
mediazione con tutti i poteri reali, a cominciare dalla mafia, porta alla
nascita di Forza Italia, che ignora la mediazione e privilegia una strategia
di legalizzazione dell'illegalita', che va oltre le vicende personali del
leader-padrone. La relazione su mafia e politica della Commissione antimafia
del 1993, che teorizza una responsabilita' politica e l'affida
all'autoregolamentazione dei partiti, rimane interamente sulla carta. I
partiti hanno continuato a candidare e a fare eleggere personaggi sotto
processo e condannati. Piu' che un'inversione di rotta c'e' stata una
ridefinizione delle strategie di rapporti. La mafia ha capito che la
strategia della violenza era perdente e ha preferito rilanciare la
mediazione attraverso la sommersione, cioe' il controllo della violenza,
soprattutto di quella rivolta verso l'alto; i nuovi aspiranti al potere si
sono aggrappati a Berlusconi come l'unico personaggio che li potesse portare
al comando, allineandosi alla sua politica di privatizzazione del potere,
che ha molto da spartire con il modello mafioso: l'illegalita' come risorsa
e l'impunita' come legittimazione. Il guaio e' che la maggioranza degli
elettori italiani ha votato per Berlusconi per ben tre volte, e cio' vuol
dire che questo modello, strutturalmente illegale, gode di un ampio
consenso.
*
- Giuseppe Montalbano: Il caso del governatore della Regione siciliana
Salvatore Cuffaro si inscrive all'interno della "questione etica" e nelle
contraddizioni di una classe politica che spende migliaia di euro per
affigere in tutte le citta' della Sicilia manifesti recanti la fulgida
intuizione "La mafia fa schifo" e festeggia con cannoli e spumante la
condanna per favoreggiamento del Presidente della Regione. Aspetto a mio
avviso piu' inquietante della vicenda e' il fatto che Cuffaro sia stato
candidato dal suo partito al Senato e che grazie ai voti della Sicilia sia
salito. Che senso puo' avere a suo avviso una "questione etica" se il popolo
"premia" chi e' stato condannato per mafia? Quali sono le insufficienze e le
debolezze di un'antimafia che fa molta pubblicita', ma sembra non avere
ancora presa all'interno della societa'?
- Umberto Santino: La "questione etica" per moltisimi cittadini non esiste,
se non come riprovazione per le attivita' delittuose piu' eclatanti e per i
boss piu' sanguinari, poiche' agisce una dinamica di creazione del consenso
che poggia le sue radici nella consistenza dell'accumulazione illegale e
nella pratica dell'illegalita'. Cuffaro e' stato eletto con gran numero di
voti anche dopo la condanna e l'Udc non poteva non candidarlo perche' senza
Cuffaro sarebbe sparita. La presenza al Senato si deve a Cuffaro. I proclami
antimafia vanno benissimo pure per la mafia se il sistema di potere rimane
integro e da questo punto di vista Berlusconi e' molto piu' pericoloso di
Cuffaro, rappresentando una summa di poteri, economico, politico, mediatico,
che non ha eguali in Italia e anche altrove. Si ripropone il problema del
consenso che invano si tenta di aggredire con le denunce dei rapporti di
alcuni personaggi con dei mafiosi. Si pensa che dovrebbero agire da
deterrenti e invece agiscono da collanti e da spot pubblicitari. Non e'
affatto vero che "se li conosci li eviti". Anzi e' vero il contrario: se li
conosci li voti. Il voto della maggioranza degli elettori e' pienamente
consapevole.
*
- Giuseppe Montalbano: In un libro-intervista uscito recentemente, Pizzini,
veleni e cicoria, realizzato dal giornalista della "Stampa" Francesco La
Licata, il procuratore Grasso polemizza apertamente con quanti, in primis
Travaglio e Lodato, hanno definito l'arresto dell'ultimo boss corleonese
Bernardo Provenzano come una sorta di "arma di distrazione di massa" sul cui
sfondo si nasconderebbe ancora il rapporto mafia-politica. Perche' questa
accusa? Che peso ha avuto per Cosa Nostra l'arresto di Provenzano?
- Umberto Santino: In quel libro si parla ampiamente di borghesia mafiosa ma
si tralascia di indicare il mio lavoro. Non e' la prima volta che succede e
non sara' l'ultima. Anche nell'antimafia ci sono vetrine e protagonismi,
veicolati dai media. In televisione circolano servizi in cui si ignora il
ruolo decisivo del Centro pure per le vicende di Peppino Impastato (si veda
un filmato per "La storia siamo noi").
Le polemiche sono da ricondurre al clima del palazzo di giustizia di
Palermo, dominato dalle divisioni tra i magistrati. Al centro delle
divisioni il rapporto mafia-politica e la valutazione sul processo ad
Andreotti, che a mio avviso si e' chiuso con un verdetto "all'italiana":
associato a delinquere fino al 1980, ma il reato e' prescritto, assolto per
il resto. In realta' i rapporti di Andreotti con un personaggio come Salvo
Lima sono durati fino alla sua morte, nel 1992. Il 1980 e' una data
inventata e la scelta di incriminare senza condannare e di assolvere e' un
compromesso che salva il lavoro della Procura e contribuisce alla
santificazione di Andreotti. Grasso e' stato accusato da altri magistrati di
aver tralasciato le indagini sui rapporti con la politica. Ritengo che su
questo terreno la magistratura abbia mezzi inadeguati (il concorso esterno)
e che dovrebbe essere la societa' nel suo complesso ad affrontare questi
temi, ma si guarda bene dal farlo, escluse poche minoranze.
L'arresto di Provenzano e' certo un fatto positivo, ma viene con troppo
ritardo e significa che per molti anni non lo si e' cercato. Resta il
problema del ruolo di Provenzano negli ultimi anni: un capo dei capi
monarchico, o un primus inter pares di un organo collegiale composto da
pochissimi boss? Propendo piu' per la seconda ipotesi. L'arresto di un
capomafia e' senz'altro un colpo alla mafia ma la sua sostituzione non e'
difficile. La mafia del dopo Provenzano si trova a dover fare una scelta: o
continuare, anche con qualche sussulto, sulla linea della mediazione e del
controllo della violenza o riprendere la linea della violenza eclatante.
Finora pare che abbia capito che la linea piu' conveniente, con un quadro
politico abbastanza ospitale, e' quella della "sommersione".
*
- Giuseppe Montalbano: Nei giorni successivi alle ultime elezioni e' andato
in onda su "Exit", programma di attualita' della rete televisiva "La 7", un
servizio sul sistema dei patronati gestiti dall'Mpa. Un servizio che ha
messo in luce uno scandalo sotto gli occhi di tutti e che, come prevedibile,
non ha destato alcuno scandalo nell'opinione pubblica. Riassumendo: delle
strutture pubbliche finalizzate a garantire assistenza e aiuti ai cittadini
dei quartieri piu' disagiati si sono improvvisamente trasformate in comitati
elettorali dei partiti del Movimento per l'Autonomia e del Popolo delle
Liberta', dando vita a un vero e proprio mercato di voti. La risposta del
neo-eletto presidente della Regione, Raffaele Lombardo, e' degna di
riflessione: la legge non vieta che queste strutture pubbliche diventino dei
comitati elettorali. Perche' nessuno ha mai parlato di questa grave "lacuna"
e non sono stati presi provvedimenti in tal senso? Come queste "lacune"
nelle leggi favoriscono il diffondersi di un sistema clientelare? Quanto
questo sistema debba considerarsi la "chiave" per intendere oggi i rapporti
tra mafia e politica particolarmente nel meridione?
- Umberto Santino: Non c'e' stato nessuno scandalo perche' tutto questo,
all'insegna della privatizzazione del pubblico, viene considerato normale.
Si tratta di "lacune" o di prassi che continuerebbero anche con regole piu'
adeguate? Le regole certamente sono necessarie ma bisognerebbe preoccuparsi
di farle rispettare.
Lombardo e l'Mpa hanno ripreso i temi classici del sicilianismo, solo che
avranno a vedersela con il settentrionalismo leghista e con i personalismi
di Berlusconi. Non so quanto Lombardo potra' ottenere in un contesto in cui
il suo peso non e' tale da bilanciare la preponderanza di Forza Italia e
della Lega. Non so neppure se Lombardo abbia voglia e possibilita' di
rilanciare il separatismo come movimento di massa per rafforzare il suo
peso. Comunque la mafia da tempo non e' piu' un fenomeno solo locale e non
so quanto sarebbe interessata a un'operazione del genere.
Per intanto il nuovo presidente della Regione cerca di tenere in piedi il
sistema clientelare, in continuita' con Cuffaro, e ricorre alla foglia di
fico di qualche magistrato per dare parvenza di legalita' ed efficienza a
settori come la sanita', che scatena grandi appetiti essendo diventato uno
dei piu' danarosi e dei piu' funzionali all'esercizio della "signoria
territoriale". Anche Cuffaro vi aveva fatto ricorso e ha trovato qualcuno
che si e' prestato...
*
- Giuseppe Montalbano: Un modello di controllo territoriale con cui e'
possibile interpretare anche il "sistema" camorra?
Il rapporto camorra-politica tratteggiato da Saviano nelle pagine di
"Gomorra" viene sintetizzato in un passo significativo in cui l'autore pone
una netta distinzione dal modello della mafia siciliana: "I clan di camorra
non hanno bisogno dei politici come i gruppi mafiosi siciliani, sono i
politici che hanno necessita' estrema del Sistema (alias camorra, ndr)" [R.
Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano 2006, p. 57]. Puo' commentarci questa
affermazione?
- Umberto Santino: Il mio concetto di signoria territoriale si puo'
applicare anche alla 'ndrangheta e alla camorra. Non mi convincono le
affermazioni di Saviano che ha scritto un romanzo di successo che non indica
le fonti di documentazione. Il successo poi lo ha portato a un protagonismo
eccessivo, come al solito ingigantito dai media, come se fosse il primo e
l'unico a parlare di camorra e a correre rischi. Non si dimentichi che Siani
e' stato ucciso e non ha mai avuto vetrine. Anche in Campania i rapporti
camorra e politica sono complessi e non riducibili a semplificazioni buone
per i bestsellers.
*
- Giuseppe Montalbano: Lo scorso giugno l'omicidio dell'imprenditore Michele
Orsi a Casal di Principe, definito da Saviano come il "Salvo Lima nei
rapporti tra clan e politica" ha riaperto la questione della "protezione"
offerta dallo Stato a chi collabora con la giustizia. In vista del
maxi-processo "Spartacus" che minaccia di colpire pesantemente il clan dei
casalesi, le dichiarazioni dell'Orsi avrebbero fornito elementi di
fondamentale importanza. Nonostante le numerose intimidazioni, il prefetto
non gli ha concesso la scorta. Perche' un collaboratore cosi' prezioso e'
stato lasciato solo? Come lo Stato difende chi e' disposto a denunciare o
collaborare?
- Umberto Santino: Non capisco il raffronto Orsi-Lima: sono storie diverse.
Sul problema della protezione ai collaboratori bisogna conoscere i casi
concreti e su Orsi io so solo quello che ho letto sui giornali. Comunque a
mio avviso bisognerebbe rivedere tutta la politica anticrimine, in
particolare quella per i testimoni di giustizia, per anni condannati a una
condizione di isolamento e di misconoscimento del loro ruolo.
*
- Giuseppe Montalbano: Quali sono le nuove norme sulla confisca dei beni
mafiosi contenute nel "pacchetto sicurezza" del governo? Forniscono a suo
avviso una risposta sufficiente a quello che e' stato definito piu' volte
dall'on. Forgione, presidente della Commissione parlamentare antimafia nella
scorsa legislatura, una delle piu' gravi lacune presenti nella nostra
legislazione? Quali sono oggi le risposte della politica nella lotta alla
criminalita' organizzata? Quanto la "questione sicurezza" ha posto in
secondo piano la minaccia prioritaria della criminalita' organizzata?
- Umberto Santino: Il "pacchetto sicurezza" e' nato soprattutto per
proteggere Berlusconi dagli interventi della giustizia e per dare fiato alle
politiche xenofobe della Lega, alla ricerca di capri espiatori, con il
progetto semplicemente vergognoso di prendere le impronte ai bambini rom.
Poi per fare inghiottire la pillola il pacchetto e' diventato un sacco in
cui c'e' di tutto, comprese le misure antimafia. Ma il massimo che si potra'
fare e' continuare a perseguire boss e gregari, facendo la faccia feroce con
loro. Mentre il sistema di rapporti e' in pieno vigore e informa il sistema
di potere complessivo. Quando Dell'Utri definisce un "eroe" Vittorio
Mangano, non lo fa solo per calamitare voti ma per proclamare un'identita'
politico-culturale. E l'immunita' per Berlusconi, fatta passare con
l'immunita' per le piu' alte cariche dello Stato, l'immunita' dei
parlamentari che si vuole ripristinare, parlano chiaro: la legalita' si
riscrive come illegalita' garantita. Ma non mi stanco di sottolineare che
tutto cio' gode di largo consenso e questo e' il pozzo in cui guardare, con
un'analisi adeguata che dal sistema di potere si allarghi al contesto
sociale.
*
- Giuseppe Montalbano: Quali sono le prospettive e le lacune dell'antimafia
sociale e quanto sono presenti nel fronte antimafia contrasti interni che
impediscono la costituzione di un vero e proprio "fronte unico". La politica
come puo' essere in prima linea in questa che Borsellino defini'
innanzitutto nei termini di una "battaglia culturale"?
- Umberto Santino: Si parla di antimafia sociale ma in realta' le esperienze
significative sono pochissime: l'uso dei beni confiscati riguarda poche
cooperative con decine di soci, la lotta per la casa a Palermo che ha
portato anche all'uso delle case confiscate riguarda solo alcune centinaia
di persone. Anche l'antiracket coinvolge minoranze: un centinaio di
associazioni, quasi tutte al Sud (al Centro-Nord e' diffusa la cultura
leghista del fai da te, cioe': difenditi con le tue armi), con alcune
migliaia di associati. Per il resto l'antimafia ignora i problemi sociali e
si fonda soprattutto sulla predicazione di una legalita' astratta e formale.
I contrasti interni (penso per esempio a quelli che hanno portato a rotture
con "Libera") sono dovuti alla mancanza di una cultura della convivenza
democratica, a protagonismi che ignorano il lavoro collettivo e il rispetto
delle storie e delle esperienze di ciascuno.
La lotta alla mafia dovrebbe essere uno dei punti qualificanti di una lotta
per la democrazia e per l'uso sociale delle risorse, condotta su vari
terreni, non solo su quello culturale. Su questo progetto dovrebbe
ridefinirsi un'identita' dei soggetti alternativi. Le sinistre sono sparite
prima che dal Parlamento dal contesto sociale, nonostante i tentativi di
legarsi ai movimenti, in particolare ai noglobal. Non sono presenti sul
territorio, non hanno nessun ruolo dentro i conflitti sociali. Il Pd marcia
speditamente verso il centro, pur non avendo avuto nessun voto da quelle
parti. E se non si costruisce una politica che metta al centro i problemi
della disoccupazione, del lavoro nero e precario, del rafforzamento
dell'economia legale, con una diffusa presenza sul territorio, mafie e
destre sono destinate a riprodursi e a perpetuarsi chissa' per quanto tempo.
Le borghesie piu' o meno mafiose fanno ottimi affari con le grandi opere e
gli strati popolari tutto sommato riescono a intercettare quote di reddito
attraverso l'economia illegale e i reticoli clientelari. Queste, nel vuoto
di politiche concretamente alternative, sono le basi strutturali del potere
delle destre.
Sono convinto che non ci sia una valutazione adeguata della gravita' della
situazione che stiamo vivendo. E' in corso uno svuotamento dei principi
fondamentali della Costituzione, operato con leggi ordinarie e con procedure
accelerate. L'immunita' per Berlusconi e le cariche piu' alte dello Stato
viola il principio di eguaglianza, la riforma della giustizia cancellera'
l'indipendenza della magistratura. Tutto questo sta accadendo in un contesto
di barbarie culturale e politica, che si declina con gesti e linguaggi da
bordello e da trivio. Le corna e il dito medio sono il degno emblema del
personale politico piu' squallido della storia del nostro Paese, ma godono
dell'apprezzamento del pubblico; il Csm viene definito una "cloaca" e subito
dopo si dice che e' stato solo un lapsus. Non sono un difensore d'ufficio
della magistratura e dico chiaramente che alcuni magistrati farebbero bene
ad evitare apparizioni in televisione e ritengo sconveniente la decisione
del Csm di nominare Di Pisa, ache se assolto nei processi per calunnie a
Falcone, procuratore capo a Marsala. L'unica manifestazione che in qualche
modo ha focalizzato questo quadro estremamente preoccupante, quella di
piazza Navona, viene esorcizzata per le battute di due comici che hanno
attaccato il presidente della Repubblica e il papa. Si avvia una raccolta di
firme e si continua a sperare nella possibilita' di un dialogo che
Berlusconi non vuole poiche' il voto gli consente di aver mani libere per
poter rafforzare la sua autocrazia. Senza un'analisi e una mobilitazione
adeguate, temo che per l'Italia si preparino tempi tristissimi. E non
potremo evitarli cercando unanimismi impossibili. Termino con una domanda:
sapremo ricostruire una polis piu' civile e una dignita' individuale e
collettiva?

2. ET COETERA

Umberto Santino ha fondato e dirige il Centro siciliano di documentazione
"Giuseppe Impastato" di Palermo. Da decenni e' uno dei militanti democratici
piu' impegnati contro la mafia ed i suoi complici. E' uno dei massimi
studiosi a livello internazionale di questioni concernenti i poteri
criminali, i mercati illegali, i rapporti tra economia, politica e
criminalita'. Tra le opere di Umberto Santino: (a cura di), L'antimafia
difficile,  Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo
1989; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, La violenza programmata. Omicidi e
guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, Franco Angeli, Milano
1989; Umberto Santino, Giovanni La Fiura, L'impresa mafiosa. Dall'Italia
agli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 1990; Giorgio Chinnici, Umberto
Santino, Giovanni La Fiura, Ugo Adragna, Gabbie vuote. Processi per omicidio
a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Franco Angeli, Milano 1992 (seconda
edizione); Umberto Santino e Giovanni La Fiura, Dietro la droga. Economie di
sopravvivenza, imprese criminali, azioni di guerra, progetti di sviluppo,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1993; La borghesia mafiosa, Centro siciliano
di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia come soggetto
politico, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo
1994; Casa Europa. Contro le mafie, per l'ambiente, per lo sviluppo, Centro
siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia
interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino Editore, Soveria
Mannelli 1995; Sicilia 102. Caduti nella lotta contro la mafia e per la
democrazia dal 1893 al 1994, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato", Palermo 1995; La democrazia bloccata. La strage di Portella
della Ginestra e l'emarginazione delle sinistre, Rubbettino Editore, Soveria
Mannelli 1997; Oltre la legalita'. Appunti per un programma di lavoro in
terra di mafie, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato",
Palermo 1997; L'alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di
Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli
1997; Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000; La cosa e
il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2000; Dalla mafia alle mafie, Rubbettino, Soveria Mannelli
2006; Mafie e globalizzazione, Di Girolamo Editore, Trapani 2007. Su Umberto
Santino cfr. la bibliografia ragionata "Contro la mafia. Una breve rassegna
di alcuni lavori di Umberto Santino" apparsa su "La nonviolenza e' in
cammino" nei nn. 931-934.
***

EDITORIALE. CONTRO LA GUERRA, E SENZA IPOCRISIE

Occorre opporsi alla guerra nel Caucaso. Occorre opporsi a tutte le guerre.
E chi si impegna anche per salvare una sola vita, e chi si impegna anche
contro una sola violazione dei diritti umani, gia' per questo merita di
essere elogiato. Per questo. Ma non basta.
*
Dall'Italia levare la voce contro la guerra del Caucaso (o contro il regime
birmano, o contro l'occupazione del Tibet o dei Territori palestinesi, o
contro i fascismi in Colombia o in Iran, o contro l'imperialismo di Bush o
di Putin, o contro i terrorismi fondamentalisti e le mafie transnazionali e
gli stati-mafia) e' possibile farlo credibilmente solo a condizione di
opporsi anche alla guerra in Afghanistan cui l'Italia sta partecipando, solo
a condizione di opporsi anche al dispiegarsi della violenza razzista e
assassina nel nostro paese, solo a condizione di opporsi ai poteri criminali
e all'eversione dall'alto in Italia: altrimenti e' un predicar bene e
razzolar male.
*
E forse varra' la pena aggiungere ancora due parole.
La prima: ogni giorno dall'Afghanistan giungono notizie di efferati massacri
di persone inermi. Ogni giorno. Ma evidentemente la nostra sensibilita' non
ne e' toccata. Forse non ne e' toccata perche' tra i responsabili di quei
massacri ci siamo anche noi italiani.
La guerra terrorista e stragista in Afghanistan: che viola la legalita'
costituzionale e il diritto internazionale. La guerra in Afghanistan, che e'
l'epicentro del maggior conflitto geopolitico del XXI secolo.
*
Come e' possibile che il sempiternamente petulantissimo sedicente pacifismo
italiano su tutto sproloqui e su questo taccia?
Diciamolo, dunque.
E' accaduto che coloro che furono eletti in parlamento nel 2006 con i voti
del movimento democratico e pacifista (che era ancora all'epoca un
sentimento maggioritario nell'opinione pubblica di questo paese, e fu
decisivo per la vittoria della coalizione che si opponeva a Berlusconi) poi
legiferarono ripetutamente la prosecuzione della partecipazione militare
italiana alla guerra afgana, l'intensificazione del riarmo, gli interventi
armati come elemento-chiave della politica estera del nostro paese. Questi
fedifraghi, che oggi in grandissima parte non sono piu' in parlamento, ma
ancora pretendono di essere dirigenti di coloro che hanno tradito quando
scelsero di diventare assassini, e ancora riescono a spacciarsi per
rappresentanti di una sinistra che hanno prima devastato e giugulato e poi
di fatto abbandonato per sempre, non possono oggi dir chiaro questa semplice
verita': che gli assassini sono loro. Avessero l'onesta' di dirlo,
dovrebbero trarne la conseguenza morale ineludibile: l'abbandono per sempre
di ogni pubblico ufficio e di ogni rappresentanza; la rinuncia per sempre a
prender la parola quando dei pubblici affari si discute.
E coloro che dall'arcipelago pretesamente pacifista e sedicente nonviolento
provenendo nel biennio del governo Prodi sostennero quella politica di
guerra e di stragi, facendo una dissennata propaganda a favore di essa nelle
forme piu' subdole e piu' infami, prostituendo la propria storia e il
proprio nome, non possono oggi dir chiaro questa semplice verita': che per
due anni si sono prestati a fiancheggiare gli assassini.
E coloro che mentre l'Italia era in guerra, in una guerra terrorista e
stragista alla quale occorreva opporsi con ogni energia, andavano col
cappello in mano dalla sottosegretaria di turno a combinare affari, non
possono oggi dir chiaro questa semplice verita': che invece di opporsi alla
guerra andavano dai signori della guerra a pietire trenta denari.
E coloro che mentre la guerra infuriava promuovevano campagne dereistiche a
fini di mera confusione, e cosi' contribuivano a distrarre l'attenzione da
cio' che veramente contava, e lo facevano per rendere un buon servigio ai
partiti che in parlamento votavano la guerra e le stragi ed avevano bisogno
di poter distogliere l'attenzione da questo crimine facendo proporre da chi
si prestava le piu' inverosimili mirabilia e i piu' grotteschi diversivi,
anche costoro non possono oggi dir chiaro questa semplice verita': che degli
assassini sono stati malvagi o stupidi complici.
Non possono dirlo. Ma lo sanno.
E' questa la forza del male compiuto: che ti corrompe per sempre. Per
sempre.
*
Non vi e' dunque nulla da fare? Al contrario, c'e' da fare tutto.
E in primo luogo promuovere la rinascita nel nostro paese di un movimento
contro la guerra e contro il razzismo, antimilitarista e disarmista, contro
l'eversione e contro le mafie, per la legalita' e i diritti umani di tutti
gli esseri umani.
Ma in questo movimento alcune cose devono essere chiare.
Che esso o sara' nonviolento o non sara'. Poiche' la nonviolenza e' l'unica
proposta politica adeguata ai compiti dell'ora.
E quando diciamo nonviolenza diciamo la proposta politica gandhiana, diciamo
la teoria critica di Leopardi e di Marx, diciamo la tradizione storica e
teorica del femminismo, diciamo il patrimonio di lotte e di pensieri delle
oppresse e degli oppressi, diciamo la prospettiva socialista e libertaria,
diciamo il principio responsabilita', diciamo il movimento antimafia e la
coscienza ecologista, diciamo l'internazionale futura umanita', diciamo
Hannah Arendt e Vandana Shiva, Virginia Woolf e Franca Ongaro Basaglia,
diciamo - in un solo nome - Luce Fabbri.
E ancora questo chiaro deve essere: che nessuna ambiguita' e' piu'
ammissibile.
I diritti umani: o li si difende per tutti gli esseri umani, o sono nulla.
La nonviolenza: o tutta o niente.
La pace: che si sostanzia nel disarmo e nella smilitarizzazione, nella
costruzione di relazioni di giustizia e di solidarieta', nella lotta contro
ogni oppressione; oppure non e' pace, ma guerra mascherata.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.
*
Questo nostro foglio quotidiano e' in Italia - nell'Italia in guerra - il
solo, a nostra conoscenza, che anche in questi ultimi anni abbia saputo
costantemente mantenere e proporre una posizione e un'azione rigorosamente
contro la guerra e rigorosamente nonviolenta - e le due cose per noi sono
una sola.
Giorno dopo giorno, mentre tanti cedevano, noi abbiamo tenuto fermo questo
principio, questa posizione, che e' la posizione, il principio, che Aldo
Capitini voleva caratterizzasse il movimento nonviolento e ne fosse
fondamentale direttrice d'azione: "l'opposizione integrale alla guerra; la
lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione".
*
Detto questo, si promuovano ovunque possibile iniziative per la pace e di
pace, favorendo la piu' ampia partecipazione; ma senza ipocrisie, senza
menzogne, senza confusioni, senza cedimenti.

2. MEMORIA. DONATELLA CHERUBINI RICORDA GAETANO ARFE' (PARTE SECONDA E
CONCLUSIVA)
[Ringraziamo Maria Teresa Proto Pisani (per contatti: mtpropi@iol.it) per
averci nviato la seguente relazione di Donatella Cherubini svolta
all'Universita' Federco II di Napoli il 17 gennaio 2008 in memoria di
Gaetano Arfe' dal titolo "Gaetano Arfe' e le sue tante citta'. Uno storico
militante tra cultura e politica".
Donatella Cherubini, storica, docente all'Universita' di Siena. Tra le opere
di Donatella Cherubini: La formazione ideale di Giuseppe Emanuele Modigliani
e il positivismo italiano, Le Monnier, Firenze 1986; Giuseppe Emanuele
Modigliani: un riformista nell'Italia liberale, Franco Angeli, Milano 1990;
(a cura di), Giuseppe Emanuele: l'altro Modigliani. Pace, Europa e liberta'.
Mostra storico-documentaria, Palombi, Roma 1997; (a cura di, con Marta
Petricioli, Alessandra Anteghini), Les Etats-Unis d'Europe: un projet
pacifiste. The United States of Europe: a pacifist project, Peter Lang,
Berne 2004; (a cura di, con Marta Petricioli), Pour La paix en Europe:
institutions et societe' civile dans l'entre-deux-guerres.
For Peace in
Europe: Institutions and Civil Society between the World Wars, Peter Lang,
Berne 2007.
Gaetano Arfe', figura illustre della sinistra italiana, e' deceduto nel
2007. Dal sito della Fondazione Turati (www.pertini.it/turati) riprendiamo
alcune stralci della scheda a lui dedicata: "Gaetano Arfe' e' nato a Somma
Vesuviana (Napoli) il 12 novembre 1925. Si e' laureato in lettere e
filosofia all'Universita' di Napoli nel 1948. Si specializzo' in storia
presso l'Istituto italiano di studi storici presieduto da Benedetto Croce,
con cui entro' in contatto fin dal 1942. Nel 1944 si arruolo' in una
formazione partigiana di "Giustizia e Liberta'" in Valtellina. Nel 1945 si
iscrisse al Partito socialista e divenne funzionario degli Archivi di Stato
intorno al 1960. A Firenze era gia' entrato in contatto con Calamandrei,
Codignola e il gruppo de "Il Ponte" e aveva collaborato con Gaetano
Salvemini alla raccolta dei suoi scritti sulla questione meridionale. Nel
1965 ottenne la libera docenza in storia contemporanea e insegno' a Bari e a
Salerno. Nel 1973 divenne titolare della cattedra di storia dei partiti e
dei movimenti politici presso la facolta' di Scienze Politiche
dell'Universita' di Firenze. Nel 1959 venne nominato condirettore della
rivista "Mondo Operaio", carica che conservera' fino al 1971. Dal 1966 al
1976 fu direttore dell' "Avanti!". Dal 1957 al 1982 fu membro del comitato
centrale e della direzione del Psi. Nel 1972 venne eletto senatore... Nel
1976 venne eletto deputato... Nel 1979 venne eletto deputato al Parlamento
europeo... Nel 1985 lascio' il Psi, motivando la sua scelta nel volumetto La
questione socialista (1986). Nel 1987 venne eletto senatore per la sinistra
indipendente. Ha scritto numerosi libri e saggi, tra cui la Storia
dell'"Avanti!" (1958) e la Storia del socialismo italiano 1892-1926 (1965)".
Dalla Wikipedia, edizione italiana (http://it.wikipedia.org), riprendiamo
per stralci la seguente scheda: "Gaetano Arfe' (Somma Vesuviana, 12 novembre
1925 - Napoli, 13 settembre 2007) e' stato un politico, giornalista e
storico italiano. Nel 1942, subito dopo la licenza liceale, entra a far
parte di "Italia Libera", un gruppo clandestino di ispirazione azionista e
viene presentato a Benedetto Croce da Ettore Ceccoli, editore e libraio ex
comunista e amico del padre. All'universita' conosce Giorgio Napolitano e
prende a frequentare giovani antifascisti. La polizia pero' lo tiene
d'occhio e i genitori lo mandano da uno zio a Sondrio. Giunto nella citta'
lombarda ai primi del 1943, collabora con alcuni azionisti che aiutano
prigionieri di guerra, perseguitati politici ed ebrei a varcare il confine
svizzero. Arrestato e tornato libero dopo alcune settimane, svolge attivita'
di collegamento tra il Cln di Sondrio e Milano e i partigiani della
Valtellina ai quali si unisce nel 1944 militando in una formazione di
Giustizia e LIberta' fino alla Liberazione. Dopo la guerra, nel 1945 si
iscrive al partito socialista, nel quale rimarra' fino al 1985, e ricomincia
a studiare. Laureatosi in lettere e filosofia a Napoli nel 1948, si
specializza in storia presso l'Istituto Italiano per gli Studi Storici
presieduto da Benedetto Croce. Negli anni Cinquanta, mentre e' funzionario
presso l'Archivio di Stato di Napoli, partecipa ad una manifestazione per la
pace organizzata dalla "Gioventu' meridionale" con l'appoggio del Pci, e per
questo viene trasferito d'autorita' a Firenze, dove entra in contatto con la
rivista "Il Ponte" e con personalita' dell'antifascismo quali Romano
Bilenchi, direttore del "Nuovo Corriere", Delio Cantimori, Cesare Luporini,
Piero Calamandrei e Tristano Codignola. Collabora inoltre con Gaetano
Salvemini alla raccolta degli scritti sulla questione meridionale. Dal 1965
e' libero docente di Storia contemporanea nelle Universita' di Bari e
Salerno. Nel 1973 diviene titolare della cattedra di Storia dei partiti e
movimenti politici presso la facolta' di Scienze politiche dell'Universita'
degli Studi di Firenze. Dal 1959 al 1971 e' condirettore della rivista
socialista "Mondo Operaio", e dal 1966 diviene direttore del quotidiano
socialista "Avanti!", alla cui guida restera' per dieci anni. Proprio a
causa delle inchieste sulle "trame nere" pubblicate sul giornale da lui
diretto, Arfe' e' vittima di un attentato terroristico che il 2 aprile del
1975 devasta la sua abitazione con un ordigno esplosivo, provocando il
ferimento di tre persone. Nel Psi fa parte del comitato centrale e della
direzione del partito dal 1957 al 1982; nel 1972 e' eletto senatore nel
collegio di Parma, e ricopre il ruolo di vicepresidente della Commissione
istruzione e poi della Commissione esteri, ed e' relatore della legge sui
Provvedimenti urgenti per l'Universita'. Nel 1976 e' eletto deputato nel
collegio di Parma-Modena-Reggio-Piacenza; entra nella Commissione affari
costituzionali e rappresenta il gruppo socialista nelle trattative sul
Concordato. Nel 1979 viene eletto deputato al Parlamento europeo per il
collegio Nord-est per le liste del Psi: e' relatore sul tema della politica
televisiva europea e promuove la Carta dei diritti delle minoranze etniche e
linguistiche. E' stato membro della Commissione per la gioventu', la
cultura, l'educazione, l'informazione e lo sport e della Delegazione al
comitato misto Parlamento europeo/Assemblea della Repubblica del Portogallo.
Ha aderito al gruppo parlamentare del Partito del Socialismo Europeo. La
Risoluzione del Parlamento europeo dedicata alla tutela delle minoranze
etniche e linguistiche, approvata il 16 ottobre 1981, e' anche nota come
"Risoluzione Arfe'". Nel 1986, in totale disaccordo col segretario Bettino
Craxi, lascia il partito socialista, e da' alle stampe lo scritto La
questione socialista, con cui motiva la fuoruscita dal Psi. Nel 1987, e'
eletto senatore nel collegio di Rimini come indipendente nelle liste del
Pci. Muore a Napoli il 13 settembre 2007 in seguito ad una crisi
respiratoria. Fra i suoi scritti piu' importanti: Storia dell'Avanti!,
edizioni Avanti!, Milano 1956-1958, ristampato a cura di Franca Assante,
Giannini, Napoli, 2002; Storia del socialismo italiano 1892-1926, Einaudi,
Torino 1965; Storia delle idee politiche economiche e sociali, (cura del V
volume, sull'eta' della rivoluzione industriale), Utet, Torino 1972; La
questione socialista: per una possibile reinvenzione della sinistra.
Einaudi, Torino 1986; I socialisti del mio secolo, a cura di Donatella
Cherubini, Lacaita, Manduria-Bari-Roma, 2002; Scritti di storia e politica,
a cura di Giuseppe Aragno, La Citta' del Sole, Napoli 2005. Numerosi i suoi
scritti ed interventi su personaggi e tematiche di storia dei movimenti
politici, con attenzione anche alle vicende di Giustizia e Liberta',
dell'anarchismo, su momenti e personaggi minori della storia del movimento
operaio. Negli ultimi anni della sua vita ha collaborato con la rivista
online "Fuoriregistro". Opere su Gaetano Arfe': Ciro Raia, Gaetano Arfe'. Un
socialista del mio paese, Piero Lacaita editore, Manduria-Bari 2003". Molti
utili materiali sono nel sito www.amicidigaetano.ilcannocchiale.it]

Ma ormai l'impegno culturale e politico di Gaetano Arfe' si apriva verso
nuovi orizzonti: a meta' degli anni '50 si delineava infatti quel confronto
politico, culturale e infine storico e storiografico, tra Pci e Psi, che ho
prima descritto. Tra le prime tappe di questo processo, si colloca
l'allontanamento del socialista Gianni Bosio dalla rivista "Movimento
operaio", ad opera della componente comunista della sua redazione.
Fu proprio Arfe' a tentare di dialogare, trattare e cercare una soluzione di
accordo, fino ad uno strappo che ne preannunciava altri, in sede piu'
strettamente politica.
Per Gaetano Arfe' questa vicenda implico' uno stretto legame con una nuova
citta', Milano, dove la rivista si stampava e dove operava appunto Gianni
Bosio, insieme ad un gruppo di altri giovani e vivacissimi intellettuali.
Tra questi figurava quel Giovanni Pirelli che Gaetano Arfe' aveva conosciuto
nell'Istituto di Croce, e che lo introdusse quindi in un nucleo di grande
originalita'. Accanto ad un Pirelli che pubblicava le Lettere dei condannati
a morte della Resistenza, ma anche un innovativo e poetico libro di favole
"per bambini e adulti"; accanto ad un Bosio impegnato nel recuperare e
diffondere la cultura socialista, promuovendo iniziative culturali e
editoriali, si collocava Raniero Panzieri, un altro intellettuale "di
finissima intelligenza e raffinata cultura, ottimo conoscitore di Marx" e
attivo in tanti settori culturali e politici (9).
A loro volta, Panzieri, Bosio e Pirelli si inserivano in un variegato
ambiente culturale e politico, che comprendeva scrittori come Franco Fortini
e Elio Vittorini, che si estendeva a Ernest Hemingway nelle sue visite in
Italia, che promuoveva incontri pubblici e privati, dove si parlava di
politica ma anche di tanti altri temi culturali e sociali, spesso
all'avanguardia per l'ancora provinciale societa' italiana. Un attivo
protagonista di quegli incontri - come Ivan Della Mea - ne ha tracciato un
quadro assai efficace (10).
Con spontaneita' e naturalezza, i rapporti si estendevano agli iscritti e
militanti di estrazione non borghese, cosi' come coinvolgevano centri di
cultura e di politica, tra loro diversi ma tutti vivaci: dalla Biblioteca
Feltrinelli, alla locale redazione di un "Avanti!" davvero ricco
culturalmente e radicato sul piano cittadino (11).
Un tale composito fermento era possibile proprio perche' si sviluppava a
Milano, che tra gli anni '50 e '60 rappresentava una realta' urbana
peculiare e unica nel panorama italiano.
La citta' viveva quella trasformazione dovuta all'inizio della grande
immigrazione meridionale: se cio' da un lato portava ad una crescita che
aumentava gli squilibri sociali, dall'altro si univa ad una dimensione
ancora umana dei rapporti, ad una apertura verso gli incontri, i confronti,
le discussioni, le chiacchierate.
Era una Milano che rinnovava le sue tradizioni di capitale morale del paese,
che seppe dare in quella stagione frutti davvero particolari sul piano della
partecipazione politica. Solo a Milano poteva coniugarsi la radicata
tradizione del socialismo umanitario, con i fermenti culturali e politici
che animarono giornali e riviste della sinistra socialista cittadina, come
"Quaderni rossi", "Classe", "Il Labriola". Questa Milano doveva poi cambiare
con l'impatto del '68, e poi con la bomba di Piazza Fontana. Negli anni '70
sarebbe stata diversa, con l'estendersi della motorizzazione, con un
processo di modernizzazione a cui ben presto si unirono le speculazioni
edilizie, fino al progressivo percorso verso la futura "Milano da bere"
degli anni '80.
Tra tutti, e' stato fatto in modo esemplare l'esempio dei vigili urbani,
all'epoca profondamente identificati con la citta' (12): dai ghisa
tradizionali (e come non ricordare il vigile di Toto' e Peppino in Piazza
del Duomo!), in seguito si trasformarono in un corpo ormai inglobato nei
tentacoli di una metropoli piu' moderna, ma complessivamente piu' anonima.
Quella degli anni '50 era stata invece una citta' che ancora richiamava il
Miracolo a Milano di Vittorio De Sica.
Sul piano politico, tra gli anni '50 e '60 la struttura sociale cittadina,
con la presenza di un robusto insediamento operaio, offriva un fondamentale
e concreto riferimento per gli intellettuali (borghesi e di piu' umili
origini) come Bosio, Panzieri, Pirelli e i loro compagni. Legati alla
sinistra di Lelio Basso, erano convinti della necessita' di anteporre la
classe al partito, di sperimentare l'organizzazione operaia di base, di
seguire costantemente l'evoluzione delle lotte di fabbrica (13). Queste loro
posizioni li avrebbero poi portati ad allontanarsi politicamente da Gaetano
Arfe': nel 1957 condivisero con lui la scelta autonomista di Pietro Nenni,
ma quando poi si varo' la linea del centro-sinistra, rimasero su posizioni
fermamente di sinistra, e le loro strade presero altri percorsi.
Il legame personale con Arfe' rimase pero' profondo (14). Dopo la prematura
scomparsa di tutti e tre, Arfe' ha lasciato tante testimonianze di un
affetto fraterno, che continuo' a legarlo anche ad altri protagonisti negli
ambienti milanesi dell'epoca, primi tra tutti i fratelli Ivan e Luciano
Della Mea.
Per Gaetano Arfe' iniziava allora quella stagione di rapporto strettissimo e
"organico" con i vertici del Partito socialista e con la politica del
centro-sinistra. Tra gli anni '50 e '60 scrisse la Storia dell'Avanti e la
Storia del socialismo; nel 1959 venne nominato con Antonio Giolitti
condirettore del mensile "Mondo Operaio", dove rimase insediato per dodici
anni. E ormai entrava in Parlamento e nei vertici romani della politica
nazionale.
*
Tra gli anni '60 e '70, fu percio' Roma a diventare la sua citta', dove si
trasferi' con la moglie e la figlia Caterina dopo l'elezione nel Comitato
centrale del Psi, seguita da quelle di senatore e deputato.
Era la Roma delle istituzioni - dove emergevano il suo impegno e il suo alto
rispetto per l'attivita' parlamentare, tali da procurargli tanti rapporti di
stima e collaborazione (mi limito a ricordare quello con Giorgio
Napolitano).
Era la Roma della politica di partito - che lo vide amichevolmente ed
incisivamente a fianco prima di Nenni e poi dell'antico amico De Martino.
Era la Roma dove Gaetano Arfe' operava attivamente nei rapporti dei
socialisti con le altre componenti della politica: negli incontri e nelle
trattative con democristiani, comunisti, radicali, e tutti gli esponenti di
partiti diversi, si distinse sempre per la moderazione, per la gentilezza
dei toni, per le innate qualita' di mediatore. Qualita' che non lo portarono
pero' ai vertici piu' alti della politica, a cui avrebbe potuto aspirare
("ti manca il lievito dell'ambizione", gli aveva spesso detto Pietro Nenni).
In seguito, con il passare degli anni, con l'affiorare di tante delusioni
politiche, con il cambiare dei modi, dei tempi, dei protagonisti della
politica, il suo rapporto con la capitale era stato incrinato.
Ma Roma era anche la citta' dove fin dagli anni '50 aveva concretizzato il
suo impegno per consolidare e diffondere la cultura socialista. Era stato
infatti a fianco di Vera Modigliani nel promuovere l'Ente per la storia del
socialismo e del movimento operaio, nato appunto per favorire gli studi
storici e ogni iniziativa culturale che mantenesse viva l'esperienza e la
tradizione del socialismo italiano. Le opere pubblicate dall'Essmoi e poi
dalla Fondazione Giuseppe Emanuele e Vera Modigliani hanno costituito
importanti strumenti di lavoro per piu' di una generazione di studiosi
italiani, dalla Bibliografia del socialismo, ai volumi sull'attivita'
parlamentare dei socialisti italiani.
Della Fondazione Modigliani, Gaetano Arfe' e' stato anche presidente; grazie
al suo antico legame con l'Essmoi, io stessa sono diventata biografa di
Giuseppe Emanuele Modigliani, e da quella figura, da quella tradizione, da
quella storia, ho attinto tanto per i miei studi sul socialismo toscano, sul
socialismo italiano, sul pacifismo europeo ed europeista tra '800 e '900, e
sulla cultura politica che intorno a questi ambienti ruotava.
*
Oltre alla promozione della cultura politica socialista, anche il ruolo
della stampa socialista fu sempre fondamentale nell'impegno di Gaetano Arfe'
in seno al Psi. A questo ruolo dette un personale impulso quando rivesti' la
carica di direttore dell'"Avanti!", tra il 1966 e il 1976, dividendosi  tra
Roma e ancora Milano.
Sul piano politico, ma anche in quello della storia del giornalismo
italiano, e' stato spesso sottolineato come l'"Avanti!" di Gaetano Arfe'
abbia rappresentato un esempio di vivacita' culturale; radicamento sul piano
cittadino, per quanto riguarda ancora l'edizione milanese; prestigio
riconosciuto nel panorama della stampa nazionale. Tutte caratteristiche che
in quegli anni lo collocarono ben al di la' del suo ruolo di organo di
partito.
Gaetano Arfe' seppe distinguersi per le doti di giornalista, e nel contempo
per quelle di direttore - che non sempre coincidono. Seppe circondarsi di
validi collaboratori, per i quali proprio questa esperienza costitui' spesso
una palestra e un trampolino, per future e significative carriere. A molti
di loro Gaetano Arfe' rimase legato per tutta la vita da un particolare
rapporto fraterno e paterno, e ricordo tra tutti Ezio Unfer e Marco Sassano.
Tra gli altri, mi limito qui a citare uno dei maggiori storici italiani del
cinema, come Lino Micciche', ma anche un giornalista di cui Arfe' individuo'
subito le grandi doti di umanita', spessore culturale e professionalita',
come Corrado Augias.
Gaetano Arfe' dimostro' fiuto, passione e capacita', come quando, dalla sede
milanese del giornale, senti' prima il boato, poi le prime sirene ed intui'
subito che qualcosa di grave era accaduto, qualcosa che avrebbe cambiato la
storia d'Italia: era il 12 dicembre 1969, era scoppiata la bomba di Piazza
Fontana, era iniziata la "strategia della tensione".
Con il terrorismo nero doveva fare ben presto i conti personalmente, quando
fu ritrovato un ordigno nella sua casa romana, in risposta alle inchieste
che aveva promosso e agli articoli che aveva scritto sulle trame nere e il
ruolo dei servizi di Stato. Del resto, piu' tardi seppe lucidamente
analizzare anche il terrorismo rosso, cosi' come l'impegno del Partito
comunista nella lotta alle Brigate rosse.
Meno importante resto' invece per lui la valutazione della portata che il
movimento del '68 aveva assunto nel cambiamento della societa' italiana, nel
rapporto tra generazioni, nei rapporti di genere. Un cambiamento che non
colpi' particolarmente la sua pur grande sensibilita' di storico: per
Gaetano Arfe' restarono sempre prioritari il legalitarismo, il
parlamentarismo, l'impegno nei partiti, come espressioni della
rappresentanza e della partecipazione politica.
A proposito del '68, rivendicava piuttosto di aver gia' assimilato il
femminismo dagli insegnamenti paterni, cosi' come l'apertura e l'interesse
verso i temi dell'ambiente e tanti altri elementi di cultura
"radicaleggiante".
Nella nuova cultura italiana degli anni '70, Gaetano Arfe' fu in prima linea
nelle battaglie di democrazia laica, ancorandosi sempre, senza ripensamenti
o dubbi, a quelli che erano stati i capisaldi della sua formazione e della
sua pratica politica, in primo luogo il Partito socialista.
*
Proprio le "ragioni di partito" lo portavano allora a diretto contatto con
la provincia centro-settentrionale: eletto in Parlamento nei collegi
emiliani incentrati su Parma, fece subito di Parma una nuova casa.
Nel cuore della provincia emiliana, trovo' una terra ricca di risorse
economiche, ma anche di amori, passioni e tradizioni: il gusto per i convivi
tra amici, la sensibilita' musicale, soprattutto l'impegno politico inserito
in una tradizione "rossa" antica e radicata. In questa terra Gaetano Arfe'
si integro' e si mosse con entusiasmo e piacere, come spesso ha ricordato in
seguito.
Nelle riunioni, nei comizi e in ogni altro incontro di partito ritrovava
quei fattori che tanto l'avevano colpito da giovane, quando il padre gli
parlava di Camillo Prampolini, della sua oratoria calda, dell'affetto e la
stima che lo circondavano, della fama che gli era rimasta e che era arrivata
fino a Somma Vesuviana.
Nei discorsi pubblici per le occasioni celebrative come il 25 aprile o il
Primo maggio, nelle conferenze per gli iscritti di tutta la provincia e di
quelle vicine, ritrovava quel popolo socialista genuino e appassionato, che
aveva costruito sezioni, cooperative, sindacati di citta' e di campagna.
Tutto cio' gli ricordava i socialisti di un tempo, quelli che aveva
riscoperto e descritto nella Storia dell'Avanti! e nella Storia del
socialismo.
Col passare degli anni comincio' a vedere anche quei lati negativi, quelle
degenerazioni di un modello nato in condizioni economiche, sociali e
politiche ormai mutate, che vennero sempre piu' aumentando, e che sul piano
nazionale portarono poi al collasso del Partito socialista. Continuo' allora
ad impegnarsi affinche' prevalessero la ragione, la tradizione, l'orgoglio
di partito; continuo' soprattutto a predicare il verbo socialista, come
aveva fatto Camillo Prampolini.
Fu proprio in Emilia, che alla fine di un suo discorso pubblico gli si
avvicino' un militante, dicendogli con ammirazione: "Tu, compagno, non sei
solo uno storico, sei un cantastorie". E di questa etichetta di cantastorie
Gaetano Arfe' fini' per farne un vezzo e un vanto per tutta la vita (15).
Anche a Parma strinse quindi legami per lui fortissimi e duraturi, destinati
a mantenersi quando ormai la realta' sociale e politica che aveva conosciuto
era stata davvero spazzata via, dai tanti nuovi fattori intercorsi negli
ultimi decenni.
*
Altrettanto stretti legami manteneva anche con Firenze. Dopo la libera
docenza universitaria in Storia contemporanea - e dopo gli incarichi nelle
Universita' di Bari (dove rinsaldo' i legami con la cultura salveminiana) e
Salerno -, nel 1972 era infine approdato al "Cesare Alfieri", su "perentoria
richiesta di Giovanni Spadolini".
A Firenze ritrovo' gli amici di un tempo (tra tutti, rimase particolarmente
legato a Giorgio Spini); nella sua Facolta' incontro' colleghi, studenti e
giovani studiosi, che avvio' e segui' negli studi sui partiti politici, sul
socialismo, sull'europeismo. Per circa venti anni tenne quei corsi cosi'
ricchi di ricordi, valori e insegnamenti, dove lo incontrai anch'io.
La seconda stagione fiorentina conferma inoltre la sua vocazione alla
promozione della cultura socialista, con la sua partecipazione alla nascita
dell'Istituto socialista di studi storici. Un Istituto che subito promosse
importanti iniziative culturali e accademiche, e da cui poi e' emanata
quella Fondazione di studi storici Filippo Turati, che ha raccolto un
cospicuo patrimonio archivistico e librario sulla storia del socialismo
italiano (16).
In questo rinnovato impegno per la cultura socialista, si apriva per lui uno
stretto e ricco confronto con due esponenti della cultura politica
comunista - prima Giorgio Amendola e poi Giorgio Napolitano -, che superasse
le polemiche storiografiche e politiche, per un recupero complessivo della
tradizione della sinistra italiana, in nome dei basilari valori comuni.
Gaetano Arfe' percio' invitava ad un distacco del Pci dal comunismo
internazionale, e si impegnava anche per una attiva collaborazione tra le
due culture.
Delle tante testimonianze sulle iniziative e attivita' di Gaetano Arfe',
doveva poi restare custode proprio la Fondazione Turati, dove avrebbe
lasciato gran parte delle sue carte (17): una consistente mole di carteggi,
documentazione di partito e parlamentare, giornali, riviste, raccolte di
volumi antichi e piu' recenti, e tanti altri documenti, che testimoniano un
percorso ben piu' ampio e articolato di quanto io sia riuscita a ricostruire
in questo mio intervento.
Un percorso, nel quale Gaetano Arfe' ha scritto e letteralmente disseminato
centinaia di articoli, saggi, profili biografici di tanti esponenti della
politica e della cultura italiana. E sarebbe oggi davvero necessario e utile
predisporne uno spoglio completo, possibilmente secondo quella spartizione
che egli stesso mi indicava: i temi di storia delle dottrine e della cultura
dei socialisti italiani; quelli sulla Resistenza - che potrebbero includere
anche le riflessioni sul revisionismo, nato in contrapposizione alla prima
storiografia dell'antifascismo; quelli sulla storia del Partito comunista
italiano - a cui Arfe' gia' nei primi anni '70 riconosceva la possibilita'
di diventare una grande formazione socialdemocratica europea; quelli
sull'europeismo, con scritti storici e politici ma anche con la
documentazione relativa al suo duplice tentativo di promuovere in Italia una
sinistra europea, nel corso degli anni '90 (18).
*
A fronte delle tante case che si era costruito nel tempo, sul finire degli
anni '70 entro' in una crisi irreversibile proprio il rapporto con la sua
vera e originaria casa, il Partito socialista italiano. Gaetano Arfe' doveva
convivere dieci anni con il "nuovo corso" socialista di Bettino Craxi, ma
gia' nel 1979 sembro' ricevere una sorta di declassamento.
La sua candidatura per le prime elezioni a suffragio diretto del Parlamento
europeo lo allontanava infatti dalle sedi centrali della politica italiana.
In realta', come era accaduto con il trasferimento a Firenze negli anni '50,
si tratto' dell'inizio di una nuova e significativa avventura.
Quella dell'Europa unita e dell'europeismo era stata ben piu' che una
suggestione nella formazione e poi nella vicenda successiva di Gaetano
Arfe'. Tante volte ha ricordato come l'esperienza della guerra partigiana
gli avesse dato il senso di una Resistenza europea in nome dei valori di
pace, democrazia, civilta'. Tante volte ha sottolineato il significato del
Manifesto federalista di Ventotene, con il contributo del socialista Eugenio
Colorni; con il contributo di un liberale eretico e a lui tanto caro come
Ernesto Rossi (un altro allievo di Salvemini!); con il contributo del vero
padre dell'europeismo italiano, Altiero Spinelli.
Insieme a Spinelli, e insieme ad un gruppo socialista fortemente motivato,
Gaetano Arfe' visse a Strasburgo una esperienza irripetibile nella difficile
storia dell'unita' europea. Con quella prima delegazione di parlamentari
eletti dai popoli, la capitale europea si trasformava da sede di una casta
burocratica e sostanzialmente anonima, in un centro vivace e ricco di
iniziative pubbliche e private. I parlamentari piu' profondamente europeisti
proseguivano nei caffe' e nei ristoranti i dibattiti tenuti in aula, fino a
fondare il "club del coccodrillo", dal nome appunto di un locale in cui
Spinelli lanciava le sue proposte per una incisiva trasformazione politica
dell'Europa integrata.
Per Gaetano Arfe' fu una esperienza che lo riportava a contatto con antichi
amici e compagni, come Mauro Ferri, Mario Zagari, Giorgio Amendola, e che
comprendeva tra gli altri Enrico Berlinguer, Giorgio Ruffolo, Simone Veil,
Helmut Kolh, Jacques Chirac.
I parlamentari eletti nel 1979 sapevano di costituire una pattuglia di
pionieri, e intendevano innanzitutto legittimare il proprio ruolo rispetto
alle altre istituzioni comunitarie (specialmente la Commissione europea).
Percio' furono assai incisivi nella loro azione, affrontando tra l'altro la
questione relativa alla realta' dei paesi comunisti, quella dei rapporti con
il Terzo mondo, della xenofobia, fino a redigere un primo progetto di
Costituzione.
In tale ambito, il personale impegno di Gaetano Arfe' e' stato intenso, in
primo luogo come promotore, autore e relatore della Carta dei diritti delle
minoranze etniche e linguistiche. Ma anche con il suo contributo nel
prospettare un progetto di televisione europea, davvero tempestivo e ancora
irrealizzato.
L'impegno di quei parlamentari testimonia le grandi questioni della storia
dell'integrazione europea, quali si erano poste fin dall'immediato
dopoguerra; quali sono affiorate con la trasformazione sociale, economica e
politica della societa' contemporanea. Si tratta di questioni che ancora
segnano il destino dell'attuale Unione europea, dopo le varie fasi di
allargamento e la difficile gestazione di una Costituzione comune per tutti
i paesi membri.
Tante di quelle decisioni costituiscono ancora oggi un riferimento
fondamentale. Nel contempo, tante di quelle proposte confermano la propria
portata innovativa e lungimirante, proprio perche' rimangono tuttora
disattese, a causa delle difficolta' per l'unita' europea, che si sono
presentate o rinnovate nel tempo. Sono cioe' ferme proprio allo scadere di
quella legislatura, nel 1984.
*
Con la meta' degli anni '80 - con l'uscita da un partito che era stato la
sua casa e in cui non poteva piu' riconoscersi -, iniziava il lungo, ultimo,
difficile periodo della vita di Gaetano Arfe'.
In una politica ormai stravolta rispetto ai moduli che egli aveva praticato
per tanti anni, continuo' a mantenere i contatti, venne ancora eletto nel
Parlamento italiano, continuo' a scrivere per tanti giornali e riviste di
tutta l'Italia. Aspirava soprattutto a preservare la continuita' dei valori
dell'antifascismo e della Resistenza, da cui era nata quella cultura
politica che sembrava ora definitivamente spezzata dalla crisi - partitica,
culturale, morale - degli anni '90. Per lui - del resto - l'autocritica
poteva limitarsi ad ammettere la carica ideologica presente nella
storiografia militante. Nei suoi scritti erano stati infatti sempre presenti
la polemica antistalinista, il rifiuto di piegare lo storicismo crociano al
determinismo comunista, il costante riferimento ai principi democratici e
alla moralita' della politica (19).
Pensava ancora di trovare soluzioni ad una impasse in cui vedeva precipitare
la tradizione storica e culturale della sinistra italiana; si sforzava di
suggerire progetti e iniziative culturali e politiche, in particolare le due
che ho ricordato sulla nascita di una sinistra europea. Ma la politica, la
cultura, e anche l'universita', si dimostravano per lui sorde e sempre piu'
distanti.
La situazione familiare, con la malattia della moglie, lo spinse a rientrare
a Napoli (e dal "Cesare Alfieri" all'Universita' Federico II). Seppur tra le
tante delusioni che si susseguivano, nella citta' della sua gioventu' pote'
anche ritrovare familiari e amici, ricostituire un nucleo di collaboratori,
studenti, allievi, che tanto gli hanno dato, e che ho salutato davanti a lui
nel mio discorso di addio.
Tra tutti, ricordo qui Maria Teresa Proto-Pisani Giordano, da sempre
impegnata nella vita culturale napoletana, contribuendo a testimoniare
quanto la cultura, la civilta', l'intellettualita' di questa citta' siano
vivaci, ricche, impegnate a non cedere alle difficolta', pur nella crisi che
Napoli sta oggi vivendo.
Oggi, Gaetano Arfe' manca a tante persone, a Napoli e nelle sue tante altre
citta'; la cultura politica del nostro paese avrebbe ancora bisogno di
figure come la sua, capaci di diffondere e condividere valori, principi,
cultura, umanita'. Come dissi iniziando il mio discorso funebre - a me
manchera' anche, per sempre, la possibilita' di condividere con lui i dubbi
sulla stesura di un saggio, l'entusiasmo per aver trovato un documento, la
soddisfazione per un traguardo conseguito, i timori per i traguardi futuri.
Con nessuno potro' piu' farlo, come ho fatto con Gaetano Arfe'. Quella
possibilita' esclusiva, e' il grande privilegio di chi ha avuto un maestro.
*
Note
* Questo contributo riproduce la relazione tenuta il 17 gennaio 2008 nella
commemorazione di Gaetano Arfe', presso il Dipartimento di Scienze dello
Stato della Universita' degli Studi Federico II di Napoli, con
l'introduzione del professor Andrea Graziosi, la partecipazione della
professoressa Daniela Luigia Caglioti, l'intervento del professor Giuseppe
Aragno. Le parti dedicate alle stagioni napoletana e fiorentina di Gaetano
Arfe' sono riprese pressoche' integralmente da: D. Cherubini, Introduzione,
in G. Arfe', I socialisti del mio secolo, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita
Editore, 2002. Cfr. inoltre  G. Arfe', Scritti di storia e politica, a cura
di G. Aragno, Napoli, La Citta' del Sole, 2005. La parte dedicata alla
stagione milanese e' principalmente basata su: M. Cini, Il cappotto di
Hemingway, Intervista a Ivan Della Mea, in "Il Grandevetro", a. XXVI, n.
167, luglio-settembre 2003; P. Mencarelli, Luciano Della Mea giornalista
militante, Scritti 1949-1962, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita Editore,
2007. Nelle note vengono percio' citati solo questi testi, oltre agli
scritti di Gaetano Arfe' di cui si sono riportati alcuni passi, con
particolare riferimento a quelli conservati presso la Fondazione di Studi
Storici Filippo Turati di Firenze. Si e' scelto di non apportare ulteriori
cambiamenti nella forma, nella struttura e nel contenuto, per conservare  il
tono diretto e commemorativo del testo originario.
9. D. Cherubini, Introduzione, in G. Arfe', I socialisti del mio secolo,
cit.
10. M. Cini, Il cappotto di Hemingway, Intervista a Ivan Della Mea, cit.
11. P. Mencarelli, Luciano Della Mea giornalista militante, cit.
12. M. Cini, Il cappotto di Hemingway, Intervista a Ivan Della Mea, cit.
13. P. Mencarelli, Luciano Della Mea giornalista militante, cit.
14. Cfr. G. Arfe', Indissubdibilmente legato ai suoi compagni di allora, in
"Il Grandevetro", a. XXVI, n. 167, luglio-settembre 2003.
15. G. Arfe', Storie di Storici, in "Quaderni del Dipartimento di Scienze
Storiche e Sociali dell'Universita'  degli Studi di Salerno", n. 1, a cura
di G. Imbucci, Salerno, 2004, ora in G. Arfe', Scritti di storia e politica,
cit.
16. D. Cherubini, Introduzione, in G. Arfe', I socialisti del mio secolo,
cit.
17. Fssft, Fa.
18. D. Cherubini, Introduzione, in G. Arfe', I socialisti del mio secolo,
cit.
19. Ibidem.

3. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

4. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir@peacelink.it, luciano.benini@tin.it,
sudest@iol.it, paolocand@libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info@peacelink.it
***
LIBRI. UN ESTRATTO DA "NEL SEGNO DELL'ESILIO" DI EDWARD W. SAID
[Dal sito www.feltrinellieditore.it riprendiamo il seguente estratto
dall'introduzione ("La critica e l'esilio") del libro di Edward W. Said, Nel
segno dell'esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano
2008. Libro presentato nel sito con la seguente scheda "A quattro anni dalla
morte, il carisma di Edward Said non accenna a diminuire. Critico
letterario, musicista, militante palestinese, Said sfugge a ogni tentativo
di classificazione: un intellettuale la cui influenza e' ben lontana
dall'essere confinata al mondo accademico. Nel segno dell'esilio rispecchia
questa sua versatilita'. E' una raccolta di quarantasei saggi, scelti da
Said stesso e scritti tra il 1970 e il 2000, su una sorprendente varieta' di
argomenti: la diaspora palestinese, i ricordi di gioventu' al Cairo e
Alessandria (con un saggio straordinario dedicato a una famosa danzatrice
del ventre), il confronto tra culture, ma anche il machismo di Hemingway e
l'epica di Tarzan. E ancora: George Orwell, Giambattista Vico, Naguib
Mahfouz, Joseph Conrad, Antonio Gramsci, E. M. Cioran, T. E. Lawrence, W. S.
Naipaul, Eric Hobsbawm, in ritratti che confermano Said come uno dei piu'
importanti ed eleganti critici letterari del nostro tempo. Su tutti, il
saggio che da' anche il titolo al libro: una riflessione profonda e intensa
sull'esilio, il luogo impossibile attorno a cui ruotano la biografia e
l'intero percorso intellettuale di Said, esilio che e' anche il filo rosso
che attraversa tutta questa raccolta di scritti, nella cui ricchezza e
magnificenza l'elemento biografico e quello generale, il personale e il
politico sembrano ricomporsi".
Edward Said, prestigioso intellettuale democratico palestinese, uno dei piu'
grandi umanisti del secondo Novecento, era nato a Gerusalemme nel 1935,
autore di molti libri, tradotti in 26 lingue, docente di letteratura
comparate alla Columbia University di New York, a New York e' deceduto il 25
settembre 2003. Dal sito della casa editrice Fetrinelli rirpendiamo la
seguente scheda: "Edward W. Said e' nato nel 1936 a Gerusalemme. Esiliato da
adolescente in Egitto e poi negli Stati Uniti, e' stato professore di
Inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University di New York.
Formatosi a Princeton ed Harvard, Said ha insegnato in piu' di
centocinquanta Universita' e scuole negli Stati Uniti, in Canada ed in
Europa. I suoi scritti sono apparsi regolarmente sul 'Guardian' di Londra,
'Le Monde Diplomatique' ed il quotidiano in lingua araba 'al-Hayat'. Nel suo
libro Orientalismo - pubblicato per la prima volta nel 1978 - ha analizzato
l'insieme di stereotipi in cui l'Occidente ha chiuso l'Oriente, anzi, l'ha
creato. Questo saggio ha conosciuto un successo mondiale ed e' piu' che mai
di attualita' perche' rievoca la storia dei pregiudizi popolari anti-arabi e
anti-islamici e rivela piu' generalmente il modo in cui l'Occidente ha
percepito 'l'altro'. Edward W. Said ha sempre lottato per la dignita' del
suo popolo e contro coloro che hanno demonizzato l'Islam. Ex socio del
Consiglio Nazionale Palestinese, fu un negoziatore 'nell'ombra' del
conflitto arabo-israeliano. A causa della sua pubblica difesa
dell'autodeterminazione palestinese, a Said e' stato impedito l'ingresso in
Palestina per molti anni. Si e' opposto agli accordi di Oslo ed al potere di
Yasser Arafat, che ha fatto vietare i suoi libri nei territori autonomi.
Conosciuto tanto per la sua ricerca nel campo della letteratura comparata
quanto per i suoi interventi politici incisivi, Said e' stato uno degli
intellettuali piu' in vista negli Stati Uniti. La sua opera e' stata
tradotta in quattordici lingue. E' morto a New York il 25 settembre 2003".
Tra le opere di Edward W. Said segnaliamo: Orientalismo, Bollati
Boringhieri, Torino 1991, poi Feltrinelli, Milano 1999; La questione
palestinese. La tragedia di essere vittime delle vittime, Gamberetti, Roma
1995; Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995; Cultura e
imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente,
Gamberetti, Roma 1998; Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele,
Feltrinelli, Milano 1998; Dire la verita'. La convivenza necessaria, Indice
internazionale, Roma 1999; Sempre nel posto sbagliato, Feltrinelli, Milano
2000; Fine del processo di pace. Palestina/Israele dopo Oslo, Feltrinelli,
Milano 2002; Il vicolo cieco di Israele, Datanews, Roma 2003; (con Daniel
Barenboim), Paralleli e paradossi. Pensieri sulla musica, la politica e la
societa', Il Saggiatore, Milano 2004; La pace possibile, Il Saggiatore,
Milano 2005; Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, Il Saggiatore,
Milano 2007; Il mio diritto al ritorno. Intervista con Ari Shavit, "Ha'aretz
Magazine", Tel Aviv 2000, Nottetempo, 2007; Nel segno dell'esilio.
Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano 2008]

Scritti nell'arco di piu' o meno trentacinque anni, questi saggi e questi
articoli restituiscono il senso complessivo del mio lavoro di insegnamento e
di studio in un'istituzione accademica particolare, la Columbia University
di New York: qui sono arrivato fresco di laurea nell'autunno del 1963, e qui
sono rimasto come docente nel Dipartimento di inglese e letterature
comparate. Al di la' della soddisfazione per la durata della mia permanenza
in un luogo, l'universita' americana, che per chi ci insegna e per molti che
ci studiano resta ancora l'ultima vera utopia, e' soprattutto New York ad
aver giocato un ruolo decisivo sul tipo di lavoro critico e interpretativo
che ho svolto, e di cui questo libro costituisce una sorta di archivio.
Dinamica, elettrizzante, eclettica, carica di energia, instabile e
totalizzante, New York e' oggi cio' che Parigi e' stata un secolo fa: la
capitale del nostro tempo. Puo' apparire paradossale, per certi versi
ridondante aggiungere che la centralita' di questa citta' sia dovuta proprio
all'eccentricita' e al particolare mix dei suoi attributi, ma credo che in
fondo corrisponda al vero. E non si tratta di un carattere sempre positivo e
confortevole: soprattutto per chi vi risiede senza essere in qualche modo
legato a interessi finanziari, immobiliari o nel mondo dei media, lo strano
statuto di New York, cio' che ne fa una citta' diversa da tutte le altre,
rappresenta piu' che altro un aspetto problematico nella vita quotidiana,
dal momento che la marginalita' e la solitudine dell'outsider possono
facilmente avere il sopravvento sulla familiarita' dell'abitarci.
Per buona parte del XX secolo la vita culturale di New York e' parsa
svilupparsi lungo mille rivoli, del resto evidenti, la maggior parte dei
quali determinati dalla particolare collocazione geografica della citta',
principale porto d'accesso americano. Ellis Island, luogo par excellence
dell'immigrazione, ha visto infrangersi sui suoi scogli ondate di
popolazioni tra le piu' povere della societa' americana, per le quali New
York rappresentava il primo e il piu' delle volte definitivo luogo di
approdo: irlandesi, italiani, europei dell'Est di origine ebraica e non,
africani, caraibici, mediorientali e asiatici. Da queste comunita' migranti
ha tratto origine buona parte dell'identita' della citta' come cuore
pulsante e centro radicale della vita politica e artistica, incarnato nei
movimenti socialisti e anarchici, nella Harlem Renaissance e nelle
sperimentazioni nel campo delle arti figurative, della fotografia, della
musica, del teatro. Tali sradicate narrative urbane hanno via via acquisito
uno status per certi versi canonizzato (come testimoniano i tanti musei, le
scuole, le universita', le sale da concerto, i teatri lirici e di prosa, le
gallerie d'arte e le compagnie di danza) conferendo a New York quel suo
particolare carattere di palcoscenico permanente, ma facendole
progressivamente smarrire ogni reale contatto con le sue radici migranti.
Come capitale dell'editoria, per esempio, New York non e' piu' il luogo in
cui scrittori ed editori d'avanguardia potevano avventurarsi in territori
inesplorati, ed e' invece diventata punto di massima concentrazione dei
principali colossi mediatici globali. Anche Greenwich Village, cuore
pulsante della boheme americana, ha da tempo smesso di battere, come del
resto la maggior parte delle piccole riviste e delle comunita' di artisti
che la alimentavano. Quella che resta e' una citta' di migranti e di esuli,
in permanente tensione con il centro simbolico (e per lo piu' reale)
dell'economia globalizzata del tardo capitalismo, il cui potere selvaggio,
proiettato economicamente, militarmente e politicamente su ogni angolo del
pianeta, dimostra una volta di piu' quanto l'America rappresenti oggi
l'unica superpotenza globale.
*
Quando arrivai a New York c'erano ancora tracce del fermento che aveva
scosso i piu' rinomati gruppi intellettuali che facevano capo alla "Partisan
Review", al City College e alla Columbia University; qui, in particolare,
potevo contare sulla presenza di Lionel Trilling e Fred W. Dupee, entrambi
grandi amici oltre che colleghi molto premurosi del Dipartimento di inglese
(come ancora lo si chiamava allora, per distinguerlo dal piu' austero Corso
di laurea in lingua e letteratura inglese). Ben presto, pero', mi resi conto
che le battaglie che vedevano coinvolti gli intellettuali newyorkesi, per
esempio l'annoso dibattito sul superamento dello stalinismo e del modello
comunista sovietico, non toccavano le corde emotive mie e della mia
generazione, per la cui formazione politica i movimenti per i diritti civili
e la resistenza contro la guerra in Vietnam rappresentavano questioni ben
piu' urgenti. E per quanto abbia sempre nutrito un profondo affetto per
Trilling, che sentivo come un collega piu' anziano, quasi un mentore, e
soprattutto un amico, a influenzarmi quando iniziai a scrivere e insegnare
fu soprattutto lo spirito aperto e radicale di Fred Dupee: la sua prematura
scomparsa, nel 1979, ha prodotto un incolmabile senso di vuoto e di
tristezza, che sento forte ancora oggi. Dupee era in primo luogo uno
straordinario saggista (come per lo piu' lo stesso Trilling), e in un senso
piu' specificamente intellettuale e politico pure un vero sovversivo: un
uomo di inimitabile charme, capace di distillare doni intellettuali che
sentivo infinitamente piu' liberi di quelli di molti suoi colleghi del
milieu anglofilo cosi' connaturato allo stile intellettuale newyorkese, tra
i cui vizi peggiori persisteva uno stucchevole narcisismo e una fatale
propensione a spostarsi su posizioni sempre piu' arrogantemente
conservatrici. Niente di tutto questo valeva per Fred. Fu lui a incoraggiare
il mio interesse per le novita' che provenivano dal pensiero francese, dalla
letteratura e dalla poesia sperimentali e soprattutto dall'arte della
saggistica, intesa come strumento per esplorare il nuovo del nostro tempo,
senza lasciare che mi smarrissi in quanto nella nostra professione
continuava a riprodursi stancamente. Ed e' stato sempre Fred Dupee che, dopo
il 1967, all'indomani dell'enorme debacle araba, ha appoggiato la mia
battaglia solitaria in nome della causa palestinese con la stessa energia
con cui rimase fedele fino alla fine agli ideali politici radicalmente
antiautoritari del suo trotskismo giovanile. Per inciso, vale la pena
ricordare che Dupee e sua moglie Andy sono stati i soli amici nell'ambito
accademico newyorkese a provvedere materialmente alla mia visita a Beirut, a
quel tempo (nell'autunno del 1972) epicentro delle politiche rivoluzionarie
del Medio Oriente. Li' ho potuto trascorrere il mio primo intero anno
sabbatico (da quando, nel 1951, ero partito come studente per gli Stati
Uniti) rifamiliarizzando con la cultura arabo-islamica attraverso lo studio
quotidiano della filologia e della letteratura araba.
L'esperienza del 1967, il riemergere del popolo palestinese come forza
politica e il mio coinvolgimento diretto in quel movimento, sono stati il
modo in cui New York mi ha permesso di sopravvivere, nonostante e contro le
frequenti minacce di morte, gli atti di aggressione e gli abusi che io e la
mia famiglia abbiamo dovuto subire. In questo ambiente decisamente piu'
movimentato e dinamico di quello isterico in cui erano immersi molti
intellettuali newyorkesi (definitivamente discreditati, a mio avviso, dal
meschino coinvolgimento nelle strategie "culturali" adottate dalla Cia nella
guerra fredda), una serie di idee e di interessi piuttosto diversi e lontani
da quanto veniva prodotto all'interno della "Partisan Review" - sulle cui
pagine ho comunque pubblicato uno dei primi saggi contenuti in questa
raccolta - sono gradualmente affiorati nel mio lavoro, arrivando a una prima
formulazione esplicita in Beginnings: Intention and Method, per poi
definirsi ulteriormente in Orientalismo e acquisire sempre piu' importanza
in tutto quanto ho scritto successivamente sulla Palestina. Questi interessi
e questa urgenza, almeno credo, sono diventati piu' pressanti e piu' chiari
grazie all'altra New York, quella delle comunita' diasporiche provenienti
dal Terzo mondo, della politica degli espatriati, e quella effervescente dei
dibattiti culturali, della cosiddetta guerra dei canoni, destinata a
dominare la vita accademica per tutti gli anni Ottanta e i successivi.
Introducendomi a questa New York altra, sconosciuta o disprezzata
dall'establishment, Fred Dupee mi indicava indirettamente la strada da
seguire, non tanto per quello che poteva davvero dirmi sulla citta' degli
apolidi, quanto piuttosto per il suo modo di fare curioso e per il costante
incoraggiamento che lui, sradicato, audace e ospitale nativo nordamericano,
poteva offrire a me, outsider appena arrivato.
*
L'ingente spostamento migratorio generato dalle guerre, dal colonialismo e
della decolonizzazione, da rivoluzioni politiche ed economiche o da fattori
tanto devastanti come la fame, le pulizie etniche e altre piu' generali
forme di esercizio brutale del potere, rappresenta a mio avviso l'evento
piu' significativo degli ultimi tre decenni. In un luogo come New York, e
certamente anche in altre metropoli occidentali come Londra, Parigi,
Stoccolma o Berlino, tutto cio' si e' immediatamente riflesso in cambiamenti
radicali che hanno ridisegnato quasi di ora in ora interi quartieri, forme
di lavoro e professioni, la stessa produzione culturale e la topografia
urbana. Esuli, migranti, rifugiati e apolidi, sradicati dalle proprie terre,
sono costretti a fare i conti con un nuovo paesaggio, e la creativita', come
del resto la profonda infelicita' che si attribuisce al modo di fare di tali
soggetti "fuori posto", costituisce di per se' una delle esperienze che
devono ancora trovare una loro narrazione e un loro narratore - sebbene una
straordinaria schiera di scrittori che comprende figure tra loro anche molto
differenti come Salman Rushdie e V. S. Naipaul si sia gia' inoltrata sul
sentiero aperto per la prima volta da Conrad.
E nondimeno, malgrado la pervasivita' per estensione e determinazione di
questi ampi movimenti storici, e' sempre stata forte la resistenza che vi si
e' opposta, ora in termini di cori stridenti che incitavano a un ritorno "al
grande libro della 'nostra' cultura", ora nello sconcertante razzismo che ha
dato tragica prova di se' in ripetuti attacchi contro ogni cultura,
tradizione o popolo che non fosse occidentale, attraverso manifestazioni a
cui spesso non si e' prestato il necessario livello di attenzione e allarme.
Malgrado e contro tutto cio', un piu' generale processo di revisione ha
preso corpo all'interno di un dibattito culturale a cui credo di aver
offerto a mio modo un contributo, in particolare attraverso la critica
dell'eurocentrismo, facendo si' che lettori e critici potessero vedere la
relativa poverta' delle politiche identitarie, la stupidita' di ogni
affermazione di purezza riferita a una dimensione essenzialistica ed
essenzializzata di appartenenza, e l'assoluta falsita' insita nell'assegnare
a una determinata tradizione una pretesa priorita', nei fatti assolutamente
inverificabile, su tutte le altre. Per farla breve, non si finisce mai di
rendersi conto di quanto le culture siano sempre un'accozzaglia di discorsi
misti, eterogenei, perlopiu' contraddittori; in un certo senso non sono mai
cosi' tanto se stesse quanto nel momento in cui non sono solo se stesse,
ovvero quando non si trovino in quella condizione totalmente assertiva,
aggressiva e repellente cui sono piegate da figure autoritarie, dai mullah e
dai farisei del presente, che pretendono di parlare in nome di totalita', di
culture nella loro impossibile integrale unita'. Nei fatti nessuna di queste
affermazioni e di queste tesi e' plausibile e possibile, nonostante gli
sforzi e l'enorme massa di carta spesi a tal fine...

2. LIBRI. GIULIANA BENVENUTI PRESENTA "NEL SEGNO DELL'ESILIO" DI EDWARD SAID
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 luglio 2008 col titolo "Cronahce
dall'esilio. Gli stranieri domestici di Edward Said" e il sommario
"Pubblicato da Feltrinelli il volume dello studioso sulla figura
dell'intellettuale a partire dall'esperienza storica dello sradicamento.
Assieme alla puntuale critica dell'essenzialismo identitario che spesso
segna le pratiche teoriche e i movimenti nel Sud e nel Nord del mondo".
Giuliana Benvenuti, italianista, insegna e svolge attivita' di ricerca
al'Universita' di Bologna. Tra le opere di Giuliana Benvenuti: La cenere
lieve del vissuto. Il concetto di critica in Walter Benjamin, Bulzoni, Roma
1994; Il disinganno del cuore. Giacomo Leopardi tra malinconia e stoicismo,
Bulzoni, Roma 1998]

Come mostra la traduzione italiana di un volume che contiene saggi scritti
in trentacinque anni di attivita' (Nel segno dell'esilio. Riflessioni,
letture e altri saggi, Feltrinelli, pp. 655, euro 45), Edward Said ha fatto
dell'esilio il centro propulsore della propria attivita' intellettuale. E lo
ha fatto rifiutandone ogni possibile estetizzazione, ricordando che "i poeti
e gli scrittori esiliati attribuiscono dignita' ad una condizione che in
termini legislativi intende negare dignita' e identita' alla persona".
Mantenendo ferma l'attenzione alle specificita' geo-politiche dell'esilio,
Said si sofferma sulle potenzialita' insite in un'esperienza controversa e
drammatica, destinata, secondo l'indicazione deel filosofo tedesco Theodor
W. Adorno nei Minima Moralia, a universalizzarsi nell'epoca dei genocidi,
nella quale dev'essere posto il vincolo morale di non sentirsi a casa in
nessuna casa. L'esilio, per l'intellettuale, diventa allora una condizione
obbligata e nel contempo feconda, poiche' "l'esule sa che in un mondo
secolare e contingente le dimore sono sempre provvisorie". Sa che i confini
e le barriere che ci rinchiudono nella sicurezza del territorio familiare
possono anche diventare prigioni, e che sono spesso difese al di la' della
ragione o della necessita'. La condizione dell'esilio porta cosi' a una
"coscienza critica" consapevole delle differenze tra le diverse situazioni
che nessun sistema o nessuna teoria esauriscono la situazione dalla quale
emergono o nella quale sono trasposte.
*
Dissonanza dell'outsider
Edward Said traccia la figura di un intellettuale che non vuole scendere a
patti con il potere, che rimane ai margini del mainstream scegliendo di non
integrarsi, di non lasciarsi cooptare, di opporre resistenza. E la prima
resistenza che Said, figura intellettuale eccentrica nell'Accademia
statunitense, e' quella contro l'eccesso di teoria. Un eccesso che ha
caratterizzato il New Criticism, bersaglio polemico privilegiato di Said,
che continuamente ricorda nei suoi scritti l'assoluta necessita' di non
eclissare, nascondere, obliare l'esperienza.
L'esperienza, in primo luogo l'esperienza storica, e' il centro al quale
Said richiama la critica letteraria, che deve mettere in evidenza i nessi
tra sapere e potere a partire dal testo, ma anche dalle circostanze
materiali nelle quali il testo e' stato prodotto. Critico letterario contro
corrente, Said ha dimostrato con le proprie letture lo stato di continua
tensione che caratterizza una scrittura che presuppone, sollecita e pretende
una sorta di perpetua mobilita', di incessante interrogazione sulle
condizioni entro le quali la riflessione propria e altrui prende forma, che
pratica una "inarrestabile predilezione per le alternative".
Said insite sull'utilizzo in chiave metaforica, o anche "metafisica", del
termine esilio. Anche gli intellettuali che restano per l'intero corso della
loro vita membri di una societa' possono essere outsiders, praticare forme
di "dissonanza", di resistenza e dissenso. In questo senso ampio, l'esilio
significa per l'intellettuale irrequietezza, movimento, la sensazione di
essere dislocati altrove, disagio, mettendo a sua volta a disagio gli altri.
La marginalita' dell'esilio, che e' dunque non soltanto condizione reale, ma
anche scelta consapevole, porta con se' una carica di innovazione possibile,
diviene la base di una pratica intellettuale che nell'opera di Said trova i
propri modelli, accanto a Giambattista Vico e per fare soltanto qualche
altro esempio, in Thedor Adorno, C.L.R. James, Frantz Fanon, Noam Chomsky,
Michel Foucault, Jonathan Swift, Antonio Gramsci, Joseph Conrad, Aime'
Cesaire. E' una posizione che colloca l'intellettuale in sintonia con il
subalterno.
Essere, in senso metaforico e non, intellettuali in esilio, vuole dire
inoltre avversare e decostruire l'idea stessa di letteratura fondata sul
riconoscimento di un canone stabile di testi tramandati e posti a fondamento
dell'identita' nazionale. Significa praticare la critica quale luogo di
discussione e ridefinizione dell'identita' anche alla luce di una produzione
letteraria, quella della letteratura di migrazione, che vive nelle pieghe
della "doppia coscienza" ed e' portatrice di una "doppia prospettiva"
destinata ad incrinare la nostra percezione dei "classici" e a ricordarci
che occorre uscire dal "labirinto della testualita'".
*
Umanesimo esclusivo
Nella realta' contemporanea la tradizione dell'umanesimo europeo dimostra
cosi' di essere piu' esclusiva che inclusiva, svelandosi per cio' che e'
sempre stata, ovvero una frazione delle relazioni umane che si danno nel
mondo. Per questo, secondo Said, occorre procedere ad una demistificazione
di questo falso universalismo e preparare le condizioni di possibilita' di
un nuovo umanesimo. L'assunzione di questa prospettiva implica per un verso
una decostruzione del canone occidentale, per altro verso l'apertura negli
studi accademici verso cio' che e' prodotto al di fuori del canone. Ma
implica anche una critica serrata alla nozione di multiculturalismo dove la
costruzione di una immagine dell'altro si addensa attorno alle idee di
identita', cultura ed etnia e alla loro pretesa fissita': un'immagine che
sorge dalla convinzione diffusa che la capacita' di riconoscere la
differenza discenda dalla universalita' della cultura occidentale.
In Said, la figura dell'esule si contrappone quindi alla mistificante
semplificazione dell'essenzialismo identitario, indicando la potenzialita'
critico-distruttiva, ma anche felicemente creativa, del collocarsi tra
culture e identita' diverse, senza dimenticare la drammaticita' e la
tensione, finanche l'angoscia inscritte in questa stessa condizione. Ma,
soprattutto, la categoria che piu' ci soccorre nel mantenere aperta la
definizione del migrante, dell'esule, come di ogni altra "identita'", e'
proprio quella di coscienza critica, che altro non e' se non un'attitudine.
Un'attitudine, potremmo aggiungere, particolarmente in sintonia con una
disposizione accogliente nei confronti della differenza, almeno quanto
aspramente oppositiva verso il conformismo e aperta al riconoscimento dei
propri errori e fallimenti.
Poiche', secondo Said, l'idea di identita' nazionale e' stata portata al suo
massimo dispiegamento dall'imperialismo, occorre evidenziare come la nascita
di partiti indipendentisti e nazionalisti nel Terzo mondo e all'interno dei
paesi del Nord e del Sud America "rappresenti una risposta alla dominazione
politica e culturale dell'Occidente". Se nel nazionalismo antimperialista
della meta' del Novecento albergava una potente aggressivita' "nativista" e
una spinta violentemente separatista, a contraddistinguere i grandi
movimenti culturali e di liberazione era anche, per altro verso, una potente
istanza di liberazione e inclusione. Un nesso quest'ultimo, tra istanza
separatista e carica liberatoria e inclusiva che Said tenta di analizzare
nei saggi dedicati alle politiche del sapere, dove emerge il suo
ripensamento dell'umanesimo, quello che lo ha poi accompagnato nella stesura
del suo ultimo libro (Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, Il
Saggiatore, pp. 175, euro 16).
La convinzione che emerge dagli scritti raccolti in Nel segno dell'esilio e'
che possa darsi, una volta sgombrato il campo da un umanesimo occidentale
che si fonda su aspetti anti-universalistici, un linguaggio universalmente
umano, che si collochi oltre le rivendicazioni, necessarie in un primo
momento, e le politiche identitarie di matrice nazionalista proprie dei
movimenti indipendentisti e autonomisti che hanno dato origine ai nuovi
Stati.
*
Il paradosso del nazionalismo
Un aspetto che gia' Frantz Fanon aveva messo in luce, parlando di "trappola
della coscienza nazionale". Occorre, insomma, superare il paradosso iscritto
nel nazionalismo indipendentista, trasformando il nazionalismo in "coscienza
sociale" che superi ogni sorta di "separatismo autoreferenziale", muovendo
verso un'elaborata e compiuta coscienza di se', che non sostituisca "un set
di autorita' e dogmi con un altro, un centro con un altro". Per far questo
Said rivolge alla critica e all'impegno intellettuale l'appello a divenire
consapevoli che si deve considerare il processo culturale nella sua
globalita', tenendo sempre a mente che un impegno di questo tipo "coincide
con il lavoro intellettuale, che ha un carattere mondiale, che e' situato
nel mondo e concerne il mondo". Bisogna, allora, uscire dai gerghi tecnici e
specialistici, negare che i prodotti dell'agire umano possano essere "tanto
rari, limitati e al di la' della comprensione da escludere la maggior parte
degli altri popoli, delle esperienze, delle storie". Questo il senso di un
nuovo umanesimo piu' universale, fondato sulla critica della discriminazione
razziale, ma anche della rigida chiusura delle "identita' resistenti", nella
convinzione che "nessuna razza ha il monopolio della bellezza,
dell'intelligenza e della forza, e ci sara' un posto per tutti
all'appuntamento con la vittoria".

3. LIBRI. SANDRO MEZZADRA PRESENTA "NEL SEGNO DELL'ESILIO" DI EDWARD SAID
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 luglio 2008 col titolo "Pratiche di
resistenza" e il sommario "Prove d'autore nella germinale esperienza dello
sradicamento. Un'importante opera che pone le premesse per un nuovo e
fertile equilibrio tra estetica e teoria politica".
Sandro Mezzadra insegna storia del pensiero politico contemporaneo e studi
coloniali e postcoloniali al'Universita' di Bologna, e' membro della
redazione di "Filosofia politica" e di "Scienza & Politica"; i suoi
principali argomenti di ricerca sono la storia delle scienze dello Stato e
del diritto in Germania tra Otto e Novecento, la storia del marxismo, la
teoria critica della politica: globalizzazione, cittadinanza, movimenti
migratori, studi postcoloniali. Pubblicazioni principali: von Treitschke, La
liberta', Torino 1997 (cura e introduzione); La costituzione del sociale. Il
pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Il Mulino, Bologna 1999;
Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre Corte,
Verona 2001, 2006; Marx, Antologia di scritti politici, Carocci, Roma 2002
(cura e introduzione, con Maurizio Ricciardi); Marshall, Cittadinanza e
classe sociale, Roma-Bari 2002 (cura e introduzione); (a cura di), I confini
della liberta'. Per una analisi politica delle migrazioni contemporanee,
DeriveApprodi, 2004; (con Carlo Galli, Edoardo Greblo), Il pensiero politico
del Novecento, Il Mulino, Bologna 2005; La condizione postcoloniale. Storia
e politica nel presente globale, Ombre corte, Verona 2008]

Dobbiamo dare credito a Edward Said. Sarebbe "un grave errore", scrive
nell'introduzione a Nel segno dell'esilio, "se dalla lettura di questo libro
si volesse estrarre un messaggio politico complessivo. Al contrario, gran
parte del materiale qui raccolto e' in contrasto con la politica, e si
colloca nell'ambito dell'estetica". Dipende tuttavia da che cosa si intende
con "messaggio politico complessivo": il grande critico palestinese,
nell'insieme di questi saggi scritti lungo l'arco di un trentennio, non
offre certo formule "ideologiche" o contributi programmatici alla
ricostruzione di un'agenda politica radicale. Mostra pero', che si occupi di
una danzatrice del ventre come Tahia Carioca o del Johnny Weissmuller di
Tarzan, che indugi sui testi del "suo" Conrad o che segua la maniacale
volonta' di "autoaffermazione ed estinzione" dell'Achab di Melville, il
formarsi di uno stile critico che sovverte il confine tra il campo estetico
e il campo politico.
L'estetica ci appare in fondo, nelle pagine di Said, come il dominio di
un'immaginazione e di una "fantasia" che nulla hanno di astratto: esplorare
i prodotti di quell'immaginazione e di quella fantasia ha sempre significato
per Said concentrarsi sulla trama complessa della fabbricazione del mondo in
cui viviamo. "Mondanita'", termine chiave nella riflessione di Said, indica
al tempo stesso l'oggetto a cui il suo lavoro e' dedicato e lo sguardo del
critico: uno specifico materialismo riottoso alla sintesi, debitore a Vico e
Auerbach e collocato all'interno di una genealogia "italiana" ("che da
Lucrezio arriva a Gramsci e a Lampedusa"), ha condotto l'autore di
Orientalismo a concentrarsi quasi ossessivamente sulla dimensione appunto
"mondana" dei testi e delle pratiche culturali costitutivi del "canone"
occidentale. A porne in evidenza - in un dialogo via via piu' fitto, e non
privo di punte polemiche, con Michel Foucault - l'intreccio indissolubile
con le logiche, i dispositivi e le tecnologie del potere (e in particolare
con "le geografie immaginative disegnate e quindi imposte dal potere su
terre e popoli lontani") ma anche a individuarne le fratture, i punti di
irruzione di voci e storie altre, le linee di fuga su cui, come in Moby
Dick, una determinata forma di potere "impazzisce" e si apre lo spazio in
cui l'immaginazione di un diverso modo di abitare il mondo diviene
possibile.
L'estetica torna cosi', nel lavoro di Said, ad aprirsi all'"esperienza
storica". Tra i due ambiti non si determina tuttavia, secondo le movenze di
un ingenuo "realismo", un rapporto di "rispecchiamento", ma piuttosto, per
riprendere un'espressione utilizzata dall'autore per definire il suo lavoro
di critico musicale, una sorta di "trans-fecondazione"; nuclei di
irriducibile materialita' si trovano depositati, ed e' compito del critico
portarli alla luce, in un insieme di testi e di pratiche culturali che ci
restituiscono al tempo stesso gli schemi generali, categoriali verrebbe da
dire, attraverso cui l'"esperienza storica" e' stata ordinata e prodotta.
Questo vale in particolare per la specifica esperienza che costituisce lo
sfondo generale dei saggi raccolti nel libro che qui presentiamo:
"l'esperienza dello sradicamento, dell'esilio, delle migrazioni e della
violenza dell'impero", ovvero quella "realta' bandita o rimossa che negli
ultimi due secoli ha regolato l'esistenza di una quantita' enorme di persone
in modi affatto diversi".
Formatosi e vissuto all'incrocio tra diversi mondi, Said ha lavorato a lungo
alla Columbia University, in quella New York che e' divenuta "la capitale
del nostro tempo" proprio in quanto "citta' di migranti e di esuli, in
permanente tensione con il centro simbolico (e per lo piu' reale)
dell'economia globalizzata del tardo capitalismo". Tra New York e la
Palestina prende forma la geografia dell'opera di Said: l'esperienza
dell'esilio la segna profondamente sotto lo stesso profilo biografico, ma
piu' in generale si imprime come una ferita aperta nella genealogia del
presente che Said costruisce attraverso il suo lavoro di critico. E continua
a costituire la cifra del presente: il nostro tempo, si legge in uno dei
saggi piu' densi e affascinanti raccolti nel volume (Riflessioni
sull'esilio), "e' il tempo dei rifugiati, dei profughi, dell'immigrazione di
massa".
Pensare l'unita' del mondo a partire da questa ferita, ricostruire la fitta
trama di intrecci e di scambi che rende caricaturale ogni discorso che
pretenda di parlare "in nome di totalita', di culture nella loro impossibile
integrale unita'" e assumerla come terreno su cui costruire un nuovo
universalismo e' il compito politico che Said ci lascia in eredita'.
Diffidente nei confronti del narcisismo che contraddistingue ogni "politica
dell'identita'", egli e' anche consapevole del fatto che, nella storia del
Novecento, "molti degli antidoti alla tragedia dello sradicamento si sono
rivelati altrettanto pericolosi di cio' a cui hanno tentato di porre
rimedio". La sua analisi mostra in fondo, soprattutto quando si sofferma sui
movimenti anticoloniali (entro un fitto dialogo con Cesaire e Tagore, con
Fanon e C.L.R. James) e sulla stessa questione palestinese, come in
particolare il nazionalismo sia piu' parte del problema che della soluzione.
E richiama l'attenzione sulla necessita' di immaginare una politica oltre lo
Stato, "nella misura in cui il suo culto tende a soppiantare ogni altra
forma di relazione umana". Non sara' un "messaggio politico complessivo": ma
e' forse qualcosa di politicamente piu' prezioso.

4. LIBRI. WLODEK GOLDKORN PRESENTA "ORIENTALISMO" DI EDWARD SAID
[Dal settimanale "L'Espresso", n. 48 del 6 dicembre 2007, col titolo
"L'Oriente immaginato".
Wlodek Goldkorn, polacco, intellettuale e giornalista, dopo aver lasciato la
Polonia nel 1968 da oltre trent'anni vive a Firenze; e' il responsabile del
settore cultura del settimanale "L'Espresso", di cui e' stato anche
corrispondente da New York; acuto saggista, si e' occupato di questioni
internazionali e di cultura; negli anni Ottanta e' stato il fondatore e
l'editore di riviste sull'Europa centrale e orientale, "L'ottavo giorno" e
"L'Europa ritrovata"; ha collaborato anche con varie altre riviste, tra cui
"Micromega", "Mondoperaio", "Limes", "Fine secolo". Opere di Wlodek
Goldkorn: Uscire dal ghetto, Reverdito, 1988; (con Rudi Assuntino), Il
guardiano. Marek Edelman racconta, Sellerio, 1998; (con Massimo Livi Bacci,
Mauro Martini), Civilta' dell'Europa orientale e del Mediterraneo, Longo,
2001; La scelta di Abramo. Identita' ebraiche e postmodernita', Bollati
Boringhieri, 2006]

Edward Said, l'autore di Orientalismo, era un uomo di confine, uno dei piu'
importanti e sofisticati intellettuali del XX secolo, una persona dotata di
uno sguardo doppio: capace di osservare la stessa cosa "da dentro e da
fuori" al contempo. Era nato in Palestina, ai tempi dei britannici,
cristiano protestante (apparteneva a una minoranza quindi), e' diventato
americano, professore alla Columbia University. Ufficialmente teorico e
storico di letteratura inglese, Said nei fatti era un influente maestro di
pensiero, ma anche formidabile polemista, sempre capace di rovesciare il
punto di vista comune, mai propenso ad accettare l'opinione che sembra cosi'
ovvia da essere considerata un "fatto".
Questa premessa e' indispensabile per capire che cosa e' Orientalismo. In
apparenza si tratta di un testo su come l'Occidente (colonialista) abbia
inventato un'immagine dell'Oriente, soprattutto degli arabi e dell'Islam,
consona ai propri valori e pregiudizi, ma falsa in sostanza. Cosi', in
questo formidabile libro si citano i classici dei viaggi verso Oriente: da
Chateaubriand a Nerval a Flaubert a Kipling; si parla dei teorici del
colonialismo britannico come Balfour, si raccontano gli scritti di Renan. In
realta' l'ambizione di Said, quando piu' di una trentina di anni fa si e'
messo a lavorare su questo libro era ben altra. Said (ed ecco il tratto
biografico intrecciato nel testo) voleva demolire l'idea stessa di
un'identita' data, naturale, innata, immobile. L'identita' e' sempre una
costruzione artificiale, dice in questo lavoro pionieristico che prima ha
suscitato polemiche poi e' stato tradotto in decine di lingue (in Svezia e'
stato un bestseller assoluto), per diventare infine un classico. E per
riuscire nell'impresa dell'invenzione dell'identita', occorre creare un suo
opposto. L'opposto dell'Occidente, razionale, virile, giovanile, organizzato
secondo i principi gerarchici, e' l'Oriente: regno dei sogni, degli inganni,
delle doppie verita'. Per mantenere l'immagine giovanile e dinamica
dell'Occidente, i britannici facevano rientrare in patria gli alti
funzionari delle colonie quando questi compivano i 55 anni. Ogni epoca,
insomma, dice Said, si crea i "propri altri", funzionali ad affermare la
propria egemonia culturale. Said usava spesso questa categoria di Gramsci e
lo indicava come uno dei suoi maestri. L'egemonia culturale si accompagna
(per Said) con l'idea che il sapere "oggettivo" e classificatorio sia lo
strumento con cui l'Occidente ha dominato l'Oriente. Da radicale qual era,
Said diceva invece: Oriente e Occidente non esistono, sono solo prodotto
mutabile e provvisorio della nostra cultura. Da tutto questo e' facile
capire quanto Said fosse nemico dei fondamentalisti islamici. Il suo testo
e' pure una critica devastante del loro immaginario.
Questo era l'uomo (scomparso per un tumore nel 2003 a New York) e questo e'
il libro. Ma di Said non si puo' parlare senza citare la sua amicizia con
Daniel Barenboim, direttore d'orchestra ebreo e israeliano, e le sue prese
di posizioni politiche, anch'esse sempre controcorrente. Agli arabi diceva
che dovevano capire cosa era la Shoah. Agli israeliani spiegava che dovevano
riconoscere il dramma dei profughi e che lui (profugo), per come era fatto e
per come pensava, era anche un "ebreo palestinese", un senza patria, o forse
un uomo di molteplici identita'.

***

MAHMOUD DARWISH

In Mahmoud Darwish tu trovi la poesia come resistenza all'inumano, come
prassi di liberazione, come lingua che salva, e salva riconoscendo umanita',
riconoscendo dignita' e diritti ad ogni essere umano, con ogni essere umano
instaurando un dialogo fondato sulla comprensione e sulla giustizia, sulla
verita' e sulla misericordia.
Cosi' la poesia si fa modalita' di azione nonviolenta: come lotta per
l'umanita' di tutti. Come fermezza in cio' che e' giusto. Come contrario
della vilta' e della menzogna.
Mahmoud Darwish non e' stato solo il poeta della resistenza palestinese: e'
stato, e resta, il poeta dell'umanita' resistente tutta.

2. CECILIA ZECCHINELLI RICORDA MAHMOUD DARWISH
[Dal sito del "Corriere della sera" riprendiamo il seguente articolo del 10
agosto 2008 col titolo "La Palestina dice addio a Darwish" e il sommario
"Morto sabato in un ospedale texano, verra' sepolto vicino al Palazzo della
Cultura. Al poeta gli stessi onori tributati ad Arafat. Tre giorni di lutto,
bandiere a mezz'asta e martedi' a Ramallah l'íequivalente di un funerale di
Stato"]

Tre giorni di lutto, bandiere a mezz'asta in tutta la Palestina, e martedi'
a Ramallah l'equivalente di un funerale di Stato. Lo stesso onore tributato
finora solo a Yasser Arafat. Per salutare e piangere Mahmoud Darwish, morto
sabato in un ospedale texano a 67 anni, dopo una difficile operazione al
cuore.
*
Era celebre nel mondo come "il poeta nazionale della resistenza
palestinese", "la voce della Palestina occupata". Definizioni che in realta'
a lui stavano sempre piu' strette: "Cliche' legati al passato", ci aveva
detto recentemente, dichiarandosi invece "cantore universale dell'amore e
della liberta'". Ma e' soprattutto cosi' che sara' ricordato (e pianto). A
Ramallah, dove viveva dal 1995, dove anche Arafat passo' gli ultimi anni,
Darwish verra' sepolto in un sacrario vicino al Palazzo della cultura.
Lontano dal suo villaggio d'origine che oggi e' in Israele "perche' Mahmoud
non appartiene solo alla famiglia ma a tutti i palestinesi", ha detto il
fratello Ahmad. E perche' sara' piu' facile visitarne il sepolcro per gli
arabi (e saranno tanti) che vorranno rendergli omaggio. Ancora sotto choc
per la sua scomparsa.
Prima dell'intervento a cuore aperto nella clinica di Houston, effettuato il
6 agosto dal chirurgo iracheno Hazim Safi, Darwish aveva chiesto di
"lasciarlo andare" se le cose fossero andate male. Eppure la morte l'aveva
intravista altre volte, per il suo cuore malandato che aveva gia' subito due
importanti interventi. Proprio della morte sfiorata aveva parlato in
bellissimi versi ("l'esiliata, l'infelice, la potente") nel suo ventesimo
libro, pubblicato in Italia nel 2006 da Epoche': "Judariya", ovvero
"Murale". Lo aveva recitato piu' volte in arabo classico - come sua
abitudine - davanti a folle adoranti. Anche in Italia.
E se contestazioni c'erano state (l'anno scorso alcuni intellettuali
palestinesi non gli perdonarono il ritorno per un reading a Haifa, Israele),
Darwish e' stato - e certo rimarra' a lungo - il poeta piu' letto nel mondo
arabo. Piu' conosciuto e venduto di molti autori in prosa (un genere
relativamente nuovo per la cultura araba ma frequentato peraltro dallo
stesso Darwish, con otto opere). Il poeta perfino piu' cantato, sulle
musiche di Marcel Khalife, Bob Dylan del Medio Oriente.
*
Era nato nel 1941 nella zona di Haifa, a Birwa, sotto mandato inglese. E in
una notte di guerra del 1948, quando il villaggio fu distrutto, era fuggito
in Libano. Ma poi era tornato con la famiglia nella sua "terra occupata",
aveva iniziato a scrivere poesie (nel 1960, diciannovenne, il primo libro:
Uccelli senza ali), ad avere successo (la poesia "Carta d'identita'", del
1964, e' ancora conosciuta a memoria da milioni di persone), a fare politica
(nel Partito comunista d'Israele) finendo spesso in carcere, poi privato del
passaporto israeliano.
E nel 1971 aveva preso la via dell'esilio: prima in Unione Sovietica, poi al
Cairo, a Beirut, Parigi e Tunisi. E' in quegli anni che aderisce all'Olp, ne
dirige pubblicazioni e centri di ricerca, e' in stretto contatto con la
leadership, Arafat e non solo. Fino all'ingresso nel comitato esecutivo
dell'Organizzazione, nel 1987: "Ma non sono un politico - ci aveva detto -
quando ho saputo della mia elezione ai vertici Olp ho pianto". Fino alle
dimissioni nel 1993: "Gli accordi di Oslo - aveva spiegato - mi hanno solo
dato l'occasione per andarmene". Poi nel 1995, dopo tanti anni, il ritorno
nella sua Palestina, a Ramallah, dove continuava a vivere alternando
soggiorni ad Amman e viaggi, molti in Europa. Perche' ormai - sempre piu'
amaro e deluso dal Medio Oriente, sempre piu' stanco e sarcastico per la
politica - Darwish era diventato "poeta universale della liberta' e
dell'amore". Amore per la sua Palestina, certo ("che finche' non sara'
libera non concedera' nemmeno a me la possibilita' di esserlo"). Ma
soprattutto amore per la vita.

3. PAOLA CARIDI RICORDA MAHMOUD DARWISH
[Dal sito di "Lettera 22" riprendiamo il seguente articolo dell'11 agosto
2008 col titolo "E' mprto Mahmoud Darwish" e il sommario "Scomparso a 67
anni per le complicazioni insorte dopo un'operazione al cuore, a Houston, in
Texas"; e di seguito l'approfondimento della stessa autrice nel blog
"invisiblearabs" col titolo "Troppo presto"]

E' morto Mahmoud Darwish, il poeta nazionale palestinese, il rappresentante
dell'identita' palestinese. Aveva 67 anni, ed e' morto per le complicazioni
insorte dopo un'operazione al cuore, condotta a Houston, in Texas.
Un'operazione che aveva a lungo ponderato, sino poi a convincersi che
avrebbe dovuto affrontarla, dicono le agenzie di stampa.
Sara' sepolto domani a Ramallah. I suoi funerali, come quelli di Yasser
Arafat, saranno organizzati dall'Autorita' Nazionale Palestinese, con tutti
gli onori che si riservano in genere a un leader. In questo caso al poeta.
Da anni, Darwish e' considerato uno dei nomi possibili per un Nobel per la
letteratura. I suoi poemi sono stati tradotti in tutto il mondo, anche in
ebraico.
*
Gia' da tanto tempo Mahmoud Darwish aveva assunto il ruolo del Poeta. Il
poeta nazionale palestinese, il poeta di un popolo ma non di uno Stato, che
ancora non c'e'. Il suo era gia' un ruolo consolidato, ma non per questo
Darwish era considerato vecchio. Non si e' vecchi, nel Terzo Millennio, a 67
anni, l'eta' in cui Darwish ha lasciato questo mondo, per le complicazioni
seguite a un'operazione al cuore in Texas. Piu' di Edward Said, perche'
poeta, Darwish aveva rappresentato (e rappresenta) l'identita' palestinese,
per i palestinesi dei Territori occupati, per i profughi, per la diaspora,
per gli arabo-israeliani: lo aveva dimostrato pochi mesi fa, quando aveva
ottenuto il permesso dalle autorita' israeliane di fare un recital di poesia
a Haifa, un evento per gli arabo-israeliani, per i quali quella serata - in
cui vi fu un religioso e appassionato silenzio, concordano tutti i
testimoni - e' stata la festa dell'orgoglio palestinese.
Come Edward Said, aveva avversato gli accordi di Oslo. La storia gli ha dato
ragione, anche se concordo con un mio caro e fraterno amico, che non si puo'
interpretare il reale valore di un evento della storia (e dunque anche Oslo)
ex post. Darwish era stato durissimo con Fatah e Hamas (soprattutto con
Hamas) quando la politica palestinese aveva spaccato Cisgiordania e Gaza,
nel giugno del 2007. Era dunque intervenuto come sempre nella politica,
continuando il suo ruolo di poeta, quindi impegnato. Ma Darwish va
ricordato, per noi che non siamo palestinesi, anche per la forza dei suoi
versi, quelli che parlano dell'esilio, quelli che parlano della terra, delle
lacrime, della nostalgia. Con le parole che ha detto alla Reuters Ahmed
Fouad Negm, il piu' grande poeta popolare egiziano, ormai anziano e malato,
Darwish "translated the pain of the Palestinians in a magical way. He made
us cry and made us happy and shook our emotions," ma "apart from being the
poet of the Palestinian wound, which is hurting all Arabs and all honest
people in the world, he is a master poet".
Master poet, cantato, per
esempio, dal grande Marcel Khalife (grazie Sahera, per la segnalazione di
questo video su YouTube). Papabile per un Nobel, da anni. Tradotto in tutto
il mondo, anche in ebraico, per i tipi della Andalus di Yael Lerer, che
quest'anno e' stata invitata al Festival della Letteratura di Mantova.
Non sara' sepolto vicino al Birwa, suo paese natale vicino Acco. Sara'
sepolto domani a Ramallah, con tutti gli onori che si riservano alle grandi
figure di un popolo. Onori simili a quelli riservati a Yasser Arafat.

4. "IL MESSAGGERO" RICORDA MAHMOUD DARWISH
[Dal sito del quotidiano "Il Messaggero" riprendiamo il seguente articolo
del 9 agosto 2008 col titolo "E' morto Mahmoud Darwish, poeta della
Palestina"]

E' morto oggi negli Stati Uniti, all'eta' di 67 anni, il poeta palestinese
Mahmoud Darwish. Era uno dei piu' grandi poeti contemporanei in lingua
araba, con una produzione segnata dai drammi dell'esilio e dell'occupazione
vissuta dal popolo palestinese. Darwish aveva acquisito notorieta'
internazionale con circa trenta opere tradotte in quaranta lingue.
*
La vita. Darwish era nato il 13 marzo 1941 ad Al Birweh, in Galilea, allora
sotto mandato britannico e oggi nel nord di Israele. Durante la guerra
arabo-israeliana del 1948, questo villaggio fu raso al suolo e i suoi
abitanti furono costretti all'esilio. La famiglia Darwish fuggi' in Libano
dove rimase per un anno, prima di tornare clandestinamente in Israele, nella
localita' di Deir al Assada. Mahmoud studio' nelle scuole arabo-israeliane
(in arabo e ebraico) e ando' a vivere ad Haifa. Nel 1960, a 19 anni,
pubblica la sua prima raccolta di poesie, Uccelli senza ali. Un anno piu'
tardi aderisce al Partito comunista d'Israele. Dopo un lungo periodo di
restrizioni, all'inizio degli anni Settanta sceglie l'esilio, prima a Mosca,
poi al Cairo. Nel 1973, a Beirut, dirige il mensile "Questioni palestinesi"
e lavora come caporedattore nel Centro di ricerca palestinese dell'Olp
(Organizzazione per la liberazione della Palestina), cui aderisce mentre
l'organizzazione e' in guerra con Israele. Se ne va dall'Olp nel 1993 per
protestare contro gli accordi di Oslo che, secondo lui, non daranno una
"pace giusta" ai palestinesi. Ma nel 1995 torna a Ramallah, in Cisgiordania,
dopo l'avvento dell'Autorita' palestinese. Nel maggio 1996 viene autorizzato
a entrare in Israele, per la prima volta dopo l'esilio, per partecipare ai
funerali dello scrittore arabo-israeliano Emile Habibi. In questi ultimi
anni ha vissuto tra Ramallah e Amman. Molti e prestigiosi sono i
riconoscimenti ottenuti. Dall'ex Urss fu insignito del Premio Lenin, la
Francia lo ha nominato Cavaliere delle Arti e delle Lettere, e all'Aja ha
avuto il prestigioso premio Prince Claus per la "sua opera impressionante".
*
Alcuni volumi delle liriche di Darwish: Uccelli senza ali; Foglie di ulivi;
Un innamorato dalla Palestina; La fine della notte; Muoiono gli uccelli in
Galilea; L'amata risorge dal sonno; Una pioggia tenera in un lontano
autunno; Ti amo o non ti amo; Il tentativo numero 7; Quella e' la sua
immagine e questo e' il suicidio dell'amato; Feste nuziali; Passanti tra
parole fugaci; L'elogio dell'ombra sublime; Il divano di Darwish; Perche'
lasciasti il cavallo solo.
Alcuni volumi della prosa di Darwish: Una cosa sulla patria; Addio o guerra,
Addio o pace; Le normali afflizioni quotidiane; La memoria dell'oblio; La
descrizione del nostro stato; Le epistole (corrispondenza fra Darwish e
Samih el-Qasim).

5. ZOUHAIR LOUASSINI INTERVISTA MAHMOUD DARWISH (2005)
[Dal sito www.rainews24.it riprendiamo la seguente intervista registrata a
Mantova l'8 settembre 2005 col titolo "Mahmoud Darwish: l'equita' alla base
del dialogo"]

Mahmoud Darwish e' indubbiamente uno dei piu' rappresentativi poeti
palestinesi del nostro tempo, la voce piu' importante nella lotta per
l'indipendenza palestinese. Da oltre quarant'anni i suoi versi ritraggono
profondamente la tragica esperienza della Palestina. Mahmud Darwish nasce a
Birwa, un villaggio della Galilea (Palestina), dove trascorre l'infanzia
fino al 1948, data in cui la famiglia e' costretta all'esilio in Libano.
Quando un anno dopo i genitori tentano di tornare in patria, constatano che
il loro villaggio e' stato raso al suolo e rimpiazzato da una colonia
ebraica. Allora raggiungono Dayral-Assad, dove vivranno in
semiclandestinita'. A causa delle sue poesie, Darwish sara' imprigionato
cinque volte tra il 1961 e il 1967. Lavora come giornalista a Haifa, poi si
esilia in Libano dal 1971 al 1982 e infine raggiunge Tunisi. E' stato
detenuto nelle carceri israeliane, e molte volte costretto agli arresti
domiciliari, a causa dei suoi scritti e della sua attivita' patriottica. Per
questi motivi non ha potuto frequentare l'universita'. Nel 1970 inizia cosi'
a studiare a Mosca, e da qui, nel 1971, si trasferisce al Cairo.
Mahmud Darwish e' stato a capo del Centro di ricerca palestinese, direttore
del giornale "Palestinian Affair Magazine", direttore dell'Associazione
degli scrittori e giornalisti palestinesi, fondatore del giornale
dell'associazione, "Al Karmil Magazine", e, piu' tardi, membro della
Commissione esecutiva dell'Olp, da cui si e' dimesso nel 1993. Nel 1996,
dopo 26 anni di esilio, e' tornato in Palestina e si e' stabilito a
Ramallah.
*
- Zouhir Louassini: Lei e' molto conosciuto, e' uno dei poeti piu' noti. E
nel mondo arabo sono tanti a seguirlo. Mentre In Italia la gente non la
conosce abbastanza.
- Mahmoud Darwish: So che non sono molto conosciuto in Italia. Non sono
conosciuto nel senso che pochi leggono quello che scrivo, anche perche' mi
hanno pubblicato pochi libri rispetto ad altri paesi europei come la Francia
o la Spagna. In Italia probabilmente sono piu' conosciuto come poeta
palestinese che come poeta tout court. Comunque non sono io a risolvere
questa situazione. Dipende tutto dall'interesse che hanno per la letteratura
araba in generale le case editrici, gli intellettuali, e il pubblico
italiano.
*
- Zouhir Louassini: Come percepisce il pubblico europeo la sua poesia, in
paragone con il pubblico arabo?
- Mahmoud Darwish: Non posso rispondere con esattezza a questa domanda. Ti
posso solo dire che in Francia o in Spagna dove hanno pubblicato vari dei
miei libri, e anche per quello che mi scrivono i lettori, che sono due le
ragioni principali che portano le persone a leggere la mia poesia: la prima
e' quella relazionata con la causa palestinese. Molti di quelli che vogliono
conoscere meglio la situazione nel Medio Oriente cercano di trovare delle
risposte nella mia poesia; la seconda ragione, spero, e' una ragione
estetica, esiste un interesse per la musicalita', il ritmo e le metafore di
questa poesia, in una ricerca tra quello che unisce la poesia araba con
quella universale. Questo punto d'incontro che si trova nell'estetica della
poesia e la sua capacita' di descrivere la dimensione spirituale dell'essere
umano e' il vero nodo che fa della poesia uno degli strumenti piu' efficaci
per avvicinare le persone e le culture tra di loro. Diciamo che il punto di
partenza per la poesia e' l'identita' locale, nazionale. Diciamo che la
condizione personale o individuale ha il suo peso nel testo poetico. Questo,
pero', e' solo il punto di partenza poiche' il poeta ha l'obbligo di
orientarsi verso tutto quello che e' universale: farsi domande sulla sua
esistenza, la vita, l'infanzia, l'amore. Il poeta, in fin dei conti, cerca
di umanizzare la storia e fa emergere la bellezza come risposta alla
crudelta' dei nostri tempi.
*
- Zouhir Louassini: Alcune volte mi pongo una domanda: Mahmoud Darwish
poteva essere il poeta che e' adesso senza la causa palestinese? E'
possibile che la sofferenza del popolo possa portare un poeta a questo
livello?
- Mahmoud Darwish: Non nego che sono un prodotto della tragedia palestinese.
Sono frutto della mia condizione storica che ha deciso per me le modalita'
di espressione nel rapportarmi alla realta'. Se non fosse stato cosi' non
avrei saputo che tipo di poesia scrivere. Non c'e' dubbio, la mia
letteratura risponde a un preciso momento storico che mi ha anche obbligato
a cercare un certo stile per esprimere la mia duplice condizione di poeta e
palestinese. Io sono orgoglioso di essere palestinese ma auspico che
l'occupazione non sia condizione necessaria per diventare poeti. Quindi
spero nella fine dell'occupazione per scrivere un altro tipo di poesia o
addirittura non scrivere nulla. Cio' che conta e' la liberta' d'un popolo.
La richiesta di liberta' e' molto piu' importante del contenuto d'una
poesia.
*
- Zouhir Louassini: Lei ultimamente ha criticato molto la poesia araba
contemporanea, sarebbe interessante saperne il perche'.
- Mahmoud Darwish: La crisi della poesia araba fa parte della crisi della
poesia mondiale, e' una crisi che io chiamo frattura tra il testo e il
lettore. Molti poeti hanno identificato il concetto di modernita' nella
poesia con l'eliminazione di ritmo, musicalita', metafore e di tutto cio'
che fa della poesia un genere letterario diverso. In tal modo si allontanano
dalla realta' e dal lettore stesso creando dei circoli chiusi.
*
- Zouhir Louassini: In una sua poesia lei dice che dopo la guerra c'e'
bisogno del dialogo. Crede che questo sia il momento del dialogo con gli
israeliani?
- Mahmoud Darwish: Il dialogo ha bisogno di determinati requisiti: un minimo
di equita'. In questo momento e' difficile individuare un equilibrio tra
societa', persone e intellettuali che appartengono a uno stato che occupa e
quelli che subiscono questa occupazione. Il dialogo nel vero senso della
parola richiede che l'occupante riconosca di violare la liberta' altrui. Il
popolo occupato ha bisogno di ascoltare il mea culpa delle forze
d'occupazione che devono accettare, a loro volta, l'indipendenza, la
liberta' e i diritti del popolo occupato. Diciamo che c'e' bisogno di un
minimo di giustizia nei rapporti tra i due popoli. Se riusciamo a garantire
queste condizioni allora li' possiamo parlare di un dialogo piu' serio e
piu' solido. In questo momento noi vediamo che ci sono contatti tra lo stato
d'Israele e l'Autorita' palestinese ma questo non significa dialogo. Lo
possiamo chiamare negoziazione o qualsiasi altra cosa ma non e' dialogo.
Comunque io sono a favore del dialogo come principio ma alcune cose devono
essere dette per onesta' intellettuale: nel nostro caso il dialogo e' utile
almeno per conoscerci, per sentire la versione della storia che l'altro ha
di noi e quella che abbiamo noi di lui. Dobbiamo sentire la versione
israeliana della storia e gli israeliani devono sentire la nostra. Solamente
cosi' arriveremo un giorno a elementi che ci uniscono. Noi non possiamo
cambiare l'idea dell'altro su se stesso e sulla sua storia ma anche l'altro
non puo' pensare che noi cambieremo idea o pretendere di scrivere la storia
a modo suo. Nessuno puo' pensare di avere il monopolio della storia e della
verita'. Solamente cosi' puo' nascere il dialogo. Se un giorno la societa' e
gli intellettuali israeliani riconosceranno ai palestinesi il diritto di
avere un loro stato indipendente, quel giorno segnera' la nascita della vera
pace...
*
Postilla: Una bibliografia essenziale di Mahmoud Darwish
Bird without wings (1961); Lover from Palestine (1964); Olive leaves (1964);
Memoria per l'oblio, Jouvence, 1996; Perche' hai lasciato il cavallo alla
sua solitudine, San Marco de' Giustiniani, 2001; Murale, Epoche', 2005.

6. CECILIA ZECCHINELLI INTERVISTA MAHMOUD DARWISH (2006)
[Dal "Corriere della sera" del 23 maggio 2006 col titolo "Darwish: Intifada
addio, canto l'amore", il sommario "Era considerato il poeta-simbolo della
resistenza palestinese. Ora dice: Questa terra appartiene a due popoli. La
religione non puo' unificare gli arabi, ripartiamo dalla lingua" e la
notizia "Mahmoud Darwish e' nato a Birwa, un villaggio della Galilea
(Palestina). Dal 1996 vive a Ramallah. E' autore di una ventina di libri,
tra cui Memoria per l'oblio (Jouvence) e Murale (Epoche'). Grande
appassionato di poesia, tra i suoi autori preferiti cita: Dante, Eschilo,
Walcott, Ritsos"]

E' sopravvissuto a una difficile operazione al cuore. Dall'incontro sfiorato
con la morte ("l' esiliata, l'infelice, la potente") e' nata l'elegia
"Judariya", Murale, il suo ventesimo libro pubblicato in Italia da Epoche'
nella bella traduzione di Fawzi Al Delmi. E' sopravvissuto a lunghi anni di
esilio e di assenza dall'"Eden perduto", la Palestina da cui e' fuggito
bambino una notte del 1948. Poi all'assedio di Ramallah dove vive dal 1996.
Soprattutto, e' sopravvissuto a quell'ingombrante cliche' di "poeta della
resistenza palestinese" che dagli Anni Sessanta - Carta d'identita'
circolava in milioni di cassette, i suoi versi erano cantati dal libanese
Marcel Khalifeh, Bob Dylan del Medio Oriente - l'accompagna e gli sta sempre
piu' stretto. Mahmoud Darwish, 64 anni, e' il poeta vivente piu' letto nel
mondo arabo, il piu' ascoltato nei reading che ancora attirano migliaia di
persone. Uno dei piu' conosciuti e premiati all'estero e perfino in Italia,
che finora lo ha tradotto ben poco mantenendo cosi' in vita quel
ricordo-cliche' di eterno militante.
"Molto e' cambiato, io sono cambiato. La poesia direttamente politica come
quella dei miei vent'anni e' legata agli eventi, destinata a passare con
loro. Ora i miei versi sono piu' umani, piu' universali", dice Darwish nella
meravigliosa Santa Maria della Scala di Siena, l'ex ospedale medievale dove
Calvino mori' nel 1985, oggi riservato a rari eventi culturali. Come la
lettura serale di Judariya-Murale, in arabo con la voce calda e tranquilla
di Darwish, in italiano con quella appassionata di Sandro Lombardi. "Sono
versi piu' difficili ma sono fortunato: oggi moltissimi miei lettori sono
giovani. Io sviluppo il loro gusto, loro la mia lingua. Con loro appartengo
al futuro. Mi danno speranza che la mia voce non vada perduta".
Una voce rigorosamente in lingua classica, che resiste in un mondo dove Al
Jazeera, le canzoncine pop di Nancy Ajram o nel migliore dei casi i romanzi
(genere "nuovo") hanno preso il posto di Imr Al Qais e Al Mutanabbi. "Ormai
non siamo piu' il popolo della parola in rima, la poesia e' in crisi anche
da noi, relegata in stanze molto private tranne poche eccezioni", ammette
Darwish. Lui stesso ha scelto spesso la prosa (tradotta in italiano solo con
Memoria per l' oblio, Jouvence, 1996). "Anche il mio ultimo libro, ancora
senza titolo - anticipa - e' in prosa. E' un addio a me stesso, il discorso
che nessun altro dovra' fare sulla mia tomba, una sorta di autobiografia".
Ma anche se "chi scrive solo poesia non appartiene piu' al nostro tempo",
Darwish e' nei versi - liberi, musicali, densi di metafore e simboli - che
piu' si ritrova. "Il mio progetto poetico non e' finito, penso di poter
ancora sviluppare la poesia araba moderna". E la lingua. "Io voglio, voglio
vivere - urla alla morte e ai medici in Murale - Lasciate tutto com'e' e
riportate in vita la mia lingua. Non voglio tornare a nessuno, non voglio
tornare a nessun Paese dopo questa lunga assenza. Voglio soltanto tornare
alla mia lingua".
*
Lingua come identita', poesia come essenza. E non solo per lui, palestinese
nato in un villaggio che non esiste piu', nomade suo malgrado. "Da quando ho
iniziato a vedere il mondo sento dire che stiamo vivendo il peggior momento
della storia degli arabi, ma ogni giorno e' piu' nero. Noi arabi abbiamo il
diritto di sentirci fuori dalla storia, a cui cerchiamo di tornare senza
successo anche perche' divisi", dice amaro Darwish.
Morto il panarabismo di Nasser, rifiutato da molti perche' laici o cristiani
il fattore unificante dell'Islam, "la lingua resta l'unico elemento comune,
tutto il resto e' andato distrutto. Da qui dobbiamo partire per ricostruire
il futuro, se riusciremo a trovare un progetto culturale avremo fatto il
primo passo". Basta politica, allora? Gli anni di Darwish poeta-resistente e
membro del comitato esecutivo dell'Olp sono davvero svaniti? "Non sono mai
stato un politico, nel 1987 quando ho saputo della mia elezione ai vertici
dell'Olp ho pianto. Gli accordi di Oslo del 1993 mi hanno dato l'occasione
di dimettermi". Ma questo, precisa, non per richiudersi in un mondo a parte.
Una scelta impossibile "perche' la nostra terra resta occupata, il mio
popolo sotto assedio"ª. E allora, invece della militanza impostagli in
passato dalla sua gente, la scelta di Darwish e' la poesia di resistenza a
cui lo obbliga ancora la Storia. "Ogni buona poesia che parla di liberta' e
amore, giustizia e bellezza e' una forma di resistenza, contro la bruttezza
e la violenza, contro l'annientamento. E costruisce nuovi ponti con gli
altri". Piu' universale rispetto al passato ma ricca degli stessi "semi":
l'assenza, l'oppressione, la sofferenza, l'esilio, la prigione, l'identita'.
Il dialogo tra esilio e patria. La disperata voglia di amore e di pace.
*
"Da quando abbiamo realizzato che questo Paese va diviso in due, la pace e'
diventata possibile. Ogni palestinese sente che la Palestina storica e' la
sua patria ma tutti sappiamo che ormai appartiene a due popoli - dice
Darwish, che nel 1988 scrisse la dichiarazione di Algeri con cui l'Olp
accettava i due Stati -. Ma oggi la pace sta diventando impossibile perche'
Israele rifiuta di negoziare i confini, il futuro di Gerusalemme, il diritto
al ritorno degli esuli, costruisce muri e cantoni. Israele aveva
l'opportunita' d'oro d'essere accettata, l'ha persa. Magari non tornera'
piu', presto governeranno in molti Paesi i movimenti islamici". Come Hamas?
"Si', come Hamas, eletta peraltro democraticamente con un voto di
disperazione, che sta gia' punendo gli stessi palestinesi. E con risultati
negativi che non si sono ancora visti ma che io, laico e marxista in un
mondo di religioni, temo molto per la nostra cultura".
*
Parla ancora di molte cose Darwish. Della crisi degli intellettuali arabi e
della mancanza di democrazia nei loro Paesi. Degli elementi comuni tra le
tre grandi religioni la cui ricerca "lo ossessiona". Dei poeti che piu' ama
(da Dante a Eschilo, da Walcott a Ritsos). Della Palestina, ovviamente.
"Adesso tornero' a Ramallah, non posso preferire l'esilio potendo tornare
nella mia terra - conclude -. Solo quando sara' liberata anch'io saro'
libero di andare dove voglio".
Succedera'? La speranza che emerge dalle sue poesie con quella "terra verde"
cosi' ricorrente e' vera? "La speranza e' lontanissima, nel presente non
c'e'. Ma dobbiamo inventarla altrimenti siamo morti", risponde. E nel
frattempo continuera' a scrivere, soprattutto poesia. "Quando ero sotto
assedio a Ramallah, quando ho visto i tank israeliani sotto le mie finestre,
ho scritto. A ogni verso mi sembrava che i soldati si ritirassero di dieci
metri - ricorda -. E' il solo modo che conosco per proteggere il mio
spirito. Per sopravvivere".

7. MAHMOUD DARWISH: PASSAPORTO
[Dal sito del "Corriere della sera" riprendiamo la seguente traduzione di
una celebre poesia di Mahmoud Darwish]

Non mi hanno riconosciuto nelle ombre
che succhiano via il colore dal mio passaporto
e secondo loro la mia la mia ferita era esposta
come per un turista che ama collezionare fotografie.
Non mi hanno riconosciuto, oh... non lasciate
la mia mano senza sole,
perche' gli alberi mi riconoscano...
tutti i canti della pioggia mi riconoscano...
Non lasciatemi pallido come la luna.

Tutti gli uccelli che hanno seguito la mia mano
fino alla porta dell'aeroporto lontano,
tutti i campi di grano,
tutte le prigioni,
tutte le tombe bianche,
tutte le frontiere di filo spinato...
tutti i fazzoletti che si agitano
tutti gli occhi neri...
tutti gli occhi
erano con me, ma loro
li hanno cancellati dal mio passaporto.

Spogliato del mio nome e identita'?
in una terra che ho nutrito con le mie mani?
Oggi Giobbe ha gridato riempiendo il cielo:
Non fate ancora una volta di me un esempio!
Signori! Profeti!
Non chiedete agli alberi i loro nomi...
Non chiedete alle vallate della loro madre...
Sulla mia fronte risplende la spada di luce
Dalle mie mani sorge l'acqua di fiume.
Tutti i cuori del popolo sono la mia identita',
toglietemi allora il passaporto!

***

ELENA RIBET: FEMMINICIDIO. E' ORA DI DIRE BASTA
[Dal sito di "Noi donne" (www.noidonne.org) riprendiamo il seguente articolo
dal titolo "Femminicidio: e' ora di dire basta" e il sommario "Il 24
novembre 2007  mobilitazione nazionale a Roma contro le violenze alle donne,
occasione per chiedere una rapida approvazione della legge sulle
persecuzioni e per rifiutare le mistificazioni che affidano ai 'pacchetti
sicurezza' la prevenzione delle violenze degli uomini sulle donne".
Elena Ribet e' nata nel 1973 a Roma, dove attualmente vive e lavora
occupandosi della comunicazione per una onlus che promuove l'integrazione
delle persone con disabilita' intellettiva. Si interessa di ecumenismo,
teologia e integrazione culturale. Ha presieduto il convegno interreligioso
Religione, pace e violenza (5 e 6 aprile 2003, Mappano, Torino). Il suo
intervento "La Marialis Cultus: una lettura evangelica" e' inserito negli
atti del XV Colloquio Internazionale di Mariologia, Patti (Messina), 16 e 18
aprile 2004 (Edizioni Ami, Roma, 2005). Ha partecipato all(allestimento del
musical Israel, dove vai? di Daniel Lifschitz sulle vicende e contraddizioni
del popolo ebraico nella storia, curandone anche l'ufficio stampa. Collabora
con riviste e periodici fra cui il settimanale delle chiese evangeliche
battiste, metodiste e valdesi "Riforma" e il mensile "Noidonne". E'
vincitrice del quinto concorso Le donne pensano, le donne scrivono, sezione
poesia, promosso dalla Citta' di Torino, VI Circoscrizione, e dal Centro
Donna, ed e' stata pubblicata nell'antologia del premio. Opere di Elena
Ribet: Diario dei quattro nomi, Edizioni Joker, 2005]

L'omicidio di Vyosa Demcolli nel Tribunale di Reggio Emilia da parte del
marito, che ha ucciso anche il giovane cognato ed e' stato poi ucciso dai
poliziotti presenti in aula, ha di nuovo scosso l'opinione pubblica sia per
il luogo dove e' avvenuto il fatto sia perche' avrebbe potuto trasformarsi
in una vera e propria mattanza, basta pensare che Klirim Fejzo sparando
all'impazzata ha ferito perfino l'avvocata Giovanna Fava dell'associazione
"Non da sola" e difensore di Vyosa nella causa di divorzio. Le donne di
Reggio Emilia hanno subito manifestato il loro sdegno e la rete nazionale
delle donne sta individuando le migliori modalita' per ribadire l'urgenza di
una legge sullo stalking (persecuzioni), per sollecitare concreti sostegni
alle Casa di accoglienza per le donne maltrattate e ai Centri antiviolenza,
e per richiamare l'attenzione pubblica sulla gravita' di un problema che non
puo' essere gestito con i "pacchetti sicurezza" ma deve essere correttamente
percepito e trattato come questione centrale nei rapporti tra i generi.
Mentre andiamo in stampa apprendiamo che il movimento ha deciso di indire
una manifestazione nazionale a Roma per sabato 24 novembre, nel primo
pomeriggio. Sara' occasione per la presa di parola pubblica da parte delle
donne nella giornata mondiale contro le violenze alle donne, il 25 novembre.
Sara' occasione per i Centri Antiviolenza di parlare al Paese per spiegare
cosa vuol dire per le donne vivere l'incubo del terrore dentro le mura
domestiche, subire l'umiliazione del non essere credute dalle forze
dell'ordine, mentire ai figli cercando di proteggerli o essere costrette a
fuggire per non rischiare di morire. Diamo conto di seguito di alcune delle
tante voci, riflessioni e testimonianze che viaggiano on line.
Le donne che dal sito www.controviolenzadonne.org avevano lanciato la
proposta di una manifestazione ben prima dei fatti di Reggio Emilia,
scrivono: "Il femminicidio per 'amore' di padri, fidanzati o ex mariti e'
una vergogna senza fine che continua a passare come devianza di singoli. Il
tema continua a essere trattato dai mezzi di informazione come cronaca pura,
avallando la tesi che si tratti di qualcosa di ineluttabile, mentre stiamo
assistendo impotenti ad un grave arretramento culturale, rafforzato da una
mercificazione senza precedenti del corpo delle donne. La violenza sulle
donne e' accettata storicamente e socialmente. Viene inflitta senza
differenza di eta', colore della pelle o status ed e' il peggiore crimine
contro l'umanita'. Quello di una parte contro l'altra. La politica e le
istituzioni d'altro canto continuano a ignorare il tema pubblicamente. Senza
una lotta culturale che sconfigga una volta per tutte patriarcato e
maschilismo non sara' possibile attivare un nuovo patto di convivenza tra
uomini e donne che tanto gioverebbe alla civilta'".
Da Milano, le donne di "Usciamo dal silenzio" osservano: "La parola pubblica
che noi sollecitiamo non e' quella che si spende con facilita' nelle
emergenze 'estive' sbandierate dai media, ma deve essere iscritta
nell'agenda istituzionale con la centralita' che la questione della violenza
ha nella vita delle persone. La sua assenza o inadeguatezza e' infatti lo
specchio della distanza tra la politica e la societa'. Il nostro paese e'
oggi abitato da uomini e donne che arrivano da culture e tradizioni le piu'
diverse. Costruire una convivenza che condivida, in questo tempo e in questo
spazio, i principi costituzionali e l'idea della liberta' femminile che ha
principio nell'inviolabilita' dei nostri corpi e' il cammino di cui ci
sentiamo protagoniste insieme alle donne straniere che nel nostro paese
devono essere padrone di se stesse, dunque in condizione di esercitare i
diritti di cittadinanza. In questo percorso ci saranno difficolta' e
contraddizioni, ma non devono costituire un alibi per occultare dietro la
categoria dello scontro di civilta' il nodo conflittuale del rapporto tra i
sessi che attraversa invece tutte le culture... Sensibilizzare, prevenire,
tutelare, progettare sono i verbi che scegliamo per dire come l'azione
pubblica debba rispondere a esigenze molteplici che riguardano la sfera
dell'educazione, della formazione, della socialita', del diritto e avere,
insieme, l'ambizione di un nuovo disegno di convivenza".
Dal blog di "Usciamo dal silenzio" riportiamo anche uno stralcio delle
riflessioni di Susanna Camuso, della Cgil Lombardia: "C'e' bisogno di
rendere evidente cio' che a noi tutte e' da sempre noto, ovvero che
all'origine della violenza sulle donne c'e' la negazione della liberta'
femminile, c'e' la volonta' di controllo del corpo che da' la vita, c'e' il
conflitto donna-uomo. Sufficiente? Credo sia necessario provare a guardare
ancora, perche' c'e' una sessualita' malata, violenta, che va oltre il
rapporto donna-uomo, come dice la cronaca di Milano; eppure siamo il Paese
che proclama la vita. Legge 40, eutanasia, testamento biologico; allora
perche' non si tuona da ogni pulpito contro la violenza, a difesa
dell'integrita' della persona? Sorge una domanda: forse che c'e' un
interesse a vedere come distinta la mente e il corpo? A vedere di quel corpo
solo la funzione della procreazione 'a prescindere' (ad esempio quando si
nega l'interruzione di gravidanza per stupro etnico). Ma se e' cosi', se si
vede la persona solo in una sua possibile funzione, che idea della vita
e'?".
L'Udi (Unione delle donne in Italia) e il Centro Donna Giustizia di Ferrara
osservano: "Non esistono ancora misure che assicurino tutela alle donne che
trovano il coraggio di denunciare, viene sottovalutata la gravita' della
violenza in famiglia ed enfatizzata quella su strada. Continuiamo da anni a
ripetere che e' la famiglia il luogo piu' pericoloso in cui le donne
subiscono violenze di ogni tipo fino a perdere la vita. Occorre davvero che
non si continui a minimizzare la violenza".
Il Telefono Rosa Piemonte rigetta "ogni tentativo di analizzare il problema
dal punto di vista dei pacchetti sicurezza intesi come affinamento dei mezzi
di intercettazione 'fisica' dell'uomo violento... non perche' sia inutile,
ma perche' e' limitativo, e perche', in buona sostanza, sono i comportamenti
a dover essere intercettati (e non solo le azioni), cosi' come sarebbe
importante conoscere le fantasie e i progetti di violenza dei tanti uomini
di cui sentiamo quotidianamente parlare".
Dall'Udi di Bologna domandano: "Cosa si aspetta a prendere provvedimenti? Si
vuole lo sterminio delle donne? La inutilita' delle denuncie e querele, le
richieste di archiviazione dei pm, il mancato intervento delle forze
dell'ordine ci ha determinato a mettere in campo le nostre forze per
predisporre, in rete con le associazioni e istituzioni locali, un progetto
organico di intervento che sia in grado di rispondere: ad esempio la
formazione all'eguaglianza dei generi fin dalla scuola primaria,
l'informazione, la costruzione di una rete dei servizi sociali e di
accoglienza per le vittime. L'Udi da sempre ha proposto la procedibilita'
d'ufficio per i reati di violenza alle donne, le quali molte volte, a
seguito di minacce e condizionamenti familiari, ritirano le querele. Il
nostro appello e' di decidere celermente una tutela efficace e preventiva e
dare alle forze dell'ordine il potere di agire immediatamente dopo la
presentazione della denuncia querela e ai magistrati il dovere di comminare
misure cautelari".
*
I numeri delle violenze alle donne in Italia


- La violenza domestica e' la prima causa di morte per le donne dai 16 ai 60 anni.


- Sono 6.743.000 (seimilionisettecentoquarantatremila) le donne che nel
corso della vita sono state vittime di violenza fisica o sessuale.


- C'e' un omicidio in famiglia ogni due giorni, in 7 casi su 10 la vittima e' una donna.


- La maggior parte di queste violenze arrivano dal partner (come il 69,7% degli stupri) o dall'ambito familiare.


- Solo nel 24,8% dei casi la violenza e' stata ad opera di uno sconosciuto.


- Oltre il 90% delle violenze non sono mai state denunciate.


- L'eta' media delle vittime si abbassa : 1.400.000
(unmilionequattrocentomila), il 6,6% del totale, ha subito uno stupro prima dei 16 anni.


- Solo il 18,2% delle donne e' consapevole che quello che ha subito e' un
reato, mentre il 44% lo giudica semplicemente "qualcosa di sbagliato" e ben il 36% solo "qualcosa che e' accaduto".

***


MARIA RUSSO: CONTRO LA VIOLENZA DEGLI UOMINI SULLE DONNE
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net/spip3/) riprendiamo il
seguente articolo.
Maria Russo fa parte della redazione de "Il paese delle donne"]

Il 21 ottobre scorso alla Casa internazionale delle donne ha avuto luogo
l'assemblea pubblica contro la violenza sulle donne in vista di una
manifestazione nazionale. All'incontro hanno partecipato tantissime
associazioni femministe e femminili, collettivi e singole donne da ogni
parte d'Italia. Si e' discusso a lungo, in modo vivace e variegato, di
violenza contro le donne per scrivere insieme un documento condiviso.
*
I punti in comune emersi durante la discussione sono i seguenti.
La violenza contro le donne e' culturale e strutturale. E' necessario
cominciare a parlare di violenza sessista, la violenza sessuale infatti e'
solo una delle tante forme di violenza che scaturisce dal rapporto di potere
tra uomini e donne. Sono gli uomini ad usare violenza contro le donne,
bisogna quindi nominarli parlando chiaramente di violenza degli uomini
contro le donne.
La manifestazione deve puntare sulla violenza in famiglia. La violenza
domestica e' volutamente e dolosamente sottovalutata e taciuta perche' mette
in discussione la relazione uomo-donna.
L'attuazione immediata di un piano nazionale antiviolenza finanziato dal
Ministero della Difesa, Ministero della Giustizia, Ministero della Salute
che preveda la prevenzione e la formazione delle forze dell'ordine, della
polizia, dei magistrati, dei medici.
Il rifiuto di trattare la violenza degli uomini contro le donne come una
questione di ordine pubblico e di sicurezza. Si rigetta il tentativo
istituzionale e mediatico di inserire la questione nel pacchetto sicurezza
perche' equivarrebbe a dire che le donne sono un soggetto da tutelare,
quindi che non hanno diritto di parola e di scelta.
Uscite voi (uomini) dal silenzio... Le donne non possono e non vogliono
prendere la parola a nome degli uomini perche' sarebbe antidemocratico.

***

APPELLO CONTRO IL NUCLEARE. DA VICENZA A SIBIU

Alcuni movimenti per la pace e realta' ecclesiali (Beati i costruttori di
pace, Movimento internazionale della riconciliazione, Pax Christi, Centro
interconfessionale per la pace, Gavci, Unione cristiana evangelica battista
d'Italia) si sono incontrati a Vicenza il  6 agosto 2007, LXII anniversario
della prima esplosione bellica dell'arma atomica.
Questo evento si inserisce tra le iniziative della campagna "Fermiamo chi
scherza col fuoco atomico" che si prefigge, nella prospettiva della "pace
preventiva", di mettere al bando le armi atomiche e risvegliare l'opinione
pubblica sul pericolo che queste terribili armi vengano utilizzate  nei
conflitti in atto e futuri.
In particolare questi movimenti, tutti con forte caratterizzazione
spirituale, intendono sollecitare le Chiese a dichiarare che non solo l'uso
e la minaccia, ma anche la fabbricazione, la proliferazione, la detenzione
delle armi nucleari costituiscono un gravissimo peccato contro Dio,
l'umanita', il creato; una violazione massima di ogni etica umana civile e
politica che nessun diritto alla difesa puo' logicamente e moralmente
giustificare.
Nell'incontro di Vicenza i movimenti chiedono ai delegati alla terza
Assemblea ecumenica europea di Sibiu (4-9 settembre 2007) di far propria
questa presa di posizione.
Essi sono altresi' convinti che  i documenti come tali non siano
significativi ed efficaci se non si rivelano strumenti utili a sollecitare
l'impegno e le azioni concrete delle persone. Per questo  si impegnano sin
d'ora a sensibilizzare le proprie comunita' di riferimento alla raccolta di
firme per una legge di iniziativa popolare che prevede l'eliminazione di
tutte le armi atomiche dal territorio italiano.
*
Agli uomini ed alle donne delegati della terza Assemblea ecumenica europea
che si riuniranno a Sibiu dal 4 al 9 settembre 2007
Noi, uomini e donne riuniti in preghiera a Vicenza oggi, 6 agosto 2007 ,
LXII anniversario del bombardamento atomico su Hiroshima/ siamo amanti della
pace nella giustizia e siamo convinti che essa possa essere conseguita
solamente attraverso la nonviolenza attiva, ed aspiriamo con forza ad una
societa in cui le persone siano in armonia con il creato e ciascun essere
vivente; ci riconosciamo nella cultura che pone come fondamento dell'agire
la coerenza tra fini e mezzi: per costruire la pace siamo disposti ad usare
solo strumenti pacifici.
Sentiamo profondamente veri e irrinunciabili i valori e gli impegni
contenuti nella Carta ecumenica, frutto di quel processo conciliare del
quale ci sentiamo compartecipi, in particolare laddove recita: "noi vogliamo
impegnarci con il Vangelo per la dignita' della persona umana, creata ad
immagine di Dio, e contribuire insieme come Chiese alla riconciliazione dei
popoli e delle culture"; "ci impegniamo per un ordine pacifico, fondato
sulla soluzione nonviolenta dei conflitti. Condanniamo pertanto ogni forma
di violenza contro gli esseri umani, soprattutto contro le donne ed i
bambini"; "ci impegniamo a sostenere le organizzazioni ambientali delle
Chiese e le reti ecumeniche che si assumono una responsabilita' per la
salvaguardia della creazione".
Ci rivolgiamo a tutti voi che sentiamo fratelli e sorelle incamminati come
noi sulla via dell'impegno per la riconciliazione locale, nazionale,
internazionale frutto di giustizia e verita', e che sul fondamento della
fede cristiana desiderano adoperarsi per un'Europa umana e sociale in cui si
facciano valere i diritti umani ed i valori basilari della pace, della
giustizia, della liberta', della tolleranza, della partecipazione e della
solidarieta'.
Desta in noi particolare preoccupazione la presenza nel nostro continente di
una ingente quantita' di ordigni nucleari che, sebbene di molto superiori
dal punto di vista del potere distruttivo a quelli esplosi in Giappone alla
fine del secondo conflitto mondiale, vengono tacitamente accettati dalle
istituzioni che regolano la convivenza dei nostri popoli sottacendone non
solo l'alto potere distruttivo, ma anche l'inutilita' del potere detentivo
essendo rese inutili quali armi di difesa perche' "utili" nel solo caso
dell'offesa denominato "primo colpo".
In passato le chiese cristiane sono state esplicite nel condannarne l'uso:
riteniamo pero' urgente in questo momento che l'autorevole voce delle chiese
si alzi ancora una volta a ribadire questa condanna, a renderla piu'
esplicita,chiara e precisa, proprio in relazione all'ipotesi che potremmo
essere vicini al momento fatale in cui qualche governo ne ordini l'uso.
In Italia migliaia di donne e uomini impegnati nei movimenti per la pace
sentono l'urgenza di riattivarsi nell'opposizione alla cosiddetta "guerra
globale" con lo scopo di ridestare l'opinione pubblica su tale gravissimo
problema, cercando di far nascere un movimento per la "pace preventiva".
Oggi chiediamo a tutti voi di accogliere la nostra fraterna sollecitazione
affinche' i rappresentanti di tutte le Chiese dicendo no alla guerra, alla
guerra preventiva, alla strategia del terrore e alla logica del riarmo:
- dichiarino la strategia militare nucleare un crimine contro l'umanita';
- sottoscrivano una dichiarazione comune in cui, riassumendo l'esperienza e
la ricerca spirituale e morale delle chiese cristiane lungo i decenni
dell'era atomica, proclamino con la massima chiarezza che non solo l'uso e
la minaccia, ma anche la fabbricazione, la proliferazione e la semplice
detenzione di armi nucleari costituiscono un gravissimo peccato contro Dio,
contro l'umanita' e contro il creato;
- si impegnino a tutti i livelli, dalle aggregazioni laicali alle
istituzioni ecclesiali, ai vertici delle gerarchie, nella costante denuncia
di quella che riteniamo sia una violazione massima di ogni etica umana
civile e politica, che nessun diritto alla difesa puo' logicamente e
moralmente giustificare;
- offrano a tutta la societa' questo loro servizio a favore della pace,
promuovendo e sostenendo a tutti i livelli iniziative che favoriscano il
disarmo nucleare anche unilateralmente; facciano crescere la consapevolezza
popolare sui rischi legati alla proliferazione atomica e piu' in generale
alla militarizzazione, in uno spirito di umilta' e collaborazione con tutti
gli uomini e le donne di buona volonta' a loro volta impegnati su questi
temi, adoperandosi per rendere questo percorso comune a tutte le fedi.
Ci rivolgiamo a voi, fratelli e sorelle nella fede, che sentiamo
compartecipi del nostro stesso desiderio di pace e giustizia duratura, nella
speranza di avere la medesima esortazione e determinazione.
"Cosi' risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perche' vedano le
vostre buone opere e rendano gloria al vostro Padre che e' nei cieli" (Mt,
5, 16).
Vicenza, 6 agosto 2007
*
i movimenti sottoscrittori: Beati i costruttori di pace, Coordinamento
"Fermiamo chi scherza col fuoco atomico", Cipax - Centro intercofessionale
per la pace, Fcei - Federazione delle comunita' evangeliche italiane,
Gavci - Gruppo autonomo di volontariato civile in Italia, Mir - Movimento
internazionale della riconciliazione, Pax Christi, Tavola valdese, Ucebi -
Unione cristiana evangelica battista d'Italia.

***

RIFLESSIONE. UMBERTO GALIMBERTI: INTRODUZIONE A "IL CORPO"
[Dal sito www.feltrinelli.it riprendiamo l'Introduzione (pp. 11-27)
dell'autore a Il corpo, Feltrinelli, Milano 2002 (nuova edizione aggiornata
del testo apparso originariamente nel 1983; ora pubblicato come volume V
delle Opere di Umberto  Galimberti); sono state omesse l'epigrafe e le note.
Dallo stesso sito riportiamo anche la scheda editoriale (scilicet:
pubblicitaria) di presentazione del libro e l'indice: "Umberto Galimberti,
Il corpo, nuova edizione, Opere vol. V, pp. 604, euro 15. Organismo da
sanare, forza lavoro da impiegare, carne da redimere, inconscio da liberare:
nel corpo, nella repressione della sua naturale ambivalenza, e' leggibile la
storia culturale dell'Occidente. Nuova edizione aggiornata e ampliata. Un
libro affascinante e fondamentale, la proposta di una psicologia che,
togliendo la scissione anima/corpo su cui si fonda, cominci a pensarsi
contro se stessa. Dalla 'follia del corpo' di Platone alla 'maledizione
della carne' nella religione biblica, dalla 'lacerazione' cartesiana della
sua unita' alla sua 'anatomia' ad opera della scienza, il corpo vede
proseguire la sua storia con la sua riduzione a 'forza-lavoro' nell'economia
dove piu' evidente e' l'accumulo del valore nel segno dell'equivalenza
generale, ma dove anche piu' aperta diventa la sfida del corpo sul registro
dell'ambivalenza. Indice: Il corpo tra natura e cultura: il gioco
dell'ambivalenza. Parte prima - Il corpo in Occidente: l'equivalenza. 1. Le
comunita' primitive e l'ambivalenza simbolica del corpo. 2. La filosofia
greca e la soppressione dell'ambivalenza del corpo nell'equivalenza del
valore. 3. La religione biblica e il sacrificio del corpo nell'economia
della salvezza. 4. La ragione cartesiana e l'oggettivazione del corpo. 5. La
scienza e la riduzione del corpo a simulacro biologico. 6. La medicina e la
salute del corpo. 7. L'economia e l'alienazione del corpo nella produzione
del valore. Parte seconda - Fenomenologia del corpo: l'ingenuita'. 8. Il
corpo come apertura originaria. 9. Il corpo abita il mondo. 10. Lo spazio
del corpo. 11. Il tempo del corpo. 12. L'ambiente del corpo e l'ordine degli
strumenti. 13. Il gesto del corpo. 14. La voce del corpo. 15. Corpo e
comunicazione. 16. Le vesti del corpo e il sistema della moda. 17. La
liberta' del corpo. 18. L'altro corpo. 19. Corpo d'amore. 20. Il corpo e la
morte. Parte terza - Psicoanalisi del corpo: la presenza. 21. Il corpo e il
mondo: la presenza. 22. Il corpo e l'organismo. 23. Il corpo e il conflitto
dell'emozione. 24. Il corpo e la complicita' della carne. 25. Il corpo e la
sua immagine. 26. Il corpo e il suo doppio. Al di la' dell'inconscio. 27.
Corpo e alienazione. 28. I messaggi cifrati del corpo. 29. La parola
indivisa del corpo e il taglio della dottrina. Parte quarta - Sociologia del
corpo: l'iscrizione. 30. Il corpo e la demarcazione sessuale. 31. Il corpo e
il feticismo dei bisogni. 32. Il corpo e l'immaginario dei desideri. 33. Il
corpo e la legge. 34. Il corpo e le coercizioni del potere. 35. Corpo e
trasgressione. 36. L'inerzia del corpo e la dispersione dei segni. Parte
quinta - Semiologia del corpo: l'ambivalenza. 37. Il corpo e il linguaggio
simbolico. 38. Il corpo e la parte maledetta. 39. L'equivalente generale e
l'ambivalenza simbolica. 40. L'Oro e le merci. 41. Il Fallo e le pulsioni.
42. Il Senso e le parole. 43. Dio e gli dei. 44. L'Anima e il corpo. 45.
L'Universo e il diverso. 46. Il corpo e la sfida simbolica".
Umberto Galimberti, filosofo, saggista, docente universitario; materiali di
e su Galimberti sono nei siti http://venus.unive.it e www.feltrinelli.it
(che presenta molti suoi interventi sia scritti che audio e
videoregistrati). Dal sito www.feltrinelli.it riprendiamo la seguente scheda
aggiornata: "Umberto  Galimberti e' nato a Monza nel 1942, e' stato dal 1976
professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore
associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 e' professore ordinario
all'universita' Ca' Foscari di Venezia, titolare della cattedra di Filosofia
della Storia. Dal 1985 e' membro ordinario dell'international Association
for Analytical Psychology. Dal 1987 al 1995 ha collaborato con "Il Sole-24
ore" e dal 1995 a tutt'oggi con il quotidiano "la Repubblica". Dopo aver
compiuto studi di filosofia, di antropologia culturale e di psicologia, ha
tradotto e curato di Jaspers, di cui e' stato allievo durante i suoi
soggiorni in Germania: Sulla verita' (raccolta antologica), La Scuola,
Brescia, 1970; La fede filosofica, Marietti, Casale Monferrato, 1973;
Filosofia, Mursia, Milano, 1972-1978, e Utet, Torino, 1978; di Heidegger ha
tradotto e curato: Sull'essenza della verita', La Scuola, Brescia, 1973.
Opere di Umberto  Galimberti: Heidegger, Jaspers e il tramonto
dell'Occidente, Marietti, Casale Monferrato 1975 (Ristampa, Il Saggiatore,
Milano, 1994); Linguaggio e civilta', Mursia, Milano 1977 (II edizione
ampliata 1984); Psichiatria e Fenomenologia, Feltrinelli, Milano 1979; Il
corpo, Feltrinelli, Milano, 1983 (Premio internazionale S. Valentino d'oro,
Terni, 1983); La terra senza il male. Jung dall'inconscio al simbolo,
Feltrinelli, Milano 1984 (premio Fregene, 1984); Antropologia culturale, ne
Gli strumenti del sapere contemporaneo, Utet, Torino 1985; Invito al
pensiero di Heidegger, Mursia, Milano 1986; Gli equivoci dell'anima,
Feltrinelli, Milano 1987; La parodia dell'immaginario in W. Pasini, C.
Crepault, U. Galimberti, L'immaginario sessuale, Cortina, Milano 1988; Il
gioco delle opinioni, Feltrinelli, Milano 1989; Dizionario di psicologia,
Utet, Torino 1992 (nuova edizione: Enciclopedia di Psicologia, Garzanti,
Milano, 1999); Idee: il catalogo e' questo, Feltrinelli, Milano 1992; Parole
nomadi, Feltrinelli, Milano 1994; Paesaggi dell'anima, Mondadori, Milano
1996; Psiche e techne. L'uomo nell'eta' della tecnica, Feltrinelli, Milano
1999; E ora? La dimensione umana e le sfide della scienza (opera dialogica
con Edoardo Boncinelli e Giovanni Maria Pace), Einaudi, Torino 2000; Orme
del sacro, Feltrinelli, Milano 2000 (premio Corrado Alvaro 2001); La lampada
di psiche, Casagrande, Bellinzona 2001; I vizi capitali e i nuovi vizi,
Feltrinelli, Milano 2003; Le cose dell'amore, Feltrinelli, Milano 2004; Il
tramonto dell'Occidente, Feltrinelli, Milano 2005; La casa di psiche. Dalla
psicoanalisi alla consulenza filosofica, Feltrinelli, Milano 2006. E' in
corso di ripubblicazione nell'Universale Economica Feltrinelli lí'intera sua
opera. Traduzioni all'estero: in francese: (Il corpo) Les raisons du corps,
Grasset Mollat, Paris, 1998; in tedesco: (Gli equivoci dell'anima) Die
Seele. Eine Kulturgeschichte der Innerlichkeit, Verlag Turia + Kant, Wien,
2003; (Le cose dell'amore) Liebe, Beck, Monaco, 2006; in greco: (Storia
dell'anima) Historia tes psyches, Apollon, Thessaloniki, 1989; (Paesaggi
dell'anima) Topia psyches, Itamos, Athina, 2001; (Gli equivoci dell'anima)
Parermeneies tes psyches, University Studio Press, Athina, 2004: in
spagnolo: (Dizionario di psicologia) Diccionario de psicologia, Siglo
Veintiuno Editores, Citta' del Messico 2002; (Le cose dell'amore), Las cosas
del amor, Imago mundi, Madrid, 2006; in portoghese: (Orme del sacro) Rastros
do sagrado, Paulus, Sao Paulo, Brasil, 2003; (I vizi capitali e i nuovi
vizi) Os vicios capitais e os novos vicios, Paulus, Sao Paulo, Brasil, 2004;
(Psiche e techne. L'uomo nell'eta' della tecnica) Psiche e techne. O homen
na idade da tecnica, Paulus, Sao Paulo, Brasil, 2005; in giapponese: I vizi
capitali e i nuovi vizi, Tokio, 2004"]

Introduzione
Il corpo tra natura e cultura: il gioco dell'ambivalenza
Natura e cultura non sono gli estremi di un itinerario che l'umanita' non ha
mai percorso, ma semplicemente due nomi che qui impieghiamo per designare
l'ambivalenza con cui il corpo si esprimeva nelle societa' arcaiche e
l'equivalenza a cui oggi e' stato ridotto nelle nostre societa' dai codici
che le governano e dal corredo delle loro iscrizioni.
Sommerso dai segni con cui la scienza, l'economia, la religione, la
psicoanalisi, la sociologia di volta in volta l'hanno connotato, il corpo e'
stato vissuto, in conformita' alla logica e alla struttura dei vari saperi,
come organismo da sanare, come forza-lavoro da impiegare, come carne da
redimere, come inconscio da liberare, come supporto di segni da trasmettere.
Mai l'impronta della sua vita solitaria, alla periferia dei codici
strutturali, continua a passare inavvertita nella sua ambivalenza che,
incurante del principio di identita' e differenza con cui ogni codice
esprime la sua specularita' bivalente, dice di essere questo, ma anche
quello.
Come "significato fluttuante" il corpo con-fonde i codici con quella
operazione simbolica che consiste nel com-porre (sym-ballein) quelle
disgiunzioni in cui ogni codice si articola quando divide il vero e il
falso, il bene e il male, il bello e il brutto, Dio e il mondo, lo spirito e
la materia, ottenendo quella bivalenza dove il positivo e il negativo si
rispecchiano, producendo quella realta' immaginaria da cui traggono la loro
origine tutte le "speculazioni". Diciamo "immaginaria" perche' non esiste
una polarita' dove un termine e' tutto positivo e l'altro tutto negativo se
non per effetto di codice.
Proponendosi come questo ma anche quello, il corpo, che si concede a tutte
le iscrizioni ma anche vi si sottrae, con la sua ambivalenza le fa tutte
oscillare. Luogo e non-luogo del discorso, esso opera quel taglio geologico
nella storia che ne rivela tutte le stratificazioni. Da centro di
irradiazione simbolica nelle comunita' primitive, il corpo e' diventato in
Occidente il negativo di ogni "valore", che il sapere, con la fedele
complicita' del potere, e' andato accumulando. Dalla "follia del corpo" di
Platone alla "maledizione della carne" nella religione biblica, dalla
"lacerazione" cartesiana della sua unita' alla sua "anatomia" a opera della
scienza, il corpo vede concludersi la sua storia con la sua riduzione a
"forza-lavoro" nell'economia, dove piu' evidente e' l'accumulo del valore
nel segno dell'equivalenza generale, ma dove anche piu' aperta diventa la
sfida del corpo sul registro dell'ambivalenza.
Qui "sfida" non significa che il corpo si oppone a qualcosa o a qualcuno, ma
semplicemente che non si affida a una pienezza di senso e di valore, non
perche' abbia obiezioni o riserve che qualsiasi discorso sarebbe in grado di
recuperare o di assorbire, ma perche' quella pienezza di senso e di valore
e' cresciuta sulla sua mortificazione, la quale, se da un lato ha lasciato
il corpo senza senso, senza nome, senza identita', dall'altro gli ha dato la
possibilita' di diventare il contro-senso, colui che dissolve il nome e
risolve l'identita' nelle sue adiacenze: "A e non-A", perche' questo e' il
gioco dell'ambivalenza simbolica, e insieme la strada con cui il corpo puo'
recuperarsi dalle divisioni disgiuntive in cui sapere e potere l'hanno
ripartito. Fin qui la Prima parte: "Il corpo in Occidente: l'equivalenza".
*
Ma la constatazione della riduzione dell'ambivalenza simbolica del corpo
all'equivalente generale del valore non e' un preludio alla "liberazione"
del corpo, al giorno in cui gli verra' restituita la sua es-pressione contro
la re-pressione del sistema. Queste pagine ritengono che tale liberazione
appartenga a una storia passata e sia in ritardo di una rivoluzione, come il
Messia di Kafka che viene l'indomani del Giudizio Finale quando non e' piu'
necessario, quasi un effetto di realta' ritardata, per salvare dei corpi che
non hanno mai avuto bisogno ne' del Messia ne' della rivoluzione per
accadere. Inoltre questo sistema di "liberazione", a cui da' man forte tutta
quella letteratura che ormai si spreca sul corpo e sul desiderio, e'
oltremodo insidioso, perche' finisce col mobilitare, e non per liberare, le
potenzialita' espressive del corpo (che gia' da tempo sono state confiscate
dall'"anima", dallo "spirito" o dai "valori"), per un'emancipazione
programmata, in vista di uno sfruttamento piu' razionale e sistematico.
E cosi' paradossalmente questa "scoperta del corpo", che si vuole presentare
come premessa per la sua liberazione, e' utilizzata per liquidarlo
definitivamente nell'ingranaggio del sistema e della sua produzione che, non
contenta di sfruttare del corpo la sua forza-lavoro, ne sfrutta anche la
forza del desiderio, allucinandolo con quegli ideali di bellezza,
giovinezza, salute, sessualita' che sono poi i nuovi valori da vendere.
Mobilitato dal sistema nel processo di appetizione-soddisfazione, a cui
tutti i moti di "liberazione del corpo" danno il loro inconsapevole
contributo, il corpo diventa quell'istanza gloriosa, quel santuario
ideologico in cui si consumano gli ultimi resti della sua alienazione. Tutte
le religioni della spontaneita', della liberta', della creativita', della
sessualita' grondano del peso del produttivismo e della logica dei valori,
che possono crescere e accumularsi solo se il corpo si lascia sedurre e
abbandona il suo naturale campo di gioco che e' quello dell'ambi-valenza.
Non alla liberazione del corpo conducono dunque queste pagine, ma alla sua
innocenza.
*
Qui si apre la Seconda parte: "Fenomenologia del corpo: l'ingenuita'", dove
il corpo dispiega il suo spazio che non e' geometrico, il suo tempo che non
e' cronologico, dove il mondo (Welt) si raccoglie in quel mondo-ambiente
(Um-welt) in cui si dispiegano le sue cose, tra quelle distanze che sono
proporzionali ai suoi gesti, accompagnati da quelle parole che giungono fin
dove giunge il suono della sua voce. Declinandosi come corpo d'amore gioca
col pudore, con la carne, con le vesti, incontra l'altro corpo e con lui
misura lo spazio di liberta' che la situazione gli concede, fino a quella
situazione-limite che e' la morte, dov'e' il congedo del corpo, il suo
silenzio.
Non piu' l'anima e il corpo, ma il corpo e il mondo, in quella originaria
co-esposizione in cui e' il primitivo senso del mondo, il suo scaturire
immotivato, a cui il corpo, dopo il primo ingenuo contatto, cerca di dar
senso. Abitando il mondo, il corpo contrae abitudini in uno spazio che non
lo ignora, tra cose che dicono il suo vissuto, dove conoscere e'
riconoscere, e' sentirsi a casa, perche' le cose sono caricate di quel senso
che, trascendendo la loro pura oggettivita', le sottrae al loro anonimato,
per restituirle ai gesti abituali, che consentono al corpo di sentirsi fra
le sue cose, presso di se'.
Ma proprio qui il corpo incomincia a conoscere la sua connaturata
ambivalenza. "Essere-nel-mondo" significa infatti, per il corpo, sfuggire
all'assedio del mondo per abitarlo, fuggire dal proprio essere in mezzo al
mondo per averlo come luogo d'abitazione. In questo gioco dell'ambivalenza,
il corpo deve anche fuggire da se' per prendersi cura di se'. La sua cura e'
per se', solo se e' per il mondo; solo correndo verso il mondo il corpo si
soccorre. In questo senso il corpo e' sempre fuori di se', e'
intenzionalita', trascendenza, immediato sbocco sulle cose, apertura
originaria, continuo progetto e percio' proiezione futura.
Ma quando il corpo, da veicolo nel mondo, diventa l'ostacolo da superare per
essere al mondo, allora e' l'alienazione, dove il corpo erra enigmaticamente
in regioni dove il senso si fa controsenso, dove l'Inquietante si
distribuisce su tutte le cose, caricandole di significati eccedenti, anzi
eccessivi, perche' la sua "ambivalenza" si declina in quella "polivalenza"
dove tutto diventa possibile, perche' il reale s'e' a tal punto allontanato,
da lasciare dietro di se' solo tracce allucinate. Eppure anche qui il corpo
non rinuncia al suo modo di essere al mondo come apertura originaria, solo
declina la sua "presenza" secondo modalita' cosi' desuete che lo rendono
incomunicabile nella sua radicale solitudine.
*
Qui prende avvio la Terza parte: "Psicoanalisi del corpo: la presenza".
E' dove il corpo lancia messaggi, che la medicina, la psichiatria e la
psicoanalisi classica non possono raccogliere, per la semplice ragione che
non conoscono il corpo perche' hanno frequentato sempre e solo l'organismo,
il quale, a differenza del corpo, non dispone di un'intenzionalita'
dispiegata nel mondo. Finche' la medicina, la psichiatria e la psicoanalisi
non guadagneranno l'ambivalenza del corpo, superando la disgiunzione
cartesiana tra res cogitans e res extensa, tra corpo e mente, tra soma e
psiche, tra conscio e inconscio, non solo si troveranno a trattare il corpo
umano come un qualsiasi oggetto della natura, con un atteggiamento che,
lungi dall'essere "naturale" come queste discipline pretendono, e'
"naturalistico", ma di fronte alla malattia, al suo insorgere, al suo
aggravarsi o alleviarsi, si troveranno nelle condizioni di "spiegare"
qualcosa, come dice Jaspers, senza nulla "comprendere", a meno di non
considerare "compreso" un fenomeno per il fatto che gli si e' assegnato il
nome magico di "conversione" o di "somatizzazione", intorno a cui si
sollevano le polemiche degli organicisti e degli psicologisti, occupati
entrambi a far collimare le due parti di un'unita' che non la natura, ma le
esigenze metodologiche della scienza hanno impropriamente tenute divise e
separate.
Ove pero', recuperata l'ambivalenza del corpo, si sappia sottrarsi alla
seduzione delle riduzioni naturalistiche ed evitare, come dice Husserl, "gli
errori seducenti in cui sono caduti Cartesio e i suoi successori" e'
possibile riconoscere che il corpo non e' quella "cosa" postulata dagli
anatomo-patologi e dai fisiologi, non perche' sia un'altra realta', ma
perche' il corpo-cosa e' un modo univoco di rendere presente il corpo, un
modo che non puo' pretendere di risolvere in se' ogni modalita' della
presenza. Il corpo puo' infatti attuarsi e rivelarsi in infiniti modi, tempi
e luoghi, per cui noi ad esempio siamo la' in carne e ossa fin dove ci
trascendiamo, in quel mondo sociale (Mit-welt) e circostante (Um-welt) dove
siamo con qualcuno o con qualcosa d'altro da noi. Questa e' la ragione per
cui, fin dove si estende la presenza, la' si estende il mio corpo, perche'
suo e' quello spazio, come e' del danzatore lo spazio di cui egli si
appropria nel danzare.
Ogni mio atto rivela infatti che la mia presenza e' corporea e che il corpo
e' la modalita' del mio apparire. Questo organismo, questa realta' carnale,
i tratti di questo viso, il senso di questa parola portata da questa voce
non sono le espressioni esteriori di un Io trascendentale e nascosto, ma
sono io, cosi' come il mio volto non e' un'immagine di me, ma sono io
stesso. Nel corpo, infatti, c'e' perfetta identita' tra essere e apparire, e
accettare questa identita' e' la prima condizione dell'equilibrio. Non
esiste un pensiero al di fuori della parola che lo esprime, perche', solo
abitando il mondo della parola, il pensiero puo' risvegliarsi e farsi
parola. Allo stesso modo non esiste un uomo al di fuori del suo corpo,
perche' il suo corpo e' lui stesso nella realizzazione della sua esistenza.
Se non si accetta la totalita' di questa presenza e la sua ambivalenza, e'
impossibile accedere alla comprensione della realta' umana e all'ordine dei
suoi progetti.
*
Ma i metodi della scienza non sono idonei a valutare i progetti d'esistenza,
e la "follia" e' pur sempre un progetto d'esistenza, un modo diverso fin che
si vuole di essere-nel-mondo. A questo punto come puo' uno psichiatra
"comprendere" la soggettivita' di un paziente se la dottrina di cui dispone
serve solo a "oggettivarlo" e quindi a tenerlo a distanza? L'obiezione vale
anche per il linguaggio psicoanalitico. Termini come "mente" e "corpo",
"psiche" e "soma", "Es", "Io", "Super-io", "conscio" e "inconscio", oltre a
dividere l'uomo secondo il sistema di riferimento presupposto, vi si
riferiscono come a un'entita' isolata, la cui qualita' essenziale non e'
quella di essere in rapporto con gli altri e col mondo.
L'ambivalenza del linguaggio simbolico, questa parola indivisa del corpo,
sfugge infatti a tutte le distinzioni del discorso scientifico che tende
sempre all'univocita', anche quando, come il discorso analitico, sfrutta
l'equivoco. Non e' moltiplicando le incognite che si recupera l'ambivalenza
del linguaggio, perche' la' dove ogni parola sta per un'altra, ogni
messaggio, lungi dall'essere lasciato essere per cio' che e', cade sotto la
legge che lo erige a significato, dividendo la parola indivisa in
significato latente e significato manifesto. Non instaurasse l'inconscio per
raccogliere i significati latenti, la psicoanalisi non potrebbe erigere il
suo significante; non instaurasse la barra tra cio' che e' detto e cio' che
e' taciuto si dissolverebbe il suo campo di gioco.
Nata dal taglio con cui ha diviso (dia-ballein) la coscienza dall'inconscio,
la dottrina analitica rischia di morire della loro riunione (sym-ballein),
verso cui la incalza l'operazione simbolica che la psicoanalisi, per effetto
del suo metodo, non conosce, nonostante quello che presume di se'.
Evitando di sovraccaricare l'esistente di una struttura teorica a lui
estranea, per lasciare che si imponga all'evidenza cosi' come esso e', cio'
che appare non saranno le sue "carenze" o i suoi "eccessi", ma i suoi modi
di essere che, la' dove la presenza non e' pre-codificata, non si
riveleranno come dis-funzioni, ma semplicemente come funzioni di una certa
strutturazione della presenza, ossia di un certo modo di "essere-nel-mondo"
per progettare un mondo. In questo modo si puo' rinunciare a privilegiare un
mondo rispetto a un altro, il mondo del "sano" rispetto al mondo del
"malato", e per distinguere, nel loro specifico costituirsi, i "mondi" delle
diverse forme dell'alienazione, sara' sufficiente, senza ricorrere ad alcuna
visione del mondo precostitutivamente assunta a norma e a modello, scoprire
le incrinature presenti nelle strutture trascendentali che presiedono la
formazione di un mondo. Tali sono le strutture con cui un corpo si da' un
tempo, uno spazio, un mondo, una co-esistenza.
*
E proprio dall'analisi della coesistenza prende le mosse la Quarta parte:
"Sociologia del corpo: l'iscrizione", perche' da sempre il corpo e'
superficie di scrittura atta a ricevere il testo visibile della legge che la
societa' detta ai propri membri, marchiandoli. Ogni cicatrice e' una traccia
indelebile, un ostacolo all'oblio, un segno che fa del corpo una memoria.
Per questo le societa' arcaiche iniziavano gli adolescenti alla vita sociale
col rito della tortura. Marchiando il corpo, esse lo de-signavano come
l'unico spazio idoneo a portare il "segno" del gruppo, la "traccia" del
passaggio che "con-segna" l'individuo alla societa'. Un uomo iniziato,
infatti, e' un uomo segnato, as-segnato alla vita del gruppo che, con
cicatrici indelebili, gli in-segna la sua definitiva appartenenza sociale.
Ma l'iscrizione dei primitivi non sopprime l'ambivalenza simbolica, per la
semplice ragione che le comunita' arcaiche sono il luogo della circolazione
dei simboli che si scambiano tra loro, senza riflettersi in un Significante
supremo, come puo' essere la trascendenza di una Legge separata, lontana,
dispotica, che articola le relazioni sociali nel rapporto
comando/obbedienza. Il "segreto del gruppo", che gli anziani comunicano agli
iniziati, e' il gioco dei simboli, una rete polinodale che non si raccoglie
in un punto e percio' non produce ne' potere ne' gerarchia. La circolazione
dei simboli nelle societa' primitive e' libera e fluttuante e non ha nulla
in comune con la rigida circolazione dei segni all'interno di un codice,
com'e' nell'ordine delle nostre societa', dove i corpi sono sottratti
all'ambivalenza dei loro possibili significati, per essere consegnati a
quell'identita' di gruppo a cui devono as-similarsi e uni-formarsi nella
rimozione delle differenze.
Questa e' la vera crudelta' dell'iscrizione, piu' dolorosa dell'iscrizione
cruenta, perche', incarnando un segno, la cui comparsa annulla tutta
l'ambivalenza del corpo, la sua disponibilita' per altre indicazioni, il
corpo non dice piu' di se', ma del Significante che l'ha segnato e a cui ha
con-segnato la propria potenza, e da cui il Significante attinge la sua
forza per adoperarla contro i corpi, riproducendosi in essi. Si sa che per
accaparrarsi il potere basta far funzionare i corpi secondo un determinato
registro di segni. In questo regime i segni acquistano serieta' e i corpi
diventano solo lo spazio della loro scrittura. Il loro linguaggio cessa di
essere "espressivo" per diventare "indicativo" del Significante supremo, di
cui i corpi si limitano a recitare il nome. Un nome vuoto, che non ha
bisogno di un segno proprio, perche' l'impossibilita' di attribuirgliene uno
e' la prova della sua trascendenza, dell'assolutezza del "suo" senso. Il suo
modo di dominare, infatti, non e' nell'imporre un senso, come facevano i
primitivi col marchio, ma nello svuotare di senso tutti gli altri segni a
cui il corpo, nella sua originaria ambivalenza, potrebbe con-segnarsi.
Marchiato dalla divisione sessuale, iscritto nel feticismo dei bisogni,
nell'immaginario dei desideri, nel luogo della legge, nelle discipline del
potere, il corpo si produce inutilmente nella "trasgressione", altro mito
non meno insidioso di quello della "liberazione" del corpo, perche' il
divieto che essa incrocia e spezza si ricompone alle sue spalle come un'onda
di poca memoria. Divieto e trasgressione devono l'uno all'altra la densita'
del loro essere, cio' verso cui la trasgressione si scatena e' il limite che
la incatena. La trasgressione e' la glorificazione del limite imposto dalla
legge e dalle sue iscrizioni.
L'impotenza della trasgressione e' nel fatto che, al pari del divieto in cui
si specchia, e' un prodotto di quella logica disgiuntiva in cui si articola
la metafisica della ragione, e che ha trovato il suo logos e quindi la sua
legge in quel principio di identita' e non contraddizione per cui "A e' A e
non e' non-A". Contro questo principio disgiuntivo, per cui questo e' questo
e non altro, non vale la "differenza" di cui parla Derrida, perche'
all'unicita' di significato del Logos, al suo senso mono-valente, mascherato
dalla bivalenza degli opposti in cui si articola, non si oppone la
poli-valenza del gioco indiscriminato delle differenze, ma l'ambi-valenza
simbolica, dove le cose significano in un senso, ma anche altrimenti.
*
Qui si apre la Quinta parte: "Semiologia del corpo: l'ambivalenza" che, come
composizione simbolica (sym-ballein) disperde tutti i segni prodotti dalla
logica disgiuntiva e quindi diabolica (dia-ballein) di ogni Significante
supremo, che fa passare per realta' i suoi effetti di codice. Negando la
corporeita' delle cose, la loro "differenza naturale", per quell'"identita'
astratta", senza di cui, in regime economico, sarebbe impossibile
scambiarle, il Valore risolve l'ambivalenza simbolica, che i primitivi
riconoscevano nel corpo delle cose, in quell'equivalenza generale che
consente, nonostante le loro differenze, di esprimerle tutte in riferimento
a quel supremo Significante che e' l'Oro per le merci, il Padre per i figli,
il Fallo per le pulsioni, il Senso per le parole, il Dio per gli dei,
l'Anima per i corpi. Capo, capoluogo, capitale, capitalismo, paternalismo,
fallocrazia, logocentrismo, monarchia, monoteismo sono altrettanti
equivalenti generali che in se' raccolgono ed esprimono il senso di tutte le
cose, definitivamente sottratte al gioco simbolico della loro ambivalenza.
Una volta ridotte allo stesso de-nominatore, le cose perdono il loro nome
per recitare indefinitamente il nome del Valore che le esprime. Non si
rispecchiano piu' l'una nell'altra, non si scambiano fra loro, ma si
proiettano su quello schermo trascendente che e' l'Equivalente generale che
tutte le esprime. La storia del pensiero occidentale e' percorsa per intero
dal tentativo di annodare il particolare all'universale, il contingente al
necessario, il molteplice all'unitario, il terrestre al celeste, il profano
al divino, il reale all'ideale, il relativo all'assoluto, risolvendo ogni
conflitto interno all'ambi-valenza nell'equi-valenza, che poi diviene
pre-valenza su tutti gli scambi a essa subordinati e da essa regolati.
Prevalenza teologica rispetto ai soggetti particolari, monarchia rispetto
alle persone sociali, fallocrazia rispetto agli oggetti sessuali,
logocentrismo rispetto agli scambi dei segni, capitalismo rispetto ai
prodotti del lavoro.
*
I primitivi scongiuravano questa eventualita' con il potlac dei beni, con la
distruzione sontuosa di immense ricchezze che, accumulate, avrebbero
acquistato quel valore che essi temevano come "la parte maledetta", perche'
avrebbe sbilanciato i rapporti sociali a favore di chi li possedeva. Con
l'obbligo di donare, ma anche con l'obbligo di ricevere e di restituire, i
primitivi garantivano la reversibilita' di tutti i beni, di tutte le cose e
di tutti gli uomini, e in questo modo scongiuravano il potere che nasce
proprio dalla non-reciprocita' dei rapporti, dal dono senza contro-dono.
Al potere che accumula e, sulla ricchezza capitalizzata, fonda la sua
autosufficienza e la sua signoria, i primitivi oppongono il potere che
perde, e nella perdita acquista una signoria che non mette mai il Signore al
riparo dal bisogno, perche' e' una signoria continuamente riciclata dalla
sfida dell'altro, nella reversibilita' totale dello scambio. Il
comportamento dei primitivi qui e' indicativo non perche' noi si debba
tornare ai loro modi di vita - questo sentiero e' assolutamente
impraticabile -, ma perche' si abbia ad assumere nei confronti dei valori
quell'atteggiamento che essi assumevano nei confronti dei beni: il potlac
generalizzato, il sacrificio, che, sottraendo alle cose il loro valore, le
restituisce alla loro ambivalenza, e vietando agli uomini di esprimersi
esclusivamente come proprietari delle cose, vietava a loro di porre a se
stessi i limiti della cosa.
Questo capovolgimento oggi lo puo' operare solo il corpo, qualora,
rifiutandosi di offrirsi all'economia politica "esclusivamente" come
forza-lavoro, all'economia libidica "esclusivamente" come fonte di piacere,
all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come
carne da redimere, all'economia dei segni come supporto di significazioni,
il corpo sottrae a tutti questi codici il loro referente, e alle economie,
che su queste codificazioni hanno accumulato il loro valore, il loro senso.
Questo il corpo lo puo' fare perche', nonostante le iscrizioni abbiano
sempre cercato di dividerlo, nel loro immaginario, in quei settori in cui
era possibile ricondurlo all'equivalente generale in cui si esprime di volta
in volta l'economia di un codice, il corpo e' ambivalente, e' cioe' una cosa
ma anche l'altra, per cui: o la vita del sistema dei codici sulla divisione
del corpo, o la vita del corpo sulla frantumazione dei codici, con
conseguente potla'c del loro valore accumulato.
Non piu' scambio simbolico dei beni, con loro conseguente distruzione come
presso i primitivi, ma scambio simbolico dei codici, loro messa in gioco,
con conseguente distruzione dell'equivalente generale che sempre ha
garantito la circolazione degli scambi, determinandone di volta in volta il
valore.
L'effetto dello scambio simbolico dei codici e' la frantumazione di
quell'equivalente generale che da sempre ha presieduto la costruzione del
sapere psicologico, regolato da quella logica disgiuntiva che separa l'anima
dal corpo. Nella prospettiva che qui si va inaugurando e' allora necessario
che la psicologia incominci a pensarsi contro se stessa e a comprendersi al
di la' della sua nominazione idealistica che la propone come "discorso sulla
psiche", quindi su quell'unita' ideale del soggetto che la grecita' ha
promosso col termine psyche', e a cui la psicologia non s'e' ancora
sottratta, neppure nella sua piu' moderna espressione scientifica.
*
Ma pensare contro non significa pensare l'opposto, mantenendosi su quel
medesimo terreno di opposizione in cui il conflitto, cosi' come si genera,
si riassorbe. Pensare contro significa pensare fino in fondo, quindi andare
alle radici, scavando il fondo su cui si impianta il radicamento. Questa
operazione, che rimuove la solidita' delle radici, disloca la psicologia dal
luogo che s'e' data, quindi la dis-orienta, la sottrae al suo oriente, alla
sua origine storica.
Questa origine e' rintracciabile nella cultura greca, e precisamente in quel
momento in cui la specificita' dell'uomo e' sottratta all'ambivalenza delle
sue espressioni corporee, per essere riassunta in quell'unita' ideale, la
psiche, che da Platone in poi, per tutto l'Occidente, sara' il luogo di
riconoscimento dell'unita' del soggetto, della sua identita'. Ma questo
luogo di identificazione contiene gia' il principio della separazione,
perche', come coscienza di se', la psiche incomincia a pensarsi per se', e
quindi a separarsi dalla propria corporeita'. La prima operazione metafisica
e' stata un'operazione psicologica.
Nata con un significato semplicemente classificatorio per designare quei
libri aristotelici che erano collocati dopo (meta') i libri di fisica (ta'
physika'), la "metafisica" ha guadagnato ben presto e coerentemente un
significato topico che designa un al di la' della natura, quindi una scienza
dell'ultrasensibile che si differenzia dal mondo dei corpi perche', contro
il loro divenire e mutare, rappresenta l'immutabile e l'eterno. L'idea
platonica e' il modello di questa separazione e contrapposizione, e la
psiche, essendo "amica delle idee", incomincera' a considerare il corpo come
suo carcere e sua tomba.
Una volta che la verita' e' posta come idea, l'opposizione tra ideale e
sensibile, tra anima e corpo, diventa l'opposizione tra vero e falso, tra
bene e male. Valori logici e valori morali nascono da questa
contrapposizione, che la metafisica ha creato e la scienza moderna ha
mantenuto, rivelando cosi' la sua profonda radice metafisica, se e' vero,
come dice Nietzsche, che "la credenza fondamentale dei metafisici e' la
credenza nelle antitesi dei valori".
A questo punto per la psicologia, pensarsi contro se stessa, pensarsi fino
in fondo, fino al fondo della sua origine storica, significa pensarsi contro
questa antitesi di valori, che non la realta', ma lo sguardo metafisico, con
cui la psicologia ha generato se stessa, ha instaurato. E' uno sguardo che
ancora ospita la psicologia come residuato di quell'idealismo che, a partire
da Socrate e Platone, ha percorso l'Occidente come suo lungo errore.
Da questo errore la filosofia si e' emancipata con Nietzsche, che ha
denunciato quel retro-mondo, "quell'al di la' inventato per meglio
calunniare l'al di qua", ma non la psicologia, che cosi' rimane la piu'
occidentale delle scienze e quindi la piu' metafisica, se per metafisica
intendiamo il pensiero della separazione, il puro dia-ballein, da cui
nascono quelle antitesi denunciate da Nietzsche e fedelmente riportate dal
discorso psicologico sulla norma, dove si disgiungono ragione e follia.
Fattasi carico della logica della separazione, inaugurata dalla disgiunzione
platonica tra corporeo e ideale, la psicologia, se vuol esser coerente con
se stessa, non puo' parlare del corpo se non impropriamente, se non per
un'infedelta' al suo statuto scientifico, a meno che per "corpo" non intenda
l'idea di corpo che come scienza si e' data. Ma se il corpo anatomico, a cui
questa idea si riduce dopo che lo psichico e' stato separato e
autonomizzato, non e' il luogo in cui la psicologia si riconosce, allora del
corpo la psicologia potra' parlare propriamente solo se si pronuncia contro
se stessa, contro lo statuto della separazione, che e' poi quell'origine
metafisica da cui la psicologia e' nata, ha fondato se stessa come scienza,
e ancora si conserva.
Consapevole di tale alternativa, questo libro sul corpo non rappresenta un
argomento psicologico, un luogo d'indagine tra i molti che la psicologia
puo' esplorare, ma indica l'argomento, il luogo a partire dal quale la
psicologia deve rivedere se stessa dalle radici, sottraendole a quel terreno
metafisico che, ricoprendole, ancora alimenta la psicologia come scienza, e
a un tempo cela, come ogni terreno che ricopre, l'antico errore.
*
Come luogo della revisione psicologica, il corpo parla simbolicamente, non
nel senso in cui la psicoanalisi parla dei simboli per ribadire un'altra
separazione, quella tra conscio e inconscio, dove nell'inconscio si ritrova
il rovescio dell'iperuranio platonico, il "vero" significato di cio' che si
manifesta, ma nel senso di abolire la barra che ha separato l'anima dal
corpo, inaugurando la "psico-logia". Abolire la barra significa mettere
assieme, sym-ballein. Proponendosi come simbolo, il corpo abolisce la
psicologia come storicamente si e' pensata in Occidente, la sradica dalle
sue radici storiche, che sono poi quelle metafisiche e idealistiche, e cosi'
la costringe a pensarsi contro se stessa.
Questo pensiero che e' contro, perche' pensa fino in fondo, fino alle
radici, incontra la corporeita' che, nel suo sorgere immotivato e nel suo
ambivalente apparire, dice di essere questo, ma anche quello. L'ambivalenza
cosi' dischiusa non e' ambiguita', ma e' quell'apertura di senso, a partire
dalla quale anche la ragione puo' fissare l'opposizione dei suoi
significati, e quindi quell'antitesi dei valori, in cui si articola la sua
logica disgiuntiva quando divide il vero dal falso, il bene dal male, il
bello dal brutto, Dio dal mondo, lo spirito dalla materia, l'anima dal
corpo.
Queste opposizioni sopprimono l'ambi-valenza (amphi'), con cui la realta'
corporea originariamente appare nel suo duplice aspetto, come un Giano
bifronte, per instaurare quella bi-valenza (bis) dove il positivo e il
negativo si rispecchiano, producendo, come gia' abbiamo detto, quella
realta' immaginaria da cui traggono origine tutte le "speculazioni". Diciamo
"immaginaria" perche' la realta' non puo' mai di per se' essere negativa se
non per effetto di una valutazione. Ma se il negativo e' da interpretare
semplicemente come il "valutato negativamente", allora la negativita'
attiene essenzialmente al giudizio di valore.
*
Il gioco dell'ambivalenza, infatti, e' aperto prima che il sapere metafisico
fissi le regole del gioco, e proprio perche' le regole vengono dopo, questo
gioco e' imprevedibile, perche' nessuna determinazione posta in gioco
conosce la sua destinazione. L'unica certezza e' quella che non ci si puo'
sottrarre alla necessita' del gioco, non si puo' dire l'ultima parola sul
gioco e fermarlo per sempre.
Per la sua natura ambivalente, infatti, il corpo e' una riserva infinita di
segni, entro cui lo stesso sapere psicologico, che ha individuato nella
psiche lo specifico dell'uomo, diventa a sua volta un segno, una modalita'
di ricognizione che non puo' pretendere di dire qual e' il senso ultimo del
corpo. Qui il corpo si cela non perche' nasconde se stesso, ma perche' in
esso i segni sovrabbondano sulle capacita' che il sapere psicologico ha di
ordinarli. Il volume di senso indotto dai segni del corpo prevale infatti
sulla costituzione dei significati istituiti dalla rappresentazione che il
sapere psicologico s'e' fatto. Si tratta allora di demolire la semplicita'
della rappresentazione psicologica, dissolvendola nella pluralita' di senso
che la sovrabbondanza dei segni produce.
Se cio' non accade, se la psicologia non si pensa contro la rappresentazione
che si e' data, a partire da quell'alba greca in cui ha preso avvio
l'autonomizzazione della psiche, la psicologia non solo non giungera' mai
alla comprensione dell'espressivita' originaria del corpo, ma sara'
costretta a errare, perche' ignora l'errore che e' alla base della sua
fondazione epistemica, della sua nascita come scienza.
Si tratta di un errore che non investe solo il sapere psicologico ma ogni
sapere razionale quando, sottraendosi alla polisemia della realta' corporea,
si afferma come asserzione incontrovertibile su di essa. In questo
passaggio: dalla verita' come ambivalenza alla verita' come decisione sul
vero e sul falso, il sapere razionale dimentica di essere una procedura
interpretativa tra le molte possibili per porsi come assoluto principio,
dimentica di essere un inganno necessario per dirimere l'enigma
dell'ambivalenza, e in questa dimenticanza diviene un inganno perverso.
Contro questo inganno il corpo rimette in gioco la sua natura polisemica,
rifiutandosi di offrirsi all'economia politica esclusivamente come
forza-lavoro, all'economia libidica esclusivamente come fonte di piacere,
all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come
carne da redimere, all'economia dei segni come supporto di significazioni.
In questo rifiuto il corpo sottrae a tutti i saperi il loro referente, e
alle economie, che su queste codificazioni hanno accumulato il loro valore,
sottrae il loro senso.
Cio' e' possibile perche', nonostante le iscrizioni nel loro immaginario
abbiano cercato di dividere il corpo in quei settori in cui era possibile
ricondurlo all'equivalente generale in cui si esprime di volta in volta
l'economia di un sapere, il corpo e' ambivalente, e' cioe' una cosa, ma
anche l'altra, per cui: o la decisione del sapere sulla divisione del corpo,
o l'ambivalenza del corpo sulla frantumazione dei saperi, con conseguente
dissolvimento del loro valore accumulato.
Per sfuggire a questa alternativa, che e' inevitabile dal momento che ogni
sapere e' un'assunzione di prospettiva, quindi una selezione della visione,
che diviene condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso,
occorre riguadagnare il terreno su cui il sapere occidentale e' cresciuto.
Questa consapevole riappropriazione non e' una regressione, non e'
l'abbandono del solido terreno del sapere, al contrario, e' la ricostruzione
genealogica del suo significato.
Riproporre l'ambivalenza del corpo non significa quindi rifiutare il sapere
razionale, ne' tantomeno accettarne la resa, ma significa andare alle radici
di questo sapere e scoprirlo per cio' che e': nulla di piu' che un tentativo
per far fronte all'ambivalenza della realta' corporea che, cosi' riscoperta,
e' cio' che da' ragione delle molteplici ragioni.
Queste ragioni, che i saperi tendono a solidificare, non possono piu'
proporsi come assoluta verita', perche' ormai si e' scoperto che la verita'
non e' nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma nell'apertura
dell'universo del senso, che l'ambivalenza della realta' corporea custodisce
come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche. Si tratta di un
senso che sta prima di ogni significato, e che nessun significato promosso
dalla decisione scientifica puo' abolire, perche' e' prima di ogni inizio e
continua oltre ogni conclusione.
Ne consegue che alla metafisica dell'equivalenza - produttrice di quei
significati con cui in Occidente si sono fatti circolare i corpi, secondo
quel preciso registro di iscrizioni che di volta in volta li de-terminava e
sulle cui de-terminazioni sono nati i vari campi del sapere, le cui
complicita' col potere non sono oggi da scoprire - il corpo puo' sostituire
il gioco dell'ambivalenza, che e' poi quell'apertura di senso che, venendo
prima della de-terminazione dei significati, puo' mettere in gioco tutti i
codici con il corredo delle loro iscrizioni, in un'operazione simbolica in
cui il potere perde la sua presa, perche' la de-limitazione dei campi, in
cui da sempre si e' esercitato, si e' simbolicamente con-fusa.
*
Questa e' la sfida del corpo, una sfida che e' gia' iniziata se c'e' da dar
credito a quello smarrimento generalizzato che lamenta la confusione dei
valori, il loro crollo, il loro potlac. Niente di piu' benefico. Sono i
primi effetti di quella violenza simbolica, rispetto a cui quella politica
e' in ritardo di una generazione, perche' ancora crede in una controparte, e
quindi non sa che ogni parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto
di quell'operazione disgiuntiva, che il codice mette in atto per mascherare
la propria monarchia.
Ma quando la realta' immaginaria, prodotta dalle opposizioni polari in cui
si articola ogni struttura codificata, non riesce piu' a farsi passare per
realta' vera, in quel gioco di specchi dove nulla si "scambia", ma tutto si
"specula", allora si e' piu' vicini all'ambivalenza, non per una
contrapposizione dialettica o per una opposizione organizzata, ma perche'
la' dove tutte le maschere sono cedute, compresa quella della bivalenza
codificata, ogni termine che ruota su se stesso si s-termina.
Questo e' l'esito simbolico che attende l'ordine strutturale di ogni codice.
E gia' se ne vedono le tracce. Seguendole, il corpo consegna ogni
"ontologia" e ogni "deontologia" alla "geo-grafia", alla grafia della terra,
la piu' dicente, la piu' descrittiva, quella che non accorda privilegi
ontologici, perche' non conosce la mono-tonia del discorso, ma
l'ambi-valenza della cosa.

***


 INCONTRI. SCUOLA ESTIVA SULLA DECRESCITA

Scuola estiva sulla decrescita. Dall'individuale al collettivo e tra
pratiche e politica: verso la decrescita ed un'economia altra.
Dal 19 al 25 agosto 2007 si svolgera' presso il Centro ecumenico di Agape -
nel comune di Prali ( www.praly.it), in Val Germanasca, in provincia di
Torino - la quarta edizione della  Libera scuola delle alternative.
*
La premessa
"il potere e' divenuto un potere consumistico, infinitamente piu' efficace
nell'imporre la propria volonta' che qualsiasi altro potere al mondo. La
persuasione a seguire una concezione edonistica della vita ridicolizza ogni
precedente sforzo autoritario di persuasione" (Pier Paolo Pasolini, 1975)
Il progetto di emancipazione dell'Illuminismo, la costruzione di una
societa' autonoma ed egualitaria, e' fallito e si e' trasformato
nell'attuale, trionfante, arrogante dittatura del Mercato globale. Si parla
sempre piu' della crisi ambientale e della miseria di tanta parte del
pianeta, si riconosce che sono legati al modello di consumo e di vita
dell'Occidente, ma l'impegno a cambiare concretamente sembra confinato al
tentativo di una nicchia.
Come superare il piano delle pratiche individuali e comunicare cio' che per
noi e' importante? Come articolare una proposta di societa' che sia capace
di avere forza politica e trovare i consensi necessari per provare davvero a
fermare dinamiche che ci appaiono totalmente insensate e distruttive?
Il progetto della decrescita - la costruzione di una societa' alternativa,
giusta e autonoma, basata su una diversa economia e su relazioni diverse tra
le persone e tra le persone e l'ambiente - puo' prendere forma solo a
partire da una riflessione su di se', sulla nostra condizione storica di
soggetti di un mondo dominato dalla globalizzazione economica e dal pensiero
unico. Dobbiamo arrivare ad una nuova ecologia dell'ambiente, ma anche e
soprattutto della mente.

***

CINQUE DOMANDE, E UNA SCELTA

Sappiamo che il trasporto aereo e' responsabile di una rilevante quota del
surriscaldamento del clima, la piu' grave emergenza ambientale planetaria.
Vogliamo agire per evitare la catastofe incombente sull'umanita' intera, o
no? Se si', e' bene ridurre il trasporto aereo.
*
Sappiamo che l'inquinamento dell'aria prodotto dal trasporto aereo e' assai
grave: nelle localita' vicino agli aeroporti questo inquinamento si traduce
in elevata nocivita' per la salute delle persone. Vogliamo difendere la
salute delle persone, o no? Se si', e' bene ridurre il trasporto aereo.
*
Sappiamo che l'inquinamento acustico nelle localita' vicino agli aeroporti
e' enorme: il frastuono degli aerei impedisce di riposare, impedisce di
parlare normalmente, impedisce di godere del silenzio, impedisce il piacere
di ascoltare musica, danneggia gravemente l'udito delle persone. Vogliamo
difendere il diritto al riposo, alla parola, al silenzio, alla musica, a non
diventar sordi, o no? Se si', e' bene ridurre il trasporto aereo.
*
Sappiamo che il trasporto aereo e' energivoro ed antieconomico: i suoi
giganteschi costi sono ignorati dall'opinione pubblica anche perche' le
compagnie aeree godono assurdamente di ingenti finanziamenti pubblici e di
scandalose agevolazioni e fin esenzioni fiscali, spesso hanno condotte
antisindacali e sfruttano duramente i loro dipendenti, infine esternalizzano
i costi ambientali e sanitari facendoli pagare ancora una volta all'intera
comunita'. Nei bilanci statali i fondi per i servizi sociali e sanitari a
beneficio di tutti vengono continuamente tagliati, mentre le regalie per le
compagnie aeree continuano. Vogliamo che cessi lo scandalo di questo furto e
sperpero dei soldi di tutti, o no? Se si', e' bene ridurre il trasporto
aereo.
*
Sappiamo che il trasporto aereo e' un peso e un danno sostenuto da tutti a
beneficio di una parte ristrettissima di popolazione. Vogliamo che anche
nell'ambito della mobilita' siano rispettati i diritti umani di tutti gli
esseri umani e la democrazia, o no? Se si', e' bene ridurre il trasporto
aereo.
*
Non c'e' bisogno di aggiungere che a maggior ragione ci trova contrari l'uso
degli aerei come arma: siamo contro tutte le guerre, siamo contro tutte le
armi, siamo contro tutte le uccisioni. Dopo Hiroshima Gandhi rilevo' che
l'umanita' era giunta a un bivio, e che o si sceglieva la nonviolenza, o la
civilta' umana era in pericolo di autodistruzione. Noi abbiamo scelto la
nonviolenza.

 UN AEROPORTO A VITERBO? NO, GRAZIE
[Riproponiamo il seguente testo. Repetita juvant]

Un aeroporto a Viterbo? No, grazie.
E' necessario invece ridurre il trasporto aereo.
*
Diciamo alcune semplici verita' fin qui sottovalutate o tenute nascoste:
1. Un aeroporto provoca gravi danni alla salute della popolazione che vive
nei dintorni
- sia attraverso l'inquinamento dell'aria, che causa gravi patologie;
- sia attraverso l'inquinamento acustico.
*
2. Il trasporto aereo provoca gravissimi danni al clima
- contribuisce enormemente al surriscaldamento del clima del pianeta.
*
3. Il trasporto aereo danneggia gravemente l'ambiente
- sia a livello globale;
- sia a livello locale.
*
4. Il trasporto aereo e' antieconomico
- consuma piu' energia di ogni altro mezzo di trasporto;
- danneggia gravemente la biosfera;
- costa molto alla comunita' poiche' e' fortemente sovvenzionato sia da da
finanziamenti pubblici sia da esenzioni ed agevolazioni fiscali (mente si
effettuano sciagurati tagli di bilancio per sanita' ed assistenza):
paradossalmente la maggior parte dei costi del trasporto aereo li pagano i
cittadini che non lo usano;
- danneggiando l'ambiente e sottraendo risorse pubbliche non aiuta le
economie locali ma le impoverisce;
- l'occupazione nel settore e' limitata, spesso precaria, e le compagnie
hanno spesso condotte gravemente antisindacali.
*
5. Il trasporto aereo e' iniquo
- statisticamente e' dimostrato che e' soprattutto un privilegio dei ricchi;
- ma i costi li pagano soprattutto i bilanci pubblici, usando i fondi della
fiscalita' generale ricavati cioe' dalla tassazione di tutti i cittadini:
chi paga le tasse e' costretto, a sua insaputa e contro la sua volonta', a
finanziare le compagnie aeree (le quali invece le tasse le pagano ben poco,
godendo di agevolazioni e addirittura di esenzioni incredibili);
- le nocive conseguenze del trasporto aereo le pagano innanzitutto i poveri.
*
6. Il trasporto aereo non e' sicuro
- di tutte le modalita' di trasporto e' la piu' pericolosa, per i
viaggiatori e per chi vive nelle aree sorvolate.
*
7. Nel caso specifico dell'aeroporto a Viterbo manca completamente la
Valutazione d'impatto ambientale
- Come si puo' decidere di realizzare un'opera pubblica di tali dimensioni
ed impatto senza rispettare quanto previsto dalla legislazione vigente?
- Come si puo' decidere di realizzare un'opera pubblica di tali dimensioni
ed impatto senza neppure uno straccio di studio sulle conseguenze
ambientali, sanitarie, sociali e sul modello di sviluppo del territorio?
*
8. Non solo non e' affatto certo che l'aeroporto avra' un benefico effetto
sull'economia viterbese, ma anzi e' piu' che lecito dubitarne
- il turismo low cost (cui l'aeroporto sarebbe destinato) e' un turismo
"mordi e fuggi" che in grandissima parte atterrerebbe a Viterbo solo per
arrivare al piu' presto a Roma (come gia' accade a Ciampino e a Fiumicino);
- se si investiranno ingenti risorse statali e regionali nell'Alto Lazio per
realizzarvi un aeroporto, e' evidente che - per un ovvio ragionamento di
ripartizione delle risorse tra le diverse realta' territoriali - non
potranno essere assegnate alla stessa zona ulteriori risorse statali e
regionali per altre strutture ed attivita', ovvero per opportunita' di
sviluppo esse si' utili e coerenti con la valorizzazione dei beni ambientali
e culturali e con le vocazioni produttive della nostra terra (beni e
vocazioni che l'impatto dell'aeroporto puo' pesantemente danneggiare,
rivelandosi per quello che e': un'ennesima gravosa servitu');
- Viterbo nell'ambito della mobilita' ha bisogno innanzitutto di migliorare
la rete ferroviaria ed i collegamenti con Roma, con Orte e con
Civitavecchia.
*
9. La popolazione viterbese non e' stata fin qui informata sui danni certi e
sui pericoli probabili
- gli enti locali hanno fatto molta pessima propaganda (sperperando a tal
fine tempo e risorse che potevano e dovevano essere diversamente utilizzati)
ed hanno scandalosamente taciuto su tutte le questioni sopra indicate;
- le cittadine e i cittadini sono stai ingannati da una propaganda da parte
di pubblici amministratori poco cauti e poco scrupolosi fatta di false
alternative, di esasperato campanilismo con punte di xenofobia, di
grottesche baruffe, di ultimatum costantemente smentiti dai fatti.
*
E' ora che tutte le cittadine e tutti i cittadini siano onestamente
informati, perche' una decisione cosi' grave e dagli effetti cosi'
irreversibili non puo' essere presa da pochi rappresentanti di enti ed
imprese che peraltro avendo degli interessi economici direttamente implicati
sono parte in causa e non super partes.
*
Chiediamo che tutte le persone che vivono nell'Alto Lazio conoscano la
verita', che tutte le persone possano esprimere la loro opinione, che
l'intera popolazione sia coinvolta in un processo decisionale onesto,
partecipato, informato su basi rigorosamente scientifiche, in un autentico
esercizio di sovranita' popolare e di democrazia.
*
Chiediamo che sia rispettato il diritto alla salute.
Chiediamo che sia rispettato il diritto alla sicurezza.
Chiediamo che sia rispettato il diritto a un ambiente vivibile.
Chiediamo che sia rispettato il diritto a un lavoro dignitoso e sicuro.
Chiediamo che sia rispettato il diritto alla mobilita' per tutti e non solo
per pochi privilegiati.
Chiediamo che decisioni che riguardano tutti siano discusse da tutti e prese
in modo democratico.
Chiediamo che prevalga la responsabilita', la solidarieta', la democrazia.
*
Siamo solidali con i cittadini di Ciampino, vittime dell'estrema nocivita'
dell'aeroporto.
Siamo solidali con tutti gli esseri umani che subiscono le conseguenze
dell'effetto serra cui il trasporto aereo contribuisce in misura cosi'
rilevante.

 VOLARE FA MALE ALLA SALUTE
[Riproponiamo il seguente testo. Repetita juvant]

1. Volare fa male alla salute
E innanzitutto alla salute di chi non vola.
Fa male alla salute dell'intera umanita' che subisce gli effetti del
surriscaldamento del clima - la principale emergenza globale odierna - cui
il trasporto aereo contribuisce in misura rilevantissima.
Fa male alla salute delle popolazioni che vivono nei pressi degli aeroporti
che subiscono il pesantissimo inquinamento atmosferico e il non meno pesante
inquinamento acustico.
Fa male alla salute dei cittadini dei Paesi come l'Italia (e come molti
altri) che vedono lo Stato regalare immensi capitali alle compagnie aeree
(sia elargendo giganteschi contributi diretti, sia concedendo scandalose ed
incredibili esenzioni ed agevolazioni fiscali); lo stesso Stato che taglia
spietatamente i servizi pubblici e il diritto alla salute e all'assistenza.
E fa male alla salute di chi vola, visto che e' una modalita'di trasporto
non coerente con la stessa costituzione psicofisica ed esistenzial-culturale
dell'essere umano.
Infine fa male anche alla salute degli altri animali: che anch'essi sono
esseri viventi e provano sofferenza. Ma come volete che si preoccupino degli
altri animali quei potenti rapinatori che non si preoccupano neppure delle
sofferenze che - per arricchirsi e sperperare, per  appropriarsi
privatamente ed egoisticamente consumare cio' che e' di tutti, a tutti
rubandolo - infliggono tanti e tali danni agli altri esseri umani?
*
2. Volare fa male all'ambiente
Il trasporto aereo danneggia enormemente l'ecosistema planetario nella sua
globalita'.
Danneggia enormemente gli ecosistemi locali.
Impedisce la realizzazione di modelli di mobilita' coerenti con modelli di
sviluppo autocentrati, con tecnologie appropriate, ecologicamente
sostenibili, economicamente adeguati ai bisogni e alle culture delle
popolazioni, e democraticamente controllabili.
*
3. Volare e' antieconomico
Perche' e' estremamente energivoro, mentre l'umanita' ha bisogno di
un'economia della sobrieta' e della condivisione che consideri il dato di
fatto dei limiti della biosfera e della scarsita' delle risorse.
Perche' e' il modo di trasporto piu' costoso: non ve ne e' una adeguata
percezione pubblica perche' i costi vengono esternalizzati: gli Stati
sovvenzionano le compagnie aeree con fiumi di denaro ed agevolazioni; i
costi ambientali e sociali vengono pagati dalle popolazioni; i lavoratori
sono spesso precari e quindi costantemente sotto minaccia. La maggior parte
della popolazione e' tenuta del tutto all'oscuro del fatto che ingenti
risorse pubbliche che vengono sottratte ai diritti e al benessere delle
persone, vengono sperperate a profitto delle compagnie aeree e dei
prominenti che ruotano intorno al grande affare.
Perche' danneggia le economie locali, imponendo nocivita', costi, relazioni
sociali insostenibili.
*
4. Volare e' pericoloso
Il trasporto aereo e' pericoloso per il pianeta.
Il trasporto aereo e' pericoloso per l'ambiente naturale e per i beni
storici e culturali.
Il trasporto aereo e' pericoloso per le persone: danni certi alla salute,
estrema pericolosita' degli incidenti, degrado della qualita' della vita.
Il trasporto aereo e' pericoloso per le liberta' civili: specialmente dopo
la tragedia dell'11 settembre 2001 esso implica un enorme incremento dei
controlli e quindi una crescente militarizzazione degli impianti, sui
territori, nei confronti delle comunita' locali e della vita quotidiana
delle persone.
*
5. Volare e' alienante
Volare fa male alla percezione di se' e del mondo.
Aeroporti ed aerei sono cio' che l'antropologia contemporanea chiama
"nonluoghi": in cui  decisive esperienze umane, sia percettive che
conoscitive nel senso piu' ampio e profondo, vengono inibite e represse; in
cui vige e viene imposto un modello di presenza al mondo, di essere nel
mondo (l'in-der-welt-sein di heideggeriana memoria) tendenzialmente
dereistico, pesantemente deresponsabilizzante, fortemente eterodiretto.
Quell'esperienza decisiva della cultura umana che e' il viaggio, come
iniziazione e scoperta, come ricerca di se' e dialogo con l'altro da se',
qui si annienta nel vuoto di ambienti tutti uguali in una logica che si
modella su schemi di condotta coatti e tendenzialmente totalitari.
*
6. Finanziare il trasporto aereo significa togliere risorse dove sono
necessarie
Il trasporto aereo toglie risorse alla mobilita' sostenibile.
Il trasporto aereo toglie risorse al turismo responsabile.
Il trasporto aereo toglie risorse ai servizi pubblici a beneficio delle
persone bisognose.
Il trasporto aereo toglie risorse a politiche di giustizia e di
solidarieta'.
Il trasporto aereo toglie risorse alle possibilita' di un'occupazione sicura
e dignitosa.
*
7. Della virtu' del limite
Il volo lasciamolo agli uccelli.
Il cielo lasciamolo alle stelle.
Cessiamo di volere tutto e tutto distruggere.
E' l'unica Terra che abbiamo.
Vi e' una sola umanita'.

***

ALDO CAPITINI: TEORIA DELLA NONVIOLENZA (PARTE PRIMA)
[Riproduciamo ancora una volta l'opuscolo che riporta alcuni testi di Aldo
Capitini, Teoria della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento,
Perugia 1980 (richiedibile presso la redazione di "Azione nonviolenta",
e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org)]

Principi di nonviolenza
La nonviolenza risulta dall'insoddisfazione verso cio' che, nella natura,
nella societa', nell'umanita', si costituisce o si e' costituito con la
violenza; e dall'impegno a stabilire dal nostro intimo, unita' amore con gli
esseri umani e non umani, vicini e lontani. La manifestazione piu' concreta
ed anche piu' evidente di questa unita' amore e' l'atto di non uccidere
questi esseri e di non operare su di loro mediante l'oppressione e la
tortura. Questo impegno non e' che un punto di partenza (come nessuno nella
poesia, nella musica, puo' pretendere di esaurirle), e le imperfezioni del
nostro atto di unita' amore non possono essere compensate che dal proposito
di essere attivissimi in essa, nel tu che diciamo agli esseri nella loro
singola individualita', mai dicendo che basta. La nonviolenza non e'
l'esecuzione di un ordine, ma e' una persuasione che pervade mente, cuore ed
agire, ed e' un centro aperto: il che significa che ognuno prende
l'iniziativa di unita' amore senza aspettare che prima tutti si innamorino,
e la concreta in modi particolari che egli decide con sincerita', e con
dolore per ogni limite e impedimento che lo stato attuale della
realta'-societa'-umanita' ancora mette a sviluppare pienamente questa unita'
con tutti.
Vi sono, dunque, tanti gradi e tante espressioni della nonviolenza, ma, al
punto in cui siamo, esse si concentrano in un modo fondamentale, che e' di
non uccidere esseri umani. Mentre si sta stabilendo, oggi piu' che mai,
anche economicamente politicamente culturalmente, l'unita' mondiale
dell'umanita', l'atto di affetto all'esistenza di ogni essere umano ci porta
al punto di questa unita' umana. Verso gli altri esseri viventi ma non
umani, come gli animali e le piante, tutto cio' che e' fatto nell'affetto e
rispetto alla loro esistenza, apre l'unita' amore anche a loro e abitua a
sentire, di riflesso, il valore del non uccidere esseri piu' complessi e
piu' simili a noi, come sono gli uomini. La prassi del vegetarianesimo ha
percio' grande importanza.
La nonviolenza non e' soltanto contro la violenza del presente, ma anche
contro quelle del passato; e percio' tende a un rinnovamento della realta'
dove il pesce grande mangia il pesce piccolo, della societa' dove esiste
l'oppressione e lo sfruttamento, dell'umanita' nella sua chiusura egoistica
e nelle sue abitudini conformistiche e gusto della potenza. Ma finche' diamo
col pensiero e con l'atto la morte, non possiamo protestare contro la
realta' che da' la morte. E perche' la societa' non torni sempre oppressiva
sotto un nome od un altro, deve cambiare l'uomo e il suo modo di sentire il
rapporto con gli altri: la nonviolenza e' impegno alla trasformazione piu'
profonda, dalla quale derivano tutte le altre; e percio' non si colloca
nella realta' pensando che tutto resti com'e', ma sentendo che tutto puo'
cambiare, e che com'e' stata finora la realta' societa' umanita' non era che
un tentativo secondo i modi della potenza e della distruzione, e che vien
dato un nuovo corso alla vita con i modi dell'unita' amore e della
compresenza di tutti.
La nonviolenza e' in una continua lotta, con le tendenze dell'animo e del
corpo e dell'istinto e la paura e la difesa, con la realta' dura,
insensibile, crudele, con la societa', con l'umanita' nelle sue attuali
abitudini psichiche: non puo' fare compromessi con questo mondo cosi com'e',
e percio' il suo amore e' profondo, ma severo; ama svegliando alla
liberazione e sveglia alla liberazione amando; quindi distingue nettamente
tra le persone e gli esseri tutti che unisce nell'amore, tutti avviati alla
liberazione, e le loro azioni, delitti, peccati, stoltezze, assumendo il
compito di aiutare questi esseri ad accorgersi del male, e, se proprio non
e' possibile altro, contribuendo a liberarli dando, piu' che e' possibile,
il bene.
La nonviolenza e' attivissima, per conoscere gli aspetti della violenza e
smascherarli impavidamente; per supplire all'efficacia dei mezzi violenti
col moltipllcare i mezzi nonviolenti, facendo percio' come le bestie piccole
che sono piu' prolifiche delle grandi; per vincere l'accusa e il pericolo
intimo che essa sia scelta perche' meno faticosa e meno rischiosa; per dare
effettivamente un contributo alla societa', che ci da', in altri modi. altri
contributi. Proprio in questo tempo la nonviolenza ha il suo preciso posto
nell'indicare una svolta decisiva e nell'inserire il fatto nuovo. Che non si
veda un altro impero romano e un altro impero barbarico, e sempre
oppressioni e rivolte, nascere e uccidere e morire, e l'uomo dolorante e
illusoriamente lieto, perche' ancora non ha imparato a fondo quanto
dinamismo rinnovatore hanno l'interiorita', la liberta', l'amore. Proprio
appassionandoci per l'esistenza degli esseri viventi, rispettandoli piu' che
si puo', e dolendoci della loro morte, noi impariamo a sentire immortali i
morti e uniti all'intima presenza.
Chi e' nonviolento e' portato ad avere simpatia particolare con le vittime
della realta' attuale, i colpiti dalle ingiustizie, dalle malattie, dalla
morte, gli umiliati, gli offesi, gli storpiati, i miti e i silenziosi, e
percio' tende a compensare queste persone ed esseri (anche il gatto malato e
sfuggito) con maggiore attenzione e affetto, contro la falsa armonia del
mondo ottenuta buttando via le vittime.
La nonviolenza e' impegnata a parlare apertamente su cio' che e' male, costi
quello che costi, non cedendo mai su questa liberta', e rivendicandola per
tutti; e a non associarsi mai a compiere cio' che ritiene il male. Contro
imperialismo, tirannia, sfruttamento, invasione, il metodo della nonviolenza
e' di non collaborare al male; e di creare difficolta' all'esplicazione di
quei modi, senza sospendere mai l'amore per le singole persone, anche
autrici di quei mali, ma non esaurentisi in essi; cosi' si riconosce di
avere un alleato alla solidarieta' che si stabilisce tra gli oppressi,
nell'intimo stesso degli oppressori.
Chi e' persuaso della nonviolenza tende alla comunita' aperta, e percio' a
mettere in comune il piu' largamente le sue iniziative di lavoro, la
proprieta', non sfruttatrice, che egli possiede, la cultura (partecipando e
celebrando i valori culturali con altre persone), la liberta' (favorendola
con altri in assemblee nonviolente per il controllo e lo sviluppo
amministrativo della vita).
(Principi elaborati per il Centro di Perugia per la Nonviolenza costituito
nel 1952)
*
La nonviolenza nella prospettiva individuale e in quella sociale

La nonviolenza e' lotta
Agli uomini usciti dalle guerre, agli animi che sentono il peso di
un'immensa stanchezza e il bisogno di un riposo che talvolta e' perfino
sogno di annullamento e piu' spesso e' idoleggiamento di uno stato lento,
comodo, col gusto di piaceri che non vengano tolti; prospettare l'idea e le
conseguenze della nonviolenza produce un urto doloroso; ed essi domandano
tra stizziti e allarmati: "ma e' cosi difficile ricomporre una vita
tranquilla, una casa, un orario giornaliero, e la fruizione dei beni della
terra; e bisogna invece affrontare un problema cosi sconcertante e
paradossale? Noi vogliamo la pace, l'umanita' vuole, merita la pace".
Penso che questa gente abbia una sensazione esatta. E' un errore credere che
la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo, matrimoni e
figli in grande abbondanza, nulla di spezzato nelle case, nessuna
ammaccatura nel proprio corpo.
La nonviolenza non e' l'antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui
tutto infranto, li' tutto intatto. La nonviolenza e' guerra anch'essa, o,
per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti,
le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e
il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e
di violenza disperata.
La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il
disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una
situazione tormentosa. La nonviolenza fa bene a non promettere nulla del
mondo, tranne la croce. E quegli uomini che dicevo prima non vogliono la
croce: disfatti o disorientati preferirebbero ritagliarsi una parte anonima
della vita, con uno stipendio immancabile, e frequenti "bicchierini" per
tirare avanti. Gli uomini, la civilta' infine del "bicchierino" per reggere;
e il bicchierino puo' essere liquore, fumo, vincita di lotteria, vita
sensuale, un appoggio insomma che ci sia realmente, un qualche cosa di
sensibile, che dica all'uomo attraverso un piacere: tu sei.
Questi uomini furono ingannati perfettamente dal fascismo, il quale di rado
era scomodo, ma nell'insieme ordinato e piacevole; e quando divenne pieno di
punte problematiche quegli uomini gli si ribellarono contro con una
sincerita' tale come se gli fossero stati avversi dall'inizio.
Per scoprire l'inganno del fascismo sarebbe bisognato non prendere l'ordine
per cosa assoluta; e per reagire sarebbe bisognato non prendere per cosa
assoluta il comodo proprio e circostante.
I regimi politici che assicurano comunque un ordine trovano sempre
moltissimi che li accettano, senza badare se l'ordine esterno non e' tradito
potenzialmente da una mentalita' sopraffattrice e avventuriera.
Si diceva durante il fascismo: "Nel '21 c'era il disordine, scioperi, i
treni non partivano; il fascismo ha stabilito l'ordine, la concordia tra
capitale e lavoro". E si diceva cosa insulsa; perche' il fascismo non
risolse i problemi del dopoguerra, quelli che generavano il "disordine"; e
se delle due fazioni avesse invece trionfato la socialista, avrebbe essa
stabilito il suo ordine; e allora e' da discutere sull'essenza, sulla
qualificazione dell'ordine: ordine fascista o ordine socialista? Che cosa
fosse l'ordine fascista si poteva intrinsecamente gia' vedere con l'occhio
alla sua sostanza morale; ma si vide nel fatto: partirono, si', i treni, ma
sono partite poi anche le stazioni.

La nonviolenza non e' appoggio all'ingiustizia
Ma oltre l'equivoco della nonviolenza come pace, io vorrei chiarire e
dissipare un altro equivoco, che e' ancor piu' insinuante e pericoloso.
Nella lotta politica e sociale, necessaria in una societa' di ingiustizia e
di privilegi, la nonviolenza fa tirare un sospiro di sollievo ai tiranni di
ogni specie; e questo sospiro di sollievo e' per noi oltremodo tormentoso.
Se la nonviolenza dovesse essere interpretata, o comunque risolversi in
un'acquiescenza all'ingiustizia, a quella violenza di secoli cristallizzata
in potere e in privilegi decorati ora di una apparente legittimita', non ci
sarebbe una piu' tentatrice sollecitazione a metterla in dubbio ed
abbandonarla.
La nonviolenza non e' soltanto rifiuto della violenza attuale, ma e'
diffidenza contro il risultato ingiusto di una violenza passata. Di quanto
piu' di violenza e' carico un regime capitalistico o tirannico, tanto piu'
il nonviolento entra in stato di diffidenza verso di esso.
Bisogna aver ben chiaro che la nonviolenza non colloca dalla parte dei
conservatori e dei carabinieri, ma proprio dalla parte dei propagatori di
una societa' migliore, portando qui il suo metodo e la sua realta'. Il
nonviolento che si fa cortigiano e' disgustoso: migliore e' allora il
tirannicida, Armodio, Aristogitone, Bruto. Due grandi nonviolenti come Gesu'
Cristo e San Francesco si collocarono dalla parte degli umiliati e degli
offesi. La nonviolenza e' il punto della tensione piu' profonda del
sovvertimento di una societa' inadeguata.

La nonviolenza e' attiva e modesta
Percio', e cosi chiariamo il terzo equivoco, la nonviolenza e' attivissima.
La nonviolenza e' prova di sovrabbondanza interiore, per cui all'uso della
violenza che sarebbe ovvio, naturale, possibilissimo, viene sostituita, per
ulteriore ricerca e sforzo, la nonviolenza.
Sarebbe anche qui falsificazione intendere il nonviolento come un pedante
occupato esclusivamente a torcere il volto davanti ad ogni menomo atto
violento, senza addentrarsi nella vita e nei suoi motivi. Tra il nonviolento
inerte e il soldato che si esercita faticosamente ed arrischia, la
possibilita' di un valore morale e' piu' nel secondo che nel primo.
Il nonviolento deve essere attivissimo sia per conoscere le ragioni della
violenza, per individuare la violenza implicita che si ammanta di legalita'
e smascherarla impavidamente; sia per supplire all'efficacia dei mezzi
violenti con il moltipllcarsi dei mezzi nonviolenti, facendo come le bestie
piccole che sono piu' prolifiche (e anche sopravvivono alle specie delle
bestie grandi); sia per vincere l'accusa e il pericolo intimo che la
nonviolenza venga scelta perche' meno faticosa e meno rischiosa: il
nonviolento deve portarsi alla punta di ogni azione, di ogni causa giusta,
appunto per curare il proprio sentimento che potrebbe stagnare e per farsi
perdonare dalla societa' la propria singolarita'. E' noto che gli obbiettori
di coscienza (cioe' coloro che non hanno voluto collaborare alla
coscrizione) sono stati uccisi a migliaia dai governi totalitari; e dove
sono stati tollerati, hanno chiesto spesso servizi rischiosi e dolorosi, per
esempio di sottoporsi agli esperimenti medici o di raccogliere i feriti
nelle prime linee.
E infine sara' opportuno chiarire anche un quarto equivoco, che cioe' il
nonviolento pretenda essere superiore per il suo atto di nonviolenza.
Non e' l'atto di nonviolenza per se stesso, ma tutto cio' che sta con esso e
all'origine di esso, che puo' costituire un valore.
L'animo, l'intenzione, l'amore, gli sforzi fatti, quanto di proprio
sacrificio ci sia stato messo: qui e' il valore sia dell'atto di violenza
che dell'atto di nonviolenza. E' evidentissimo che tra colui che per evitare
l'uccisione di un bambino si slanciasse con l'arma in mano a difenderlo a
rischio di essere ucciso egli stesso, e il nonviolento che se ne stesse ben
lontano e inerte, avrebbe maggior valore il primo, quando il secondo non si
fosse gettato tra l'uccisore e il bambino a persuadere ed anche a offrire il
suo corpo, avanti a quello del bambino, al colpo mortale.

Concetti e modi della nonviolenza
Chiariti e dissolti questi equivoci, sara' bene ora prender contatto con il
concetto stesso della nonviolenza.
Violenza e' un concetto relativo all'oggetto sul quale si esercita una certa
azione. Quanto meno io considero quell'oggetto in cio' che esso e' per se
stesso, tanto piu' mi avvio alla violenza contro di esso.
La nonviolenza e' una presa di contatto col mondo circostante nella sua
varieta' di cose, di esseri subumani, e di esseri umani, e' un destarsi di
attenzione alle singole individualita' di tutti questi oggetti circostanti
per porsi un problema: "che cosa e' questo singolo oggetto? qual e' la sua
caratteristica, la sua vita, la sua liberta', il suo formarsi dal di
dentro?".
E' la sospensione dell'attivismo che consideri tutto, senza eccezione, come
mezzo, fino a quei casi tipici che sono come il lusso e il gioco di questo
attivismo, come l'incendio di Roma da parte di Nerone per vederne la
bellezza, o il letto su cui il brigante greco Procuste stendeva i suoi
prigionieri stirandoli o stroncandoli secondo che fossero piu' corti o piu'
lunghi. Sospensione di attivismo che e' attivissima moltiplicazione
d'attenzione, d'interesse, di affetto, potenziamento della vita interiore
proprio mediante questo collegamento in atto di tutto il reale nelle sue
innumerevoli individuazioni con l'intimo nostro.
Ma questo non e' che un punto di partenza, perche' di qui comincia un
movimento, una tensione.
Ad una parte degli oggetti assegno un compito di collaborazione, prendendo
interamente su di me la definizione del fine del lavoro con cui essi
collaborano; e questi oggetti chiamo cose.
Nei riguardi delle "cose" io non mi pongo altro dovere che di adoperarle
bene, di chiamarle a collaborare ad atti di cui assumo la responsabilita'; e
la malvagita' sta non nell'usare l'acqua per un bagno, ma se nel bagno
affogo il bambino, invece di lavarlo semplicemente, buttando l'acqua ad
altro destino. Per il carbone fossile stare nell'interno della terra o
muovere una locomotiva puo' essere indifferente, come per la pietra che sta
nel monte, in un monumento o come polvere sulle strade.
Puo' darsi che un giorno il nostro occhio scopra altro e diventi possibile
ridurre il campo delle cose, stabilendo con alcune di esse un rapporto di
collaborazione meno imperioso e meno antropocentrico: e' un problema questo
non vano, e di un orizzonte vastissimo, schiuso proprio dal principio della
nonviolenza, che e' inquietudine continua, passione mai saziata di interesse
per le individualita'.
Vi e' poi il gruppo di esseri subumani. E c'e' come un gruppo di passaggio
in tutti quegli esseri di minima vita, microrganismi e microbi, rispetto ai
quali non possiamo fare che una valutazione di "cose" sempre pero' con
quella speranza e quel problema, che nuove indagini e nuove intuizioni
permettano una collaborazione migliore: chissa', per esempio, che non si
riesca a trovare il modo di volgere a benefica l'azione malefica di molti
microbi.
Ma quando incontriamo vite piu' sviluppate, individualita' con cui e'
possibile stabilire un rapporto complesso, qui sentiamo la gioia di salvarci
con piu' ragione dalla considerazione di "cose". Cio' non toglie che ci si
possa interessare a cose minime, rispettarle nel loro essere; che io possa
appassionarmi all'individualita' di quella farfalla che ho visto nel
boschetto e che vivra' oramai una settimana, di quel filo d'erba, di quel
sasso. Questo prova che la nonviolenza, essendo unita'-amore e' espressione
nostra, e' collocazione e scelta volontaria, non un dogma; e ognuno puo' a
sua ispirazione (Spiritus ubi vult spirat) dirigerla. San Francesco voleva
che l'ortolano non lavorasse tutto l'orto, ma ne lasciasse una parte dove le
cosi' dette erbacce potessero crescere liberamente, perche' per lui la
spontaneita' di quel crescere, la bellezza di quelle erbe, e che esse
attestassero e lodassero Dio, era la stessa cosa. E cosi egli preferiva che
l'albero si tagliasse lasciandogli la radice e la possibilita' di crescere
nuovamente.
Noi possiamo su tutta la scala degli esseri non umani istituire a noi stessi
delle direttive, che anche se non sempre attuate, provano che in noi vive un
problema, una passione, una direzione.
Preferire, per esempio, di regalare piante intere piuttosto che fiori,
rinunciare alla caccia, adoperarsi per addomesticare bestie selvagge.
Il vegetarianesimo, per esempio, e' una cospicua scelta che viene fatta nel
campo degli esseri subumani. Si decide di rinunciare al cibo che comporti
uccisione di animali; e con cio' stesso muta il nostro modo di avvicinarsi
ad essi, il nostro modo di considerarli; si accetta sorridendo ma con
fermezza l'apparente stranezza che galline e pecore, dopo averci dato uova e
lana, "muoiano di vecchiaia": si amplia, al posto della violenza spietata
alle sofferenze e all'uccisione, quel piano di collaborazione in cui
consiste l'incremento della civilta'.
Questa "sospensione" introdotta nella leggerezza sterminatrice e nella
freddezza utilitaria si riflette in accrescimento di valore interiore. Ma
c'e' di piu' e forse di meglio. Io debbo confessare che, pur avendo un
notevole interesse all'esistenza degli animali, mi decisi al vegetarianesimo
nel 1932, quando, nell'opposizione al fascismo, mi convinsi che l'esitazione
ad uccidere animali, avrebbe fatto risaltare ancor meglio l'importanza del
rispetto dell'esistenza umana.
Consideriamo, dunque, la nonviolenza in questi gradi anteriori come un
addestramento che ha due atteggiamenti, quello di considerare cio' che e'
altro da noi come "cosa" ma con l'impegno a servirsene per un fine degno e
alto; e l'atteggiamento di considerarlo come "esistente", rispettato e amato
percio' come tale.
Due atteggiamenti, come ho detto, non rigidi, ma in dialettica, in
travaglio, e appunto percio' prova della vitalita' interiore di un
appassionamento. Ma sia come un prologo al mondo umano. Noi sappiamo che
tutte le volte che in pedagogia ci si e' posti il problema del piu' basso,
di cio' che e' infimo, si e' fatto un grande passo: quando si e' cercata
l'educazione dei deficienti, o dei molto piccoli o dei molto poveri, si sono
scoperti sempre metodi che hanno dato risultati prodigiosi applicati agli
altri.
E cosi in questo prologo ci siamo posti dei temi: portiamoli ora nel mondo
umano, e sentiremo una risonanza grandiosa.
Riguardo ad esseri umani la nonviolenza e' l'appello continuo e intenso alla
comprensione, alla spontaneita', alla capacita' che ha l'altro essere umano
di giungere ad una decisione razionale.
Nel campo umano la dedizione a questo appello ha un fondamento piu' saldo
che per ogni altro essere: basta che io pensi che colui che incontro,
potrebbe essere mio figlio: nulla di eccezionale in questo sentimento di
genitura, per la somiglianza umana che c'e' tra noi.
Del resto, io penso che sempre nei riguardi di un essere umano debbo
richiamarmi a un punto interno in cui io mi senta madre di lui; che debbo
abituarmi a costituire costantemente questo atteggiamento nel mio intimo;
che, insomma, almeno per una volta, esaurite e sfogate se si vuole, tutte le
altre possibilita', io debbo domandarmi: "ma mi sono anche considerato pur
per un istante madre di costui? come agirei se fossi sua madre, certo una
madre non stolta, ma pronta a vedere che cosa c'e' a favore di lui, a
sperare per lui?".
La nonviolenza, porgendo l'appello alla razionalita' altrui, e' anche un
potenziamento del tu, e dell'interesse a che l'altro viva, si svolga, e come
un generarlo dall'intimo nostro, una gioia perche' l'altro esiste, un
appassionamento alla radice. Come noi potremmo avvicinarci all'infinita
miseria degli esseri umani, alle loro limitazioni, curare le loro
infermita', sopportarli, se non portassimo un infinito compiacimento che
l'altro esiste e proprio come essere umano? In questo atto si va oltre lo
stato di felicita' e infelicita', e si vive il sacro per cui ogni essere che
viene alla luce entra in qualche cosa di positivo, di la' dalla sua miseria
e dalla sua grandezza. Lo spirito lo tocca, e io posso raggiungerlo col mio
atto: qui siamo nella presenza religiosa, che e' piu' di ogni limitatezza,
deformita', malattia, bruttezza. La nonviolenza mi fa risaltare l'importanza
dell'atto col quale mi avvicino ad uno, atto di presenza aperta, superiore
alla felicita' o infelicita', a cio' che puo' accadermi o accadergli.
E se io voglio che l'altro sia in un certo modo, il ripudio dei mezzi
violenti mi induce ad una tensione interiore perche' io anzitutto viva
quello che voglio dall'altro, perche' io prenda su di me il compito di
attuare quel meglio, di portarmi a quel grado, di purificarmi, di
sacrificarmi, fino al sacrificio supremo di dare l'atto di nonviolenza al
posto dell'atto di violenza, e di trasferire con atto d'amore nell'intimo
dell'altro il punto a cui ero giunto. In questa nonviolenza si attua la fede
nell'unita' di tutti, e nell'efficacia che cio' a cui mi tendo io (o cio'
per cui io prego, per dirla nei termini tradizionali) influisce su di un
altro, pur lontano, quanto piu' di sacrificio e di purezza interiore io vi
metto.
Sarebbe piu' agevole che con un mezzo esteriore e violento io agissi
sull'altro, ma quanto perderei di interiorita', di qualita'!

Attuazione della nonviolenza
Un principio che sta dentro l'atto della nonviolenza e' la potente
sollecitazione dell'impegno della propria persona.
La radice della nonviolenza sta nell'essere nonviolento, internamente, prima
dell'atto rivolto agli altri; e anche questo conferma che la nonviolenza non
e' un atto puntuale, ma una disposizione, una formazione, un'educazione,
un'intenzione, un insieme. Se la nonviolenza e' promovimento della tua
razionalita', della tua bonta', della tua spiritualita' superiore, bisogna
che io anzitutto mi tenda alla mansuetudine e alla ragionevolezza. Non si
puo' insegnare la nonviolenza con l'odio e le fucilate. Se io voglio che tu
agisca da persuaso interiormente, bisogna che io prima sia in tutto persuaso
e non retore. Se io voglio che nel mondo ci sia qualche cosa, e in questo
caso, un atto di unita'-amore insistente fino anche al sacrificio, se non ci
metti tu questo atto, o ancora non ce lo metti, ce lo metto io.
Quanto ai modi dell'attuazione della nonviolenza io vorrei sottrarli a
quella casistica che sorge per ogni proposito di azione, e anche per questo.
Tutti quelli che hanno esperienza di questo proposito, hanno anche
esperienza di una lunga discussione con se stessi e con gli altri sui casi,
sui modi. Piu' di quindici anni di questa esperienza mi hanno confermato che
e' lo spirito che conta, ed e' l'approfondimento di questo che fa progredire
la civilta'.
C'e' una scala di attuazione, una scelta, una creazione; non e' un dogma e
un ordine di chissa' chi: la nonviolenza e' una creazione che uno attua. Ci
puo' essere un'attuazione cosi' meticolosa da far sorridere; e non c'e'
nulla di male. Una civilta' che consuma tanto suo tempo in mille cose futili
e fatue, puo' ben consumarlo in questo campo. C'e' un eccesso e un ridicolo
che e' in funzione del sublime. Un discepolo di San Francesco aveva spinto
cosi' oltre il precetto dell'imitazione della santita', che ripeteva ogni
atto che vedesse fare al Santo, perfino sputare. E San Francesco ne
sorrideva. Tutti sappiamo che vi sono diverse interpretazioni e attuazioni
della nonviolenza, fino a quella che non si puo' parlare di "violenza"
quando si colpisce per diritto e a giusta ragione. Io qui esporro'
l'interpretazione che risulta dalla mia esperienza.
Considererei come un grande dolore se nel momento della morte di un
qualsiasi essere umano io non desiderassi con tutte le mie forze che quella
morte non avvenisse.
Non posso accettare come veramente mio il mondo dove le persone cadono come
oggetti, ma quello dove tutti sono soggetti, vivono, si svolgono. Se non
sentissi sempre questo, se avessi fatto qualche eccezione a questo, oggi
dovrei moltipllcare la mia tensione per riparare al passato.
E realmente io debbo riparare al passato, che oltre che mio, e' di tutte le
civilta' trascorse; e, istruito da questa insufficienza, oggi non sono tanto
disposto a farmi sorprendere dall'indifferenza, e sto attento perche' non
perda questa passione fondamentale ad ogni momento in cui la morte si
manifesta in questa realta'.
Percio' e' inutile che io raccolga armi vicino a me e mi addestri ad usarle,
se so gia' quale sarebbe la mia posizione domani. Da questo si riflette uno
stimolo ad atteggiare il mio fare in modo che senta di non poter far conto
su mezzi violenti, e che a mia disposizione non c'e' che il prestigio
dell'esempio, l'intima trasparenza, la razionalita' della persuasione, la
forza dell'anima. Potro', a parte il ripudio della uccisione, ricorrere a
dei mezzi che diminuiscano l'effetto della violenza dell'altro, specialmente
se in uno stato di furia; ma sempre tali che non lo mettano in uno stato di
tortura ne' in uno stravolgimento della sua possibilita' di razionalita'.
L'importante e' che in quel momento io mi immedesimi col problema
dell'altro, e della sua formazione verso la liberta', la razionalita', la
bonta'; e che, assicurate queste dalla parte mia, mi rifiuti ai mezzi che la
turbino nell'altro. La tortura, cioe' che io provochi in te il dolore per
ottenere qualche cosa da te, che senza la tortura mi rifiuteresti, non e'
per me giustificata da nulla, perche' io non voglio mai provocare il dolore,
ma riparare al dolore: essere non al punto in cui si causa il dolore (che e'
questa realta' e il mondo della limitatezza), ma al punto in cui si supera
il dolore, che e' la realta' autentica, il mondo del valore. Se questo mondo
e' la mia croce, ma io sono piu' del mondo, sono dall'infinito. Come davanti
alla morte, cosi davanti alla sofferenza di un altro, ho la passione di
essere non dalla parte del mondo ma del sopramondo eterno che qui si apre,
non dalla materia ma dalla forma, non dall'esteriorita' ma
dall'interiorita', non con un Dio che batte, ma con un Dio che porta nel val
ore dell'amore che sempre si accresce, e che, come la liberta', non esiste,
se non si fa ancora piu' amore, ancora piu' liberta'.

La nonviolenza e la societa'
A questo punto, dopo aver guardato la cosa dall'individuo, bisogna guardarla
dalla societa'; altrimenti mi si potrebbe dire che tutto quello che ho detto
e' "prima della nascita della societa', dello Stato". L'obbiezione piu'
formidabile e' questa: "non faccio questione di me come singolo, della mia
difesa, della mia esistenza, ma della societa', del suo ordine, della norma
che io debbo sostenere e contribuire a tener viva, per cui non e' lecito che
uno si serva della violenza: come potro' far questo senza l'uso della forza?
come potra' avvenir questo se il cittadino manca al suo dovere di
riconoscere la necessita' dell'uso della forza in qualche caso? Una societa'
non ha connessione senza l'uso parco e regolato della forza".
Qui debbo richiamare quel carattere drammatico della nonviolenza del quale
ho parlato all'inizio. Ho gia' detto che per intendere la nonviolenza
bisogna lasciar di guardare l'ordine, la compostezza, la pace: bisogna,
invece, prender su' risolutamente una responsabilita', che puo' essere anche
in mezzo all'avversione e al biasimo; e' una scelta severa e tremenda. La
nonviolenza non e' per conservare alcuna cosa di questo mondo, sia
dell'individuo o della societa': non il piacere, il comodo, la casa, il
letto, la roba, la vita, le cose fatte, costruite, l'ordine sociale, la
regolarita' dei servizi pubblici, l'esistenza dei cari, degl'innocenti. Non
e' un accrescimento di sicurezza che tutte queste cose permangano; anzi e'
una rinuncia interiore a questa sicurezza; e' in potenza la morte di tutto
questo. E' la possibilita' di perdere tutto cio' che e' nel mondo, il
Memento mori, non immaginazione oziosa, ma legato a un impegno, a un'azione.
Perche' nello stesso tempo la nonviolenza afferma un valore; ed e' dunque
atto, resurrezione. La societa' col suo ordine, la vita con i suoi oggetti,
non possono costituire quell'assoluto che si imponga indiscutibile e tolga
la possibilita' di un contributo, di un'iniziativa. Siamo davanti, in questo
tempo, ad una societa' impiantata cosi' che vorrei chiamarla "la societa'
dei pubblici servizi", una societa' pratica, del tempo dell'attivismo, del
tempo dei molti aspetti del vivere, delle varie cose. I pubblici servizi
esigono una difesa di essi con tutti i mezzi; e questo non e' la societa'
come concetto eterno: non e' che un tipo della societa' della vita,
corrisponde a una scelta che l'uomo di oggi fa: il che non esclude che si
possa fare un'altra scelta, presentare un altro tipo. Il significato
religioso della nonviolenza sta proprio nel preparare un altro tipo,
un'altra realta'. E' evidente che se si volesse configurare la societa' non
con la trama interna della difesa dei pubblici servizi, ma con la trama
interna della celebrazione di atti di infinito tu alle persone, tutta la
prospettiva muterebbe. La societa' romana aveva per trama la tutela dei
diritti del civis, la societa' cristiana aveva per trama la fruizione dei
carismi divini.
La societa' non e' un qualche cosa di staccato da me. E percio' come io, in
quanto individuo, ho il dovere di interiorizzarla e di rendermi conto delle
sue ragioni, ho anche il diritto di andare eventualmente oltre di essa. Non
quando io fossi ribelle, disordinato, ex lege, per natura; ma se seguo le
leggi che ritengo giuste, se attuo cio' che e' ordine, se continuamente
utilizzo l'esperienza tradizionale della societa', posso bene, quando sia in
gioco un valore, quando nel resto della mia vita sia solito a stare in
guardia contro il gusto personale e l'originalita' di proposito, innovare,
prendere un'iniziativa, dare un contributo, e in questo caso sentire,
vivere, e far vivere, che la vera societa' e' oltre quella dell'ordine
sociale, della difesa dei diritti, del mantenimento dei pubblici servizi; ma
e' oltre, nel regno degli spiriti, cioe' dei soggetti, cioe' dell'amore da
instaurare subito a costo di sacrifici. Accanto ad una societa' che usa la
guerra come via alla pace, la violenza come via all'amore, la dittatura come
via alla liberta', la religione mi porta ad anticipare di colpo il fine nel
mezzo; e ad attuare comunque, qui e subito, pace, amore, liberta'. La
religione e' impazienza dell'attendere il fine; e oggi che l'universo, il
tempo, lo spazio, non sono sentiti in dualismo stabile con l'infinito e
l'eterno, porremo noi questo dualismo nella societa' tra il mezzo e il fine?

Il limite del realismo
Se si ostenta la natura umana nel suo fondo utilitario e violento, nelle sue
forze brute, che vanno continuamente represse e indirizzate, ma che sono
insopprimibili, la persuasione della nonviolenza non nega senz'altro questo,
non chiude gli occhi come lo struzzo per non vedere il nemico; e riconosce
che la situazione e' drammatica, quasi sempre drammatica, e ne accetta le
conseguenze. Pero' porta con se' una fede, che ha tanta conferma nella
attuale concezione della realta' fisica; la fede che tutto cio' che e' un
dato non e' un continuum senza interruzione, ma e' come a respiri con
intervalli, nei quali e' possibile inserire altro. Con quale certezza
possiamo noi dire che quella cosa e' sempre cosi? Questa sospensione della
continuita' si puo' applicare alla politica, per cui viene a risultare
insufficiente e quasi ingenuo, quel certo realismo di tipo machiavellico che
non tiene conto degli intervalli in cui e' possibile far agire forze d'altra
provenienza: quel realismo e' una specie di imitazione della natura in
ritardo. E cosi' per quella natura che e' la psiche, alla quale si vorrebbe
applicare solidita' e costanza invece di un ritmo di respiri e di tentativi
con intervalli e possibilita' di inserzione di temi e forze e prospettive
diverse. La nonviolenza e' fede in questa possibilita' di intromissione
miracolosa e rinnovatrice, per lo meno a suggerire e far rivivere una certa
realta' diversa.
Accettiamo che la civilta' culmini nel culto attivo dei valori, e che le
forme della civilta' siano insufficienti quando sono principalmente
amministrative, giuridiche, diffonditrici piu' che produttrici di valori. Ma
se la nonviolenza e' nella sua radice, nella sua intenzione, nella zolla che
la sostiene, un valore, ha ben il diritto di chiedere che la civilta'
attuale si allarghi a comprenderlo. Quando si segue un valore si scopre
sempre qualche cosa, una realta' anche maggiore della cercata, come Colombo
che ritrovo' non le Indie, ma scopri' un nuovo continente. Lo so, si puo'
perdere tutto; ma si puo' approfondire la conferma che la vita da un punto
di vista religioso e' eterna presenza aperta nel mondo, quanto piu' vivendo
dall'intimo i valori e la loro pace, tanto piu' incontrando asprezze, disagi
nelle cose e nel corpo, colpi simili alla morte. Non per pochi aspetti la
civilta' attuale sembra perdere il senso della distinzione tra il valore,
che e' fine, e il resto, che e' mezzo; e conquista e difende quelli che
sarebbero semplici mezzi come se essi fossero valori. Si mette, certe volte,
tutto nella conquista e nella difesa, e si tratta anche di cose fatue; tanto
piu' e' importante stabilire una prospettiva, e mostrare che si e' capaci,
per un valore, di perdere tutto il resto.
Mostrare, ho detto intendendo: non soltanto agli altri, ma a se stessi,
perche' anzitutto la nonviolenza ha un carattere di edificazione interiore.
Cio' non e' contro il principio dell'estensione della razionalita'. Si puo'
e si deve accettare che la razionalita' nell'uomo e nella societa' si
estenda sempre, e che l'uomo si faccia sempre piu' autonomo, e la societa'
sempre piu' democratica. Ma ad un tratto potrebbe avvenire, e avviene, che
si sospende la razionalita' e la democrazia con un atto di violenza. Il
metodo religioso, invece, contrappone l'atto e l'esempio di nonviolenza,
aggiunto ad arricchire la razionalita' e la democrazia. Rendiamo la societa'
sempre piu' democratica promovendo la razionalita', l'autogoverno, lo
scambio razionale, il controllo e lo sviluppo etico, civile, economico di
tutti; e in questa societa' aggiungiamo persone o gruppi che costituiscano
centri religiosi.
Tutti quelli che hanno parlato di nonviolenza nella esperienza
etico-religiosa di millenni hanno sentito piu' o meno consapevolmente che la
vita offre difficolta' e fatiche, che ogni giorno ha la sua pena, e che se
ci si vive dentro semplicemente lottando, ma divisi l'uno dall'altro, non
basta; che se invece si attua anche una intima e superiore unita', di
apertura sincera, di aiuto incondizionato, di sostituzione, tra noi, del
bene al posto del male, allora la realta' della lotta con le asprezze puo'
essere sostenuta, integrata, superata. E alle reazioni moderne alla
nonviolenza, reazioni, per esempio, del Marx e del Sorel in nome dello
sviluppo sociale, noi diciamo: ebbene, permetteteci di vedere questo flusso
storico da un intimo, di aggiungere questa presenza.
(Da Il problema religioso attuale, 1948)
(Parte prima - Continua)

ALDO CAPITINI: TEORIA DELLA NONVIOLENZA (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)
[Riproduciamo ancora una volta l'opuscolo che riporta alcuni testi di Aldo
Capitini, Teoria della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento,
Perugia 1980 (richiedibile presso la redazione di "Azione nonviolenta",
e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org)]

Carattere della nonviolenza
Della nonviolenza si puo' dare una definizione molto semplice: essa e' la
scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o
distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani.
Perche' questa scelta? Per amore: ecco, vediamo subito che si tratta di una
cosa positiva, appassionata. Ma e' l'amore che non si ferma a due, tre
esseri, dieci, mille (i propri genitori, i figli, il cane di casa, i
concittadini, ecc.); e' amore aperto, cioe' pronto ad amare altri e nuovi
esseri, o ad amare meglio e piu' profondamente gli esseri gia' conosciuti. E
qui si capisce uno dei caratteri essenziali della nonviolenza bene intesa:
essa non e' mai perfetta e non finisce mai, appunto perche' e' una cosa
dell'anima; e' un valore, e' come la musica, la poesia, e si puo' sempre
fare nuova musica, nuova poesia; e la vecchia musica, la vecchia poesia,
possono essere vissute piu' profondamente.
Il paragone con la musica ci fa comprendere anche un'altra cosa: come
nessuno puo' desiderare di ascoltare e comporre la "musica ", tutta la
Musica; ma desidera ascoltare e comporre "delle musiche particolari e
concrete"; cosi nessuno abbraccia l'astratta "Nonviolenza", ma compie atti
particolari di nonviolenza, in situazioni concrete. La nonviolenza e',
dunque, dire un tu ad un essere concreto e individuato; e' avere
interessamento, attenzione, rispetto, affetto per lui; e' avere gioia che
esso esista, che sia nato, e se non fosse nato, noi gli daremmo la nascita:
assumiamo su di noi l'atto del suo trovarsi nel mondo, siamo come madri.
Nell'agire secondo la nonviolenza ha grande rilievo non uccidere, non dare
la morte. Si potrebbe obbiettare: quella persona morra' ugualmente, prima o
poi. Rispondiamo che anzitutto c'e' una grande differenza; e noi stiamo
parlando con serieta', per cui l'atto nostro ha il suo valore non nel fatto,
ma nel proposito. E' ben diverso che io uccida mia madre e che essa muoia
assistita amorevolmente da me. Sono non solo due modi di vivere diversi, ma
due mondi. Inoltre: chi ci dice che la morte sia un fatto costante,
ineliminabile? Abbiamo tentato di non dare la morte ne' col pensiero ne' con
l'atto, per vedere se la realta' ci seguisse? Che ragione abbiamo noi di
rimproverare la realta' che da' dolore e morte, se diamo dolore e morte?
Sicche' chi non da' la morte, produce due cose: in se', tanto e'
l'appassionamento all'esistenza delle persone, il senso della loro presenza
anche se muoiono; e nella realta' introduce un'iniziativa che la puo'
trasformare.
Proprio l'amore per le persone, fino al rispetto della loro esistenza e fin
sull'orlo della morte, prende su di se' la presenza di quelle persone,
quando e' amore non per uno, due, dieci, ma aperto a tutti. Il nostro agire
innocente sente che quelle persone, se muoiono, restano unite all'intima
presenza; mentre l'omicida, soltanto se si pente amorevolmente, ritrova in
se' la presenza della persona uccisa; altrimenti sente il vuoto intorno a
se'.
Con la nonviolenza, dunque, s'impara concretamente che i modi di
manifestarsi attuali della realta' (tra cui la separazione, il dolore, la
morte) non sono permanenti, ma possono trasformarsi in meglio; e' una prova
che vale la pena di tentare, e percio' la nonviolenza e' appello al mondo
per una grande mobilitazione dell'unita' amore, con la fede nella
trasformazione della realta' stessa.
E' percio' un errore credere che la nonviolenza si collochi nel mondo
lasciandolo com'e'; piu' si pensa alla nonviolenza e si cerca di attuarla,
piu' si vede che essa ha un dinamismo tale che non puo' accettare il mondo
com'e', ma essa porta tutto verso una trasformazione: l'umanita', la
societa', la realta'. Come strumento di conservazione del mondo, la
nonviolenza e' discutibile; come strumento di trasformazione in meglio, essa
ha un valore inesauribile, appunto perche' non fa modificazioni e
spostamenti in superficie, ma va nel profondo, al punto centrale.
E un altro e simile errore e' credere che la nonviolenza sia contro le
violenze attuali, ma accetti quelle passate, dell'umanita', della societa',
della realta'. Se fosse cosi' la nonviolenza sarebbe conservatrice e
accetterebbe il fatto compiuto, le prepotenze avvenute, le oppressioni, le
monarchie, gli sfruttamenti. La vera nonviolenza non accetta nemmeno le
violenze passate, e percio' non approva l'umanita', la societa', la realta',
come sono ora. Non accetta la realta' dove il pesce grande mangia il pesce
piccolo; e percio' cerca di stabilire unita' amore anche verso gli animali,
appunto per iniziare il bene; non accetta che i viventi prendano il posto
dei morti, e percio' tende a soccorrere i deboli, gli stroncati; non accetta
il potere e la ricchezza privata, e percio' tende a costituire forme di
federalismo nonviolento dal basso e forme di aiuto e reciprocita' sociale e
fruizione comune di beni sempre piu' larghe. Essa ha come guida instancabile
la presenza di tutti, e il principio che ogni singolo essere e'
insostituibile.
Percio' essa tende a ridurre ed eliminare gli schemi generici e impersonali.
Noi viviamo troppo di questi schemi, e molte volte non ci curiamo d'altro;
ma non esistono gli schemi (gli amici, i nemici, i malati, gl'italiani, i
religiosi, gli autisti, ecc.); esistono i singoli individui, e la vita
fondamentale e' quella che li considera nella loro singolarita'
insostituibile. Noi usiamo lo schema, per esempio se cerchiamo un autista, e
poi un altro autista, un librario ecc. Ma il progresso e' proprio nel
ridurre questo uso di schemi. La guerra invece e' il mostro piu' immane di
questo uso di schemi, che divora le singole individualita': non ci sono che
i nostri e i nemici; e' percio' sommamente diseducatrice.
Ci avviciniamo cosi ad alcuni punti problematici della nonviolenza. Che cosa
succede nella societa' cosi' com'e' ora costituita? La risposta deve
richiamare a quello che gia' si e' detto: la nonviolenza non puo' mettersi
nel mondo com'e', e lasciarlo tale e quale; la nonviolenza e' lotta (contro
se stessi, le proprie tendenze. i propri sogni di quiete), e' dramma
tormentoso, e' spinta a scegliere cio' a cui uno tiene di piu', a fare una
prospettiva; e se uno continua a vedere la vita come la vedono tutti, trova
assurda la nonviolenza; poi vengono le disgrazie e la morte, e uno non ci
capisce nulla. Invece la nonviolenza fa una prospettiva che da' una
preparazione religiosa per tutte le disgrazie e la morte: l'unita' amore con
le persone, come singole e come eternamente presenti, l'unita' amore che si
perde di sentirla se noi compiamo atti di violenza e di distruzione delle
persone. Tenuto fermo questo senso di eterno, esso si allarga a comprendere
tutto cio' che di bello, di buono viene creato, ed uno si sente in un mondo
piu' vero di quello apparente nel tempo e transeunte. Ora, in una societa'
se io sto inerte, sono colpevole. Ma se io, pur essendo per la nonviolenza,
sono attivissimo, e con quella scelta e quella fede la vivo e la concreto e
la diffondo con il mio costume, sono a posto verso la societa'. Nella quale
percio' saranno due gruppi di persone: quelle che useranno eventualmente la
violenza, e quelle che non la useranno, ma esplicheranno una intensa
attivita'.
Ci siamo cosi preparati per affrontare una delle obbiezioni piu' insistenti;
se usiamo la nonviolenza, trionfano i cattivi. Rispondiamo che, anzitutto,
l'uso della violenza non ci da' sufficiente garanzia che trionfino i buoni,
perche' l'uso della violenza con efficacia richiede che si facciano tanti
compromessi e tanti addestramenti che si perde una parte di quella bonta',
di quella elevatezza; e questo si vede dopo le guerre, quando c'e' un
diffuso trionfo di violenti, e ci vuole l'azione di nuclei puri per cercare
di guarire (ecco la fortuna di idee religiose in ogni dopoguerra). Ora, gli
uomini non hanno bisogno soltanto di ordine nella societa', ma che ci siano
vette alte e pure. Se per tener testa ai cattivi, bisogna prendere tanti dei
loro modi, all'ultimo e' realmente la cattiveria che vince. La cosa e' piu'
evidente se i cattivi posseggono armi potentissime, e noi per avere armi
piu' potenti ancora, mettiamo tutta la nostra forza: alla fine scompare la
differenza tra noi e loro, e c'e' bisogno che sorga una differenza netta tra
chi usa le armi potenti, e chi usa altri modi, con fede che essi trasformano
il mondo.
Gia' queste poche considerazioni mostrano quali modi spirituali piu' ricchi
scaturiscono dalla nonviolenza. E anche in questo essa ha un grande ufficio
nel mondo d'oggi, nel quale sembra che tutto si risolva nell'organizzazione
sociale. C'e' il pericolo di restringere l'orizzonte dello spirito.
L'organizzazione sociale non e' che un aspetto, e se noi piegassimo tutto ad
essa, perderemmo cose anche piu' importanti. E' certo che Gesu' Cristo
porto' scompiglio, divisioni, altri modi nell'organizzazione sociale; eppure
siamo convinti che egli era ben degno di nascere. Forse col Settecento si e'
accentuata questa tendenza politico-sociologica; ma non bisogna dimenticare
che la civilta' vuol dire essenzialmente non ripetizione, ma creazione. Per
di piu' lo sviluppo tecnico ha portato il beneficio di tali comodi e
servizi, che uno si e' affezionato troppo ad essi; e allora la civilta'
perde in serieta' confrontata con civilta' passate, che saranno state devote
a miti, ma erano piu' evolute. Bisogna quindi tornare ad una gerarchla o
prospettiva di valori; e allora si vedra' che i valori che si difendono o
acquistano con la violenza sono inferiori a quelli che si difendono o
acquistano con l'attivita' nonviolenta.
Insieme con questa prospettiva, che si diffondera' a poco a poco negli
uomini, specialmente se dovranno subire una nuova guerra, c'e' un fatto che
appare nuovo. Fino ad ora chi ha attuato la nonviolenza in una parte, per
esempio in India, non si e' sentito perfettamente unito a chi ha usato la
nonviolenza in un'altra parte, perche' uno diceva di farlo per una ragione,
uno per un'altra; e ci rientravano miti, dogmi diversi. Oggi c'e'
un'unificazione e noi lavoriamo per questo. E l'unificazione delle ragioni
della nonviolenza porta, tra l'altro, che consideriamo violenza e
nonviolenza non come un fatto privato e personale, ma internazionale. E
percio' puntiamo prima di tutto sul fatto guerra, ci opponiamo alla violenza
internazionale.
Una volta c'e' stato un pacifismo molto blando, tanto e' vero che davanti
alla prima guerra mondiale e alla seconda vacillo'. Esso credeva di arrivare
alla pace molto facilmente attraverso la cultura, la scienza, l'interesse al
benessere, il cosmopolitismo delle classi dirigenti. Si e' visto poi che non
bastavano, e si capisce perche'. Non era stato affrontato il lato religioso
del rifiuto della violenza, che cioe' la violenza si rifiuta in nome
dell'amore (e non dello star bene), di una realta' liberata dagli attuali
limiti (e non della continuazione di una realta' insufficiente), e con una
disposizione al sacrificio, ad essere come il seme del Vangelo che muore per
far sorgere la nuova pianta. Il vecchio pacifismo era ottimista e di corta
vista, il nuovo e' drammatico e di fede nella liberazione
dell'uomo-societa'-realta' dagli attuali limiti.
Percio' anche a proposito dell'attuale mondialismo la nonviolenza da'
un'ottima guida. Non si oppone, sia perche' c'e' tanta gente che in quella
forma esprime per ora quello che vuole la nonviolenza, sia perche' c'e'
sempre qualche cosa di educativo in questo dirsi "cittadini del mondo",
tanto piu' in presenza a tanti persistenti nazionalismi, e alquanto torbidi:
una prima purificazione puo' esser quella di dire, "conveniamo insieme tutti
 nel mondo", vediamo di intenderci, ascoltiamo e parliamo. La' dove la
nonviolenza interviene e' nei primato da dare; il mondialismo dice: facciamo
un'assemblea mondiale e un governo, e un codice, e una polizia mondiale; la
nonviolenza dice: persuadiamoci dell'interna ragione dell'unita' umana
attraverso l'impegno nonviolento, poi vedremo le forme sociali che ne
conseguono. Il mondialismo sembra piu' concreto, ma corre il rischio di
mantenere la violenza e di appoggiarsi a un impero vincente, e tutto resta
quasi come prima; diminuira' qualche guerra, perche' il diritto di farla
rimane al centro dell'impero, ma e' grave l'inconveniente che se questo
governo mondiale fa ingiustizie, non c'e' scampo (mentre ora, almeno, si
puo' mutare Stato). Il mondialismo sembra troppo facile accettarlo (e questa
facilita' dovrebbe rendere attenti). La nonviolenza pone impegni precisi,
chiede fede; e' difficile, ma va in profondo, si occupa della radice: ha
fiducia di trarre da se' e dalla trasformazione che porta nuovi modi anche
sociali, diversi dai vecchi del codice, dello Stato, della polizia, della
distruzione repressiva.
La nonviolenza, per quello che vede finora, considera ogni rapporto non in
senso di autorita', potere, repressione, ma in senso federativo,
orizzontale, aperto. Per questo nella societa' circostante porta un modo
diverso che agisce sia direttamente per le persone che coltivano in se'
questo senso orizzontale, fraterno (e che ne sono trasformate), sia
indirettamente per le persone che ricevono questo nuovo agire nonviolento,
purche' costante e convinto. Bisogna tener presente questa trasformazione
dell'uomo, e allora se si dice che la nonviolenza tende ad un "federalismo
nonviolento dal basso", si capisce che non si tratta di un federalismo in
cui ognuno resta tale e quale, ma di un federalismo nel quale opera un
elemento dinamico, che e' la nonviolenza intesa in quel senso aperto.
Da quello che si e' detto risulta chiaramente che la nonviolenza tende anche
a trasformare le strutture delle comunita', e stabilire rapporti diversi da
quelli repressivi. Tuttavia si puo' osservare che l'azione dell'organo di
"polizia" in una comunita' e' lontana da quegli eccessi di distruzione e di
eccitazione psichica e di impersonalita' che ci sono per gli eserciti e le
guerre: quell'azione e' circoscritta, diretta specificamente contro chi
porta violenza e con lo scopo piu' di distogliere dalla tentazione che
altro. Naturalmente il nonviolento tende ad altro, e a smobilitare polizie e
prigioni, ed ha fiducia che questo sia possibile, perche' crede alla
superabilita' del male e alla attuabilita' di migliori rapporti umani; e per
intanto compie un'opera instancabile perche' la repressione sia umana, non
torturatrice, educatrice, non vendicatrice, ma cooperante al bene anche del
criminale stesso. Ma si rende anche conto che quello della polizia e della
coercizione giudiziaria e' l'ultimo strumento a cui una comunita' rinuncia,
e solo quando ci sia un ampio sviluppo di modi nonviolenti di convivenza. Il
nonviolento si dedica a questo, specialmente con l'apertura verso il
probabile violento, rimovendo le cause, rafforzando l'unita' sociale gia'
nell'intimo.
(Da La nonviolenza, oggi, 1962)
*
La nonviolenza nei casi personali
Nei rapporti personali (che e' il campo dei "casi" e delle critiche nelle
discussioni sulla nonviolenza) la persuasione della nonviolenza si manifesta
come tendenza generale, come una direttiva che va applicata pazientemente, e
con la buona volonta' di cercare di evitare l'uso della violenza, e con la
lealta' di correggersi se si devia, e di affrontare il dolore conseguente.
Chi si mette su questa linea puo' errare mille volte, ma fa uno sforzo, apre
una via, incide nella realta' abituale e fuga l'inerzia: non merita il
rimprovero di chi sta inerte a non tentare nulla. Si', e' vero, e' difficile
essere nonviolenti integralmente: e' piu' facile rifiutarsi agli eserciti e
alle guerre; ma nell'ambito personale e immediato e' piu' difficile
purificare dalla violenza i nostri atti, e ci possiamo trovare in situazioni
nelle quali spingiamo la difesa fino alla violenza. L'importante e' non
stancarsi di tendere ad attuarla, vivendola nelle sue profonde ragioni; che
cosa fa il musicista, se non tendere a realizzare musica meglio che puo'?
eppure puo' riuscirgli anche musica non sempre di valore, pura, alta.
Se uno mi assale per colpirmi, che cosa debbo fare? E' chiaro che dal punto
di vista della nonviolenza io debbo evitare di colpirlo, e tanto piu' se il
mio colpo sarebbe per lui la morte. Se sono capace di tenerlo nella
incapacita' di colpirmi, cerchero': lo faro' con il dolore di esser tirato
ad un contrasto con una persona ma posso tentare di farlo, e sappiamo che
sono costruibili arnesi con i quali si puo' senza uccidere e senza ferire,
impedire ad uno di colpire. E' probabile anche che io possa fare dei
tentativi di parlare e di distogliere l'avversario. Certo e' che, nel punto
estremo, nel quale o muore lui o muoio io, la nonviolenza mi dice quale e'
la scelta da fare. E tuttavia le circostanze, le ragioni, significano molto
se io decidessi diversamente; e con molto dolore dopo, per la tristezza del
caso.
Cosi e' nelle altre ipotesi tormentose. Per esempio: se uno volesse uccidere
un bambino? E' molto probabile che vi siano mezzi per immobilizzare chi vuoi
compiere quell'atto, e che sia alquanto raro il caso che egli lo possa
compiere senza che lo si cerchi di tener fermo e disarmato. In ogni modo,
nel caso estremo, si puo' arrischiare anche la propria vita davanti a quella
del bambino. Sara' stimabile chi, in omaggio alla nonviolenza e per tutto
cio' che essa significa e produce, non compie la violenza di uccidere
l'aggressore. Sara' stimabile anche chi compia questa violenza, con il puro
scopo di difesa del bambino. Sarebbe un'impostazione errata del problema
dire che non c'e' che un modo d'agire; e ogni altro e' delittuoso e
traditore. L'atto vale per tutta la sua sostanza, e la sostanza della
nonviolenza e' rispettabile tanto quanto quella della difesa, purche' siano
entrambe serie e profonde. Del resto, non e' detto che tutte le volte che si
opera con violenza si riesca ad impedire il misfatto; mentre se ci si desse
a diffondere un'educazione alla nonviolenza si agirebbe anche sul sorgere di
atti di violenza dove che siano, perche' nell'intimo siamo tutti un'unita'.
Del resto, la nonviolenza oggi si presenta con un accento straordinario.
Appunto perche' la violenza, in atto o potenziale, e' salita a un culmine
straordinario, la nonviolenza interviene per coordinare i tentativi di
decongestione, e la cosa vale bene il sacrificio di qualcuno di noi se sara'
offeso ed egli non reagira' con la violenza. Non che il sacrificio di noi,
di altri o di cose, sia cercato di proposito; ma il fatto e' che si sta non
salvando la bianchezza delle proprie mani, ma intervenendo perche'
l'umanita'-societa'-realta' prendano un nuovo corso, si trasformino. E la
trasformazione essenziale, da cui mille altre, e' quella di aprirsi ai
singoli esseri, elevandoli coralmente, infinitamente, eternamente, ai valori
puri. Il non usare violenza verso singole persone e', insieme, simbolo e
realta': volere che i singoli siano presenti e partecipi in eterno; iniziare
la realizzazione paradisiaca in terra, che richiede (naturalmente)
iniziativa e sacrificio. Quest'aria eccezionale di ora religiosa, di fine di
una realta' e di inizio di una realta' migliore, questa luce festiva tocca i
sacrifici che la nonviolenza richiede.
Viene talvolta obbiettato che e' bene arrestare il violento con altrettanta
violenza, proprio per il suo bene, per amore di lui, perche' conosca cio'
che e' giusto, e trovi, fuori di se', un aiuto di forza per costringere la
propria bestialita' e cattiveria. Rispondiamo che se fosse sempre cosi,
sarebbe realmente gia' miglior cosa della violenza che trascura la
situazione della persona che la riceve. Tuttavia e' da notare che
l'efficacia di un tal metodo per migliorare gli altri e' ben discutibile, e
nella realta' il violento si vede vinto da una violenza maggiore, e non
impara a trasferirsi su un altro piano. Anzi vede che non c'e' che il piano
della forza, e che vince chi ne ha di piu'. E' molto male che agli uomini
non si porga l'esempio, l'ipotesi, l'insegnamento di tutto un altro modo di
comportarsi. E fanno male i sacerdoti ad abdicare, quando abdicano, su
questo punto. Inoltre chi usa questa "violenza pedagogico-giuridica", si
cristallizza in essa: i romani la usarono, risparmiando i sottomessi e
debellando i superbi; ma solo il cristianesimo porto' liberta' e autentica
cittadinanza mondiale, e al posto dell'intenzione pedagogico-giuridica, mise
la costruttiva e reale apertura dell'anima. In quel modo, opponendo violenza
al violento, si ottiene, se mai, un risultato nel momento; mentre opponendo
la nonviolenza e i suoi modi si otterra' un risultato piu' lontano, ma
veramente di qualita' migliore.
Non si puo' sperare che poco dalla persuasione! viene obbiettato.
Ammettiamolo, ma rispondendo: che se non si tenta, non si puo' dire, e
bisogna dunque tentare con cuore intrepido; e poi, il valore della
nonviolenza non sta nel persuadere subito di colpo: essa afferma se stessa e
stabilisce unita' amore, apre una migiore realta'; questo atto viene deposto
nell'unita' che lega tutti gli esseri; prima o poi dara' il suo effetto,
anzi esso ha cominciato gia' a darlo se c'e' stato chi ha iniziato.
Ma voi persuaderete i buoni, i gia' persuasi; mentre i cattivi non vi
daranno ascolto; ci vien detto. Noi non crediamo, invece, che le persone
siano divisibili in due gruppi netti, ma se, col parlare di nonviolenza, si
riuscisse a ritagliare un gruppo di persuasi, meglio cosi, che non, tacendo
sulla nonviolenza, avere tutte persone violente. E poi: tante volte si parla
di cattivi, e dei peggiori, che si volgono energicamente al bene; ed e' vero
che spesso i fortemente buoni sono dei mancati briganti: che vuol dir
questo? che non dobbiamo guardare a nature fisse, precostituite,
predeterminate; ma piuttosto a impulsi, esempi, forze spirituali pure che
entrano nel campo della vita delle persone; ed e' qui che la nonviolenza
puo' fare piu' che puo'.
(Da La nonviolenza, oggi, 1962)
*
Ragioni della nonviolenza
1. La nonviolenza prende in considerazione il nostro rapporto con gli altri
esseri viventi, con la fiducia di renderlo sempre piu' reciprocamente
amichevole, comprensivo, soccorrente, lieto, malgrado le difficolta' che gli
altri stessi possono metterci. Questa fiducia non cessa di colpo al confine
degli esseri umani e spera anche per gli esseri viventi non umani; ma si
rende conto che la storia con la sua spinta vitale ha separato da noi finora
questi esseri (animali e piante) in forme di piu' difficile educazione,
trasformazione, liberazione.
2. La nonviolenza e' aperta all'esistenza, alla liberta', allo sviluppo di
ogni essere. Quando nel Settecento sono stati banditi i principi di
liberta', eguaglianza, fratellanza, non e' stato fatto tutto. La liberta'
era piu' la liberta' propria come diritto che la liberta' degli altri come
dovere; l'eguaglianza era un bel principio, ma si fermava a meta' perche'
restavano i miseri e gli sfruttati; la fratellanza era piu' quella generica
con i lontani che quella difficile, nonviolenta e perdonante verso i vicini.
3. La bellezza della nonviolenza e' che essa preferisce non di distruggere
gli avversari, ma di lottare con loro in modo nobile e dignitoso, con il
metodo nonviolento, che fa bene, prima o poi, a chi lo applica e a chi lo
riceve. In fondo e' piu' coraggioso volere vivi e ragionanti gli avversar!,
che farli a pezzi.
4. Ma sarebbe errore credere che la nonviolenza consista nel non far nulla,
nell'incassare i colpi, le cattiverie e le stupidaggini degli altri. La
nonviolenza e' sveglia e attiva, e protesta apertamente, anzi cerca i modi
non solo per convincere gli autori delle ingiustizie, ma per informare
l'opinione pubblica, di cui ha la massima considerazione: la nonviolenza per
nessuna ragione crede che si possa sospendere la liberta' e la possibilita'
abbondante di informazione e di critica per tutti, fino all'ultimo essere
umano. Anche qui la nonviolenza attua al massimo un principio del
Settecento, che la borghesia ha poi alterato a proprio vantaggio: la
formazione libera dell'opinione pubblica, comprendente tutti.
5. La nonviolenza puo' rinnovare veramente la vita interna di un paese,
perche' nell'insieme di un'opinione pubblica, tutta sveglia e
obbiettivamente informata, porta eventuali piani di non collaborazione e
perfino, in casi estremi, di disobbedienza civile, che servono a bloccare
iniziative autoritarie dall'alto. In Italia un popolo privo di esatta
informazione e critica responsabilita' fu portato ad uccidere e a morire, e
poi al popolo privo del metodo di opposizione nonviolenta fu imposta una
dittatura. L'uso del metodo nonviolento avrebbe salvato e trasformato
l'Europa, a cominciare dall'Italia e dalla Germania.
6. Trasformare la situazione interna dei paesi vuoi dire anche avere un
continuo promovimento di campagne giuste e rinnovatrici, in cose piccole e
in cose grandi, e senza portare il terrorismo della guerra civile nelle
strade e nelle case. E' un metodo nuovo, il tenere attiva una societa' con
il metodo nonviolento, controllando e smascherando, protestando e agitando,
sacrificandosi e cosi educando i giovanissimi a cercare coraggiosamente di
migliorare le societa' dal di dentro. Anche qui la nonviolenza salva i
giovani, occupandoli bene (rivoluzione permanente).
7. La nonviolenza e' strettamente congiunta col punto a cui e' giunta la
guerra, con la sua attrezzatura tecnica e le armi nucleari. L'esasperazione
della ferocia e della vastita' distruttiva della guerra, specialmente dopo
Hiroshima, ha posto il problema di arrivare a un altro modo di condurre le
lotte e la stessa difesa. Come ci si difende alle frontiere da missili che
varcano i continenti e in pochi minuti distruggono citta', specialmente le
industrie, i civili? Si puo' arrischiare una tale strage e un tale
avvelenamento dell'educazione delle generazioni? Dietro e dopo le soluzioni
provvisorie dell'equilibrio del terrore, mentre e' enorme nel mondo la
fabbricazione di armi di tutte le specie e la loro distribuzione anche ai
popoli sottosviluppati, la nonviolenza prepara la svolta storica del
possesso in tutto il mondo di un metodo di lotta che esclude la distruzione
dei nemici, attraverso la non collaborazione con il male, la solidarieta'
aperta dei giusti. Questo metodo non ha bisogno di armi e percio' di
appoggiarsi ad una nazione con industrie capaci di darle, come sono
costretti a fare i guerriglieri violenti, che usano anche i vecchi modi del
terrorismo tra gli avversari e della tortura dei prigionieri.
8. Il metodo nonviolento esige prima di tutto qualita' di coraggio, tenacia,
sacrificio, e di non perdere mai l'amore; poi esige un addestramento fisico
e psicologico, ma possibile anche per persone di forze modeste. Un metodo in
cui un cieco puo' essere piu' utile di un gigante. Cosi il metodo
nonviolento si rivela come la possibilita' di partecipazione attiva,
appassionata ed eroica, di persone che non hanno altro che il loro animo e
le loro giuste esigenze: la nonviolenza le valorizza, illumina, e rende
presenti anche moltitudini di donne, di giovinetti, folle del Terzo Mondo,
che entrano nel meglio della civilta', che e' l'apertura amorevole alla
liberazione di tutti. E allora perche' essere cosi' esclusivi (razzisti)
verso altre genti? Oramai non e' meglio insegnare, si', l'affetto per la
terra dove si nasce, ma anche tener pronte strutture e mezzi per accogliere
fraternamente altri, se si presenta questo fatto? La nonviolenza e' un'altra
atmosfera per tutte le cose e un'altra attenzione per le persone, e per cio'
che possono diventare.
9. Davanti a questa svolta storica in anni e decenni, il prevalere di gruppi
violenti per un certo periodo rimane un episodio. L'unica forza che scava
loro il terreno e' la nonviolenza, ma ci puo' volere pazienza, tempo,
costanza. E' vero che un atto di violenza puo' fronteggiare un altro atto di
violenza, ma poi? Nel quadro generale e' meglio attuare un altro metodo. Si
possono conservare ancora forze coercitive per piccoli fatti, di ordine
quotidiano, ma nel piu' e nell'insieme e' il metodo del rapporto nonviolento
che va risolto e articolato sempre piu'. In esso, nel fatto che esso e'
amorevolezza, approfondimento dell'unita', festa della vicinanza, inizio di
una storia nuova con nuovi modi di realizzarsi, sta il compenso per i
sacrifici della lotta nonviolenta e per il ritardo delle vittorie.
10. La nonviolenza e' la porta da aprire per non sentirsi soli. La
nonviolenza cerca sempre di essere con gli altri. E questo e' molto
importante oggi, perche' sta dilagando il bisogno di una democrazia diretta,
dal basso, con il controllo di tutti su tutto. Contro i poteri imperiali dei
capi degli eserciti e delle industrie che li servono (private o statali), la
democrazia diretta costituira' i suoi strumenti con la continua guida della
nonviolenza, per smontare la varia violenza dei potenti (violenza
burocratica, giudiziaria, nella scuola, nel lavoro, negli enti di
assistenza, nella stampa e nella radio), non con assalti sanguinari che non
trasformerebbero, ma con la preparazione al controllo serio e aperto.
11. Dire nonviolenza e' come dire apertura in tutti i campi, occuparsi degli
esseri viventi in modo concreto e aiutarli (che e' anche un modo per avere
forza in se stessi); tenersi pronti per sostenere cause giuste e meritare il
nome di essere perfettamente leale; riconoscere che negli errori degli altri
c'e' sempre una qualche responsabilita' e possibilita' attiva per noi;
perdonare facilmente al passato nella serieta' di impegni migliori per il
futuro; invidiare Dio che puo' conoscere piu' da vicino tutti gli esseri e
aiutarli infinitamente; tendere a costituire comunita' di vita con piu'
persone e famiglie in modo che ci sia uno scambio piu' attivo e
un'educazione comune dei piccoli; essere piu' sensibili ad ogni altro valore
pratico e contemplativo (l'onesta', l'umilta', la musica, ecc.); essere piu'
fermi nella serieta' e severita' quando occorra (per esempio contro le
ingiuste e molli raccomandazioni); cercare di estendere il rispetto della
vita quando e' possibile (per esempio col vegetarianesimo, ma facendolo bene
perche' non sia dannoso) e assecondare dalla fanciullezza la zoofilia;
utilizzare l'appassionamento universale per la massima valorizzazione degli
esseri per arricchire l'attenzione nel tu rivolto a un singolo essere,
perche' non sia isolato e stagnante; attuare quotidianamente la gentilezza
costante, senza ipocrisia e con franchezza; portare in ogni situazione
un'aggiunta di ragionevolezza umana e di comprensione reciproca; garantire
una riserva di serenita' per il fatto che la nonviolenza e' qualche cosa di
piu' rispetto alla semplice amministrazione della vita.
12. La nonviolenza non sta in un individuo astratto, ma e' da individui a
individui in situazioni, strutture, grandi problematiche e urgenti
realizzazioni. Un modo in cui si fa presente e', come abbiamo visto, quello
del pacifismo integrale. Il che vuol dire non solo il rifiuto di collaborare
alla guerra e guerriglia, e a cio' che inevitabilmente le accompagna, il
terrorismo contro i civili e la tortura sui prigionieri; ma anche la scelta
del disarmo unilaterale, unito all'addestramento all'azione del metodo
nonviolento. Percio' la nonviolenza indica il pericolo dell'equilibrio del
terrore, durante il quale eserciti e industria alimentano di armi tutto il
mondo, da cui conflitti grandi e piccoli; indica gli spegnimenti della
democrazia che vengono fatti per allinearsi in grandi blocchi
politico-militari; mostra l'immenso consumo di denari nelle spese militari
invece che nello sviluppo civile. Le Nazioni Unite, come insieme di sforzi
per dominare razionalmente le situazioni difficili e per provocare
continuamente la cooperazione, sono sostenibili, anche perche' tutte le
trasformazioni rivoluzionarie che la nonviolenza porta, sono sempre il
fondamento e l'integrazione di quelle decisioni razionali e giuridiche che
gli uomini prendono, quando esse sono un bene per tutti. Certo, il
nonviolento non si scalda per il governo mondiale, che potrebbe diventare
arbitrario e oppressivo, ma per il suscitamento di consapevoli e bene
orientate moltitudini nonviolente dal basso.
13. La nonviolenza vuole la liberazione di tutti, e non cessa mai di portare
l'eguaglianza a tutti i livelli. Ora un problema molto importante e' che
l'uomo non subisca la violenza mediante il lavoro. Il lavoro e' uno dei modi
che l'uomo ha (non il solo) per esprimere la sua personalita', ed e' percio'
positivo, un diritto-dovere, una partecipazione alla comunita'. Ma va sempre
piu' realizzato il fatto che ogni lavoro e' verso tutti, e in certo senso
pubblico, non privato e sottoposto a condizioni di servitu' e di
sfruttamento. Difendere e sviluppare la posizione di tutti i lavoratori vuol
dire renderli sempre piu' capaci di eguaglianza di fruizione della vita
comune, nei beni materiali e nei beni culturali, mediante la formazione
nell'adolescenza e mediante il tempo libero, e capaci di partecipazione
attiva, civica, critica, costruttiva. Percio' i provvedimenti per cui la
proprieta' viene resa pubblica e controllata, cioe' aperta e non chiusa
(socialismo) snidano la violenza sostanziale di chi si vale della proprieta'
per alienare gli uomini staccandoli dal loro pieno sviluppo nonviolento e
creativo sul piano orizzontale di tutti.
14. Il grande fatto della meta' di questo secolo e' il discorso sul potere.
La nonviolenza, meglio di ogni altro atteggiamento, puo' indicare quanta
violenza si annidi nel vecchio potere. Si e' constatato che la
statalizzazione della proprieta' non toglie la durezza del potere. Non basta
far cadere le posizioni della proprieta' privata perche "il potere operaio"
abbia il diritto di tutto costruire. Il problema non e' che nuova gente
arrivi, in un modo o in un altro, al potere; ma che il potere sia esercitato
in modo nuovo; altrimenti e' meglio continuare a lottare e formare un
terreno piu' favorevole per arrivare ad un "potere nuovo", magari
cominciando da forme di potere locale, dove e' meglio possibile attuare tipi
di "potere aperto", che conta sulla costante collaborazione degli altri e
possibilmente di tutti.
15. Che fa la nonviolenza davanti alla legge? La scruta per intenderla, per
integrarla con l'animo, per migliorarla, per ridurre la violenza. La legge,
come decisione razionale, che riguarda azioni da comandare o da impedire,
non puo' essere respinta senz'altro per sostituirla con la naturale
istintivita' individualistica umana. La legge e' una conquista della
ragione, e spesso merita di essere aiutata. Ma il nonviolento l'aiuta a modo
suo. L'accetta quando e' molto buona. Consiglia di sostituire
progressivamente alla esclusiva fiducia nei mezzi coercitivi, lo sviluppo di
mezzi educativi e di controllo cooperante di tutti. Fa campagne per
sostituire leggi migliori, quando le attuali sono insoddisfacenti e
sbagliate. Errato e' insegnare a ubbidire sempre alle leggi e a non volerle
riformare, come se non esistesse la coscienza e la ragione. La nonviolenza
aiuta a capire che non basta dire: "Noi siamo autonomi e ci diamo percio' le
nostre leggi". Bisogna aggiungere: "E le nostre leggi hanno l'orientamento
di realizzare la nonviolenza come apertura all'esistenza, alla liberta',
allo sviluppo di tutti".
16. In questo tempo in cui la nonviolenza allarga e approfondisce le sue
responsabilita', essa si trova davanti il potere delle autorita' religiose,
e l'urto e' inevitabile. Tali autorita' pretendono di decidere su violenza e
nonviolenza. La nonviolenza porta una sua prospettiva, di un sacro aperto e
non chiuso, del valore di raggiungere l'orizzonte di tutti come superiore al
cerchio dei credenti. Il credente nonviolento finisce col trovarsi piu'
volentieri a fianco del nonviolento di un'altra fede che con l'"autorita'"
della propria fede. Lo spirito di autoritarismo che pervade tutto il corpo
ecclesiastico cerca di scacciare proprio quello spirito della nonviolenza
aperto all'interesse per ogni singolo nel suo contributo e nel suo sviluppo,
e impone una assenza di violenza che e' passiva obbedienza. Ben altro e' la
nonviolenza aperta, che non ha paura di nessuna autorita', ed e' sicura di
farsi valere prima o poi.
17. La nonviolenza non e' soltanto una cosa della vita e nella vita. Nel suo
sforzo continuo di migliorare il rapporto tra gli esseri, e di congiungere
piu' saldamente la vita del singolo con la vita di tutti, avviene
effettivamente un'influenza sulla cosi' detta "natura", che e' la vitalita',
la volonta' di forza, di vita come vita, come piacere, come guadagno e
profitto, come potenza, come riposo utile, come schiacciante energia dal
seno stesso della realta' fisica. Il Vesuvio sterminatore osservato dal
Leopardi e che uccise tanta gente; l'acqua di un'inondazione, che copre
indifferente un sasso e il volto di un bambino, sono aspetti della natura.
Ma natura e' anche la vitalita' che spinge il bambino a nascere e a
crescere; la forza che ci affluisce ogni giorno mediante il cibo, il riposo,
l'aria. Non si puo' tagliare da noi tutta la natura; ma si puo' scegliere: o
svilupparci come bruta natura, o svilupparci come crescente nonviolenza
verso gli esseri, rimediando la crudelta' della natura e proseguendola nel
buono, nel vivo, trasformandola progressivamente. Perche' al limite estremo
c'e' la sua trasformazione e il suo portarsi al servizio di tutti gli esseri
affratellati. Un atto di nonviolenza e' percio' anche un atto di speranza in
questa trasformazione della cruda forza della natura.
18. Ma la nonviolenza non soltanto progredisce come rapporto. Essa qualche
volta ha a che fare direttamente con la morte: e' rifiuto di dare quella
morte determinata, e' constatazione dell'impotenza davanti ad una morte, e'
l'improvviso trovarsi a dire un tu ad un essere che ci sembra non lo riceva
piu' perche' e' morto. Il nonviolento, che fonda molto della sua decisione
sul rispetto della vita, puo' anche semplicemente confermare, davanti alla
morte, il proposito di non darla, e accomunare i morti in una cara memoria
dei singoli e in una generale pieta'. Ma puo' anche considerare ogni morte
come una crocifissione che la natura fa di ogni essere, come l'impero di
Roma la faceva per i ribelli; e se ogni morte e' una crocifissione, il morto
non e' spento ma risorge nella compresenza di tutti. Cosi la nonviolenza
puo' condurre a vivere questo grande mistero della compresenza di tutti,
viventi e morti.
19. Vista ora nell'insieme di queste possibili attuazioni e prese di
influenza e di azione su una realta' che oggi parrebbe cosi' contraria ad
essere penetrata dalla nonviolenza, essa mostra il suo posto, l'aggiunta che
fa al mondo presente. E' facile la profezia che ancora gli imperi
militari-industriali del mondo concentreranno forze immani. Ma la
nonviolenza ha cominciato ad aprire in ogni paese un conto, in cui ognuno
puo' depositare via via impegni e iniziative. Se si pensa alla creativita'
teorica e pratica di pochi decenni, si sente la crescita potenziale di una
Internazionale della nonviolenza. Bisogna riconoscere che, indipendentemente
dalle altre sue teorie, Gandhi, con la formazione del metodo di azione
nonviolenta, ha dato il piu' grande contributo all'era della nonviolenza; e
cosi ogni altro grande attuatore del metodo nonviolento, e suo testimone, ci
e' fratello e padre. Nessuna paura e nessuna fretta, nessuna gelosia e
nessuna presunzione, per l'organizzazione: possono sorgere innumerevoli
centri per l'addestramento alle tecniche del metodo nonviolento.
20. E se da questo largo quadro torniamo al semplice e singolo individuo che
prende interesse per la nonviolenza, che prova a sceglierla, che vede di
poter resistere al pensiero della violenza come soluzione, che non
s'impiglia nella casistica dello schiaffo e del non schiaffo, del bambino
ucciso e non ucciso, perche' non tutto sta li', e bisogna rifarsi al quadro
generale, vediamo che Io stesso processo di sviluppo c'e' in grande come
c'e' in piccolo, nel mondo e nel singolo individuo. Noi abbiamo ancora molta
violenza addosso, come ce l'ha il mondo. Se uno per togliersela si isolasse
da eremita, sbaglierebbe, perche' si priverebbe di tutte le occasioni per
far progredire in se' e nel mondo la nonviolenza, che e' amore concreto, e
per riprenderla, se l'avesse trascurata.
(Dalla rivista "Azione nonviolenta", agosto-settembre 1968)
*
Tanto dilagheranno violenza e materialismo che ne verra' stanchezza e
disgusto; e dalle gocce di sangue che colano dai ceppi della decapitazione
salira' l'ansia appassionata di sottrarre l'anima ad ogni collaborazione con
quell'errore, e di instaurare subito, a cominciare dal proprio animo (che e'
il primo progresso), un nuovo modo di sentire la vita: il sentimento che il
mondo ci e' estraneo se ci si deve stare senza amore, senza una apertura
infinita dell'uno verso l'altro, senza una unione di sopra a tante
differenze e tanto soffrire. Questo e' il varco attuale della storia.
(Da Elementi di un'esperienza religiosa, 1936)

2. ET COETERA

Aldo Capitini e' nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato,
docente universitario, infaticabile promotore di iniziative per la
nonviolenza e la pace. E' morto a Perugia nel 1968. E' stato il piu' grande
pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo Capitini:
la miglior antologia degli scritti e' (a cura di Giovanni Cacioppo e vari
collaboratori), Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977 (che
contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoche' integrale -
ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche dell'epoca -
bibliografia degli scritti di Capitini); recentemente e' stato ripubblicato
il saggio Le tecniche della nonviolenza, Linea d'ombra, Milano 1989; una
raccolta di scritti autobiografici, Opposizione e liberazione, Linea
d'ombra, Milano 1991, nuova edizione presso L'ancora del Mediterraneo,
Napoli 2003; e gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996;
segnaliamo anche Nonviolenza dopo la tempesta. Carteggio con Sara Melauri,
Edizioni Associate, Roma 1991; e la recentissima antologia degli scritti (a
cura di Mario Martini, benemerito degli studi capitiniani) Le ragioni della
nonviolenza, Edizioni Ets, Pisa 2004. Presso la redazione di "Azione
nonviolenta" (e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org)
sono disponibili e possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di
Capitini non piu' reperibili in libreria (tra cui i fondamentali Elementi di
un'esperienza religiosa, 1937, e Il potere di tutti, 1969). Negli anni '90
e' iniziata la pubblicazione di una edizione di opere scelte: sono fin qui
apparsi un volume di Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, e un
volume di Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1994, seconda edizione
ampliata, Fondazione centro studi Aldo Capitini, Perugia 1998. Opere su Aldo
Capitini: oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il
messaggio di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda almeno:
Giacomo Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Clara Cutini (a cura di),
Uno schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988;
Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di
Fiesole (Fi) 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini.
Tra religione ed etica laica, Clueb, Bologna 1991; Fondazione "Centro studi
Aldo Capitini", Elementi dell'esperienza religiosa contemporanea, La Nuova
Italia, Scandicci (Fi) 1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per
una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini,
Pisa 1998, 2003; AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume
monografico de "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante,
La realta' liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del
Rosone, Foggia 1999; Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta
2001; Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini,
Cittadella, Assisi 2004; Massimo Pomi, Al servizio dell'impossibile. Un
profilo pedagogico di Aldo Capitini, Rcs - La Nuova Italia, Milano-Firenze
2005; Andrea Tortoreto, La filosofia di Aldo Capitini, Clinamen, Firenze
2005; cfr. anche il capitolo dedicato a Capitini in Angelo d'Orsi,
Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001; per una
bibliografia della critica cfr. per un avvio il libro di Pietro Polito
citato; numerosi utilissimi materiali di e su Aldo Capitini sono nel sito
dell'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini: www.aldocapitini.it,
altri materiali nel sito www.cosinrete.it; una assai utile mostra e un
altrettanto utile dvd su Aldo Capitini possono essere richiesti scrivendo a
Luciano Capitini: capitps@libero.it, o anche a Lanfranco Mencaroni:
l.mencaroni@libero.it, o anche al Movimento Nonviolento: tel. 0458009803,
fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta@sis.it o anche
redazione@nonviolenti:org, sito: www.nonviolenti.org

***

MARIA G. DI RIENZO: LA "CULTURA" DELLA VIOLENZA
[Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito
www.nonviolenti.org), col titolo "Quando la 'cultura' e la 'tradizione'
giustificano la violenza sulle donne, fatta di delitti e umiliazioni"]

Generalmente, siamo abituate/i a guardare alle culture come al prodotto di
gruppi di persone sostanzialmente eguali che vivono in una data regione
geografica. In realta' ogni gruppo contiene grandi differenze che concernono
i livelli di potere, il benessere, la possibilita' di esprimere i propri
bisogni e i propri interessi. Le istanze relative al potere vedono spesso le
donne in una posizione ambigua o svantaggiata. Le qualita', i comportamenti
e le identita' di uomini e donne sono determinati ovunque dal processo di
socializzazione: poiche' i ruoli e le responsabilita' sono specificatamente
culturali essi cambiano nel tempo. I ruoli di genere sono infatti
influenzati da fattori storici, religiosi, economici ed etnici. Essere
consapevoli della relazione di genere all'interno dei gruppi, il proprio e
gli altri, mostra che le comunita' non sono un armonioso insieme di
individui con interessi e priorita' comuni; le divisioni si disegnano
ovunque lungo le linee dell'eta', della religione, della classe e del
genere. Questi differenziali di potere ovviamente ostacolano alcune
"categorie" di persone qualora esse decidano di dar voce ad opinioni che
contraddicono la visione generale o la mettono in discussione, in particolar
modo se si tratta di donne.
Molte donne, esclusivamente perche' sono donne, soffrono nei propri paesi
serie minacce o negazioni rispetto ai loro diritti fondamentali ed alla loro
liberta'. Molte vivono in situazioni di poverta' e violenza estreme. Alcune
vengono vendute o barattate, forzate a matrimoni indesiderati sovente in
giovanissima eta', e vengono loro spesso imposte restrizioni o regole su cui
hanno scarse o nulle possibilita' di contrattazione. Altre vengono punite
perche' i loro mariti o congiunti sono detenuti o ricercati, e non hanno
alcuna protezione per se stesse e gli eventuali figli. Delitti d'onore,
lapidazioni per presunto adulterio, stupri di donne e bambine, vengono visti
come "pratiche tradizionali locali".
Lo scioccante e totale disprezzo per i loro diritti umani che sottende
queste giustificazioni non ha base reale nel presunto consenso delle donne:
ovunque vi sono resistenze, lotte, tentativi di cambiamento o negoziazione.
La negazione dei diritti umani delle donne viene usualmente giustificata con
la tradizione, la religione, la coesione sociale, la moralita' o complessi
sistemi di valori trascendenti. Ma a questo punto e' necessario chiedersi se
tutta questa "cultura" non sia che un feticcio usato per mantenere privilegi
sociali ed economici, o semplicemente psicologici. Oggi nessuno che voglia
impegnarsi nella costruzione di pace o nella cooperazione allo sviluppo
dovrebbe riferirsi a culture e costumi sociali come ragioni per non guardare
alla discriminazione delle donne; al contrario, vi e' la necessita' di
ribadire che tutte le nazioni hanno il dovere di garantire diritti umani a
chiunque: "Nessuno stato puo' far riferimento ai costumi nazionali per non
garantire diritti umani e liberta' fondamentali a tutti gli individui"
(Dichiarazione di Pechino, Quarta Conferenza Onu sulle donne, 1995).
*
Difendere i diritti delle donne appare particolarmente minaccioso a chiunque
voglia mantenere rapporti basati sulla gerarchia e la violenza. In alcune
parti del mondo le cose vanno come nell'esperienza di seguito narrata.
Undici uomini dell'esercito buttarono giu' la porta della casa in cui una
dozzina di attiviste per i diritti umani si erano riunite, nella provincia
di Mindanao nelle Filippine. Era il marzo del 2004. Portarono via Angelina
Ipong, all'epoca sessantenne, ma non si limitarono a chiuderla in una cella.
Angelina e' stata torturata e si e' abusato di lei sessualmente. Siede
ancora in quella prigione, in attesa di un processo che non arriva e di
poter contestare le quattordici accuse mosse contro di lei dal governo, che
vanno dall'omicidio alla rapina. Non l'hanno accusata del suo vero crimine:
Angelina stava organizzando una delegazione che sperava di aprire negoziati
di pace fra il governo filippino e gli insorgenti musulmani. L'abuso che ha
subito non e' raro nel paese e forse Angelina e' persino "fortunata",
giacche' il suo caso e' stato preso a cuore da Amnesty International: dal
2001, 319 attiviste/i per i diritti umani sono stati assassinati da soldati,
membri delle forze dell'ordine e squadroni della morte filogovernativi;
altre 185 persone sono semplicemente "scomparse".
"La prima cosa che viene in mente a chi arresta o rapisce una donna e' che
lei e' un oggetto sessuale. Ma dappertutto i corpi delle donne sono
diventati il campo di battaglia per ottenere il controllo, l'arena piu'
concreta". Non faro' il nome dell'amica che ha visto Angelina trascinata in
carcere e che dice questo. E' una femminista, ed e' stata costretta a
fuggire dalla provincia di Mindanao dopo essere stata accusata di far parte
di due differenti gruppi armati. Passa le notti sveglia, rigirandosi nel
letto: attende il colpo che sfondera' la porta. "Se questo e' il prezzo per
il mio essere una difensora dei diritti umani delle donne, sono disposta a
pagarlo".
*
Spesso le donne non sono neppure consapevoli di essere titolari di diritti
umani, ma non appena lo diventano le loro vite cambiano immediatamente in
meglio. Il programma di educazione ai diritti umani rivolto alle donne,
gestito dal 1995 in Turchia da un gruppo di femministe turche, ha ormai
raggiunto oltre 5.000 donne in 33 differenti province; i 30 centri che sono
nati in tutto il paese in riferimento al programma ne hanno raggiunte altre
3.000.
"Ci dedicammo a piu' di due anni di ricerche prima di implementare il
programma sul campo", raccontano le organizzatrici, "Gli studi confermarono
che le vite delle donne erano modellate su pratiche patriarcali e che esse
ignoravano i diritti che le leggi garantiscono loro. Inoltre, le pratiche
patriarcali spacciate per 'tradizioni' non tenevano in alcun conto le
aspettative delle donne, ed i loro bisogni nei campi della salute
riproduttiva e sessuale".
La maggior parte delle partecipanti (88%) sono divenute "persone chiave"
nella propria comunita' di riferimento, ovvero le persone sagge a cui ci si
rivolge quando le relazioni si guastano o sorgono difficolta' in seno alle
famiglie e nel vicinato, e/o hanno fondato organizzazioni e comitati di base
per rispondere ai problemi piu' svariati del loro territorio (74%). Le lotte
che conducono sono rigorosamente nonviolente. Un risultato cosi' importante
non era scontato, ma di fatto queste donne "ignoranti" e ignorate sono state
adeguatamente informate su tutto cio' che serve ad un attivista, femmina o
maschio: diritti civili e costituzionali, tecniche antiviolenza, economia e
legge, abilita' comunicative, eccetera.
Il resto delle statistiche dice che il 63% delle partecipanti sono state in
grado di annullare la violenza domestica nella propria casa e che il 22%
l'ha grandemente ridotta; il 43% ha trovato lavoro fuori casa; il 54% ha
ripreso a studiare in modo formale o informale... e il 72% dei mariti ha
completamente cambiato atteggiamento nei loro confronti, comportandosi in
modo assai piu' rispettoso e positivo.
Ma al di la' dei numeri, puo' essere interessante ascoltare le voci di
queste donne coraggiose.
Cemile, del villaggio di Izmir, racconta di "essere cresciuta ad abusi e
pestaggi. Il mio e' stato un matrimonio combinato. Per me non era semplice
neppure uscire a passeggiare. La famiglia in cui entrai era molto vasta e in
passato io ero l'unica a dovermi fare carico dei lavori domestici. Se facevo
un errore anche piccolissimo erano guai. Un giorno ho sentito parlare di
questo programma per le donne, era al Centro comunitario (una sorta di
centro sociale gestito dalla municipalita' - ndr) e mi ci sono iscritta
subito. Le cose che imparavo le portavo in famiglia, ne discutevo, e le
mettevo in pratica. Le mie relazioni con mio marito e i suoi parenti sono
enormemente cambiate. Ora i lavori di casa si dividono, e loro rispettano me
e le mie idee. Ho capito che dovevo dapprima essere utile a me stessa per
essere d'aiuto agli altri. Adesso sono coinvolta in un progetto che si
chiama 'Colline verdi': stiamo piantando alberi sulle colline spoglie per
risanare l'ambiente. Sono andata finalmente a scuola, e ho conseguito il
diploma elementare in un anno. Adesso sto frequentando le medie e poi andro'
alle superiori. Inoltre, sono stata eletta al Consiglio comunale di
Karsikaya".
Museyyer, da parte sua, ha scoperto l'esistenza del programma rivolto alle
donne dopo la nascita del suo sesto bambino. Anche il suo e' stato un
matrimonio imposto, e ha dovuto sposare il proprio cugino: "Parlavo dei
seminari con qualunque donna venisse a contatto con me. Dopo un po' ci ho
portato tutte le mie parenti di sesso femminile. Ai mariti all'inizio
dicevamo che andavamo a prendere un caffe' o un te' insieme. Sapere di avere
dei diritti come donna e come madre l'ho imparato grazie al programma. In
famiglia ci sono otto bocche da sfamare e solo mio marito lavorava fuori
casa: dopo aver partecipato agli incontri ho deciso che anch'io avrei avuto
un impiego e nel corso c'erano un sacco di donne che volevano la stessa
cosa. Abbiamo fondato una cooperativa, fatto ricerche di mercato e indagato
le necessita' del territorio: ora produciamo candele ed abbiamo aperto un
asilo infantile. La nostra cooperativa si chiama 'Fiducia'. C'e' stato un
tempo in cui non avrei mai osato parlare dei miei desideri a mio marito, e
in cui a stento mettevo il piede fuori di casa... oggi sto trattando con il
Ministero dell'Industria e Commercio, con la Direzione degli Affari
Culturali e non so dire con quante ditte private".
*
Le esperienze, infatti, dicono che non e' mai troppo tardi: Theresa Chilala
ha 79 anni, e si sta battendo perche' nessuna vedova venga mai piu'
"ereditata" dalla famiglia del marito, secondo un costume della minoranza
Tonga in Zambia che si puo' tradurre come "pulizia sessuale". Il marito di
Theresa e' morto nel 1990, e da lei ci si aspettava che acconsentisse ad
avere rapporti sessuali con uno dei parenti maschi del defunto: in questo
modo sarebbe stata "liberata dal fantasma del marito" e avrebbe potuto
continuare a vivere con la famiglia di lui. Non e' solo il timore dell'aids,
che in Zambia affligge il 16% delle persone fra i 15 ed i 49 anni, e neppure
e' solo il fatto che la fede di Theresa e' quella cristiana: lei dice di
voler difendere la sua dignita' di donna. Poiche' si e' strenuamente
rifiutata, ha potuto portarsi via appena il suo gregge e ritirarsi sul
proprio pezzettino di terra. Ma i parenti acquisiti hanno continuato, per
rappresaglia, a bruciare cadaveri proprio su quella terra. Nel 1997 Theresa
si e' rivolta all'associazione "Legge e sviluppo", un'ong locale che difende
le donne dalle discriminazioni di genere. Nel febbraio 2006, dopo svariate
vicende, ha vinto la causa legale contro i parenti acquisiti, e l'ha vinta
grazie all'applicazione della Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di
discriminazione nei confronti della donna (Cedaw, Onu, dicembre 1979) che lo
Zambia ha sottoscritto nel 1985 e che e' stata ampiamente citata in
tribunale. Grazie a questa sentenza, altre vedove ed orfani cacciati dalle
case in cui vivevano alla morte di mariti e padri, molti ridotti a
condizioni di estrema poverta', hanno cominciato a farsi sentire.
Secondo Theresa le tradizioni e i costumi si trasformano come ogni altra
cosa al mondo e non c'e' nulla di tragico in questo. Specialmente quando
causano dolore, dice, devono proprio cambiare. Altrimenti calcificano.

2. MARIA G. DI RIENZO: LO STUPRO COME ARMA DI GUERRA
[Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito
www.nonviolenti.org), col titolo "Lo stupro come arma di guerra contro le
donne. La guerra e' un crimine. Lo stupro e' il peggior crimine dei
crimini"]

"Lo stupro e' il processo consapevole di intimidazione grazie al quale tutti
gli uomini tengono tutte le donne in stato di paura" (Susan Brownmiller).
Non si tratta di un atto incontrollato. Lo stupro viene commesso dopo essere
stato vagheggiato, pianificato, vagliato, preparato. E' un atto che cerca
simbolicamente la morte della propria vittima, ovvero che essa desideri
essere morta. Lo stupro in guerra e' anche uno strumento di esilio forzato,
di distruzione di una comunita', di un gruppo o di un popolo. Lo stupro e'
infine spettacolo: qualcosa che deve essere visto e sentito e raccontato
agli altri. L'orrore palese del conflitto armato si somma alle violazioni
conseguenti nel campo dei diritti umani; la guerra distrugge o limita
severamente i diritti di base sociali, economici e politici di uomini e
donne: mentre eserciti e/o milizie avanzano, le scuole chiudono, i servizi
sanitari spariscono o diminuiscono, l'economia vacilla e la disoccupazione
cresce. Ma la violenza sessuale, sebbene anche uomini la subiscano, non e'
il primo timore che stringe il cuore di un uomo quando viene arrestato, o
quando la sua porta di casa viene buttata giu' a calci alle due del mattino,
o quando i soldati "nemici" entrano con i carri armati in citta'. E' il
primo terrore di una donna.
*
Era il 1992 quando in riferimento a cio' che accadeva in Bosnia-Erzegovina
si comincio' a parlare di stupro di massa come arma da guerra. Durante il
conflitto armato nella ex Jugoslavia lo stupro come strumento di guerra si
rivelo' persino piu' "efficace" dell'uccisione dei soldati nemici. Entrare
in un piccolo paese, raggruppare le donne, violentarle di fronte a tutti era
un mezzo sicuro per liberare il terreno: dopo gli stupri, la popolazione si
spostava spontaneamente, fuggiva, e l'area poteva essere occupata in tutta
tranquillita'. Sia i carnefici sia le vittime erano entrambi sicuri delle
implicazioni culturali legate alla violenza sessuale. Le condividevano.
Le donne dei Balcani spesso si sposano in eta' molto giovane, hanno bambini
presto e ricevono solo un'istruzione di tipo primario. La societa' le
percepisce come "inferiori" agli uomini e ci si aspetta da loro che siano
umili e obbedienti, a casa e sul posto di lavoro. Questo subdolo e
persistente non rispetto delle donne ha lastricato la strada che porto' agli
stupri di massa.
Lo scopo dei violentatori era di umiliare le donne cosi' profondamente da
far divenire i ricordi legati alla loro casa una sorgente di estrema
sofferenza e paura. Tali memorie, infatti, tennero le donne lontane dalle
abitazioni e dai villaggi in cui erano vissute. In questo senso, si puo'
parlare di "stupro etnico", poiche' finalizzato alla "pulizia etnica" di
un'area. Ma le aggressioni in Bosnia presero anche un altro aspetto che
definisce lo stupro etnico come assimilazione forzata ad un gruppo: lo
stupro fu infatti usato per ingravidare le donne. I violentatori serbi
pensavano di creare una Grande Serbia etnicamente omogenea facendo partorire
bambini nati dallo stupro a donne musulmane. Nel pensiero patriarcale che fa
da sostrato a questo tipo di ragionamento, e' ovvio che se il padre e'
serbo, serbo sara' il figlio. Sebbene cio' sia avvenuto in un'epoca in cui
non si ignora piu' il contributo genetico della madre al concepimento (e
cio' e' avvenuto nella seconda meta' degli anni '50 dello scorso secolo, non
prima), gli stupratori non considerarono il fatto che meta' dell'eredita'
genetica del bambino sarebbe derivata dalla madre musulmana.
L'anno scorso una delegazione di parlamentari europei acconsenti' ad
ascoltare cinquanta sopravvissute, ma solo una riusci' effettivamente a
parlare. La donna, con vistose cicatrici sulle braccia, spiego' che non era
fuggita dal proprio villaggio nei pressi di Prijedor in Bosnia perche' la
sua giovane nuora era in procinto di partorire e lei era rimasta ad
accudirla. Assieme al figlio piu' piccolo e a costei viveva nascosta in una
cantina. Un gruppo di soldati serbi scopri' il rifugio e nonostante le sue
implorazioni l'intero gruppo la stupro'. Affinche' le sue urla non
svegliassero il figlioletto, la donna si morse ripetutamente le braccia. La
sua storia prese due ore per essere narrata, ed alla fine i volti dei
parlamentari erano bianchi: una di essi dette di stomaco. Di comune accordo,
la delegazione disse che non voleva ascoltare altri resoconti, uno era
bastato.
Si stima che circa 60.000 donne, nella ex Jugoslavia, siano incorse nella
stessa esperienza della donna che sconvolse la delegazione europea: troppe
non sono piu' qui per raccontarla.
*
La cifra, in riferimento al conflitto in Ruanda, raggiunge e forse supera il
mezzo milione. La maggior parte di delle vittime di stupro ruandesi sono
anche state mutilate, in relazione alle loro caratteristiche "razziali": i
nasi appuntiti e le dita lunghe, che generalmente caratterizzano i corpi
delle donne Tutsi, sono stati tagliati via. I seni venivano amputati come
ulteriore punizione. Numerose fra loro sono quelle che, sopravvissute alla
prima ondata di violenza ma scopertesi incinte dei "figli dello stupro", si
sono suicidate od hanno addirittura pagato altre persone affinche' le
uccidessero. Il 70% delle restanti contrasse il virus Hiv, e oggi molte sono
gia' morte di Aids.
*
Violenza sessuale, schiavitu' sessuale e prostituzione forzata sono fattori
presenti da sempre nei conflitti armati. La violenza sessuale e' una parte
significativa del conflitto, un modo per terrorizzare intere comunita' ed
implementare politiche di genocidio e "pulizia etnica".
Oggi il diritto internazionale stabilisce che la violenza sessuale durante
un conflitto e' crimine di guerra, e che l'uso dello stupro e' un crimine
contro l'umanita'. Il processo di tale sviluppo legislativo parte
addirittura dal XIV secolo (con gli editti di Riccardo II d'Inghilterra) e
passa attraverso il Codice Leiber della guerra civile americana, per
arrivare alle Convenzioni dell'Aja e di Ginevra. Quest'ultima attesta che
"le donne dovranno essere protette specificatamente contro ogni attacco al
loro onore, in particolare contro lo stupro, la prostituzione forzata od
ogni forma di assalto indecente".
Come e' facile notare, nel 1949 lo stupro viene ancora definito come lesione
all'onorabilita' ed alla decenza, e non come lesione alla persona umana che
lo subisce. Saranno i tribunali speciali internazionali per l'ex Jugoslavia
ed il Ruanda, nella seconda meta' degli anni '90 dello scorso secolo, a
stabilire una visione diversa.
Nel 1998 il Tribunale internazionale per il Ruanda condannera' Akayesu, ex
sindaco della citta' di Taba, per aver pianificato gli orrori degli stupri
di massa nel distretto di sua competenza: il verdetto e' il primo a punire
la violenza carnale come atto di genocidio, perpetrato con l'intento di
distruggere un gruppo mirato. L'unica donna a sedere in quella Corte, la
giudice Navi Pillay, racconta: "Le prove erano evidenti e indiscutibili, ma
il nostro problema era che non esisteva una definizione comunemente
accettata dello stupro rispetto al diritto internazionale. Perche' fosse
accettata ne abbiamo creata una che e' 'neutra' rispetto al genere e
definisce lo stupro come un'invasione fisica di natura sessuale, commessa su
una persona in circostanze di coercizione".
Tre anni dopo, nel febbraio 2001, sara' il Tribunale internazionale per l'ex
Jugoslavia ad emettere una seconda sentenza storica. Zoran Vukovic, Radomir
Kovac e Dragoljub Kunarac vengono riconosciuti colpevoli di numerosi stupri
(alcuni commessi su bambine di dodici anni) e di aver venduto o affittato
donne e ragazze a scopo di prostituzione ad altri soldati serbi. La Corte li
condanna per crimini contro l'umanita', ed e' la prima volta che la
schiavitu' sessuale viene definita entro tale cornice. La tortura delle
donne e' una parte intrinseca della guerra, spiego' la giudice Florence
Mumba leggendo la sentenza: "Cio' che l'evidenza mostra sono donne e
fanciulle musulmane, madri e figlie, spogliate delle ultime vestigia della
dignita' umana. Donne e ragazze trattate come beni mobili, oggetti di
proprieta' ad arbitraria disposizione delle forze di occupazione serbe".
Bakira Hasecic subi' questa sorte nel 1992, nella citta' bosniaca di
Visegrad, tristemente famosa per l'hotel "Vilina Vlas", un campo di stupro
da cui pochissime vittime sono tornate. "Mentre mi violentavano gridavano:
Non metterai al mondo altri piccoli turchi, ma piccoli cetnici questa volta.
Quest'odio si e' trasmesso di generazione in generazione, dal tempo delle
conquiste turche. Il non essere serba era la mia colpa. Non aveva alcuna
importanza come io definivo me stessa. Ero bosniaca, ed ero musulmana, ed
ero una donna. Ecco i motivi di quanto e' accaduto".
*
E dove lo stupro non e' perseguito con nettezza neppure dalla legge
ordinaria, o viene considerato una "tradizione culturale" o un'offesa
minore, diventa difficile operare. Ove ad esempio si pensa che le donne non
abbiano il diritto di rifiutare atti sessuali all'interno del matrimonio, i
loro stupratori si considerano pienamente legittimati qualora le tengano in
qualita' di "mogli".
"In Sierra Leone, i perpetratori hanno una visione molto ristretta di cosa
sia una violenza sessuale. Se catturano o rapiscono una donna, la
costringono a stare nella loro casa e le danno del cibo, credono di avere
tutto il diritto di stuprarla. Portati davanti ai tribunali negano
l'addebito se viene formulato come stupro, ma quando si chiede loro se
avevano 'donne a disposizione per soddisfarsi' rispondono di si'", dice
Maxine Marcus, che ha partecipato come avvocata delle vittime al Tribunale
speciale internazionale per la Sierra Leone, "Qui l'odio tribale non
c'entra: le Forze di Difesa Civile, e cioe' le milizie pro-governative,
assalivano donne del loro stesso gruppo. Le consideravano 'razioni di
guerra', risorse naturali di cui disporre a piacimento. C'e' voluto molto
tempo per costruire rapporti di fiducia con le testimoni sopravvissute:
queste donne venivano stigmatizzate dalle loro stesse comunita', svilite e
insultate da parenti e vicini di casa. Non erano in grado di cominciare a
rielaborare il trauma subito, perche' il contesto attorno a loro non
considerava lo stupro un'offesa alle loro persone".
*
Nella Repubblica Democratica del Congo, decine di migliaia di donne sono
state stuprate pubblicamente dagli uomini delle varie fazioni combattenti,
in quelle che Juliane Kippenberg di Human Rights Watch ha definito
"cerimonie rituali di violenza", ma un numero ancora maggiore e' stato
assalito in strada o nella propria stessa casa. Mentre scrivo (marzo 2007),
attorno all'ospedale Panzi a Bukavu bivaccano circa 250 donne, in attesa di
essere ricoverate per sottoporsi ad interventi di chirurgia: i loro genitali
sono stati devastati dagli stupri di miliziani e soldati governativi. "Non
abbiamo letti e spazio a sufficienza", racconta il primario, il dottor Denis
Mukwege Mukengere, "Ricoveriamo in media dodici minorenni violentate al
giorno. Il mese scorso circa trecento fra donne e bambine si sono sottoposte
ad interventi di chirurgia riparativa. La loro eta' va dai tre anni agli
ottanta. Molte sono state contagiate dall'Hiv".
*
Lo stupro in se' e' gia' un'orribile esperienza, ma le sopravvissute ad esso
continuano a subirne gli effetti anche dopo. Spesso soffrono di gravi
problemi di salute fisica e mentale. Le donne sposate che sono sopravvissute
alla violenza possono essere ripudiate dai loro mariti ed in alcuni casi
devono darsi alla prostituzione per poter vivere. Le sopravvissute nubili
possono non riuscire piu' a sposarsi, perche' i membri delle loro comunita'
le considerano "guastate". Le testimonianze rivelano che sovente le donne
stuprate hanno paura di cercare rifugio nei campi profughi, perche' temono
l'ostracismo dei loro stessi parenti che vi si trovano; inoltre la cronica
carenza, in tali campi, di cure mediche e psicologiche tende ad aggravare la
loro situazione, piuttosto che a migliorarla. Molte donne, temendo
ritorsioni o a causa dei tabu' che circondano la violenza sessuale, non
denunciano gli abusi subiti neppure quando questo si rende possibile.
Come una donna del Darfur, in Sudan, ha detto ai ricercatori di Amnesty
International nel 2004: "Nascondono questa vergogna nei loro cuori". Nella
regione decine di migliaia di persone sono morte a causa del conflitto
interno che in tre anni ha prodotto due milioni e mezzo di rifugiati. Il
governo di Khartoum si e' rifiutato di investigare sulle accuse di crimini
contro l'umanita' commessi da eserciti e milizie, cosi' questo lavoro lo sta
facendo un Tribunale internazionale delle Nazioni Unite.
Il principale pubblico ministero, Luis Moreno-Ocampo, inizialmente dichiaro'
che le accuse di stupro non sarebbero state vagliate, ma l'evidenza delle
testimonianze dirette (piu' di cento) e le migliaia di documenti raccolti lo
hanno indotto a cambiare idea. Halima Bashir e' una delle sopravvissute che
probabilmente il giudice ascoltera'. Nello scorso dicembre e' stata
torturata e ha subito stupri di gruppo per aver denunciato un attacco
congiunto delle milizie islamiste (Janjawid) e dei soldati governativi ad
una scuola elementare femminile. Durante l'aggressione, finalizzata ad una
violenza carnale di massa, sono state violate bambine dagli otto ai tredici
anni.
"Erano sotto shock", racconta Halima, "Sanguinanti, piangevano e gridavano.
Era terribile. Poiche' ho detto pubblicamente quanto era accaduto, le
autorita' mi hanno arrestata. Te lo facciamo vedere noi cos'e' uno stupro,
mi hanno detto mentre mi picchiavano. Sono stata battuta e battuta. La
notte, tre uomini mi hanno violentata. Il giorno dopo e' andata allo stesso
modo, solo che gli uomini erano differenti. Tortura e stupro, ogni giorno,
tortura e stupro".
In Darfur, generalmente, una donna stuprata e' una donna rovinata: il
biasimo dell'atto violento ricade su di lei, ed in molti casi viene espulsa
dal nucleo familiare di cui ha causato la "vergogna". Molti dei bimbi nati
dalle violenze carnali vengono abbandonati. Gli stupri di massa nella
regione si sono rivelati il mezzo piu' efficace per terrorizzare comunita'
tribali, spezzare la loro volonta' di resistenza e farne dei profughi.
*
La realta' e' che durante ogni guerra le donne e le ragazze divengono
letteralmente i bersagli dei combattenti. Non si tratta solo di genocidio
riproduttivo, di sgomberare aree e ridurre in frantumi aggregazioni umane:
qualsiasi fantasia di violenza e tortura puo' essere effettivamente messa in
opera. Soldati regolari ed irregolari sanno alla perfezione che, nel
dopoguerra, le loro azioni saranno si' biasimate, ma all'interno di una
nozione culturale largamente diffusa, ovvero che gli uomini fanno cose
irrazionali durante un conflitto armato. Inoltre, potranno usare un tipo di
difesa abbastanza consueta: obbedivo agli ordini. Tristemente, non e'
neppure una menzogna: nei tribunali internazionali molti generali hanno
attestato che cio' e' stato fatto per "alzare il morale dei nostri
combattenti".
Ci si puo' ovviamente chiedere quanto conti e quanto contera' in futuro
l'aver definito gli stupri durante i conflitti armati come "crimini di
guerra" (la guerra e' di per se' un crimine, il peggiore che l'umanita'
infligge a se stessa) o che tipo di compensazione i tribunali internazionali
possano fornire alle vittime. E' chiaro che le donne e le ragazze violate
non dimenticheranno mai le atrocita' subite. Depressione, paura degli
uomini, sfiducia e disistima sono esperienze comuni a chi sopravvive allo
stupro. Per molti secoli esso e' stato definito non come un attacco violento
alla donna, ma come l'ingiuria alla "proprieta'" di un altro uomo. Sino ad
ora e' stata l'esperienza maschile a costruire le norme per considerare cosa
sia ingiusto in tempo di guerra. Il fatto che una nuova cornice giuridica
nasca dalla narrazione dell'esperienza femminile, e demistifichi
l'oggettificazione delle donne, ha un valore simbolico assai profondo. Il
diritto internazionale e', naturalmente, lungi dall'essere perfetto, ma le
donne come Bakira Hasecic dicono che continueranno a testimoniare e a
presentarsi nei tribunali affinche' chi ha loro inflitto tanto dolore venga
posto di fronte alle sue responsabilita': "All'inizio ti chiedi perche'
dovresti andare dai giudici a rivivere quegli orrori in pubblico, ma dopo
averlo fatto ti senti meglio. Guardare in faccia il proprio violentatore e
costringerlo ad affrontare la verita' e' tutta la giustizia che possiamo
avere".

3. MARIA G. DI RIENZO: RINASCERE
[Da "Azione nonviolenta", marzo 2007 (disponibile anche nel sito
www.nonviolenti.org), col titolo "Morire per i diamanti, rinascere per la
pace"]

Arrendersi alla rabbia e al dolore sarebbe stato facile. Hindolo Pokawa ha
visto i membri della sua famiglia massacrati. Ha visto vicini di casa
mutilare altri vicini. Era spaventato, minacciato, si sentiva privo di
potere e fini' per fuggire dal suo paese, la Sierra Leone, nello Zimbabwe.
Aveva 18 anni, ed era convinto che un giorno sarebbe tornato per vendicarsi
e predicare la guerra. Invece, sta per tornare a casa con l'intento di
costruire percorsi di pace.
Oggi Hindolo Pokawa ha 30 anni, ed e' un membro di Nonviolent Peaceforce, il
gruppo che sta lavorando da qualche anno alla costruzione di una forza di
pace internazionale impegnata nell'intervento nonviolento di "terza parte".
Al presente, Nonviolent Peaceforce ha gia' addestrato e formato centinaia di
persone, e spera di arrivare a parecchie migliaia nel 2010: capaci di
interposizione, con completo supporto logistico, costoro dovrebbero poter
intervenire nei conflitti in ogni parte del mondo.
In Zimbabwe, Pokawa ha studiato il ruolo dei diamanti nella guerra civile
che ha devastato il suo paese per 11 anni, e grazie al padre, l'unico
sopravvissuto della sua famiglia, si e' avvicinato agli insegnamenti di
Gandhi e di Martin Luther King. La decisione di approfondire la conoscenza
della nonviolenza lo ha portato negli Usa nel 2000, a Minneapolis, dove ha
frequentato l'universita' ed ha sposato una compagna di studi proveniente
dall'India.
Le sue tracce rimarranno a lungo a Minneapolis, dicono i suoi compagni di
Nonviolent Peaceforce. Come membro dell'organizzazione, Hindolo Pokawa ha
lavorato con grande impegno nei quartieri piu' duri della citta', parlando
di pace e nonviolenza a ragazzi coinvolti nelle gang e perpetratori o
vittime di crimini ed atti di violenza. "Sto davanti a voi come qualcuno che
abbia una pistola puntata alla testa", cosi' cominciavano spesso i suoi
interventi, "Abbiamo qualcosa in comune, vedete. Dobbiamo lottare insieme, e
vi dico, e lo credo con tutta l'anima, che la nonviolenza e' molto piu'
potente della pistola".
Lo studio e la pratica della nonviolenza, racconta Pokawa, lo hanno cambiato
profondamente; tutto questo e' diventato parte integrante di lui, qualcosa
che non puo' piu' essere messo a tacere o lasciato indietro: "La mia nuova
vita e' come un'ombra che mi segue", scherza, "Se anche tentassi di
ignorarla, non me lo permetterebbe... So che parlare e' facile. So che
rispondere con la violenza sembra naturale. Immaginate di essere costretti a
guardare persone che amate in balia di uomini armati, e questi uomini
chiedono loro: Manica lunga o manica corta? 'Manica lunga' significa che
taglieranno via una mano, 'manica corta' che amputeranno il braccio sino al
gomito. Questo e' cio' che noi in Sierra Leone abbiamo vissuto".
Oggi questo giovane uomo ritorna in un paese in cui esiste una fragile pace.
L'industria dei diamanti proclama di essere pulita, ora, ma Pokawa sa che i
minatori vivono ancora in condizioni terribili, e che ben poco della
ricchezza relativa ai diamanti resta in Sierra Leone. E rivedra' i
sopravvissuti come lui, quelli mutilati e feriti di cui conosce le terribili
vicende. Tornera' nel Minnesota, di cui ama gli innumerevoli laghi e le
persone che lo affiancano nella lotta nonviolenta, ma pare proprio che la
sua casa lo stia chiamando: "Devo andare. Devo cercare di capire cos'e'
cambiato e come. Ed ho bisogno di fare alle persone questa domanda: Cosa
potrebbe spingerti a rovinare la vita del tuo vicino di casa, ad amputargli
gli arti, ad ucciderlo? E voglio raccontare come la nonviolenza ha
trasformato la mia vita, e come trasformera' le loro".

4. MARIA G. DI RIENZO: L'ATTIVISTA IN ABITO DA SPOSA
[Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito
www.nonviolenti.org), col titolo "L'attivista in abito da sposa per
combattere la violenza domestica"]

Josie Ashton, trentaquattrenne, e' convinta che la comunita' latina di New
York abbia bisogno di una "sveglia" rispetto alla violenza, soprattutto alla
violenza domestica. Lei e' divenuta la sfida costante alla compiacenza che
circonda gli abusi tra le pareti di casa e non. L'evento che la mise per
cosi' dire in moto fu un omicidio che getto' nella costernazione i
dominicani residenti in citta': Gladys Ricart fu uccisa mentre si trovava
nel proprio soggiorno, circondata da parenti felici, e splendente nel suo
abito bianco da sposa. Il futuro marito la stava attendendo in chiesa. Il
suo assassino era un facoltoso uomo d'affari con cui Gladys aveva avuto
precedentemente una relazione.
Il fatto ebbe ampia risonanza e Josie stessa, che all'epoca gia' lavorava
come avvocata d'ufficio a Miami per le vittime di violenza domestica, ne
discuteva con amici e conoscenti: fu cosi' che scopri' parecchie cose assai
disturbanti, per lei. Per esempio, che parecchi biasimavano la vittima.
"Dicevano che in qualche modo aveva contribuito a quanto le era accaduto.
Avevano la percezione che essere uccise e' quanto inevitabilmente accade
alle donne se hanno relazioni con piu' di un uomo nella loro vita. I media,
come al solito, parlavano di crimine della passione e di raptus". La
concezione machista che un uomo non possa risolvere conflitti se non tramite
atti di violenza, e che debba essere il padrone delle donne con cui ha
relazioni di parentela o affettive facevano il resto.
Oltraggiata dai commenti e commossa per la sorte toccata a Gladys, Josie
Ashton compi' un primo pellegrinaggio di testimonianza: affitto' un abito da
sposa, e indossatolo cammino' dal New Jersey, ove l'omicidio aveva avuto
luogo, alla Florida dove lei stessa vive. I suoi colleghi tentarono di
dissuaderla: "Mi dissero che era un suicidio professionale", ricorda Josie,
"Sei finita, mi ripetevano".
Il 26 settembre 2001, al secondo anniversario della morte della ragazza
dominicana, Josie Ashton si licenzio', affitto' di nuovo la veste nuziale e
parti' per il suo secondo viaggio lungo 1.300 miglia. Durante il percorso ha
visitato 14 rifugi antiviolenza e 22 citta'. La sua idea ha ispirato "marce
di spose" a New York, in Florida, nel Wisconsin e a Washington.
Molti, quando la vedono camminare abbigliata in quel modo, la fermano per
offrirle sostegno ed aiuto. Josie ha guadagnato alla causa, con tale
sistema, numerosi altri attivisti e attiviste. "Ho parlato con persone che
soffrono a tutti i livelli per la violenza domestica, sia perche' la
subiscono sia perche' ne sono testimoni. Sembrava che stessero solo
aspettando di essere legittimati a discuterne, di poter maneggiare la
questione".
Oggi Josie ha ripreso il lavoro di avvocata per le vittime di violenza
domestica a Fort Lauderdale, ma continuera' ad usare la sua idea del
pellegrinaggio e spera che le "marce" si espandano: Josie crede che la
strada maestra per il cambiamento sia l'abbandono di posizioni puramente
difensive. L'agenda della lotta va verso la ridefinizione dei ruoli sociali
di genere e lo smantellamento sistematico degli stereotipi che alimentano la
violenza. Le spose non vogliono piu' temere i loro mariti o i loro ex
fidanzati.
"Abbiamo la necessita' di essere maggiormente pro-attive. Dobbiamo
trasformare la concezione che la violenza domestica e' correlata ad una
supposta 'debolezza' delle donne. La violenza per me e' una malattia, e va
contrastata e curata nello stesso modo in cui ci difendiamo dalle
infermita'".

5. MARIA G. DI RIENZO: IL DIRITTO DI STARE AL FREDDO
[Da "Azione nonviolenta", maggio 2007 (disponibile anche nel sito
www.nonviolenti.org), col titolo "Il diritto di stare al freddo mentre il
pianeta si scalda"]

Da dodici anni Sheila Watt-Cloutier fa qualcosa che suona un po' strano:
come dice lei stessa, difende per il proprio popolo, gli Inuit, "il diritto
di stare al freddo". Le vite degli Inuit, infatti, sono direttamente
minacciate dal surriscaldamento globale. Sheila vive in una remota comunita'
del circolo polare artico e quest'anno il suo nome e' fra i 181 segnalati
per il premio Nobel. "E' stato un compito duro e difficile portare
all'esterno il nostro messaggio. Non siamo che 155.000 e viviamo
letteralmente in capo al mondo, per cui molta gente non sapeva neppure che
esistiamo".
Ma Sheila, una donna ordinaria e comune, senza alcun aggancio politico, ha
saputo usare molto bene cio' di cui e' fornita: determinazione e forza
d'animo. Ha prodotto e partecipato a documentari, ha rilasciato interviste,
presentato appelli, ha narrato la storia del suo popolo davanti al governo
canadese e alle Nazioni Unite. "Cos'ho fatto? In realta' tutto quel che ho
fatto e' stato dare un volto umano alla devastazione provocata dal
surriscaldamento del pianeta, agli effetti che essa ha sulle persone reali,
sulle loro vite e sul loro ambiente".
Basta ascoltarla, mentre narra di gente inghiottita dal ghiaccio che si
assottiglia, del cibo che diventa sempre piu' scarso, delle strade che si
sciolgono, delle case che franano; degli inquinanti che hanno intossicato
persino il latte delle donne Inuit, che non possono piu' nutrire al seno i
loro piccoli e della presenza di piante e animali cosi' estranei
all'ambiente che la lingua Inuit non ha parole per definirli.
L'organizzazione che Sheila rappresenta (Conferenza Inuit del circolo polare
artico, in sigla Icc) ha commissionato studi e ne ha effettuati di propri,
provando che la temperatura nell'Artico si sta alzando con velocita' doppia
rispetto al resto del mondo. "Noi ne sperimentiamo gli effetti su base
giornaliera. E percio' siamo i guardiani dell'ambiente, un segnale d'allarme
anche per voi. A me basta mettermi alla finestra: da casa mia, a Iqaluit, io
posso vedere con i miei stessi occhi la cappa polare che si scioglie, i
ghiacci andare alla deriva. Non sto parlando di teorie su cio' che accadra'
in futuro, sto parlando di cio' che accade oggi. E neppure e' tutto, cio'
che si vede in superficie. I ghiacci si sciolgono da sotto, e quello che noi
sapevamo su come maneggiarli, tutta la saggezza che trasmettevamo alle
giovani generazioni non ha piu' senso. Molti dei nostri anziani sono
completamente sotto shock, per questo fatto".
Sheila e' nata nel 1953 nella citta' di Kuujjuaq (Quebec del nord) e per i
primi dieci anni della sua vita l'unico mezzo di trasporto che ha conosciuto
e' stata la slitta tirata dai cani. Sua madre era una guaritrice ed una
guida spirituale molto nota, cosi' Sheila e' stata profondamente immersa sin
da bambina nella cultura del suo popolo. Dopo essersi laureata
all'Universita' di Montreal ha sempre lavorato nella sanita' pubblica,
offrendosi come "ponte" grazie alla sua ottima conoscenza di inglese e
francese oltre che dell'inuktitut, la sua lingua madre. Sua figlia e'
rinomata nelle arti Inuit, fra cui il "canto di gola" e la danza al suono
del tamburo.
Nel 1995, quando fu eletta presidente dell'Icc, Sheila si getto' a capofitto
nella lotta contro il surriscaldamento globale e contribui' alla stesura
della Convenzione di Stoccolma, in cui furono messi al bando la produzione e
il commercio di un gruppo di sostanze chimiche accertate come inquinanti
permanenti, il cui uso agricolo ed industriale aveva causato intossicazioni
agli Inuit.
"Si', anche noi abbiamo linee aree e camion, ma la verita' e' che il nostro
contributo al problema e' piccolissimo e che ne siamo sempre piu' consci.
L'inquinamento ci viene da fuori. Il 26% dei gas che contribuiscono al
surriscaldamento li producono gli Usa".
Forse, nel prossimo ottobre, il premio Nobel andra' a qualcun altro, ma la
"nomination" di Sheila Watt-Cloutier concentra un po' d'attenzione sul
problema di cui lei e la sua gente si stanno occupando. Un'attenzione che
dovrebbe essere molto maggiore, se vogliamo che gli Inuit, noi stessi e
l'intero pianeta sopravviviamo alla sconsiderata avidita' delle azioni
umane.

*

JEAN-MARIE MULLER: SIGNIFICATO DELLA NONVIOLENZA (PARTE
SECONDA)
[Riproponiamo ancora una volta questo testo di uno dei massimi studiosi e
amici della nonviolenza; esso e' stato pubblicato nel 1974 e tradotto in
italiano nel 1980 per le cure di Matteo Soccio in Jean Marie Muller,
Significato della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Torino
1980: da questo opuscolo abbiamo ripreso il testo del solo saggio
mulleriano, ivi alle pp. 7-27.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente,
ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle
alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E'
direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution
non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece
obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni
nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari
francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative
Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione
democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per
schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far
fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato
dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza,
Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977;
Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e
metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico
della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses
Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire
de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005]

Lo sciopero
Lo sciopero, nel senso in cui l'intendiamo generalmente, e' un metodo che si
apparente direttamente all'azione nonviolenta: e' una azione di
non-cooperazione, di non-collaborazione con le strutture ingiuste. L'analisi
sulla quale si fonda lo sciopero e' questa: se i borghesi, vale a dire i
proprietari dei mezzi di produzione, non possono mantenere il loro potere e
la loro ricchezza che grazie alla collaborazione dei lavoratori, si tratta
per questi di cessare ogni attivita' per obbligarli a cedere.
Sarebbe sicuramente derisorio, e cio' e' al di fuori del nostro proposito,
pretendere di recuperare gli scioperi operai nel grembo della nonviolenza.
Spesso gli scioperi sono stati condotti in un clima di violenza, anche se
queste violenze sono state marginali in rapporto allo sciopero propriamente
detto. Ci si puo' d'altronde chiedere se queste violenze non siano venute
piuttosto a screditare lo sciopero che a rafforzarlo. Parecchi esempi (come
lo sciopero di Perus in Brasile) ci mostrano che uno sciopero puo' essere
condotto con piu' efficacia in una prospettiva nonviolenta.
*
Il boicottaggio
Il boicottaggio e' ugualmente un metodo di non-cooperazione sul piano
economico: rifiuto di far beneficiare l'altro del mio potere d'acquisto che
diventa allora veramente un potere che io oppongo a quello del mio
avversario. C'e' soltanto da constatare che questa forma di lotta e' stata
pochissimo utilizzata se non in maniera troppo spontanea ed effimera;
potrebbe certamente essere utilizzata meglio, in particolare nell'ambito
delle lotte operaie.
Per togliere la segregazione nei grandi magazzini bianchi degli Stati Uniti,
che avevano una fortissima clientela nera e nonostante cio' si rifiutavano
di assumere personale nero - creando per conseguenza situazioni di
sottoimpiego e dunque di miseria -, Martin Luther King e il suo gruppo
decisero il boicottaggio di questi magazzini fino a che un numero
sufficiente di posti di lavoro non fossero stati creati per i neri.  Da quel
giorno piu' nessun nero ando' a rifornirsi in quei magazzini. Molto
rapidamente, dopo una settimana o due, i proprietari di quei magazzini
decisero di soddisfare le richieste di M. L. King.
E' interessante chiedersi quali abbiano potuto essere le ragioni che hanno
indotto i proprietari di quei magazzini a cedere alle rivendicazioni di
Martin Luther King. Si erano forse convinti dei giusti diritti dei neri?  Si
erano forse convertiti? Forse. Noi avremmo torto ad escludere del tutto
questa eventualita'. Tuttavia la piu' verosimile e' che la minaccia del
fallimento, che incombeva su quei magazzini, li ha costretti e cedere: cio'
traduce perfettamente la nozione di costrizione e tuttavia di una
costrizione senza violenze.
*
La lotta di classe
Esaminero' un altro esempio concreto, recente, che illustra in maniera
notevolissima la possibilita' di condurre con la nonviolenza uno sciopero e
un boicottaggio nel quadro della lotta di classe.
Si dice spesso che la nonviolenza puo' forse soddisfare le esigenze
spirituali o intellettuali dei ricchi e dei benestanti, ma che non puo'
assolutamente armare la lotta degli oppressi. Credo che tutto cio' sia
fondato, soprattutto, su malintesi.
Gli ambienti spiritualisti, o notoriamente gli ambienti cristiani, hanno per
molto tempo rifiutato di riconoscere non soltanto la lotta di classe, ma la
realta' stessa della lotta di classe. Si diceva che il cristianesimo non
insegnava la lotta di classe, ma l'amore delle classi, come se fosse
possibile l'amore in situazioni di ingiustizia. E' una presa in giro
predicare l'amore quando da una parte esistono poveri che restano poveri e
dall'altra parte ricchi che intendono restare ricchi. Logicamente, cio' non
vuol nemmeno dire che il fatto di riconoscere la lotta di classe e
parteciparvi debba necessariamente sfociare in scontri violenti. Ma c'e' una
certa nonviolenza che non merita nemmeno di essere presa in considerazione:
quando i poveri sono pronti a scendere in piazza per far riconoscere i loro
diritti, forse da quel momento i ricchi saranno tentati di parlare di
nonviolenza. In questo senso vi e' un rischio di recupero della nonviolenza
da parte delle classi privilegiate. Cio' spiega quella diffidenza, cosi'
caratteristica di quelli che sono impegnati nella lotta per la giustizia,
nei confronti della nonviolenza: hanno paura che essa generi una certa
smobilitazione. Ma, al di la' degli equivoci, deve essere invece chiaro che
non soltanto la nonviolenza non e' smobilitazione, ma che e' un appello alla
mobilitazione, un appello alla lotta.
*
L'azione di Cesar Chavez
L'azione di Cesar Chavez condotta in California, purtroppo poco conosciuta
da noi, e' un esempio di come anche quelli che sono i meno preparati hanno
la possibilita' di mettere in opera i metodi nonviolenti, a condizione che i
responsabili dell'azione, i leaders del movimento, diano ordini precisi in
questo senso.
Cesar Chavez non e' venuto in mezzo ai poveri, e' nato in mezzo a loro; e'
nato in mezzo a quegli americani di origine messicana gli "chicanos", che
costituiscono la mano d'opera preferita dai grandi proprietari agricoli
degli Stati Uniti. Se i sindacati operai sono completamente integrati nello
"establishment" della societa' americana, non e' la stessa cosa nel campo
agricolo.
Tradizionalmente, i proprietari di vigneti californiani, che sono veri e
propri imperi industriali, utilizzavano una popolazione di origine
messicana, che costituiva un tipo di sottoproletariato, al tempo stesso
disorganizzato e supersfruttato. Tutti gli sforzi che erano stati compiuti
fino allora per giungere all'organizzazione di questa popolazione erano
falliti. Tanto erano potenti i proprietari di questi vigneti.
Cesar Cbavez ha fatto prima di tutto, per parecchi anni, un lavoro di
"coscientizzazione" e di organizzazione.
Indisse, poi, uno sciopero con certe esigenze precise riguardo alla
nonviolenza, che si estese molto rapidamente. I proprietari, aiutati dalle
autorita' federali, cioe' governative, poterono comunque reclutare
altrettanto rapidamente altri lavoratori messicani che non chiedevano altro
che guadagnare un po' di denaro per sopravvivere. C'erano dunque dei
"crumiri" che hanno permesso il raccolto dell'uva, sebbene ci fossero stati
picchetti di sciopero che, ancora una volta, non intendevano fare uso della
violenza ma tentavano di mostrare il senso dello sciopero e che era
nell'interesse di tutti parteciparvi.
A questo punto, davanti al rischio di veder fallire lo sciopero, Cesar
Chavez decise di affiancare allo sciopero il bolcottaggio. Proclamo' cosi'
il boicottaggio dell'uva, dapprima nelle grandi citta' degli Stati Uniti.
Gli scioperanti organizzarono picchetti di boicottaggio in cui cercavano di
spiegare le ragioni del loro movimento e i suoi obiettivi. Questo
boicottaggio si dimostro', molto presto, di un'efficacia sorprendente.
Cbavez ottenne subito il concorso dei militanti del movimento di M. L. King,
e in particolare degli studenti impegnati in quel movimento. In breve tempo,
il boicottaggio dell'uva divenne effettivo su tutto il mercato nazionale.
Allora, come in tutte le azioni nonviolente d'un qualche rilievo, la
repressione si abbatte' su questo movimento: gli scioperanti ebbero a subire
violenze fisiche; ci furono processi promossi dai proprietari, il presidente
Nixon prese posizione contro gli scioperanti e arrivo' al punto di prendersi
beffa di loro mangiando un grappolo d'uva davanti alle telecamere. Per
vendere il loro prodotto i proprietari decisero di esportare l'uva: interi
mercantili furono spediti a Londra; ma i dockers di Londra, per solidarieta'
col movimento di Cesar Chavez, si rifiutarono di scaricare l'uva. Ultimo
tentativo fu quello di spedire l'uva ai soldati americani nel Vietnam che
dovettero mangiare uva dalla mattina alla sera. Ma cio' non e' stato
sufficiente. Dopo uno sciopero e un boicottaggio durati cinque anni, i
proprietari furono costretti a cedere alle rivendicazioni di Cesar Chavez.
Oggi, questi e' diventato il leader di tutti gli operai agricoli americani;
i sindacati riprendono sempre di piu' questi metodi nonviolenti e tentano di
accoppiare lo sciopero col boicottaggio.
Per mostrare come per Cesar Chavez la nonviolenza non fosse un aspetto
secondario della sua lotta, conviene precisare il suo atteggiamento di
fronte ai rischi di violenza che ha dovuto fronteggiate.
Se l'azione nonviolenta consiste in un primo tempo nel risvegliare
l'aggressivita' dei poveri, nel creare il conflitto, e' dunque inevitabile
che ci siano rischi di violenze. Se si risveglio la coscienza degli oppressi
e se questi prendono coscienza del loro stato di oppressione, non ci sara'
da stupirsi se da un momento all'altro, esasperati, ricorrono alla violenza.
Ma a questo punto, Cesar Chavez, al fine di evitare la crescita della
violenza, intraprese un digiuno sia per motivi personali che per ragioni
tattiche (sapeva bene che se scoppiava la violenza, i proprietari avrebbero
potuto benissimo scatenare una repressione brutale). Digiuno' per
venticinque giorni, non perche' i proprietari cedessero alle sue esigenze,
ma perche' gli operai stessi accettassero di attenersi ai principi
dell'azione nonviolenta. Dopo quei 25 giorni di digiuno, essi giunsero ad un
accordo, cio' che ha certamente reso possibile al movimento di durare e
infine di riuscire.
*
Il boicottaggio del caffe' dell'Angola
Ricordiamo anche il boicottaggio del caffe' dell'Angola organizzato nei
Paesi Bassi agli inizi del 1972.
Una delle fonti piu' importanti per il finanziamento della guerra coloniale
condotta dal Portogallo proveniva dalle imposte che pesavano
sull'esportazione dei prodotti agricoli delle colonie.
Ora, da una parte, il caffe' dell'Angola rappresentava una parte importante
dell'esportazione totale (32%) e, dall'altra parte, i Paesi Bassi erano il
secondo paese importatore di questo caffe' (21% del totale).
Nel febbraio 1972 un comitato d'azione per l'Angola lancia il boicottaggio
del caffe' organizzando una campagna d'informazione sulla situazione nelle
colonie portoghesi e mostrando come il fatto di consumare del caffe'
angolano e' un atto di collaborazione con la politica condotta dal
Portogallo. Questa azione ebbe una larga eco tra la popolazione olandese e
il boicottaggio riscontro' rapidamente un grande successo. Alla fine di un
mese, nemmeno un grano di caffe' dell'Angola era piu' in vendita sul mercato
dei Paesi Bassi.
Il Portogallo aveva perduto una battaglia e l'opinione pubblica olandese era
mobilitata per altre battaglie.
*
La disobbedienza civile
La piu' forte azione di non-collaborazione e' l'azione di disobbedienza
civile.
Si rimprovera spesso alla nonviolenza di promuovere talvolta la
disobbedienza alle leggi.
Se da sinistra siamo accusati di disinnescare la rivoluzione e di
smobilitare le energie e le volonta' necessarie nella lotta per la
giustizia, cosi' da destra siamo accusati di rimettere in discussione la
legalita' e l'ordine stabilito e di preparare la strada ad una rivoluzione
che non sarebbe affatto nonviolenta.
E' vero che la nonviolenza preconizza la disobbedienza alle leggi, ma non la
preconizza a sproposito. In ogni societa' le leggi hanno una loro funzione.
La funzione della legge e' insieme quella di mantenere l'ordine e di
promuovere la giustizia; essa percio' deve difendere i diritti dei piu'
poveri contro i privilegi dei piu' ricchi. C'e' da dire poi che le leggi non
sono stabilite una volta per tutte: bisogna costantemente rimetterle in
discussione per migliorarle. Quando la legge non adempie piu' alla sua
funzione, anzi, al contrario, viene a difendere maggiormente gli interessi
dei privilegiati, dei ricchi e dei potenti contro, invece, gli interessi dei
piu' sfavoriti, quando la legge copre e garantisce l'ingiustizia, non
soltanto e' un diritto, ma e' un dovere disobbedire ad essa.
Non si tratta evidentemente di predicare la disobbedienza alla legge in
maniera sistematica; si tratta semplicemente di non predicare
sistematicamente l'obbedienza alla legge.
La legge della maggioranza non puo' imporsi a noi su dei problemi di
coscienza. E' ragionevole che noi ci sottomettiamo su problemi di ordine
puramente tecnico alla legge della maggioranza, anche perche' su tali
problemi le nostre non sono convinzioni ma soltanto opinioni. Su problemi
che impegnano invece realmente la nostra responsabilita' morale, non ci e'
possibile rimetterci in maniera pura e semplice alla legge della
maggioranza. E' a questo punto che la nonviolenza preconizza la
disobbedienza civile. Questa possibilita' di disobbedire alla legge e'
necessaria all'equilibrio stesso della democrazia.
Infatti, non si tratta di cessare di essere solidali: colui che in coscienza
obietta, accetta di essere solidale, ma si rifiuta di essere complice.
Nella dottrina ufficiale degli Stati, ogni cittadino ha veramente la
possibilita' di esprimersi votando. Se non dobbiamo disprezzare il suffragio
universale (penso a certi amici nostri che sono in lotta nei paesi
totalitari per ottenere il suffragio universale) dobbiamo, pero',
riconoscerne i limiti. Bernanos diceva che "il suffragio universale non
rende alla fin fine piu' liberi gli uomini di quanto la lotteria nazionale
non li renda ricchi".
Non conviene operare soltanto perche' il potere cambi politica o per
provocare un cambiamento di potere, conviene esercitare effettivamente il
proprio potere di cittadino libero rifiutando da questo momento, con un atto
di disobbedienza civile, ogni collaborazione personale con l'ingiustizia.
Gandhi afferma: "la vera democrazia non verra' dalla presa del potere da
parte di qualcuno, ma dal potere che tutti avranno un giorno di opporsi agli
abusi delle autorita'". Sulla strada che conduce alla vera democrazia, la
presa del potere per il popolo e' una delle piu' pericolose deviazioni dove
si finisce molto spesso per perdersi. La nonviolenza ci insegna, percio', a
evitare questa deviazione: nel suo aspetto rivoluzionario, essa non ha per
proprio fine la presa del potere per il popolo, ma la presa del potere
direttamente da parte del popolo stesso. Non e' lo Stato forte a costituire
la vera democrazia, ma i cittadini liberi.
Tra l'insufficienza della scheda elettorale e l'inefficacia del lancio di
pietre, la disobbedienza civile appare qui come una via privilegiata per
l'azione politica.
*
La vera figura di Gandhi
Prendero' un esempio concreto di disobbedienza civile nella lotta condotta
da Gandhi per l'indipendenza dell'India.
Voglio aprire una parentesi sulla figura di Gandhi perche' nella maggior
parte dei casi mi pare lo si conosca male. Il suo personaggio e' stato
volgarizzato da qualche immagine di Epinal che ce lo rappresenta seduto per
terra, il dorso nudo, che fila la lana, e ci diciamo allora volentieri che
questo saggio orientale non ha nulla da dirci sui nostri problemi.
Facciamo nostra la sprezzante espressione di Churchill che derideva Gandhi
accusandolo di non essere che un "fachiro magro e nudo". Se riconosciamo che
Gandhi ha potuto acquistare l'indipendenza del suo paese di fronte
all'impero britannico, attribuiamo allora il merito di questo al "fair-play"
dei gentlemen britannici, come se a quell'epoca l'impero britannico fosse
pronto a lasciare le Indie e come se fosse bastata la santita' attribuita, a
torto o a ragione, a Gandhi perche' gli Inglesi accettassero di partire.
Credo che sarebbe interessante studiare a fondo quali siano le azioni di
Gandhi e quale fu la sua strategia. E' utile sottolineare, a questo
proposito, che i membri del Congresso dell'India, primo dei quali Nehru, non
condividevano le convinzioni religiose e morali di Gandhi. Se Nehru accetto'
di seguire Gandhi nella pratica della nonviolenza e' soltanto perche' questa
si dimostro' efficace. E il popolo indiano non era per niente pronto ad
attenersi alle esigenze della nonviolenza di Gandhi, che e' estranea alla
tradizione religiosa dell'India. Come tutti gli altri popoli, e forse piu'
ancora degli altri, il popolo indiano oscilla tra la rassegnazione e la
violenza. Infatti, la nonviolenza di Gandhi non e' orientale ma occidentale,
non invita alla meditazione al di fuori dei conflitti ma all'azione
all'interno dei conflitti.
*
La marcia del sale
Nel 1930, Gandhi decise di sfidare il governo (ogni azione di disobbedienza
civile e' una sfida al governo) organizzando la disobbedienza ad una legge
che nel contesto globale della dominazione britannica appariva irrisoria: si
trattava della legge sul sale. Essa imponeva a tutti gli indiani di pagare
una tassa relativamente alta al governo inglese. Questa minima ingiustizia
veniva a simboleggiare tutta l'ingiustizia della dominazione britannica.
Gandhi organizzo' una lunga marcia attraverso l'India per diverse centinaia
di chilometri. In ogni villaggio che attraversava, coscientizzava gli
abitanti e li invitava alla disobbedienza civile. Giunto sulla spiaggia del
mare, compi' il simbolico gesto di raccogliere dell'acqua per poterne
estrarre il sale. Da quel momento preciso, Gandhi per l'impero britannico
era diventato un ribelle. Il governo, a dir la verita', era molto
imbarazzato perche', o arrestava Gandhi, facendone cosi' un martire e
aumentandone di conseguenza il prestigio presso le masse indiane, o non lo
arrestava affatto, dimostrando cosi' di tollerare la sfida aperta e dando,
in tal modo, prova di debolezza. Il riflesso professionale delle autorita'
ebbe il sopravvento nella risoluzione di questo dilemma: si arresto' Gandhi
ma si dovettero arrestare pure tutti quelli che lo avevano imitato; perche'
questi, non soltanto accettavano di andare in prigione, ma esigevano di
andarci. Esiste, pero', un limite di saturazione delle prigioni oltre il
quale un governo non puo' piu' governare in completa serenita'. Si puo'
discutere sulla proporzione necessaria di quelli che sono disposti ad andate
in prigione per far si' che un popolo sia piu' forte di qualsiasi governo -
Martin Luther King parlava di un 5 per cento.
Alla fine il governo dovette cedere e accettare di negoziare con Gandhi: non
soltanto discussero del problema del sale, ma anche del problema
dell'indipendenza.
*
La violenza e' l'arma dei ricchi
Vorrei ancora insistere su questo punto che mi pare essenziale: di fronte
alle situazioni d'ingiustizia, arriviamo spesso a pensare e a dire che non
esiste piu' che una sola soluzione e che questa soluzione e' la violenza.
Ma dobbiamo chiederci: quale soluzione puo' essere la violenza? E anche: la
violenza puo' veramente essere una soluzione?
Prendo un esempio su cui abbiamo molto parlato: quando M. L. King mori',
ovunque si sostenne che con lui la nonviolenza era finita, che se egli aveva
potuto migliorare di qualcosa la sorte dei neri, spettava ora ai movimenti
violenti di condurre in porto il lavoro che lui aveva incominciato. Pareva
allora che il "Potere Nero", il partito delle "Pantere Nere", i "Musulmani
Neri", fossero in grado, e solamente loro, di liberare i neri. Ci si poteva
chiedere, gia' da allora, se era ragionevole credere che i neri ponendosi
sul piano della violenza, sarebbero stati in grado di riuscire vincitori e
di stabilire un rapporto di forza in loro favore.
Quando si pensa alla capacita' di repressione di cui dispone il potere
bianco, era realista per i neri situarsi sul piano della violenza per
intraprendere la prova di forza?
Ora, accadde quello che poteva gia' essere previsto: i movimenti neri che si
richiamano alla violenza si trovarono nella incapacita' di mettere in opera
azioni rilevanti all'infuori di qualche colpo di mano che potevano
effettuare. La stampa ne parlo': il partito delle "Pantere Nere" che e'
stato il piu' rappresentativo di questo movimento violento e' attualmente
smantellato, si trova ad essere completamente disorganizzato sotto i colpi
della repressione del potere bianco. Certamente Eldridge Cleaver puo'
moltiplicare, da Algeri dove si trova in esilio, le dichiarazioni
fracassanti contro il potere bianco, ma cio' non puo' venire in aiuto ai
neri che sono negli USA; cosi' pure Stokely Carmichael, che fu uno dei
leaders del "Potere Nero", che milito' nelle file delle "Pantere Nere" e che
si trova ora in Guinea, di la' non puo' proporre ai suoi fratelli degli
Stati Uniti che un impossibile ritorno verso la madre terra Africa.
Cosi' nel nome stesso del realismo, non cadiamo troppo facilmente nella
affermazione che solo la violenza puo' essere una soluzione?
Sapete pure che questo argomento e' stato trattato da dom Helder Camara
quando gli e' stato chiesto se non sarebbe, almeno in un primo momento,
necessario usare la violenza. "Certo, potremo avere qualche arma, ma il
nostro avversario avra' sempre un numero maggiore di armi e piu' perfette
delle nostre; e' vano voler intraprendere su questo terreno la nostra prova
di forza".
Il Padre Comblin e' venuto a confermarci nell'aprile '72 le affermazioni di
dom Helder Camara: "Una piccola parte dell'opposizione e' entrata nella
clandestinita', ha creato dei piccoli movimenti di guerriglia, ha lanciato
delle operazioni di terrorismo. Questo ha provocato da parte del potere un
apparato di repressione estremamente potente, che e' riuscito praticamente
non solo a contenere questa opposizione violenta ma anche a ridurla sempre
piu'. E, in questo momento, il potere alimenta una psicosi d'angoscia che
sta creando un "circolo vizioso del terrore" che coinvolge lo stesso potere:
sentendosi minacciato, esso reagisce in maniera angosciosa, donde dei
controlli sempre raddoppiati, cosa che mantiene nelle masse un sentimento di
paura, la quale provoca a sua volta una piu' grande angoscia nei
dirigenti... e cosi' di seguito". ("Informations catholiques
internationales", 15 aprile '72).
Forse che noi non possiamo arrivare a questa ipotesi di lavoro: la capacita'
di violenza degli oppressori sara' sempre smisuratamente piu' grande della
capacita' di violenza degli oppressi? Abbandonare il piano della giustizia
per porci sul piano della violenza e', in fondo, un errore strategico:
quando un movimento di resistenza ricorre esso stesso alla violenza, viene
ad offrire all'avversario le ragioni di cui ha bisogno per giustificare la
sua repressione.
Ogni dibattito pubblico che sara' aperto da atti di violenza non vertera'
sulle motivazioni politiche che hanno ispirato quegli atti, ma sui mezzi,
sui metodi che sono stati utilizzati. L'azione armata attira l'attenzione
dell'opinione pubblica sulla violenza che io commetto, non sull'ingiustizia
che io combatto.
La forza della nonviolenza consiste nel rifiutare di offrire all'avversario
i pretesti che giustifichino la sua repressione. Con questo non voglio dire
che i movimenti nonviolenti non diano luogo a repressione - e' certo che in
una prova di forza che si prolungasse, ci sarebbe una repressione esercitata
sul movimento nonviolento e la sua forza consistera' nella misura della
capacita' che avra' di resistere a questa repressione - ma questa
repressione restera' senza vera giustificazione; essa arrivera' al contrario
a screditare quelli che l'esercitano e ad accreditare, per cio' stesso, il
movimento.
*
La nonviolenza e' preferibile
Data l'ignoranza e insieme il disprezzo nei quali e' stata tenuta fino ad
ora la nonviolenza, non e' concepibile che essa sia in grado di risolvere
tutti i nostri problemi e subito.
Molti conflitti si sono sviluppati in un crescendo di violenza dall'una e
dall'altra parte; non e' facile, a partire di la', tentare di intravvedere
una soluzione nonviolenta.
Ma noi potremmo almeno metterci d'accordo su questa ipotesi di lavoro: se la
nonviolenza e' possibile, allora essa e' preferibile.
Ad un algerino che durante e dopo la rivoluzione algerina aveva ricoperto
cariche di grossissima responsabilita' nel governo rivoluzionario, chiedevo
se credesse che la nonviolenza avrebbe potuto essere impiegata dal popolo
algerino. Mi diede questa risposta paradossale: "In linea di fatto, Gandhi
era il maestro al quale ci ispiravamo". Perche' diceva questo? Precisamente
perche' Gandhi fu il primo a scuotere il giogo del colonialismo. Ci siamo
lasciati prendere forse troppo dall'idea che il colonialismo britannico
fosse un colonialismo dove il "fair-play" prevaleva sulla brutalita' - cio'
costituisce, invece, una contro-verita' storica. Gandhi appariva in effetti
ai popoli colonizzati come colui che, per primo, si oppose a questa
oppressione. Ma, aggiungeva quest'algerino, non conoscevamo proprio niente
di questa nonviolenza, non ne eravamo per niente preparati, e non ci era
assolutamente possibile costruire la nostra lotta in questa prospettiva.
Diceva ancora - ed e' proprio questo che mi pare molto interessante:
"attualmente mi interesso e studio sulla possibilita' della nonviolenza,
perche' se la nonviolenza e' possibile, sarebbe criminoso per un
rivoluzionario usare la violenza".
Se la nonviolenza e', dunque, da preferire, ci spetta ora il compito di
studiare le possibilita' offerte dalla nonviolenza.
Bisogna ammettere che finora non l'abbiamo mai fatto. Ci siamo sempre
accontentati di idee ricevute, di schemi prefabbricati e di vere e proprie
caricature della nonviolenza; cio', evidentemente, ci permetteva di
condannarla piu' facilmente.
Se misuriamo gli investimenti che a destra o a sinistra sono stati fatti per
la violenza, e se misuriamo gli investimenti che non sono stati compiuti per
la nonviolenza, allora avremo la giusta misura di cio' che puo' essere
fatto, cercando di discernere cio' che e' possibile da cio' che non lo e'.
Comunque, se la nonviolenza non puo' permetterci di risolvere subito tutti i
nostri problemi, ci permette almeno di impostarli in maniera giusta.
E concludo con questa riflessione di Rilke: "entrando insieme nelle vere
questioni, finiremo certamente con l'entrare insieme nelle vere risposte".

*

JEAN-MARIE MULLER: MOMENTI E METODI DELL'AZIONE NONVIOLENTA (PARTE TERZA
E CONCLUSIVA)

b. Azioni dirette d'intervento
Se la manifestazione e' un confronto diretto con il pubblico che si cerca di
far aderire alla propria causa perche' eserciti una pressione capace di
provocare il cambiamento ricercato, se l'azione di non-cooperazione ha lo
scopo di inaridire le fonti del potere dell'avversario e di costringerlo a
soddisfare le rivendicazioni che gli vengono presentate, l'intervento
nonviolento e' un confronto diretto con l'avversario attraverso il quale ci
si sforza di provocare il cambiamento nei fatti. Con l'intervento
nonviolento si porta il conflitto nel campo dell'avversario che e' posto di
fronte ai fatti compiuti, per cui lo scontro diventa inevitabile.
L'intervento provoca deliberatamente le rappresaglie e la repressione, per
cui i rischi in cui si incorre devono essere accuratamente calcolati.
- Il sit-in. Il piu' noto metodo di intervento diretto nonviolento e' il
sit-in (letteralmente: stare seduti dentro) che fu impiegato soprattutto dai
neri negli Stati Uniti per ottenere la fine della segregazione nei
ristoranti, nei cinema, nelle biblioteche, ecc. Si tratto' allora di sfidare
i responsabili di quei locali pubblici mettendoli di fronte al fatto
compiuto e di obbligarli a cedere di fronte alla pressione sociale cosi'
esercitata.
Generalmente il sit-in e' un'occupazione che si fa stando seduti nei locali
di proprieta' dell'avversario allo scopo di imporsi a lui come interlocutori
necessari e di obbligarlo a riconoscere i diritti che si e' rifiutato, fino
a quel momento, di prendere in considerazione. Durante uno sciopero operaio,
questo metodo dovrebbe consistere nell'occupare pacificamente gli uffici del
padrone per costringerlo a negoziare nel caso che si rifiuti di farlo. Esso
dovrebbe essere sistematicamente preferito al sequestro del padrone nel suo
ufficio, per ragioni morali e tattiche, e dovrebbe rivelarsi piu' efficace.
In senso lato il sit-in consiste nello svolgere una manifestazione sedendosi
in un luogo pubblico. Questo metodo puo' essere impiegato in particolare da
quelli che partecipano ad una manifestazione che rischia di scontrarsi con
le forze di polizia. Essa permette allora un'occupazione efficace del
terreno che diventa molto difficile da "pulire", e permette alla
manifestazione di durare. E' possibile allora che le forze di polizia
indietreggino di fronte alla responsabilita' di caricare, a colpi di
sfollagente e di bombe lacrimogene, una folla silenziosa il cui solo torto
e' di star seduta in una strada per far valere i propri diritti. Ma e' anche
possibile che esse non indietreggino e si decidano invece a fare una carica.
Queste due possibilita' si sono verificate negli Stati Uniti nel corso di
manifestazioni nonviolente dei neri in lotta per 1'integrazione. Si tratta
di valutare nel modo piu' giusto possibile il rischio che si corre, partendo
dall'analisi del clima politico e sociale nel quale si svolge la
manifestazione. Se si prendera' la decisione di andare fino in fondo, e'
opportuno che le prime file dei manifestanti siano particolarmente
preparate, sia psicologicamente che tecnicamente, ad affrontare le cariche
della polizia e conoscano in particolare i metodi elementari di protezione
che devono essere presi in quel momento (si tratta soprattutto di
proteggersi la nuca con le mani). Se la polizia non osa disperdere la
manifestazione con la violenza, si trova costretta a portar via uno alla
volta tutti i manifestanti.
Si puo' dare allora la parola d'ordine di rifiutare qualsiasi cooperazione
con le forze di polizia, e cioe' di "diventare molli" (come dicono gli
anglosassoni) e lasciarsi "manipolare" con calma dai poliziotti mentre
questi riempiono i furgoni destinati a ricevere i manifestanti.
- L'ostruzione. L'ostruzione consiste nell'impedire la libera circolazione
su una via pubblica facendo dei proprio corpo un ostacolo inevitabile per
chi volesse passare. Questo metodo e' stato utilizzato in particolare in
occasione di scioperi operai per impedire ai non-scioperanti di accedere al
loro posto di lavoro. Si e' pure ricorso a questo procedimento per ottenere
l'arresto e l'immobilizzazione di veicoli che servono ad alimentare
direttamente, sia in uomini che in materiali, l'ingiustizia che si combatte.
Puo' essere utilizzata anche per impedire una costruzione giudicata
indesiderabile come quella di una base militare, di una centrale atomica o
di una realizzazione di prestigio che costituirebbe un'ingiuria per i
poveri: si tratterebbe in questi casi di occupare il cantiere e di impedire
agli operai di lavorare. Si puo' anche concepire l'ostruzionismo simbolico
dell'ingresso di un edificio ufficiale: ostruendo ad esempio l'ingresso del
ministero della Difesa nazionale per protestare contro la vendita di armi
che vanno ad alimentare l'oppressione in diversi paesi stranieri.
In genere, e' preferibile che l'ostruzione sia compiuta da un gran numero di
persone piuttosto che da poche. Vi sono soprattutto meno pericoli e l'azione
sara' capita meglio dal pubblico.
In questi ultimi tempi, si sono sviluppate altre tecniche di ostruzione: non
si tratta piu' soltanto di fare ostruzione con il proprio corpo ma con la
propria automobile, con il proprio trattore, o con il proprio camion. Il
fine dell'ostruzione qui non e' piu' di impedire gli spostamenti
dell'avversario o di rendere impossibile la cooperazione con lui, ma di
impedire semplicemente la circolazione al fine di creare il fatto che
consenta di far conoscere l'ingiustizia all'opinione pubblica. E' noto che
in Francia i commercianti, gli agricoltori e i camionisti sono ricorsi a
queste tecniche, e generalmente con successo.
- L'usurpazione civile. Invece che abbandonare il proprio posto e
interrompere ogni attivita', puo' essere piu' efficace, per dare scacco al
sistema, sovvertirlo dall'interno restando al proprio posto. Si tratta
allora di ignorare volutamente le istruzioni che giungono dall'alto e
d'impegnarsi a seguire, nel proprio lavoro, le disposizioni dei movimento di
resistenza. Invece di scioperare, questa o quella categoria di funzionari o
di professionisti puo' esercitare sul governo una pressione maggiore
mettendo a disposizione del movimento "le sue armi e i suoi bagagli". Questo
metodo di azione e' chiamato "usurpazione civile". Theodor Ebert ne da' la
seguente definizione: "Lungi dall'interrompere il lavoro, gli insorti si
assumono direttamente l'organizzazione dei lavoro secondo i metodi del
sistema sociale che essi auspicano ed e' l'ampiezza di questa azione che
costringe gli attuali detentori del potere ad adattarsi alle strutture
create dagli insorti". Ci sembra opportuno precisare che non si tratta qui
di fare evolvere le strutture dall'interno sforzandosi di sfruttare il piu'
possibile il margine d'iniziativa lasciato dal sistema. Salvo qualche
eccezione, questo comportamento avalla maggiormente il sistema piu' di
quanto non lo metta in discussione. Serve spesso di pretesto a chi non ha il
coraggio di rifiutare apertamente la propria collaborazione con
l'ingiustizia. L'usurpazione civile si colloca certamente all'interno delle
strutture, pero' essa opera una rottura con il sistema dominante e sfida
apertamente la gerarchia. Si tratta di dirottare le strutture dal fine che
e' loro assegnato dal sistema e di rivolgere la loro efficacia contro di
esso.
Questo metodo puo' essere utilizzato allo scopo di incominciare a realizzare
direttamente nei fatti il cambiamento sociale che si vuole promuovere,
invece che esercitare una pressione per ottenerlo.  Arriviamo percio' alla
nozione di "controllo operaio" cosi' come e' stato gia' espresso nel
contesto della lotta di classe. "L'assunzione del controllo da parte dei
lavoratori significa che questi smettono di giocare secondo le regole.
Significa che essi stessi decidono delle loro condizioni di lavoro, e
soprattutto della loro produzione. Significa rifiutare totalmente la
collaborazione con il sistema esistente. Significa farsi carico della vita
dell'impresa (formazione professionale, ritmi, sicurezza, orari,
ripartizione dei lavoro, movimenti del personale...). (...) La strategia del
fatto compiuto e' sempre comprensibile a condizioni che sia onesta' fin
dall'inizio della sua proposta. Infatti, non bisogna nascondere ai
lavoratori che l'esercizio del controllo non puo' essere transitorio e
legato ad un rapporto di forza. Cio' finisce sempre in uno scontro globale
con l'avversario di classe (lock-out...). Ma soprattutto, l'esercizio dei
controllo collettivo resta la forma migliore di apprendimento da parte dei
proletariato delle responsabilita' che l'attendono per la presa del potere e
la transizione verso il socialismo" ("Le controle ouvrier").
Cosi', invece di porsi in sciopero per reclamare nuovi ritmi di lavoro in
fabbrica, gli operai decidono da soli di lavorare con i nuovi ritmi e
instaurano in fabbrica una situazione di fatto. La pressione cosi'
esercitata puo' rivelarsi piu' efficace.
L'usurpazione civile realizza contemporaneamente sia il programma di
non-cooperazione con il quale ci si rifiuta di servire un sistema ingiusto,
sia il programma costruttivo che permette di realizzare nei fatti le
soluzioni concrete proposte dal movimento. I settori di attivita' sociale,
in cui l'organizzazione dei lavoratori e' riuscita a soppiantare la
direzione legata al sistema e in cui diventa possibile applicare
concretamente i principi della nuova societa', costituiscono dei "territori
liberati".
Certo, anche qui si dovra' fare i conti con i mezzi di risposta di cui
dispone l'avversario. Egli tentera' di porre fine a questa usurpazione e di
riprendere possesso dei servizi amministrativi o dei settori sociali che
sono sfuggiti al suo controllo. Questa risposta dell'avversario potra'
essere piu' o meno efficace a seconda dei rapporti di forza gia' esistenti.
Puo' divenire necessario evacuare i territori momentaneamente liberati e
organizzare la resistenza facendo ricorso unicamente ai metodi classici di
non-cooperazione, e cioe' alle diverse forme di sciopero. Ma e' anche
possibile che l'avversario si trovi disarmato per riprendere questi
territori e che questi giochino allora un ruolo determinante nell'evoluzione
del conflitto.
- Usurpazione delle funzioni governative e governo parallelo. Quando tutto
un paese e' abbandonato all'arbitrio di un governo che intende imporre il
dominio rinnegando tutti i principi della vita democratica, non si tratta
piu' soltanto di opporsi a una legge particolare, si trattera' di opporsi al
governo. Converra' percio', allo scopo di bloccare i meccanismi del governo
e di paralizzarlo, estendere la disobbedienza civile alle leggi che, pur non
essendo di per se stesse ingiuste, servono nondimeno ai progetti del
governo.
Nella misura in cui la disobbedienza civile avra' potuto essere organizzata
su scala nazionale, i leader dei movimento di resistenza potranno essere
considerati come rappresentanti dell'autorita' legittima del paese. Se la
situazione l'esiga e lo permetta - e bisogna ammettere che cio' si puo'
verificare solo eccezionalmente - il movimento di resistenza puo' essere
condotto a usurpare certe funzioni governative, fino a creare un governo
parallelo. La popolazione ignorerebbe allora sistematicamente le decisioni
del governo per obbedire solo alle disposizioni del movimento di resistenza.
"Quando un gruppo di uomini rinnega lo Stato sotto la cui dominazione hanno
vissuto fino ad allora - scrive Gandhi -, essi costituiscono quasi un
proprio governo. Dico "quasi" perche' essi non arrivano al punto d'impiegare
la forza quando lo Stato resiste".

2. ET COETERA

Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente,
ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle
alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E'
direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution
non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece
obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni
nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari
francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative
Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione
democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per
schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far
fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato
dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza,
Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977;
Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e
metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico
della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses
Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire
de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005.

*

MARIA G. DI RIENZO: LA VIOLENZA DEI FONDAMENTALISMI
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per
questo intervento.
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di
Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne
nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005. Un
piu' ampio profilo di Maria G. Di Rienzo in forma di intervista e' in
"Notizie minime della nonviolenza" n. 81]

Il 19 aprile 2007, nelle quattro maggiori citta' pakistane (Lahore,
Islamabad, Karachi e Peshawar) migliaia di persone hanno protestato contro i
fondamentalismi, in particolare contro le azioni degli studenti di due
scuole religiose musulmane, Jamia Hafsa e Jamia Fareedia, che fanno capo
alla medesima organizzazione nella capitale. I dimostranti hanno denunciato
la progressiva "talibanizzazione" del paese.
Che sta succedendo? Per esempio succede che alcune scuole musulmane stanno
incoraggiando i loro giovani ad impegnarsi nel lavoro di conversione. Il
metodo che hanno escogitato e' molto semplice: si rapiscono ragazze non
musulmane e le si violentano (15 casi denunciati nel 2006 solo nel distretto
di Sindh, ma vedremo da quanto segue che e' probabile il numero sia molto
maggiore). Se le famiglie protestano o sporgono denuncia, i giovani devoti
producono un certificato rilasciato dalla loro scuola ove si attesta che le
ragazze in questione si sono convertite all'Islam, e sono sposate con loro.
La maggior parte delle fanciulle sono minorenni, e le leggi del Pakistan
fissano a 18 anni l'eta' legale per il matrimonio, ma i tribunali
incredibilmente accettano i certificati e nessun violentatore viene
condannato.
E' ad esempio il caso di Deepa, diciassettenne, che manca da casa dal 31
dicembre 2006 dopo essersi recata a ripetizione da uno di questi farabutti
che dava lezioni private ed e' anche insegnante di una madrasa (scuola
religiosa). La famiglia cerca disperatamente di mettersi in contatto con
lei, ma il suo rapitore dice che l'ha convertita all'Islam e sposata, mentre
grazie alle parentele che costui ha con uomini influenti la polizia
consiglia i parenti di non sporgere denuncia: cosi' troveremo Deepa piu'
facilmente, concludono, ma a cinque mesi di distanza non se ne sa ancora
nulla.
Pooja di anni ne aveva quindici, quando fu rapita e brutalmente stuprata nel
luglio 2006, come gli esami medici hanno confermato. Per meglio proteggerla,
suppongo, le autorita' l'hanno trasferita dall'ospedale alla prigione, da
cui e' stata rilasciata il 19 dicembre e consegnata ai suoi aguzzini: i
quali avevano prodotto in tribunale il famoso certificato per cui Pooja
sarebbe convertita all'Islam eccetera.
*
Organizzate dal Waf (Forum d'azione delle donne), le marce hanno portato in
strada sindacati, studenti, gruppi della societa' civile, avvocati,
giornalisti, attiviste/i per i diritti umani, politici. A Lahore ha parlato
Asma Jehangir, presidente della Commissione pakistana per i diritti umani,
denunciando il sostegno dell'esercito ai mullah: "Non ci potra' essere
democrazia nel nostro paese sino a che i mullah si arrogheranno il diritto
di emanare decreti per sfruttare il popolo in nome dell'Islam". E'
intervenuto anche il presidente della regione del Punjab, Shah Mahmood
Qureshi, che ha ammesso la crisi.
La maggior parte dei dimostranti ad Islamabad erano donne. I loro cartelli
recitavano: "Dove sono le leggi dello stato?", "No agli estremismi
religiosi. Si' alla vita e alla musica", "Riaprite la biblioteca per i
bambini". Shirin Mazari, una delle organizzatrici, ha spiegato ai
giornalisti che "Siamo cittadini preoccupati, che hanno guardato con rabbia
e frustrazione al terrorismo inflitto loro da una minoranza estremista della
societa'. Siamo sconcertati dall'incapacita' o dalla riluttanza dello stato
di contrastare le violazioni di legge commesse dagli 'studenti' delle scuole
Jamia Hafsa e Jamia Fareedia. Si tratta praticamente di un governo
alternativo".
A Karachi molte le donne cristiane, assieme a sindacati, ong, universitari,
artisti. Il loro canto, un riferimento alla poesia pakistana, diceva "Hum
dekhain gay!" ("La vedremo!"). "E' difficile ormai trovare una singola donna
che non sia stata costretta a fronteggiare l'estremismo religioso", ha
raccontato l'attivista Naib Nazim Nasreen Jalil, "Qualche anno fa ho
raggiunto Karachi da Islamabad in aereo. All'aeroporto sono stata aggredita
da un gruppo di estremisti religiosi della formazione Jamaat-e-Islami. Mi
hanno circondata come cacciatori addosso ad una preda, ed hanno preso a
colpirmi e a spingermi. Se non fossero intervenute le persone che erano
all'aeroporto a ricevermi, non so come sarebbe finita".
"Per qualcosa oggi pero' li ringraziamo", ha scherzato la dottoressa Aqila,
membro della Commissione pakistana sull'energia e della Fondazione Aurat,
"Ci hanno fatto ritrovare tutte le amiche qui". L'estremismo religioso fa
capolino ovunque, hanno testimoniato le dimostranti. Le donne vengono
insultate e assalite per strada se non indossano il "dupatta", da parte di
zelanti devoti che fingono di pregare in parchi e piazze, ma il cui scopo e'
sorvegliare gli spazi pubblici. Un tempo i genitori erano lieti di chiamare
in casa insegnanti religiosi per i loro figli, ma oggi, stanti i
numerosissimi casi di violenze e stupri perpetrati da tali insegnanti, la
pratica sta svanendo.
La sopravvissuta ad uno di questi casi, Kainat Soomro, che ha sofferto uno
stupro di gruppo, era pure alla manifestazione: "Ancora dopo la denuncia
sono costretta a subire minacce e insulti. Non me ne importa. Restero'
salda, perche' i colpevoli devono essere portati in tribunale".
A Peshawar sono scese in piazza anche le donne delle tribu', ed hanno
denunciato le minacce, le violenze, e la presenza insopportabile degli
"studenti" religiosi armati di bastone: "Nessuna religione al mondo permette
ai suoi fedeli di sostituire il bastone alla fede", ha detto la dottoressa
Begum Jan, presidente dell'Associazione per il welfare delle donne tribali.
Da Lahore a Peshawar un coro: queste non sono le nostre tradizioni, per
cortesia gli occidentali smettano di avallare questa falsita'.
*
La stessa cosa dicono le donne irachene dell'Ofwi (Organizzazione per la
liberta' delle donne in Iraq) e di "Voce irachena per la pace". Aseel
Albanna, fondatrice di quest'ultima ong, attesta che "Il conflitto settario
e' un fenomeno del tutto nuovo per il nostro paese. Precedentemente
all'invasione ed alla decisione statunitense di assegnare seggi in
parlamento sulla base dell'appartenenza religiosa non ci siamo mai
identificati cosi' strettamente come sunniti e sciiti. La decisione ha
trasformato una questione spirituale e privata in una faccenda di concreto
potere politico".
"Cosa dovremmo fare, tagliare i nostri figli in due?", aggiunge Namaa
Alward, "I matrimoni misti erano la regola. La mia famiglia include sunniti,
sciiti, curdi e persino ebrei. Io sono il risultato di queste unioni che si
sono date nei secoli in quel punto d'incontro che l'Iraq e' stato". Namaa
Alward e' un'attrice famosa, che ha lasciato il suo paese negli anni '80
dopo essere stata arrestata in diverse occasioni quale oppositrice del
regime di Saddam Hussein. E' ritornata per la prima volta come "scudo umano"
nel 2003. Oggi sua madre, che vive a Baghdad, la prega di restare
all'estero. Per le donne e' troppo pericoloso, dice. La "caccia alle
streghe" comprende artiste, docenti, professioniste, femministe, lesbiche, e
si conclude troppo spesso con esecuzioni extragiudiziali. Namaa Alward ha
perso in questo modo una cugina e due nipoti. Zainab Salbi, fondatrice di
"Women for Women International", dice che non riesce piu' a tenere il conto:
"Le donne vengono uccise semplicemente perche' hanno una professione, o
perche' note come attiviste per i diritti umani".
Yanar Mohammed dell'Ofwi aggiunge che il controllo delle donne e' diventato
la bandiera dell'Islam politico e fondamentalista. Oggi a Bassora indossare
pantaloni o uscire senza sciarpa in testa per una donna e' punibile con la
morte: "Gli sciiti e i sunniti competono su quanto e come le 'loro' donne
devono coprirsi. E questo non ha niente a che fare con le tradizioni
irachene o la moralita'". "Se lo chiedete a me", aggiunge con una battuta
Nawaa Alward, "preferisco che si vendano minigonne alle donne piuttosto che
armi agli uomini".
"Sottomettere la Costituzione alla religione ha peggiorato le cose", dice
ancora Aseel Albanna, "Per le donne ha significato che qualsiasi cosa
vogliano fare ora devono chiedere il permesso ad un uomo della famiglia.
Questo in un paese in cui prima della guerra il 60% degli studenti
universitari erano femmine". Attualmente, invece, le ragazze vengono
minacciate e forzate ad abbandonare gli studi. Le due figlie della
dottoressa Entisar Mohammad Ariabi, una delle donne che l'anno scorso si
reco' negli Usa per unirsi all'azione di Code Pink che chiedeva il ritiro
delle truppe, hanno lasciato la facolta' di medicina dopo aver ricevuto
ripetute minacce di morte. Ma la cosa attinge a profondita' ben maggiori: un
quinto delle bambine in eta' scolare, nel 2004, non e' stata iscritta o
re-iscritta alle elementari. Nel 2006 si e' toccato il picco piu' basso di
bambine e ragazze nelle scuole, a Baghdad e nelle regioni centrali e del sud
dell'Iraq. (L'Unicef redige rapporti dettagliati al proposito da anni,
sfortunatamente in Italia non vengono letti). Le scuole dell'area menzionata
sono controllate dalle milizie settarie: pur di evitare che le bambine
vengano aggredite, rapite, stuprate o sfigurate con l'acido, i loro genitori
le tengono comprensibilmente a casa. Non hanno memoria di "tradizioni"
simili, considerano il tutto un orrore in piu' da aggiungere agli orrori
quotidiani dell'occupazione straniera.
*
In Malesia, negli ultimi quarant'anni, musulmani, cristiani, hindu e sikh
hanno vissuto senza grosse difficolta' fianco a fianco. Ultimamente le cose
sono molto peggiorate: grazie all'introduzione dei tribunali religiosi
islamici e di leggi che proibiscono la conversione o l'abbandono della
religione a chi alla nascita venga registrato come musulmano (il contrario,
invece, va benone). "Un piccolo ed esclusivo gruppo di persone, dice Zainah
Anwar, si e' arrogato il diritto di interpretare i testi, e di codificarli
in maniera tale che spesso sono completamente isolati dal contesto
socio-culturale in cui si diede la rivelazione. Isolano inoltre le classiche
opinioni giuridiche dal contesto socio-culturale in cui si davano le vite
dei giuristi fondatori dell'Islam, ed isolano i testi dal contesto della
societa' contemporanea in cui viviamo oggi". Zainah Anwar e' la direttrice
esecutiva di "Sorelle nell'Islam", un gruppo di professioniste musulmane
impegnato a promuovere i diritti delle donne, ed e' membro della Commissione
per i diritti umani della Malesia.
Revathi Masoosai e' nata 29 anni fa a Kuala Lumpur, da genitori musulmani.
Allevata dalla propria nonna, hindu, ha scelto quest'ultima fede, nel 2001
ha cambiato il nome musulmano che le era stato dato e tre anni dopo si e'
sposata con un uomo hindu, Suresh Veerappan. Il matrimonio non viene
considerato valido dalle autorita', poiche' manca la conversione all'Islam
del marito. I due hanno una bimba. A questo punto che si fa? Semplice, si
spedisce la giovane donna in galera e subito dopo in un "centro di
riabilitazione" dove deve pentirsi della sua trasgressione religiosa; si
sottrae al marito la custodia della figlioletta di 15 mesi e la si affida
alla nonna musulmana. Quando Revathi Masoosai sara' sufficientemente
"riabilitata" potra' riavere la figlia "se ne fara' richiesta", dichiarano
le autorita' musulmane, ovvero il Dipartimento religioso islamico.
Il 5 aprile 2007 ci sono state proteste a Kuala Lumpur per questo ed altri
casi, con l'appoggio del Partito d'azione democratica (all'opposizione in
Parlamento). I dimostranti hanno detto che e' "inumano separare una bimba
dalla madre" e che "questo non ha nulla a che fare con la cultura del nostro
paese". Chi li ha visti, della stampa occidentale? Pochi. Per quanto
riguarda l'Italia, nessuno. Io sto scrivendo: qualcuno comincia ad
ascoltare?
*
Sentite qua. Negli stessi giorni in cui approda sui nostri giornali la
protesta degli studenti iraniani a cui ora la legge vieta, in nome di dio sa
che, di indossare calzoncini corti, 278 (duecentosettantotto) donne vengono
arrestate dalla polizia e vanno in galera perche' "non indossano vesti
adeguate". Ad altre 3.548 (tremilacinquecentoquarantotto) donne vengono dati
"avvisi e guida islamica" e minacce di arresto futuro per lo stesso motivo.
Tutto questo passa sotto silenzio. E' il 23 aprile 2007 e si tratta del giro
di vite piu' pesante al proposito negli ultimi due anni. Quattro giorni
prima, Fariba Davoudi Mohajer e Sussan Tahmasebi, attiviste per i diritti
umani impegnate nella campagna "Un milione di firme" che chiede l'abolizione
delle leggi iraniane discriminatorie nei confronti delle donne, vengono
condannate rispettivamente ad un anno e a sei mesi di detenzione perche'
raccogliere firme "minaccia la sicurezza nazionale".
Donne ed uomini stanno firmando a migliaia la petizione. Alle attiviste
dichiarano che la condizione delle donne come si presenta oggi in Iran e'
qualcosa di terribile e del tutto "nuovo e sconvolgente" nella loro
esperienza. Non ha a che fare con la tradizione, la cultura, gli usi e
costumi come loro li conoscono. Ma alle nostre anime belle basta una
dichiarazione contro gli Usa del presidente "nucleare" iraniano per andare
in brodo di giuggiole: ho persino letto che, essendo un buon musulmano,
costui non fara' certo la bomba atomica! Sta solo aiutando la sua povera
gente a competere nello spietato mercato globale delle potenze nucleari,
come se a chi muore di fame in Iran (300.000 mendicanti donne, ad esempio)
potesse fregargliene qualcosa, e per quanto riguarda il resto "quelle sono
le loro tradizioni ed e' arrogante che gli occidentali diano giudizi ecc.
ecc.". Peccato che i non occidentali ve lo stiano urlando in una gran
varieta' di lingue che questo e' un falso. Peccato che in maggioranza
abbiano la lettera "F" sui documenti d'identita', altrimenti forse
otterrebbero un briciolo d'ascolto.
*
Quando l'aderenza all'ortodossia religiosa si trasforma in misura di
legittimazione politica, un governo democratico e' seriamente a rischio,
ovunque. I politici corrono a scavalcarsi per dimostrare il loro impegno
religioso controllando le donne ed imponendo severe punizioni, violando
grossolanamente i diritti delle donne ed i diritti umani in genere. Sta
accadendo dappertutto, e sta accadendo soprattutto in rapporto alle tre
maggiori religioni monoteistiche. Negli Usa patria di democrazia ed
opportunita', un'insegnante di francese e' stata licenziata da una scuola
cattolica perche' lei ed il marito hanno usato la fecondazione in vitro per
avere figli. Come ha annunciato di essere incinta delle due gemelle, Kelly
Romenesko ha dovuto fare i bagagli: si sta battendo perche' questa
violazione flagrante ai suoi diritti di lavoratrice venga annullata.
*
Una donna ebrea ortodossa e' stata presa a calci e sputi su un autobus, a
Gerusalemme, perche', come la compianta Rosa Parks, ha rifiutato l'apartheid
dei sedili. Miriam Shear, questo e' il nome della donna, stava usando un
mezzo della compagnia nazionale degli autobus (e non uno dei mezzi in cui si
opera la segregazione per sesso e che pure esistono e vengono detti
"mehadrin"), e non ha ovviamente obbedito all'ordine del primo sconosciuto
che le ha detto di andarsi a sedere in fondo come devono fare le donne. In
tre l'hanno rovesciata sul pavimento dell'autobus per poterla prendere
meglio a calci. L'episodio in se', ed il fatto che la comunita' femminile
ortodossa sia praticamente insorta nei giorni seguenti, volantinando,
picchettando le fermate, portando il caso degli autobus segregazionisti in
tribunale affinche' si discuta della loro liceita', non sono stati riportati
da nessuno dei media italiani.
*
Le forze estremiste politico-religiose stanno aumentando il loro controllo
sulle vite delle donne, intersecando la loro agenda politica a etnie,
nazionalismi, tradizioni e culture per giustificare definizioni rigide dei
ruoli di genere, negazione di diritti umani (in special modo quelli
correlati alla salute riproduttiva e all'istruzione), imposizione di codici
d'abbigliamento, restrizioni sui diritti ereditari o di proprieta'. Queste
forze, ovunque si collochino sullo spettro socio-politico, si oppongono
diametralmente ai diritti umani, ed in particolare al diritto per le persone
di fare scelte, di dissentire, di formulare alternative. Il loro impatto sta
interessando anche comunita' e paesi che hanno goduto sino ad ora di una
lunga tradizione di laicita', e numerosi governi stanno cedendo alle
pressioni legiferando in maniera contraria alle pari opportunita' o alla
cornice dei diritti umani.
Le politiche fondamentaliste, estremiste e di esclusione emergono anche per
riempire dei vuoti ove la democrazia vacilla e l'insicurezza economica
cresce. Ma invece di identificare le radici del problema ed affrontarle,
ogni decisione viene tradotta nella politica del noi e loro. Persino quando
non sono esplicite, le agende di questo tipo influenzano pratiche, leggi,
politiche in modo assai distruttivo rispetto ai diritti umani, ed in
particolare ai diritti umani delle donne a cui, e' bene non dimenticarlo, il
benessere e la salute dei bambini sono strettamente legati. Milioni di bimbe
e bimbi in tutto il mondo continueranno a soffrire per mancanza di cibo,
cure ed istruzione sino a che le loro madri saranno costrette a vivere in
condizioni di abuso nelle loro case e a subire discriminazioni sul posto di
lavoro.
*
Esempio: in Sri Lanka, le donne con bimbi dall'eta' inferiore ai cinque anni
non possono piu' accettare impieghi fuori dal paese, una legge voluta
all'inizio del 2007 dai fondamentalisti, a beneficio dell'unita' familiare.
Poiche' lavoro nel paese non ce n'e', e guerriglia e disastri ambientali lo
hanno prostrato non poco; e poiche' il lavoro domestico all'estero era una
delle pochissime opportunita' economiche alla portata delle donne; e poiche'
tali donne mantenevano con questo lavoro famiglie estese: quanto durera'
l'unita' familiare senza niente da mettere nel piatto? E quanto meglio
staranno, da poveri e affamati, i bambini con meno di cinque anni? Volete
mettere, pero', potranno guardare tutto il giorno la mamma che piange.
*
Ma che le situazioni "lontane" non vengano viste e discusse dai/sui media se
non tramite occhiali ideologici o quando fa comodo e' forse la cosa meno
sconvolgente. Quello che mi lascia basita e' che nessuno stia riconoscendo i
segnali d'allarme del fondamentalismo nel nostro paese. Le maggiori
organizzazioni che lottano per i diritti umani ne indicano sostanzialmente
cinque:
1. L'introduzione (o la re-introduzione) di leggi penali tese a normare il
comportamento degli individui costringendolo ad uniformarsi ad un modello
unico in nome della "moralita'", della "purezza culturale" o della
"religione": codici di abbigliamento, criminalizzazione dell'omosessualita',
separazione degli spazi fra uomini e donne ed incremento del dislivello
nelle opportunita', repressione di gruppi e organizzazioni che lavorano per
il cambiamento sociale;
2. Campagne mediatiche di denuncia e discredito, con insulti e accuse
pesanti, dirette alle persone che non intendono (e a volte neppure possono
per condizioni oggettive) uniformarsi al modello unico imposto per legge o
che si intende imporre quale legge de facto;
3. Il linguaggio attorno alle istanze di diritto umano viene infestato di
manipolazioni: banalizzazione, revisionismi storici, rovesciamento di
responsabilita' dall'aggressore alla vittima, appelli al "multiculturalismo"
ed al "rispetto" di tradizioni diverse per giustificare ogni tipo di
violazioni dei diritti umani;
4. L'incremento di proibizioni e censure: divieto di manifestare e/o di
riunirsi, chiusura di siti web e giornali, allontanamento dalla scuola di
insegnanti considerati "immorali" in base ai dettami della "purezza"
culturale o religiosa;
5. L'aumento della violenza nella sfera privata: violenza domestica,
"delitti d'onore", "caccia al diverso", bullismo nelle scuole, ed il
silenzio o addirittura l'incoraggiamento (tacito o esplicito) da centri di
potere (governi, chiese, forze dell'ordine) per queste forme di aggressione.
*
Ripercorrete le vicende dei Dico, del "Family Day", le dichiarazioni
relative dei vari politici, fra cui quella della Ministra Bindi: "gli
omosessuali non sono legittimati a partecipare alle audizioni per la
Famiglia" (la maiuscola e' sua, e mi si permetta di chiedere: chi legittima
questi untermenschen quando pagano le tasse, vanno a lavorare, stipulano un
contratto, eccetera?); ripensate all'omicidio della ragazza pakistana o al
suicidio del ragazzo di Torino, alle uscite recenti e non di vari
prelati-imam-rabbini... Riconoscete nulla? Pensate che ci sia qualcosa da
fare? O aspettiamo che un altro po' di vite vengano devastate dalla
sofferenza e dalla morte? Fino a ieri, essere laica per me era un dato di
fatto, e che lo stato italiano fosse uno stato laico un'ovvieta'. Oggi
sull'ultimo punto sono insicura. Sono spaventata, e decisa ad oppormi a
questo stato di cose prima che peggiori. Mi piacerebbe avere delle compagne
e dei compagni di strada.
*
Fonti: Asian Human Rights Commission, Women's Media Center, Women E-News,
International Herald Tribune, Associated Press, Ha'aretz.

2. RIFLESSIONE. ELISABETTA DONINI: LA RETE DELLE DONNE IN NERO: TRA
CAPACITA' E LIMITI, TRA LOCALE E GLOBALE
[Ringraziamo Elisabetta Donini (per contatti: elisabetta.donini@alice.it)
per averci messo a disposizione il seguente saggio gia' apparso in Giovanna
Providenti (a cura di), La nonviolenza delle donne, "Quaderni satyagraha" -
Libreria Editrice Fiorentina, Pisa-Firenze 2006.
Elisabetta Donini, scienziata, punto di riferimento delle Donne in nero di
Torino, e' docente di fisica all'Universita' di Torino ed e' da sempre
attiva nel movimento femminista e in quello pacifista; si occupa anche in
particolare di critica di genere dello sviluppo e di politica delle
diversita'. Nata in provincia di Cuneo nel 1942, vive per lo piu' a Torino,
con un lungo periodo di lavoro e di esperienza umana e politica nel
Meridione; fa parte del Cirsde - Centro Interdipartimentale di Ricerche e
Studi delle Donne, e del Centro di Studi per la Pace dell'Universita' di
Torino, e del Comitato delle scienziate e degli scienziati contro la guerra;
per alcuni anni ha fatto ricerca in teoria delle particelle elementari e poi
ha spostato i suoi interessi verso la critica storica delle scienze, la
prospettiva ecologica e le culture del femminismo; da anni i suoi interessi
di ricerca si sono concentrati anche sul rapporto tra scienza e societa';
man mano che cresceva in lei l'impegno nel movimento delle donne e
nell'elaborazione femminista si approfondiva anche il desiderio di
interrogare scienza, tecnologia, modelli di sviluppo in relazione al segno
di genere che vi hanno impresso secoli di dominanza maschile; il lavoro
teorico e l'attivita' di impegno civile sono infatti sempre stati in lei
strettamente legati, sia rispetto a questioni come il nucleare negli anni
Ottanta sia rispetto alle guerre degli anni Ottanta e Novanta e attuali, con
un continuo sforzo di contribuire al consolidamento delle relazioni tra
donne di parti in conflitto (dalle esperienze con donne israeliane e
palestinesi a quelle con donne dei Balcani); ha pubblicato molti saggi e
articoli, e contribuito a numerosi volumi. Tra le opere di Elisabetta
Donini: Il caso dei quanti, Clup, 1982; La nube e il limite. Donne, scienza,
percorsi nel tempo, Rosenberg & Sellier, Torino 1990; Conversazioni con
Evelyn Fox Keller. Una scienziata anomala, Eleuthera, Milano 1991]

L'8 gennaio 1988 dieci donne ebree israeliane andarono in una piazza
centrale di Gerusalemme Ovest, vestite di nero e in silenzio, con dei
cartelli a forma di mano su cui era scritto "Stop all'occupazione". Era
trascorso appena un mese dall'inizio della prima Intifada palestinese;
cominciata il 7 dicembre 1987 nel campo profughi di Jabalia, nella Striscia
di Gaza, quella che da allora e' rimasta nota come "la rivolta delle pietre"
era immediatamente dilagata anche in Cisgiordania e la repressione
israeliana era stata subito durissima, con uccisioni, ferimenti, arresti,
deportazioni, case sigillate o distrutte, coprifuoco e divieti di tutti i
tipi.
Scegliendo di manifestare in silenzio e vestite di nero, quel piccolo gruppo
di donne intendeva esprimere un duplice lutto: da un lato il dolore per le
sofferenze della popolazione dei Territori che Israele aveva occupato sin
dal 1967 e dall'altro quello per gli effetti interni alla stessa Israele,
come degrado morale a causa della violenza di cui si stava rendendo
colpevole. Riflettendo appunto sull'occupazione, Edna Zaretsky, attiva nel
movimento di protesta, sottolineava che "tutto questo ha corrotto il paese
per lungo tempo... Stiamo perdendo un po' della nostra umanita'" (Inchiesta
1991, p. 74-75) (1). Con accenti forse anche piu' amari, Gila Svirsky (1992,
p. 167), una delle prime Donne in nero, ebbe a scrivere che a lei come ebrea
sionista premeva "porre fine alla corruzione dell'anima ebraica di
Israele... L'occupazione corrompe. Ha corrotto"; poter avere rapporti di
amicizia con persone palestinesi era per lei una questione di "umanita'" e
di "decenza".
Nell'agosto del 2005, il XIII convegno della rete internazionale delle Donne
in nero ha fatto incontrare a Gerusalemme piu' di settecento donne, da circa
quaranta paesi di tutto il mondo (2). Come e' avvenuto un tale passaggio?
Quali processi hanno fatto si' che l'iniziativa presa da cosi' poche donne
nel 1988 diventasse in brevissimo tempo uno dei riferimenti piu' noti e
condivisi del pacifismo femminista? Quali altre denunce di guerre e violenze
si sono affiancate all'impegno originariamente concentrato sul caso di
Palestina e Israele? Senza alcuna pretesa di analizzarne qui la grande
complessita' (3), vorrei cercare piuttosto di ripercorrere qualche aspetto
di quella vicenda interrogandone i risvolti che oggi mi paiono piu'
significativi, ma anche piu' problematici, soprattutto in termini di
incisivita' ed efficacia, ora e nell'immediato futuro.
*
Una pratica? Un progetto? Un orizzonte etico-politico?
"I corpi neri urlano", venne scritto anni or sono (Corbetta et al. 1993, p.
11). La modalita' delle vigils, delle "uscite in nero" in luoghi, giorni e
orari mantenuti costanti per mesi o anni, e' stata ed e' tuttora il primo
elemento che accomuna gruppi di tanti luoghi diversi. Dal 1988, salvo
qualche interruzione o variazione eccezionale, a Gerusalemme le Donne in
nero continuano a trovarsi ogni venerdi' dalle 13 alle 14 in una piazza
centrale (Paris square, per la toponomastica ufficiale, ma Hagar square per
la rete internazionale, a ricordare Hagar Roublev, una delle dieci
fondatrici, morta cinquantenne nel 2000); dal 9 ottobre 1991 le Donne in
nero di Belgrado sono presenti in piazza della Repubblica tutti i mercoledi'
dalle 14 alle 15; in varie citta' italiane o di altri paesi il ritrovo e' a
cadenza settimanale o quindicinale o mensile, ma resta comunque un punto
fermo dei rapporti sia interni sia esterni di ciascun gruppo (4).
Ci sono stati in passato - e ci sono tuttora - diversi intrecci, in un misto
di sovrapposizioni e di scarti, tra il "fare le Donne in nero" e "l'essere
Donne in nero". Alle uscite periodiche partecipano in genere anche donne per
cui quello e' l'unico momento di contatto attivo con il gruppo e che magari
hanno altri luoghi politici come loro riferimento principale oppure che
esprimono in quella sola presenza il loro rifiuto della violenza. Del resto,
il modo stesso in cui la rete e' cresciuta, in particolare in Italia, e'
stato in molti casi segnato dalla storia di gruppi che in passato avevano
denominazioni diverse e "facevano" periodicamente le Donne in nero, ma da un
certo tempo in avanti hanno invece adottato proprio quella come loro
autoidentificazione.
Hanno contato molto in questo processo le vicende degli anni '90, attraverso
la guerra del Golfo, le guerre balcaniche, la guerra Nato sulla Serbia e il
Kossovo: il nucleo originario dell'assunzione di responsabilita'
dall'interno di un paese colpevole di aggressioni - su cui si imperniava la
forza e la suggestione della pratica avviata a Gerusalemme nel 1988 -
divenne infatti in quegli anni sempre piu' inquietante e incalzante anche
altrove, a causa del crescente coinvolgimento di vari governi nella scelta
di ricorrere alle armi. Si approfondi' cosi' il bisogno di scavare nelle
strutture profonde del militarismo e del nazionalismo e crebbe l'esigenza di
accompagnare le manifestazioni del lutto con la capacita' di costruire una
diversa prospettiva di relazione tra persone e popoli diversi.
"Non parlate in nostro nome, parliamo noi per noi stesse", scriveva Stasa
Zajovic (2003, p. 10), identificando in questa affermazione il primo dei
"principi etici" di una politica di pace femminista. Dalle Donne in nero di
Belgrado rispetto alle guerre condotte dalla Serbia, ai gruppi italiani
rispetto alla guerra Nato del '99 e poi a quella in Afghanistan ed in Iraq,
alle cittadine ed ai cittadini degli Stati Uniti che non hanno accettato le
scelte di guerra dopo l'11 settembre 2001, la dissociazione attiva e' stata
nei fatti il richiamo di piu' immediata efficacia, perche' sorretta da una
altrettanto nitida consapevolezza che conta cio' che ciascuna persona fa o
non fa. La sua forza stava percio' nel praticare l'assunzione di
responsabilita' non certo per chiamarsi fuori, ma per resistere ed opporsi
in modi politicamente incisivi. Rivolgendosi a donne di Srebrenica,
testimoni ed esse stesse vittime dei crimini orrendi del luglio '95, ancora
Stasa Zajovic, figura centrale delle Donne in nero di Belgrado, esprimeva
con queste parole la tensione tra dissociazione e consapevolezza, tra
responsabilita' individuale e collettiva: "vorrei ringraziarvi per non
considerarci parte della storia collettiva. Questo non e' stato facile in
assoluto perche' le nostre attivita' si sono svolte in un Paese il cui
regime aveva commesso innumerevoli atrocita' ed e' stato responsabile del
massacro della vostra Srebrenica. Pertanto sappiamo che siamo responsabili
di quel che ciascuno di noi ha fatto o non ha fatto. Sappiamo che
l'autonomia morale ci induce ad accettare le responsabilita' per cio' che e'
stato fatto in nostro nome... non desideriamo sapere semplicemente per
alleviare i nostri sensi di colpa, la responsabilita' o la vergogna, ma
perche' giustizia ed onesta' ci impongono di confrontarci con quel che e'
accaduto" (in Richter, Bacchi 2003, p. 232).
*
Appartenenza o disidentificazione? A partire da se', in un vissuto di
conflitto? O cercando di dare sostegno altrove a prospettive di pace?
L'esperienza delle Donne in nero israeliane (che da Gerusalemme si diffuse
rapidamente in decine di altri luoghi del paese, con la partecipazione anche
di donne palestinesi, cittadine di Israele, accanto alle ebree) e quella
delle Donne in nero di Belgrado (5) (anch'esse con numerose ramificazioni in
altre zone della Serbia-Montenegro) sono stati i due poli principali attorno
a cui e' cresciuta la rete internazionale.
In modi diversi, si e' trattato di due casi di opposizione "dall'interno",
in quanto movimenti di protesta contro la violenza esercitata dal proprio
paese. Due le differenze principali che a mio parere vanno tenute in conto;
la prima riguarda il senso di appartenenza: mentre infatti per molte delle
Donne in nero ebree il legame di solidarieta' non solo con la storia e la
cultura, ma con lo stesso stato di Israele ha continuato ad essere un
elemento fondante della loro soggettivita' ed anzi nelle crudelta' e nelle
ingiustizie esercitate contro la popolazione palestinese hanno spesso visto
e denunciato un tradimento dei valori considerati da loro piu'
autenticamente costitutivi della loro identita' di nazione, nelle parole
dette e scritte dalle Donne in nero di Belgrado e' prevalso invece il
rifiuto radicale proprio del nazionalismo, sotto qualsiasi forma. In
entrambi i casi e' stata ed e' tuttora cruciale la volonta' di non
immedesimarsi con le tendenze prevalenti nella societa' di cui pure si e'
parte, in nome pero' di una tanto sofferta quanto ribadita solidita' del
legame di appartenenza nazionale, per quanto riguarda molte delle ebree
israeliane, ed in nome invece della dissociazione piu' ferma proprio dalle
adesioni nazionalistiche, per quanto riguarda le balcaniche.
Questo aspetto si lega alla seconda differenza cui vorrei accennare: se in
ambedue le situazioni l'altra faccia del lutto e' quella che si rivolge alla
"parte avversa" per riconoscerne le sofferenze e i diritti, anziche'
esecrarla e respingerla come nemica, bisogna pero' considerare che nel caso
dei rapporti israelo-palestinesi e' occorso un processo di
avvicinamento/accettazione del "diverso da se'", di chi per lingua,
religione, storia, cultura, tradizioni, costumi era un altro/estraneo,
mentre nel caso dei Balcani c'e' stato il deflagrare di una convivenza
decennale se non secolare ed una societa' multiforme, attraversata da
mescolamenti di ogni tipo, e' stata spezzata in etnie contrapposte. Tentando
anche qui una schematizzazione sintetica, mi sembra che la solidarieta' con
l'altra/o nel primo caso abbia dovuto superare i confini di una storica
diversita' e separazione, nel secondo abbia invece potuto rifarsi alle
radici di una storia comune di cui mantenere operanti i legami.
E gli altri gruppi, che in altri paesi e altre situazioni hanno fatta
propria la modalita' delle Donne in nero? Della pratica politica delle
"uscite in nero" credo che sia stata condivisa soprattutto l'intenzione di
rendersi responsabili all'interno del proprio specifico contesto per
denunciarne le complicita' con guerre, violenze, militarismi, razzismi.
Appunto percio', per fare un esempio concreto, il numero delle
manifestazioni come Donne in nero in Italia e' diventato particolarmente
alto quando si e' trattato di opporsi al coinvolgimento del nostro paese in
azioni di guerra: cosi' e' stato tra il '90 e il '91, quando incombeva e poi
e' effettivamente avvenuta la guerra del Golfo; poi nel '99, per dire no
alla guerra Nato; quindi ancora alla fine del 2001 e soprattutto nel 2003,
rispetto alle guerre in Afghanistan ed in Iraq.
Se questo e' lo sfondo generale, va pero' rilevato che sono state e sono
molto varie le priorita' verso cui si sono orientati gruppi diversi (o
ciascun gruppo in tempi diversi); in particolare, hanno contato le relazioni
di conoscenza e di scambio con diversi luoghi di conflitto. Ancora per
quanto riguarda il caso italiano, esso ebbe origine dal contatto diretto con
le Donne in nero in Israele nel 1988, quando si svolse un "campo di pace" a
Gerusalemme tra italiane, palestinesi, israeliane (6). Percio' tra le Donne
in nero italiane ci fu per anni e c'e' tuttora un filone legato soprattutto
a quella situazione; accanto ad esso, pero', nel corso degli anni '90 sono
molto cresciute le relazioni con le Donne in nero di Belgrado e altre se ne
sono aggiunte, via via che il dilagare delle situazioni di conflitto armato,
ma anche l'estendersi della rete di rapporti tra femministe pacifiste faceva
nascere nuovi contatti: con donne kurde e turche, con donne afgane, con
donne della Colombia o del Messico... (7).
Quale il senso di questo proiettarsi verso conflitti lontani, non
immediatamente vissuti? Le risposte potrebbero essere tante, diverse da
parte di diversi gruppi e singole donne (8). Se penso al legame con
israeliane e palestinesi, che per me resta il piu' tenace nella mia
esperienza come donna in nero, una ragione di fondo per continuare a
perseguirlo e' quella di cercare di contribuire a tenere aperta quella
alternativa di soluzione condivisa, costruita attraverso relazioni di
riconoscimento reciproco (ma nella consapevolezza delle sempre piu' tragiche
disparita' e asimmetrie) che a me e ad altre parve di poter intravedere sin
dai tempi della prima Intifada come embrione di una "politica internazionale
delle donne", tracciata a partire dall'immediatezza delle esperienze di
vita.
*
Efficacia locale? Rafforzamento globale? Connessioni reali o virtuali?
Nelle settimane successive al convegno internazionale dell'agosto 2005, sono
circolate in rete molte valutazioni, alcune anche piuttosto dure nella
critica di cio' che a Gerusalemme era o non era accaduto. Per concludere
queste mie considerazioni riprendo qui un punto soltanto tra i numerosi
sollevati: quali frutti abbia dato il convegno da un lato rispetto alla
situazione tra Israele e Palestina in cui avevamo scelto di immergerci
quando si era deciso che il XIII incontro si tenesse li' e dall'altro
rispetto ai legami tra situazioni diverse di tutto il mondo.
Su entrambi i versanti mi sembra che sia emerso uno scarto tra la forza che
da' la presa di contatto diretta tra soggetti ed il limite di relazioni che
non si traducano in pratiche e percorsi condivisi. Soprattutto per chi non
era mai stata in Palestina e Israele, l'esperienza vissuta a Gerusalemme e
negli altri luoghi in cui si e' andate (in particolare a Ramallah e Bil'in
durante la "giornata palestinese" del convegno) ha significato trovarsi
esposte in modo immediato - per cio' che si ascoltava dalle testimonianze e
per cio' che si vedeva con i propri occhi - ad una drammaticita' delle
condizioni palestinesi sotto occupazione di cui e' difficile percepire da
lontano quanto risulti devastante sin nelle minime articolazioni della vita
quotidiana. Avere manifestato in centinaia al check point di Kalandia o
nelle terre che sono state confiscate a Bil'in per costruirvi quello che ben
merita il nome di Muro dell'apartheid, ha cosi' consentito sia di sentirsi
vicine alla Coalizione delle donne israeliane per la pace nella loro
opposizione alle ingiustizie ed alle violenze dell'occupazione sia di dare
sostegno alle donne palestinesi nella rivendicazione dei loro diritti.
Questo non ha pero' comportato una maggiore capacita' di contribuire piu' a
lungo termine ad una soluzione giusta di riconoscimento, pace, convivenza;
ne' la stessa possibilita' di un impegno comune tra donne israeliane e
palestinesi mi sembra che ne sia uscita rafforzata. Del resto, non sono mai
nati gruppi di Donne in nero nei Territori occupati ne' in occasione del
convegno del 2005 si sono approfonditi i confronti su nodi che pure sono
decisivi per il femminismo pacifista, quali l'intreccio tra patriarcato,
nazioni armate, fondamentalismi identitari.
Si lega qui l'altro risvolto delle insoddisfazioni e delle critiche cui
accennavo sopra: mentre nel vissuto immediato dell'incontro "corpo a corpo"
l'esperienza si traduceva in generale in una grande circolazione di energia,
a distanza di tempo e ragionandone con chi non vi aveva partecipato
risultava difficile fare corrispondere una sostanza concreta a quella pur
cosi' intensa sensazione di empowerment, una volta tornate ciascuna ad agire
nel proprio ristrettissimo contesto ed una volta che i rapporti della rete
tornavano ad essere fatti soprattutto di scambi virtuali.
Credo che siano calzanti a questo proposito alcune questioni che Cynthia
Cockburn ha sollevato nella premessa al suo progetto di ricerca sulle Donne
in nero (9), la' dove ha scritto di ritenere che "l'attivismo delle donne
contro la violenza e la guerra sia potenzialmente un significativo movimento
sociale globale", ma che tali potenzialita' possano dispiegarsi soltanto se
vi e' "un alto grado 1) di connessione e 2) di coerenza filosofica".
Condivido queste parole, interpretando per parte mia la "coerenza
filosofica" come la condivisione non certo di una carta teorica di principi,
ma di quello che sopra chiamavo un orizzonte etico e politico: non un proget
to politico astratto, ma una direzione lungo cui praticare azioni comuni,
per contrastare guerre, militarismi, nazionalismi in ciascun caso concreto,
misurandosi nello stesso tempo con la portata globale della violenza su cui
si fondano i modelli di vita e di cultura prevalenti nel mondo.
*
Note
1. Oltre che per l'intervento di Edna Zaretsky, "Non posso dire di non
sapere", rinvio al numero monografico di "Inchiesta" 1991 anche per altri
contributi sugli inizi delle Donne in nero, raccolti nella sezione "Voci da
Israele". Sulle origini ed i primi anni di quella esperienza cfr. inoltre
Deutsch 1992, Deutsch 1994.
2. Si vedano i numerosi materiali pubblicati nel sito
www.coalitionofwomen.org Una sintesi in italiano si puo' trovare in Donne in
nero 2005; cfr. anche il sito www.donneinnero.it.
3. Molte notizie sia sulla storia sia sulla configurazione attuale delle
Donne in nero nel mondo si possono trovare nei siti www.womeninblack.org e
www.coalitionofwomen.org Tra le ricostruzioni storiche pubblicate in
italiano segnalo Filippis 2003; Panero et al. 2005.
4. Nella sua ricerca Women opposing war from a global perspective Cynthia
Cockburn sta costruendo una mappa ragionata dei modi di manifestare e degli
orientamenti di vari gruppi di Donne in nero; molte elaborazioni preliminari
sono pubblicate nel sito www.cynthiacockburn.org
5. Sin dai primi tempi, le Donne in nero di Belgrado hanno avuto cura di
pubblicare ogni anno la raccolta antologica Women for Peace per documentare
le attivita' svolte e fare conoscere riflessioni e testimonianze; alcuni
volumi sono stati anche tradotti in italiano con il titolo Donne per la
pace.
6. Sugli inizi del percorso italiano si vedano Calciati et al. 1989; Ingrao
1993; Corbetta et al. 1993.
7. Si vedano in proposito le notizie riportate nel sito www.donneinnero.it
8. Nel suo Oltre la danza macabra, Luisa Morgantini perno sin dalle origini
di tutta la storia delle Donne in nero, presenta il proprio come "un
percorso individuale e collettivo" (Morgantini 2004, p. 16). Ad esso rinvio
per molti spunti circa i sempre piu' numerosi luoghi di conflitto in cui si
e' estesa la rete delle relazioni tra donne.
9. Cfr. sopra, nota 4.
*
Bibliografia
- Calciati, Giovanna; Gabriella Cappelletti; Luisa Corbetta; Marina Fresa;
Carla Ortona; Rosanna Rossato; Ermenegilda Uccelli (a cura di). 1989. Donne
a Gerusalemme. Incontri tra italiane, palestinesi, israeliane, Rosenberg &
Sellier, Torino.
- Corbetta, Luisa; Elisabetta Donini; Anna Maria Garelli; Margherita
Granero; Carla Ortona. 1993. Il caso italiano: un'esperienza aperta,
dattiloscritto non pubblicato.
- Deutsch, Yvonne. 1992. "Israeli Women: From Protest to a Culture of
Peace", in Deena Hurwitz (ed.), Walking the Red Line. Israelis in Search of
Justice for Palestine, New Society Publishers, Philadelphia, pp. 45-55.
- Deutsch Yvonne. 1994. "Israeli Women against the Occupation: Political
growth and the persistence of ideology", in Tamar Mayer (ed.), Women and the
Israeli Occupation. The politics of change, Routledge, London and New York,
pp. 88-105.
- Donne in nero.
2005. "XIII incontro internazionale delle Donne in nero e
della Rete delle donne per la pace a Gerusalemme", in "il foglio de il Paese
delle donne", anno XVIII, N. 19/20, 5 dicembre 2005, pp. 9-14.
- Filippis, Filomena. 2003. "Fuori la guerra dalla storia". Le Donne in Nero
in Europa e nel bacino del Mediterraneo: origini, riflessioni teoriche,
pratiche e reti di solidarieta' da Gerusalemme a Belgrado, Tesi di laurea in
materie letterarie, Storia dell'Europa contemporanea, Universita' degli
Studi di Torino, Facolta' di Scienze della Formazione, Anno accademico
2002 - 2003.
- "Inchiesta". 1991. "Pace e guerra in Medio Oriente. Percorsi di donne",
anno XXI, n. 91-92, gennaio-giugno 1991.
- Ingrao, Chiara. 1993. Salaam, Shalom. Diario da Gerusalemme, Baghdad e
altri conflitti, Datanews Editrice, Roma.
- Morgantini, Luisa. 2004. Oltre la danza macabra. No alla guerra no al
terrorismo, Nutrimenti, Roma.
- Panero, Enrica; Laura Poli; Paola Porceddu. 2005. "La specificita' di
genere nell'opposizione alla guerra: le Donne in Nero", in Carla Colombelli
(a cura di), La guerra non ci da' pace. Donne e guerre contemporanee,
Edizioni SEB 27, Torino.
- Richter, Melita; Maria Bacchi (a cura di). 2003. Le guerre cominciano a
primavera. Soggetti e genere nel conflitto jugoslavo, Rubbettino Editore,
Soveria Mannelli.
- Svirsky, Gila. 1992. "Zionist Reasons for Being Anti-Occupation", in Deena
Hurwitz (ed.), Walking the Red Line. Israelis in Search of Justice for
Palestine, New Society Publishers, Philadelphia, p. 165-169.
- Zajovic, Stasa. 2003. "Ten Years of Women in Black", in Women in Black,
Belgrade, Women for Peace, Standard 2, Beograd, p. 10-11.
*
Sitografia
- www.coalitionofwomen.org
- www.cynthiacockburn.org
- www.donneinnero.it
- www.womeninblack.org

*

GIOVANNA PROVIDENTI: PASSAGGI DI ESPERIENZA. AUTENTICITA' E LIBERAZIONE
IN CARLA LONZI
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente intervento per il Symposium Iaph del 31 agosto 2006]

Gesti autentici di concentrazione su di se'

"... le donne osano mostrare il risultato del loro pensiero, ma non il
dramma della propria vita. Neppure a se stesse. A me invece interessa
proprio in che modo, attraverso quali passaggi di esperienza, quali gesti,
tono, decisioni, conflitti, si arriva a quelle conclusioni... Se si cerca la
quadratura del cerchio, ossia se si accetta una forma precostituita cui
adattare la propria forma, l'espressione di se' non prende corpo"
(Carla Lonzi, Armande sono io, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1992)

Questa frase posta qui in calce mi sembra un buon modo per presentare cio'
che mi preme dire a proposito di Carla Lonzi: la tensione di vita,
intensita' e autenticita' del suo percorso di liberazione fatto di molti e
sofferti "passaggi di esperienza".
Accennero' soltanto ai temi per cui e' stata finora riconosciuta:
"iniziatrice" e femminista, si deve a lei il merito di avere saputo porre su
"un altro piano" alcune questioni "chiave" degli anni Settanta, ancora oggi
molto attuali. Come ad esempio il tema dell'oppressione sessuale e culturale
patriarcale presente anche nelle ideologie antiautoritarie e antirepressive
di sinistra; il tema dell'aborto visto come motivo di sofferenza per le
donne e come conseguenza di un comportamento sessuale finalizzato al piacere
maschile piu' che a quello femminile; il tema della sessualita' delle donne
che non corrisponde all'atto riproduttivo, ma va ricercata nella scoperta di
una femminilita' piu' completa e non complementare all'uomo.
Appartiene a Lonzi l'affermazione "dell'amore clitorideo come modello di
sessualita' femminile nel rapporto eterosessuale" e l'individuazione di una
nuova personalita' femminile liberata e interlocutrice attiva nella
societa': "la donna clitoridea rappresenta il tramandarsi di una
femminilita' che non si riconosce nell'essenza passiva", e non si afferma
attraverso "la ribellione e la partecipazione negativa". La donna citoridea,
"non si e' definita nei gesti discostati dalla norma, ma si e' consolidata
nei gesti autentici di concentrazione su di se'".
Adesso a me preme soffermarmi su questa "concentrazione su di se'", che
corrisponde all'attenzione posta non a far "quadrare il cerchio", bensi' ai
"passaggi di esperienza", di cui nella frase posta in calce. E corrisponde
all'attenzione e osservazione su se stesse (o atteggiamento di ricerca
esistenziale) che Carla aveva trovato in Teresa d'Avila e Teresa Martin:
"sebbene personalita' molto diverse, non vedevo limiti alla loro capacita'
di indagare e dubitare: le risorse erano cercate dentro di se' pur nella
coscienza che non esistono risorse adeguate".
L'esperienza di liberazione personale, che in Carla Lonzi cammina di pari
passo all'"avventura di capirci qualcosa", e' continua, inesauribile e mai
scontata, perche' sempre in contatto con la concretezza, e con l'imprevisto,
della vita. Contatto che le ha permesso di stare su "un'altro piano", e di
accorgersi dei limiti di ogni ideologia e della complessita' di ogni
percorso di liberazione, che non puo' rivolgersi soltanto all'esterno, ma
deve partire da un profonda e autentica messa in discussione di se stesse.
Solo cosi' e' possibile accorgersi dei molti condizionamenti culturali
presenti anche in noi stesse e della difficolta' a liberarcene.
Ma per comprendere percorsi, processi, e ricerche cosi' complesse e
travagliate, non e' possibile accontentarsi della posizione di
studiosa-spettatrice.
Oltretutto, non posso correre il rischio di non mettermi in gioco in prima
persona, riportando una esperienza umana cosi' intensa come quella di Carla
Lonzi. Non voglio commettere l'errore di "riportarne un'impressione
inautentica", o di ridurla a quanto la stessa Carla paventava in una sua
poesia del 1953: "Una parola onnicomprensiva / irremovibile che detta /
diventi materia dura. / ... Materia non risonante".
Per permetterle di risuonare in me e per accogliere un suo bisogno - avendo
"capito che la mia identita' non puo' trovare riscontri dove non ce n'e' un
altra" - devo pormi nella posizione di una persona ("identita'") che si pone
in dialogo reciproco e autentico con un'altra identita'. Anche se lei diceva
di non trovarla nel mondo, quest'altra identita', e di sentirsi una
testimonianza assurda destinata a cadere "piu' o meno nel vuoto, o
nell'indignazione di qualcuno".
Per permetterle di fidarsi di me e' necessario, da parte mia, lasciar cadere
i panni dell'intellettuale che giudica, interpreta, definisce il proprio
argomento. E "partire da me": ovvero essere disposta a viaggiare sugli
scomodi mezzi di trasporto di chi vuol entrare in contatto reale con il
paese che va a visitare. Nel mio caso come mezzi di trasporto ho solo la
lettura e rilettura degli scritti di Carla Lonzi. Ma posso cambiare la mia
posizione: non quella comoda dietro la cattedra, ma quella scomoda di chi e'
interrogata. O meglio, interpellata. Porsi come "interlocutore,
interlocutrice", avrebbe detto lei.
Ecco, per raccontare l'esperienza di liberazione di Carla Lonzi, faro'
dialogare i nostri differenti "passaggi di esperienza", i nostri vissuti. Lo
faro' interpellando me stessa mentre leggo lei: scegliendo brani suoi non
per dimostrare alcunche', ma perche' questi risuonano in me, richiamando
esperienze mie, incoraggiandomi a perseguire percorsi gia' iniziati, o
indicandomi direzioni diverse, nuove traiettorie dove potere fare camminare
la mia personale esperienza di liberazione. Perche' questo e' il tema alla
base, il motivo per cui lei mi interessa cosi' tanto: percorrere possibili
percorsi di liberazione. E nominarli, farli venire allo scoperto, in modo
che anche altre/i possano conoscerli. E, a modo proprio, percorrerli.
*
Cogliere individualmente cio' che e' realizzabile

"il limite dei filosofi e' che tutta la loro speculazione andava a finire in
qualche progetto di societa', era in funzione dell'assetto da dare al mondo.
Mentre per me e' del cogliere individualmente cio' che e' realizzabile"

Ho iniziato a interessarmi alla esperienza di Carla Lonzi, in un momento
particolare della mia vita. Nonostante le molte differenze tra il suo e il
mio (ancora in corso) processo di liberazione ho riscontrato delle
interessanti coincidenze, che me l'hanno fatta sentire particolarmente
vicina.
Anche io sto cercando di fare "tabula rasa", divenendo consapevole dei molti
condizionamenti e attaccamenti culturali e ideologici che sono dentro di me.
E anche della difficolta' a rinunciare a far parte di correnti ideologiche
(o scientifiche) e a pormi come interlocutrice dissenziente di chi si pone
come portatore (o portatrice) di verita' oggettive, o, semplicemente, di
consuetudini da rispettare. Questo mio pormi come interlocutrice, e non come
gregaria, ha creato importanti conflitti con il mondo accademico, in cui
negli ultimi anni ho avuto incarichi professionali (come dottoranda prima e
assegnista di ricerca dopo). E ho sentito una certa affinita' con il rifiuto
di Carla Lonzi a continuare la sua professione di critica d'arte, per
dedicarsi al femminismo come scelta di autenticita' dentro di se' e nel
rapporto con le altre donne.
Ma vi sono anche delle altre "coincidenze": quando Carla inizia a scrivere
il diario pubblicato ha 40 anni, che e' l'eta' in cui io ho iniziato a
leggerlo. Anche io tengo un diario (da venti anni) e vi trascrivo i sogni:
dopo avere letto il diario di Carla vi trascrivo anche il mio percorso di
liberazione femminile. Inoltre, anche io, come lei, potrei definirmi una
donna clitoridea, desiderosa di essere amata piu' per il mio valore come
persona, che per la mia capacita' di lusingare gli altri o rendermi amabile
(e questo, in ambito professionale, puo' costare la carriera). Anche io
provo spesso la paura, ed anche la sgradita sorpresa, di essere fraintesa in
quello che dico, di passare da un equivoco all'altro nelle mie relazioni
interpersonali: e da questo mi scaturisce un estremo bisogno di "fare
chiarezza", che ho ritrovato anche in Carla.
Una chiarezza che devo trovare intanto dentro di me, contattando i miei
molti conflitti interiori (come faceva lei nel suo diario) e tenendomi alla
larga dalla tentazione di addebitare agli altri (o alla politica, o alla
teoria) la causa e la possibilita' di potere risolvere tutti i miei mali (o
i mali del mondo). Solo dopo un tale lavoro di autocoscienza posso provare a
"cogliere individualmente cio' che e' realizzabile".
Scrive nel diario, dicembre 1973: "Non credo piu' a una classe di persone
indipendentemente dalla coscienza individuale. Non rivoluziona un bel
niente"; "Non vedo piu' come sia possibile cambiare il mondo, solo trovare
uno sbocco di liberazione e viverlo. In fondo il limite dei filosofi e' che
tutta la loro speculazione andava a finire in qualche progetto di societa',
era in funzione dell'assetto da dare al mondo. Mentre per me e' nel cogliere
individualmente cio' che e' realizzabile. L'assetto dovrebbe scaturire da
questo atteggiamento e non viceversa".
Questo punto di vista puo' aiutare a non cadere nella trappola del
"progetto" a tutti i costi. Non cadere nel rischio di giustificare
comportamenti scorretti in nome di un progetto, o un'ideologia. Chi "coglie
individualmente" e' una persona attenta al proprio atteggiamento
esistenziale, attimo dopo attimo. Una persona consapevole. Succede (a me e a
Carla e' successo molte volte) che, mentre si cammina lungo il sentiero di
liberazione, si sbaglia, o si inciampa, o ci si pente, o si vuole cambiare
strada, o si ha paura. Allora ci sono due strade per affrontare la cosa:
giustificarsi di fronte al mondo e a se stessi (magari in nome di un ideale
da perseguire); oppure accorgersene e basta. Carla sceglieva sempre questa
seconda possibilita', trascrivendo nel suo diario e nei suoi appunti sparsi
cio' di cui si accorgeva. Anche per questo e' cosi' difficile seguirla nel
suo percorso intricato, complicato e denso, ma anche molto molto
emozionante. Perche' pieno di vita vera.
*
Interlocutori non piu' fruitori

"La liberazione della donna dalla vecchia identita' porta alla fine
dell'arte come e' stata concepita finora. Infatti, presa coscienza del
perche' lei stessa si indirizza all'arte promossa dall'uomo, da questa
stessa rivelazione perde l'incentivo, e l'uomo - perdendo la donna come
aspirante - perde la certezza della sua opera"

Il processo del "fare tabula rasa della cultura", cui si accompagna un
processo di "liberazione della donna dalla vecchia identita'", piu' volte
ribadito negli scritti di Carla Lonzi e Rivolta Femminile, consiste
innanzitutto nel "muoversi su un altro piano: questo e' il punto su cui
difficilmente arriveremo ad essere capite, ma e' essenziale che non
manchiamo di insistervi".
Solo ponendosi su un altro piano e' possibile far perdere alla cultura
patriarcale "la certezza della sua opera".
L'altro piano e' quello che va oltre la polemica diretta, la
contrapposizione, e che privilegia la individuazione e realizzazione di
identita' autentiche e libere, ritrovate "smantellando i miti e trovando
dentro se stessa la propria integrita'": "ci vuole piu' forza a mostrarsi
spogliate che a barricarsi dietro la parola consacrata; ci vuole forza ad
avere il coraggio della semplicita'".
Anche io sto cercando di muovermi su un altro piano: ad esempio studiando
Carla Lonzi senza sentire il bisogno di collocarla necessariamente
all'interno, o in antitesi, a determinate scuole di pensiero preesistenti.
Per muoversi su un altro piano bisogna rinunciare al conforto di aderire a
modelli dati ("l'angoscia che tutti hanno di appellarsi a una garanzia della
cultura"), e procedere alla "deculturizzazione": dissentire da qualsiasi
ideologia e dalla sua necessita' e "confutare alcuni tra i principi
fondamentali del patriarcato, non solo di quello passato e presente, ma di
quello prospettato dalle ideologie rivoluzionarie". A partire da tale
dissenso e' possibile porsi in posizione di interlocutore attivo/a e non di
fruitore passivo/a.
Il termine "interlocutore, interlocutrice", ricorrente nei testi di Lonzi,
e', a mio parere, un termine di raccordo tra le due tappe (che ovviamente
sono sincroniche, non diacroniche) di deculturizzazione da una parte, e
costruzione di relazioni di autenticita' dall'altra.
Esistono diversi tipi di interlocutori e interlocutrici, una gamma infinita,
impossibile da definire. Per provare a rendere l'idea possiamo immaginare
una linea infinita all'interno dei quali si collocano le molteplici
sfumature relazionali. Su questa linea poniamo tre cartellini con su scritte
tre parole chiave: da un lato dissenso, dal lato opposto disaccordo. E nel
mezzo reciprocita'.
Dalla parte del dissenso stanno gli interlocutori piu' vicini al piano della
cultura da decostruire, mentre sul lato del disaccordo ci sono le molte
interlocutrici personali (soprattutto donne, ma anche uomini) con cui Carla
dialoga a partire da posizioni di grandi affinita' e affettivita' e in cui
sono spesso presenti disaccordi, dovuti proprio al fatto di porsi in una
relazione di estrema autenticita'.
Mentre coi primi interlocutori e' necessario partire dal dissenso per
approdare ad una relazione di reciprocita', con i secondi si parte dalla
reciprocita' per arrivare anche al disaccordo. Spesso il disaccordo e' uno
strumento funzionale al dialogo in autenticita', e va vissuto, sviscerato,
contenuto. Che e' quanto succedeva, nel gruppo di Rivolta Femminile, grazie
all'ausilio della pratica di autocoscienza femminista.
L'immaginare la linea su cui si pongono questi termini come infinita puo'
aiutarci a comprendere la non meccanicita' ne' astrattezza di questo
processo relazionale, che e' sempre diverso a seconda delle differenti
individualita' e situazioni.
Io credo che la consapevolezza di questo processo possa aiutare da una parte
ad avere il coraggio del dissenso rispetto a cio' che si presenta come
inoppugnabile. E dall'altra a non avere paura del disaccordo che
inevitabilmente si presenta quando a dialogare, a porsi come interlocutori
l'uno/a dell'altro/a, sono due identita' in un percorso di liberazione.
Nelle interlocuzioni di reciprocita', vi e' sovrabbondanza di cose come
disaccordi, sconforto, pena, preoccupazione, insofferenza, dubbi. Ma vi e'
anche la possibilita' di un loro superamento, dandosi la possibilita' di
toccare livelli relazionali molto profondi e molto soddisfacenti e
arricchenti. Superato il timore dell'attraversamento del disaccordo si puo'
imparare a fare a meno di giudicare o di aggrapparsi a facili definizioni
dell'altra/o o di se stessi.
Nei testi teorici, come Sputiamo su Hegel, l'interlocuzione maggiormente
enunciata e' quella in cui si parte dal dissenso e che avviene soprattutto
nei confronti di stimoli culturali provenienti dall'esterno (rivoluzione,
filosofia, arte, religione, psicoanalisi), non piu' passivamente fruiti, ma
verificati e confutati. Come nel caso della teoria freudiana: "facciamo atto
di incredulita' verso il dogma psicoanalitico che attribuisce alla donna in
tenera eta' il senso di partire in perdita per una angoscia metafisica della
sua differenza"; "il padre e la madre non sono due entita' primarie, ma il
prodotto di una prevaricazione fra i sessi che ha trovato il suo
assestamento nella famiglia. Senza queste premesse, ci si illude di
sopprimere le cause psichiche della guerra come minaccia atomica sia
postulando un ritorno ai valori privati quale negazione alla sovranita'
dello Stato, sia promovendo una istituzione che proibisca la guerra come
delitto individuale... la malattia mentale dell'umanita' non puo' scegliere
essa stessa la sua salvezza in una forma autoritaria e attenervisi".
A piu' di trenta anni di distanza da quando sono state scritte, queste
affermazioni risuonano molto attuali, dato che ancora si ricorre
assurdamente alla guerra per risolvere conflitti.
Ma per comprendere Carla e il possibile (anche per me) percorso di
liberazione da lei espresso, queste affermazioni vanno rilette alla luce del
suo percorso di autocoscienza. E della scelta di essere ad ogni costo
interlocutrice piuttosto che passiva destinataria di arte e cultura. Scelta
che la porta ad imparare un porsi in relazione autentica con ogni tipo di
interlocutore, nel privato come nel pubblico.
*
Passare attraverso tante fasi

"... naturalmente mi studio, guardo attentamente nello specchio la forma e
la sporgenza degli occhi, la loro vivacita', la consistenza delle palpebre,
l'entita' delle occhiaie. Va bene sono soddisfatta"

Le "fasi di esperienza" rivolte alla propria liberazione trapelano
soprattutto dalla scrittura privata di Carla Lonzi (il diario, le lettere
spedite e non, gli appunti sparsi), in cui niente appare filtrato,
sublimato, e nemmeno raccontato con distacco, solo parte del percorso di
esperienza. In uno sforzo costante di "vedere le cose come stanno". Lei
stessa ne parla come di "una specie di vergogna quotidiana, privatissima...
non spedivo la maggior parte delle lettere in cui parlavo di me... perche'
incepparmi anche li' era angosciante, come angosciante era accorgermi che
gira e gira finivo per volere e sapere parlare solo di me. Scoprire questo
bisogno irrefrenabile mi umiliava...". E al tempo stesso ne afferma la
validita': "Il diario, la presa di coscienza rende tutti uguali. Tutti
fragili, tutti ugualmente intelligenti e stupidi, ingannati, ingannabili,
umiliati dalla scoperta del trave nel proprio occhio. Nessuno sfugge a
questo. Nel diario Hegel e io siamo uguali. Anche Cristo che, sudando sangue
dice 'L'anima mia e' triste fino alla morte' e soffre perche' gli amici lo
lasciano solo nell'imminenza del martirio, e' uno come me".
A Carla non interessava raggiungere obiettivi, ne' politici ne' artistici o
altro. Come recitano dei suoi versi trascritti nel Diario il 9 marzo 1974:
"Che bello essere / quello che si e' / anche se si e' / poco pochissimo /
niente" (p. 580).
Piuttosto, "la tensione della propria vita" e' stata tutta protesa a
sperimentare percorsi di liberazione possibili, mettendosi in gioco
interamente. Percorsi che poi lei rielaborava (attraverso la scrittura
personale) per comprenderne meglio il senso e, eventualmente, modificarne il
tragitto: non rinunciando mai a mettere tutto in discussione, a "mettere in
scacco i propri pensieri uno a uno", come scriveva all'inizio del suo
percorso femminista nella poesia che avrebbe poi dato il titolo alla
raccolta poetica: "scacco ragionato".
Il "dramma della propria vita" consiste, in Lonzi, nel fatto che le sue
"piccole verita'" (nel diario usa queste parole attribuendole a Julia
Kristeva) e i risultati ottenuti non scaturiscono da astratti ragionamenti o
illuminazioni, ma da concreti vissuti: da un contatto autentico e non
sublimato con la vita, che le ha permesso di sperimentare bello e brutto,
gioia e dolore. Come ogni percorso di autentica liberazione,
inevitabilmente, prevede.
Il processo di liberazione suggeritoci dalla lettura di Carla Lonzi consiste
in un complesso e imprevedibile "passaggio attraverso se'", che culmina
nell'accettazione di se' e nell'acquisizione di una nuova forza: quella
dell'identita' autonoma. Una identita' che puo' essere anche
contraddittoria, problematica, diversa, ma propria: "quello e' il mio diario
e nessuno me lo toglie, e e' quello che e'".
Ed avere un'identita' liberata e propria, essere soggetto, comporta un
cambiamento nelle relazioni con le persone con cui si interloquisce. Da una
parte si e' piu' apprezzate e invidiate, dall'altra nasce un nuovo
desiderio: quello di uscire definitivamente dal mondo del falso se' ed avere
relazioni interpersonali solo autentiche e profonde.
Ma il raggiungimento di una tale realizzazione non e' ne' facile ne'
scontato e presuppone il passaggio attraverso tante fasi, perche' solo
attraverso la consapevolezza della propria limitatezza e sofferenza e'
possibile accettarsi e realizzarsi. Come Carla acutamente scrive rileggendo
il concetto di "invidia del pene": "L'invidia del pene e' un simbolo: ce
l'hanno gli uomini non meno delle donne. E' invidia della forza che
scaturisce dall'accettazione di se', invidia dell'unico modo per realizzare
se stessi. Se non si coglie il lato simbolico si finisce con l'invidia pura
e semplice. L'invidia del pene nella coscienza soppianta l'invidia
dell'altro, e porta alla risoluzione. Il peccato d'invidia nasconde la molla
all'identificazione di se'. L'invidia del pene e' la metafora del bisogno di
identita'. La mancanza di identita' porta all'invidia, l'invidia alla
sofferenza, la sofferenza alla coscienza dell'invidia e infine dell'invidia
come invidia del pene, cioe' alle soglie della scoperta e dell'accettazione
della propria identita'".
Questo passaggio invidia-sofferenza-coscienza-accettazione merita di essere
sottolineato, non tralasciando i due momenti iniziali: non puo' esservi
nessuna presa di coscienza ("avere dei dubbi e quindi prendere coscienza")
se non si passa dal peggio di se', dal constatare di essere fatta di
sentimenti contrastanti nei confronti dei nostri interlocutori e
interlocutrici, dall'ammettere che tali sentimenti ci procurano una grande
sofferenza.
Scrive Carla, osservando se stessa compiere i propri passaggi esperienza:
"... il livello di insoddisfazione e' cominciato a scendere e mi sono
trovata in uno stato di curiosita' che mi spingeva a certe azioni per
procurarmi certe riflessioni. E mi e' stato chiaro che sono sempre andata
avanti cosi'. Perche' c'e' una fase in cui l'insoddisfazione porta al
ripiegamento: un movimento di crescita si e' fermato mentre fino allora lo
sentivi pieno di sviluppo e resti sconcertata, non vorresti rassegnarti, ma
hai l'impulso a rincantucciarti da qualche parte come se non valesse la pena
restare in lizza. E' il periodo piu' duro perche' non accade niente: tutto
appare un espediente, una ripetizione accademica, un ribadire. Cosi' ci
rinunci, e intanto avviene un cambiamento di pelle come nei serpenti. Io
nella vita ci sento di questi momenti in cui sei costretta a spogliarti non
solo dei vestiti, come a dire di un'identita' piu' convenzionale e sociale,
fino a restare nuda, ma poi anche quella nudita' va sostituita con
un'epidermide piu' fresca, piu' sensibile, meno coriacea. Ti rinnovi anche
all'interno della tua identita' piu' vera".
Si tratta, come e' stato scritto da Maria Luisa Boccia, di un percorso di
"presa di coscienza" in cui pensiero ed essere coincidono. E si tratta di
una presa di coscienza femminile e femminista in grado di creare "una
duplicita' di coscienza sul mondo", laddove la cultura patriarcale ne
prevede solo una e maschile.
Ma, secondo me, una tale presa di coscienza non sta solo dalla parte del
femminile, non e' l'altro polo rispetto al maschile. Anche perche' non ha
bisogno di essere collocato in un punto filosofico preciso. Soprattutto non
ha bisogno di ricorrere alla logica bipolare. E' un'esperienza umana di
liberazione, che cerca sbocchi, ma non e' detto che li trovi: perche' lo
sbocco che cerca non e' la quadratura del cerchio ne' "la verita' ad ogni
costo", ma una liberazione autentica. Il suo e' un percorso possibile che
lei fa, e si accorge che altri non fanno. Ed e' difficile comprendere se non
si e' in un percorso di liberazione e di presa di coscienza simile al suo.
Carla Lonzi, come e' gia' stato bene espresso da Debora Spadaccini, mostra
di "non essere volta all'inserimento culturale, bensi' mossa da un'esigenza
di vita per andare avanti" e di avere una sua personalissima "capacita' di
stare nel vuoto non solo di identita' offerte dalla cultura maschile, ma
anche dell'identita' femminista". Esigenza di vita e vuoto di identita' sono
effettivamente due ingredienti fondamentali del percorso di liberazione di
Carla Lonzi, consapevole, come afferma sempre Spadaccini, che "la liberta'
diventa un mito quando si identifica in una serie di contenuti e quando, in
questo modo, il contenuto che pure costituiva un salto di essere, da ponte
diventa un assoluto che ostacola il dirsi di una verita' soggettiva".
A differenza di Spadaccini, io credo che il contributo piu' importante di
Carla oggi non sia tanto nella "verita' soggettiva ma tutt'altro che
opinabile", infine rintracciata, ma semmai nello strumento di liberazione da
lei individuato. In quei "passaggi di esperienza" che le interessava
cogliere. Nel tortuoso percorso da lei svolto per cercare se stessa e una
migliore e piu' approfondita relazione con i suoi interlocutori e
interlocutrici. E nel fatto che non vi sia, alla fine dei conti, una verita'
scoperta, o da scoprire, ne' soggettiva ne' oggettiva, ma solo possibili
percorsi di vita autentica e liberata. E non e' poco.
"Quello che manca - scriveva nel diario - e' proprio l'autocoscienza e il
passare attraverso tante fasi. Ognuno sembra incarognirsi in una che diventa
sua tipica".
La liberazione, a differenza della liberta', non e' un obiettivo raggiunto,
ma una aspirazione costante che prevede un autentico processo di crescita
interiore, di autocoscienza. Paragonandosi a Teresa d'Avila cosi' scriveva,
in forma poetica, nel diario, il 6 febbraio 1974: "Mi ritrovo nei tormenti /
interiori senza perche' / nei patimenti e nei dubbi / generati dall'anima
stessa / via via che cresce. / Lei si chiedeva / Proviene da Dio o dal
Demonio? / E io: Sono me stessa? / Si ammalava moriva / di quella pena poi
risorgeva / e sgrammaticatissima / ne scriveva" (p. 550).
Lo scrivere sgrammaticatissimo e' la scrittura privata, quella dettata non
da fini artistici ma da un'autentica esigenza dell'anima. Esigenza di
autenticita' da cui si sviluppa il desiderio di stare in relazioni piu'
significative, avendo scoperto dall'altro/a qualcosa di inaspettato.
Il 28 febbraio del 1974 Carla scrive nel Diario: "il passaggio attraverso
se' rende meno ciechi verso l'altro". E il 24 maggio 1976, dopo due anni di
intensa attivita' "sgrammaticatissima", riconosce in se' un nuovo bisogno:
"la risonanza adesso per me consiste nel miglioramento e approfondimento dei
rapporti, della comprensione reciproca, piu' che del riscontro puntuale. Mi
da' un senso di presenza nel mondo".
Per realizzare la propria presenza nel mondo non le basta il sentirsi
riconosciuta, la realizzazione di se': vuole stare in relazioni di
autenticita' e reciprocita' con altri esseri umani.
Il diario di Carla Lonzi abbonda di descrizioni di relazioni di autenticita'
tra "esseri", termine usato da Carla per indicare le persone in carne ed
ossa, non solo i loro pensieri astratti. Le persone che appaiono nel diario
sono in relazione autentica tra loro. Sono alla ricerca di quel
miglioramento, approfondimento, ovvero di un dialogo effettivo tra loro. E
tale dialogo - che e', ad esempio, la relazione tra Carla e Sara, o tra
Carla e Pietro, o anche tra altre amiche di Rivolta per come viene compresa
da Carla - nel diario non viene raccontato a posteriori, ma rappresentato
nel suo svolgersi reale, tra conflitti e rappacificamenti, prese di
posizione e ripensamenti, dispiacere e gioia del ritrovarsi: viene espresso
per come si presenta nel quotidiano, giorno dopo giorno, nelle pagine di
vita vera.
*
Una amalgama particolare

"Capire - fare parte
capire di fare parte
non c'e' altro
io - la mia porzione di cecita'
io - la mia porzione di luce"

Nel diario appare evidente come il termine interlocutore sia riferito a
chiunque di noi abbia il coraggio di porsi in maniera attiva e partecipe nei
confronti della vita. Chiunque abbia il coraggio di dissentire da miti e
dogmi culturali, e di esporsi autenticamente nelle relazioni interpersonali.
Porsi come interlocutore e interlocutrice nella direzione di autenticita',
ovvero per come si e', senza costruirsi muraglie intorno, presuppone un
lavoro non indifferente di personale individuazione (che e' diverso dalla
costruzione perche' si svolge dall'interno). Tale lavoro risulta essere gia'
in stato avanzato nel diario pubblicato (1972-1977) di Carla Lonzi, avendo
alle spalle anni e anni di presa di coscienza di se', compiuta dapprima
attraverso la scrittura privata, le poesie, e poi attraverso la
partecipazione attiva al femminismo, le prese di posizione autonome e
originali e un instancabile lavoro di autocoscienza personale. Oltre
all'autocoscienza svolta collettivamente e di cui il gruppo di Rivolta
Femminile e' uno degli iniziatori in Italia.
In conclusione non mi resta che ribadire che e' nella sua "vita vera" -
fatta di tanti e sofferti passaggi di esperienza - che io vedo il contributo
piu' originale, forse non ancora sufficientemente compreso, del processo di
liberazione di Carla Lonzi.
Per provare a rintracciare piu' approfonditamente questo interessante
percorso di liberazione e' necessario leggere e rileggere il diario e,
possibilmente, il resto della produzione privata di Carla Lonzi. Quella
quotidiana, privatissima di cui Carla nel diario ammetteva di vergognarsi, e
che pure (come gia' lei stessa affermava) va valorizzata: perche' esprime
qualcosa di piu' articolato, complesso e completo, che puo' aiutarci a fare
chiarezza su una esperienza difficile da sintetizzare. Non e' possibile
ridurre ad un istante fermo cio' che invece sta in un processo in continuo
movimento e cambiamento, tra persuasioni, paure, emozioni, riflessioni,
ripensamenti: "con tutte le complicazioni e amplificazioni nervose", come
scriveva lei il 13 febbraio 1974.
Per saperne di piu' di questa esperienza cosi' intensa non resta che
sperimentarla in prima persona: passaggio dopo passaggio, per arrivare "al
miliardesimo attimo" in cui toccando questa terra posso sentire l'oro", come
e' capitato a lei.
Le modalita' e i contenuti saranno solo nostri, da Carla potremmo imparare
la "tensione di vita", "l'intensita'". E alcuni piccoli suggerimenti
pratici: al risveglio ogni mattina trascrivere i sogni sul proprio diario, e
poi magari rileggerli dopo mesi, o anni; scrivere lettere ad amici e amiche,
anche senza spedirle, per far emergere quello che e' mancato, i non detti, i
fraintendimenti della relazione; e poi osservarsi dentro con molta
attenzione e poco giudizio.
Io ci sto provando.
E, intanto, mi piace confrontarmi e dialogare con gli scritti cui Carla ha
affidato la sua testimonianza.
Sarebbe bello poter leggere anche qualcos'altro della produzione privata di
Carla, in maniera da poter permettere nuovi dialoghi tra Carla e le
tantissime donne di oggi, assetate di autenticita' come lei.
Inoltre ripubblicare i suoi scritti e leggere i suoi inediti potra' metterla
in una luce piu' autentica, abbastanza (spero) da aiutarci a non
fraintenderla, a cogliere di lei sia la sua "porzione di luce" che la sua
"porzione di cecita'". E a restituire ai suoi scritti il senso che lei
stessa aveva voluto dare.
Scriveva nel diario il 3 febbraio 1974: "nei miei scritti c'erano dignita',
castigatezza, commozione oltre che sdegno e dolore che ne facevano una
amalgama particolare, non un atteggiamento ideologico e strafottente. Pero'
non so quanti saranno ad accorgersene".
Io ci sto provando... ad accorgermi di lei. E, attraverso lei, passando da
me, a divenire meno cieca verso gli altri.
*
Bibliografia e videografia
- Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e
altri scritti, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1974.
- Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di
Rivolta Femminile, Milano 1978.
- Carla Lonzi, Vai pure, dialogo con Pietro Consagra, Scritti di Rivolta
Femminile, Milano 1980.
- Carla Lonzi, Scacco ragionato, Scritti di Rivolta Femminile Prototipi,
Milano 1985.
- Carla Lonzi, Armande sono io, Scritti di Rivolta Femminile Prototipi,
Milano 1992.
- AA. VV., E' gia' politica, testi di Marta Lonzi, Anna Jaquinta, Carla
Lonzi, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1977.
- AA. VV., La presenza dell'uomo nel femminismo, testi di Maria Grazia
Chinese, Carla Lonzi, Marta Lonzi, Anna Jaquinta, Scritti di Rivolta
Femminile, Milano 1978.
- Maria Luisa Boccia, L'io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La
Tartaruga, Milano 1990.
- Maria Luisa Boccia, La costola di Eva, in "Il manifesto", 22 novembre
2001.
- Debora Spadaccini, Carla Lonzi, in Duemilauna donne che hanno fatto fatto
l'Italia, a cura di Annarosa Buttarelli, Luisa Muraro, Liliana Rampello,
Milano, Pratiche, 2000.
- Marta Lonzi e Anna Jaquinta, Biografia, in Scacco ragionato Poesie dal '58
al '63, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1985.
- Marta Lonzi, Diana. Una femminista a Buckingham Palace, Scritti di Rivolta
Femminile, Milano 1998.
- Marta Lonzi, Autenticita' e progetto, Jaca Book, Milano 2006.
- Documentario "Alzare il cielo (Carla Lonzi 1931-1982)", di Gianna Mazzini,
Loredana Rotondo, prodotto da L. Rotondo per la trasmissione "Vuoti di
Memoria", Rai Educational.
- Marisa Volpi, Carla Lonzi, in Italiane: dagli anni Cinquanta ad oggi, a
cura di E. Roccella e L. Scaraffia, Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Roma 2003.
- Grazia Livi, Carla Lonzi. Il testimone, in Le lettere del mio nome, La
Tartaruga, Milano 1991.
- Diotima, Approfittare dell'assenza. Punti di avvistamento sulla
tradizione, Liguori, Napoli 2002.

ET COETERA

Giovanna Providenti e' ricercatrice nel campo dei peace studies e women's
and gender studies presso l'Universita' Roma Tre, saggista, si occupa di
nonviolenza, studi sulla pace e di genere, con particolare attenzione alla
prospettiva pedagogica. Ha due figli. Partecipa  al Circolo Bateson di Roma.
Scrive per la rivista "Noi donne". Ha curato il volume Spostando mattoni a
mani nude. Per pensare le differenze, Franco Angeli, Milano 2003, e il
volume La nonviolenza delle donne, "Quaderni satyagraha" - Libreria Editrice
Fiorentina, Pisa-Firenze 2006; ha pubblicato numerosi saggi su rivista e in
volume, tra cui: Cristianesimo sociale, democrazia e nonviolenza in Jane
Addams, in "Rassegna di Teologia", n. 45, dicembre 2004; Imparare ad amare
la madre leggendo romanzi. Riflessioni sul femminile nella formazione, in M.
Durst (a cura di), Identita' femminili in formazione. Generazioni e
genealogie delle memorie, Franco Angeli, Milano 2005; L'educazione come
progetto di pace. Maria Montessori e Jane Addams, in Attualita' di Maria
Montessori, Franco Angeli, Milano 2004. Scrive anche racconti; sta
preparando un libro dal titolo Donne per, sulle figure di Jane Addams, Mirra
Alfassa e Maria Montessori, e un libro su Goliarda Sapienza.
*
Carla Lonzi e' stata un'acutissima intellettuale femminista, nata a Firenze
nel 1931 e deceduta a Milano nel 1982, critica d'arte, fondatrice del gruppo
di Rivolta Femminile. Opere di Carla Lonzi: Sputiamo su Hegel, Scritti di
Rivolta Femminile, Milano 1974, poi Gammalibri, Milano 1982; Taci, anzi
parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1978;
Scacco ragionato, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1985. Opere su Carla
Lonzi: Maria Luisa Boccia, L'io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla
Lonzi, La Tartaruga, Milano 1990.

*

LUCE IRIGARAY: DONNE ALL'OMBRA DEL PUBBLICO POTERE
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "La repubblica" del
2 febbraio 2007.
Luce Irigaray, nata in Belgio, direttrice di ricerca al Cnrs a Parigi, e'
tra le piu' influenti pensatrici degli ultimi decenni. Tra le opere di Luce
Irigaray: Speculum. L'altra donna, Feltrinelli, Milano 1975; Questo sesso
che non e' un sesso, Feltrinelli, Milano 1978;  Amante marina. Friedrich
Nietzsche, Feltrinelli, Milano 1981; Passioni elementari, Feltrinelli,
Milano 1983; Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano 1985;
Sessi e genealogie, La Tartaruga, Milano 1987; Il tempo della differenza,
Editori Riuniti, Roma 1989; Parlare non e' mai neutro, Editori Riuniti, Roma
1991; Io, tu, noi, Bollati Boringhieri, Torino 1992; Amo a te, Bollati
Boringhieri, Torino 1993; Essere due, Bollati Boringhieri, Torino 1994; La
democrazia comincia a due, Bollati Boringhieri, Torino 1994; L'oblio
dell'aria, Bollati Boringhieri, Torino 1996]

In nome di che cosa si puo' decidere della separazione dell'ambito privato e
dell'ambito pubblico? E chi puo' prendere una simile decisione? Forse e' una
delle questioni piu' sottili che dobbiamo affrontare. Ma generalmente ci
sfugge perche' e' risolta, a nostra insaputa, dal costume, dalla tradizione.
Sembra naturale che debba essere cosi'. Salvo che si resta talvolta un po'
perplessi davanti a certi eventi, certi incontri, con altre culture e anche
con altre generazioni. I limiti non sono sempre stabiliti allo stesso posto,
nello stesso modo. Si fanno in pubblico delle cose che si facevano solo in
casa, e non si sa piu' come comportarsi, dove passa la separazione tra vita
privata e vita pubblica.
I movimenti per l'emancipazione e la liberazione delle donne hanno
rappresentato uno di questi momenti in cui le certezze rispetto a che cosa
e' il privato e quale altra il pubblico hanno vacillato. E questo terremoto
non ha finito di sconvolgere i nostri punti di riferimento. Probabilmente
perche' il posto dove una donna puo' stare e' stata una delle chiavi che e'
servita per assicurare la chiusura dell'ambito privato rispetto a quello
pubblico. Ma se le donne escono dalla casa, dove si sposta la separazione? E
che cosa, infatti, definiva prima la vita privata? Il mantenimento della
donna a disposizione del capofamiglia per soddisfare le sue necessita'?
Forse sarebbe interessante esaminare le diverse necessita' a cui la donna in
casa doveva corrispondere per capire qualcosa della definizione del privato
rispetto al pubblico.
*
La donna in casa era una casalinga indispensabile per assicurare i bisogni
della vita del cittadino che lavorava fuori casa. Ma questo non necessita di
una parete tra privato e pubblico tranne per nascondere il possibile
sfruttamento della lavoratrice. E' vero che il lavoro della casalinga non e'
regolamentato da un codice del lavoro che controlla gli orari, le
assicurazioni sociali, i congedi per malattia, le ferie, l'eta' della
pensione, eccetera. Il privato qui servirebbe a coprire la
deregolamentazione del lavoro in casa. Ora questo lavoro sostiene l'insieme
del mercato lavorativo, e non e' chiamato in causa senza comportare problemi
allo stesso Stato. Deve inventare diversi mezzi per sostituire la permanenza
della donna in casa.
Un'altra funzione della sfera privata sarebbe collegata alla procreazione.
Ma questo aspetto della vita generalmente si esibisce piu' che nasconderlo,
oltre al fatto di non appartenere in senso stretto alla sfera privata.
L'ambiguita' della separazione tra privato e pubblico e' particolarmente
evidente su questo punto. Si sostiene che la casa familiare non deve essere
di dominio pubblico ma lo Stato non smette di intervenire sulla
regolamentazione delle nascite. Lo fa attraverso la legislazione, penale
piu' che positiva e' vero, lo fa anche attraverso diversi vantaggi concessi
a coloro che accettano di procreare i futuri cittadini e lavoratori. Si deve
notare che, se i figli sono esibiti come la testimonianza della potenza
maschile, non si parla altrettanto delle diverse prove di cui necessita la
maternita' dalla parte delle donne. Sembra andare da se', che questo
corrisponde al lavoro femminile, alla conquista della sua umana dignita' da
parte della donna. I numerosi commenti sulle fatiche del lavoratore non si
sono molto soffermati su quella del lavoro materno. Questo deve rimanere un
affare privato che, appena ragazza, una donna si suppone capace di portare a
buon fine quasi da sola. Potra' dimostrare le sue capacita' presentandosi,
sorridente, in pubblico con il bambino in braccio. E' vero che si tratta
della piu' bella opera che si possa compiere, ma a quale prezzo!
Fortunatamente la stessa natura e' qui di aiuto...
Il privato e' dunque un posto dove la donna fa da casalinga, procrea e cura
i figli. Finora l'uomo non e' ancora molto intervenuto nella definizione del
settore privato. Sembra che il suo ruolo sia legato alla proprieta': della
terra, della casa, dei beni e perfino della donna e dei figli. Sarebbe
questa relazione con la proprieta' che crea la separazione tra il pubblico e
il privato. Una separazione che si accompagna con la divisione tra natura e
civilta', e, in parte, tra diritto naturale e diritto civile. L'esistenza
della proprieta' privata e' anche collegata in qualche modo alla monogamia,
almeno legale e in linea di principio. E questo non va senza ambiguita' per
la donna: da un lato sembra piu' protetta, dall'altro si trova piu' isolata
e divisa dalle altre donne, cosa che la rende piu' vulnerabile all'influenza
e al potere dell'uomo.
*
Ma perche' una donna in casa a disposizione del marito? Oltre ai punti gia'
considerati, siamo di fronte a un processo di individuazione non ancora
compiuto dall'umanita'. Quali che siano i suoi sforzi per differenziarsi
dalla madre, assimilata alla natura, l'uomo occidentale non e' ancora
riuscito a emanciparsi dalla madre. Ha elaborato una cultura, una societa',
una politica, del "tra-uomini" per emergere dal mondo materno, ma ha tuttora
bisogno di un luogo privato per proseguire nell'impresa dell'affermazione di
un'identita' maschile, e questo lontano dallo sguardo degli altri maschi.
Questo processo di individuazione maschile trasforma la donna in un
sostituto materno, e l'ambito privato in un luogo di familiarita' e di
confronto con la natura che non deve contaminare l'ambito pubblico ne'
essere controllato da esso.
Una volta di piu', sono le donne a perturbare l'ordine stabilito. Ma questa
puo' essere la probabilita' di una ripresa di un processo di individuazione
per l'umanita'. A patto che la donna sia capace di riuscire nel proprio
passaggio dall'identita' naturale all'identita' civile e culturale, e che
divenga cosi' quella che aiuta l'uomo a uscire dal mondo materno.
L'individuazione umana si conquista in due, nel rispetto delle reciproche
differenze. E' un passo ancora da compiere, che sposta il limite tra privato
e pubblico attraverso l'apprendimento di un'intimita' che possa sostituire
una familiarita' indifferenziata e incolta, che sta ora minacciando la
nostra vita civile e culturale.

DOVE DICO ALCUNE COSE
"Ma che sia verita' o sogno,
cio' che conta e' fare il bene"
(Pedro Calderon de la Barca, La vita e' sogno, III, IV, vv. 2423-2424)

Non la guerra porra' fine alle guerre, ma la pace.
Non le armi porranno fine alle uccisioni, ma il disarmo.
Non gli eserciti, ma la smilitarizzazione delle istituzioni, delle culture,
dei territori, delle relazioni, dei saperi e delle pratiche, della vita
quotidiana.
Non la violenza, ma l'umana solidarieta' che ogni persona umana raggiunga,
riconosca, sostenga, salvi.
Non la paura, ma la civile convivenza nel riconoscimento e nella
valorizzazione della differenza di ciascuna persona e nell'inveramento
dell'uguaglianza di diritti di tutte le persone, nella comune
responsabilita' reciproca e per l'unico mondo che e' di tutte e tutti, di
cui tutte e tutti partecipiamo.
Non il potere che offende e sfrutta, ma la capacita' che restituisce e dona,
e reca ausilio, e conforto.
Non la menzogna che opprime, ma la verita' che libera.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

MOVIMENTO NONVIOLENTO: BASI DA RIDURRE, BASI DA AMPLIARE
[Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il
seguente documento di adesione alla manifestazione che si svolgera' a
Vicenza il 17 febbraio 2007 contro l'ampliamento della base militare]

Il Movimento Nonviolento (sezione italiana della War Resisters
International) aderisce alla manifestazione contro l'ampliamento della base
militare di Vicenza.
Numerose sono le ragioni (politiche, sociali, ambientali) che inducono la
popolazione locale, e un vasto e differenziato arco di forze, alla
contrarieta' e a manifestarla civilmente e chiaramente.
A noi preme sottolineare almeno un aspetto. La sicurezza degli abitanti dei
paesi piu' ricchi e fortunati, e l'Italia e' tra questi, non e' affidata
alla diffusione ed all'ampliamento delle basi militari. Le prove di cio'
sono quotidiane, sotto gli occhi di tutti: anche negli Usa, fin qui
protagonisti e artefici di questa politica, se ne diffonde e manifesta la
consapevolezza.
La sicurezza, in un mondo di fortissima e crescente interdipendenza,
riguarda tutti e puo' essere perseguita solo allargando la base di reciproca
conoscenza, convivenza, eguaglianza e liberta' delle popolazioni. Per
l'ampliamento di questa base c'e' tutto il nostro impegno.

LUTTI. FEDERICA GIARDINI RICORDA ANGELA PUTINO
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente ricordo apparso sul quotidiano "Liberazione" del 15
gennaio 2007 col titolo "Un'intima estraneita'".
Federica Giardini e' docente di filosofia politica presso l'Universita' Roma
Tre. Tra le opere di Federica Giardini: Relazioni. Fenomenologia e pensiero
della differenza sessuale, Luca Sossella Editore, Roma 2004.
Angela Putino, filosofa femminista, saggista, impegnata nelle iniziative del
movimento e del pensiero delle donne, docente di bioetica all'Universita' di
Salerno, acutissima studiosa di Michel Foucault e di Simone Weil, promotrice
del sito adateoriafemminista.it , e' deceduta il 16 gennaio 2007. Tra le
opere di Angela Putino: (a cura di, con Sergio Sorrentino), Obbedire al
tempo. L'attesa nel pensiero filosofico, politico e religioso di Simone
Weil, Esi, 1995; Simone Weil e la passione di Dio. Il ritmo divino
nell'uomo, Edb, 1997, 1998; Amiche mie isteriche, Cronopio, 1998; Simone
Weil. Un'intima estraneita', Citta' Aperta, 2006.
Simone Weil, nata a Parigi nel 1909, allieva di Alain, fu professoressa,
militante sindacale e politica della sinistra classista e libertaria,
operaia di fabbrica, miliziana nella guerra di Spagna contro i fascisti,
lavoratrice agricola, poi esule in America, infine a Londra impegnata a
lavorare per la Resistenza. Minata da una vita di generosita', abnegazione,
sofferenze, muore in Inghilterra nel 1943. Una descrizione meramente esterna
come quella che precede non rende pero' conto della vita interiore della
Weil (ed in particolare della svolta, o intensificazione, o meglio ancora:
radicalizzazione ulteriore, seguita alle prime esperienze mistiche del
1938). Ha scritto di lei Susan Sontag: "Nessuno che ami la vita vorrebbe
imitare la sua dedizione al martirio, o se l'augurerebbe per i propri figli
o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serieta' come
vita, Simone Weil ci commuove, ci da' nutrimento". Opere di Simone Weil:
tutti i volumi di Simone Weil in realta' consistono di raccolte di scritti
pubblicate postume, in vita Simone Weil aveva pubblicato poco e su periodici
(e sotto pseudonimo nella fase finale della sua permanenza in Francia stanti
le persecuzioni antiebraiche). Tra le raccolte piu' importanti in edizione
italiana segnaliamo: L'ombra e la grazia (Comunita', poi Rusconi), La
condizione operaia (Comunita', poi Mondadori), La prima radice (Comunita',
SE, Leonardo), Attesa di Dio (Rusconi), La Grecia e le intuizioni
precristiane (Rusconi), Riflessioni sulle cause della liberta' e
dell'oppressione sociale (Adelphi), Sulla Germania totalitaria (Adelphi),
Lettera a un religioso (Adelphi); Sulla guerra (Pratiche). Sono fondamentali
i quattro volumi dei Quaderni, nell'edizione Adelphi curata da Giancarlo
Gaeta. Opere su Simone Weil: fondamentale e' la grande biografia di Simone
Petrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994. Tra gli studi cfr.
AA. VV., Simone Weil, la passione della verita', Morcelliana, Brescia 1985;
Gabriella Fiori, Simone Weil, Garzanti, Milano 1990; Giancarlo Gaeta, Simone
Weil, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1992; Jean-Marie
Muller, Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1994; Angela Putino, Simone Weil e la Passione di Dio, Edb, Bologna
1997; Maurizio Zani, Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano 1994]

Ritrovo le note scritte rapide e per tratti decisi, come le parole di Angela
Putino, il quattro ottobre scorso, giorno nuvoloso sul mare infinito di
Napoli, come si vede da quella sua casa, circondata dentro e fuori da gatti
e piante. L'impersonale era la questione su cui abbiamo lavorato insieme.
Ancora una volta pensare ha risposto a una vocazione di radicalita'. Per
lei, impersonale e' stato uno dei nomi della giustizia che le donne hanno
fatto irrompere nel Novecento. Ritornava il tema della giustizia che anni fa
le aveva fatto scegliere Themis, dea delle assemblee, che scioglie e
raccoglie l'agora' dei mortali, e della convivenza tra i sessi, come nome
per la sua rubrica su "Dwf". Una giustizia che prende figura femminile e che
pero' non e' riducibile alle richieste di giustizia sociale e buone per un
solo sesso. La giustizia pensata e voluta dal femminismo - diceva
animandosi - e' un evento che stabilisce che "ogni donna pensa", pensa
infinitamente, e che chiunque e' capace di questo pensiero. "Il resto ne
deriva". A fronte delle donne in politica che mettono avanti il lamento e la
protesta, Angela semplicemente obiettava che non si fanno carico di quel
"ogni donna pensa" e dunque del loro poter pensare e dire rispetto allo
stato delle cose, con forza.
La forza e l'infinito sono due tratti di questa figura sottile tanto quanto
potente. Sua e' stata l'idea dei seminari guerrieri, iniziati nel 1991, con
gli Esercizi spirituali per giovani guerriere. Esercizi veri e propri per
restituire nel corpo e nella parola una tensione alta alla politica. Come
accade alle pensatrici migliori, il suo corpo per primo parlava di questa
forza guerriera, implacabile. Del corpo ha parlato e trattato a lungo,
leggendo e spostando le analisi di Foucault sulla biopolitica, come quando a
proposito di "corpi disciplinati, afflitti e desideranti" legge il
rovescio - anticipando gli attuali rovesci - della famiglia, quei
dispositivi di alleanza che sono i rapporti sessuali quando "il sesso si
innesta sulla famiglia diventando affare di stato" ("Dwf" 1994). La
riflessione sulla biopolitica e' proseguita fino ad oggi, anche nei corsi
tenuti all'universita' di Salerno che univano alla riflessione politica gli
esiti filosofici delle ricerche in biologia e in medicina. E ancora e' stato
il corpo a esprimere quella forza consumante quando si e' ammalata
gravemente pochi anni fa.
E' un legame incongruo - una sorpresa che prendeva ogni volta chi la
ascoltava - quello che Angela Putino e' riuscita a stabilire tra il massimo
della radicalita' politica, della sua consistenza corporea femminista, e un
pensiero sempre spinto all'estremo, a infrangere schemi prestabiliti,
vincoli di appartenenza scivolati nell'abitudine e talvolta persino la
concretezza di un riferimento comune.
Cosi' ha fatto anche con Amiche mie isteriche, nel 1998, quando lancia una
freccia contro la piega che ha preso il pensiero della differenza italiano
sulla relazione tra donne: piu' che avventura e tensione, sono complicita' e
appartenenza a giocarsi nelle relazioni tra simili mediate da un comune e
rassicurante materno. Quel gesto, inteso e ricevuto come un richiamo alla
iniziale radicalita' del pensiero della differenza sessuale - quando
annunciava un'invenzione politica continua di aperture e riaperture -, si
traduce in un invito allo straniamento: "e se per trovare un punto di vista
piu' arioso fuggissimo piu' lontano (e percio' anche piu' vicino)
cominciando con quel territorio di mezzo che e' la specie? Se giocassimo con
Couvier e Darwin?".
Ancora una volta i discorsi delle scienze, piegati a nutrire
un'immaginazione politica folgorante, si trovano nel suo ultimo libro -
Simone Weil. Un'intima estraneita' - dedicato alla pensatrice che ha eletto
a interlocutrice, vicinissima e distante, fin dal testo Simone Weil e la
passione di Dio del 1997. E stavolta e' la matematica, le teorie di Cantor
sugli infiniti attuali, che la filosofa studia insieme al fratello Andre',
ad aprire per Angela nuove vie al pensiero politico.
L'apertura, l'infinito che conosce e gioca il limite, e' richiamato dal
titolo del testo con cui l'ho incontrata la prima volta. L'aveva intitolato
Cosmo e a un tratto diceva: "C'e' una mira in questa forza guerriera di
inaddomesticamento, essa ci volge e chiede che le nostre teste abbiano
capacita' di farsi rivolgere a un aperto. Questo non e' il vuoto, e' la
visione di un mondo di differenza, non agglomerato di diversita', ma cosmo:
insospettato, sorprendente avvicinarsi, affiancarsi, relazionarsi. Questo
cosmo non sara' visibile secondo cosmologie appartenenti ai sistemi della
legge".

 LUTTI. LUISA MURARO RICORDA ANGELA PUTINO
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente ricordo apparso sul quotidiano "Il manifesto" del 17
gennaio 2007 col titolo "Una donna dalle veloci parole e dal pensiero
tagliente".
Luisa Muraro, una delle piu' influenti pensatrici viventi, ha insegnato
all'Universita' di Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di
"Diotima"; dal sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo la
seguente scheda biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei
sorelle e cinque fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza),
in una regione allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita'
Cattolica di Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una
carriera accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare
nella scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia
dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba
Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista
dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al
femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della
differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva:
La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981,
ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La
Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti,
Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla
nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria
delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via
Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima
(1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero
della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della
maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel
1997"]

Angela Putino e' morta l'altro ieri (Angela, scusami se parlo cosi' di te,
non avrei mai voluto, toccava a te, semmai, piu' giovane di me). Oggi viene
sepolta ed e' un gran lutto per la cerchia delle amiche e degli amici, come
anche per la citta' di Napoli, che sapra' come renderle onore. Lei e' morta,
ci restano i ricordi e i suoi libri, questi da leggere, studiare e
commentare, quelli da mettere in comune: ciascuna, ciascuno ha il suo
tesoro. Comincio io. La vidi e l'ascoltai per la prima volta quasi
trent'anni fa, nel centro culturale "Virginia Woolf" di Roma, e precisamente
nella sede del Buon Pastore, che adesso, interamente ristrutturata, e'
diventata la Casa internazionale delle donne.
All'epoca l'edificio era solo parzialmente agibile. Angela parlava di Simone
Weil, il cui pensiero era allora e sarebbe rimasto al centro della sua
riflessione. Ho il ricordo vivissimo di una donna incredibilmente piccola ed
eloquente. Era infatti di piccola statura e all'epoca molto magra,
graziosissima nelle sue movenze, il viso intelligente illuminato da un
sorriso che non si spegneva mai completamente, e parlava con una eloquenza
veramente rara, perche' profonda e precisa nelle cose che diceva, quanto
veloce e fluente, senza il soccorso di un solo appunto scritto. Questa
restera' una caratteristica delle sue esposizioni, ma con il tempo ella
imparo' ad essere piu' indulgente verso i limiti intellettuali del suo
pubblico, nel quale comprendo anche me.
Confesso, infatti, che quel giorno al Buon Pastore come tante altre volte
poi, ho avuto difficolta' a cogliere pienamente quello che voleva dire e a
volte non ci sarei riuscita senza l'aiuto dei suoi testi. Non che fosse
astrusa o esoterica, era velocissima e mirava sempre a qualcosa, senza
divagare. Il suo pensiero faceva tagli netti. Un solo esempio: negli anni
del femminismo trionfante, ella scrisse e parlo' intorno alla figura della
donna guerriera, contrastando efficacemente l'inclinazione ai discorsi e
agli atteggiamenti del risentimento femminile. Si deve ad Angela l'incontro
con un testo che siamo molte a considerare importante anche per la politica
delle donne, L'arte della guerra di Sun Tzu. Nella copia della mia
biblioteca personale, trovo inserito il programma di un seminario
residenziale del 1991, "Esercizi spirituali per giovani guerriere", guidato
da lei. Su questo registro, forse per un ironico commento al proprio aspetto
fisico o al mio gusto per l'immaginario medievale, ella un giorno mi chiese
di farmi da scudiero. Ma non era solo per ridere, nella sua proposta c'era
qualcosa di molto serio, di cui ho colto almeno questo, la sua preferenza
per associarsi ad un'altra donna.
Al tempo del "Virginia Woolf", ci fu il legame con Alessandra Bocchetti, una
delle fondatrici del Centro. Per tutto il tempo in cui frequento' la
comunita' filosofica Diotima, con scambi frequenti fra l'universita' di
Verona e quella di Napoli, si accompagno' a Giovanna Borrello. Altre socie
ha avuto sicuramente, io evoco vicende di un'esistenza umanamente molto
ricca che conosco solo in parte; per esempio, devo sorvolare sulla vita di
Angela all'universita' di Salerno, dove ha insegnato per molti anni.
Recentemente, so che ha dato vita a un sito, adateoriafemminista.it insieme
a Lucia Mastrodomenico, con la quale aveva fatto anche la rivista
"Madrigale", anche questo un luogo di ricerca teorica. Per un caso strano e
doloroso, la morte non ha rotto quest'ultima associazione ma, al contrario,
l'ha resa definitiva: Lucia infatti e' morta solo due settimane fa, all'eta'
di 56 anni.
Ed ora l'eredita' della studiosa, gli scritti, limitandomi a quelli che ho
nella mia biblioteca: oltre ai contributi nei libri di Diotima (come La cura
di se' in La sapienza di partire da se', Liguori, Napoli 1996, che documenta
il suo interesse per Michel Foucault) e ad Amiche mie isteriche (Cronopio,
1998), un posto importante occupa Simone Weil e la passione di Dio. Il ritmo
divino nell'uomo (Dehoniane, Bologna 1997), preceduto da articoli su riviste
e da un convegno che a sua volta ha prodotto un libro curato da Angela
insieme a Sergio Sorrentino: Obbedire al tempo. L'attesa nel pensiero
filosofico, politico e religioso di Simone Weil (Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 1995), per arrivare all'ultimo libro, che rappresenta una
nuova tappa nella sua riflessione filosofica: Simone Weil. Un'intima
estraneita' (Citta' aperta, 2006).
Si', bisogna riconoscere che, nella ricerca filosofica, dall'inizio alla
fine, Angela Putino ha avuto un'unica, grande socia, l'autrice dei Quaderni.
E ora che le vedo insieme, vedo anche che si assomigliano.

5LUTTI. CHIARA ZAMBONI RICORDA ANGELA PUTINO
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente ricordo apparso sul quotidiano "L'Unita'" del 17
gennaio 2007 col titolo "Angela Putino, una passione per l'infinito".
Chiara Zamboni e' docente di filosofia del linguaggio all'Universita' di
Verona, partecipa alla comunita' filosofica femminile di "Diotima". Tra le
opere di Chiara Zamboni: Favole e immagini della matematica, Adriatica,
1984; Interrogando la cosa. Riflessioni a partire da Martin Heidegger e
Simone Weil, IPL, 1993; L'azione perfetta, Centro Virginia Woolf, Roma 1994;
La filosofia donna, Demetra, Colognola ai Colli (Vr) 1997]

Angela Putino abitava in una casa sulla collina sopra Mergellina, a Napoli.
Una casa piccola con ampie finestre sul verde della montagna e sul mare, con
tanti gatti. Un bel lavello con maioliche all'esterno per preparare alle
amiche qualcosa di buono, perche' mangiava molto poco, ma amava cucinare per
gli altri. Mi sono chiesta tante volte, pensandola in quella casa cosi'
esposta alla bellezza del luogo, come riuscisse a fare filosofia senza
distrarsi nella contemplazione di cio' che la circondava, ma poi mi sono
anche risposta che la prima filosofia e' nata in dialogo muto con la
bellezza naturale. E Angela e' stata una filosofa antica e contemporanea
allo stesso tempo. Il tratto antico: amava la polemica, il conflitto nella
forma piu' classica. Acuminava la critica perche' si andasse allo scoperto
nella risposta. Non lasciava nessuno tranquillo nelle sue posizioni. Aveva
scritto sull'arte di essere guerriera nell'uso dei concetti e
nell'intervento politico. Occorreva non sconfiggere l'avversario, ma
provocarlo ad uscire allo scoperto dando il meglio di se'. Quando ci
riusciva le brillavano gli occhi di allegria.
Naturalmente ci eravamo rese conto di questo a Diotima, alle riunioni di
discussione filosofica che tenevamo e a cui lei partecipava. O stava zitta o
apriva la contesa. E questo anche all'ultimo incontro a cui e' venuta nel
luglio scorso. E me ne sono ben resa conto quando ha pubblicato nel 1998
Amiche mie isteriche, in cui direttamente criticava una strada che avevamo
battuto nel pensarci come soggetti che nascono da madre, e percio'
relazionali. Per lei tutto questo era pericoloso: era un'inclinazione
isterica alla fusionalita'. Voleva disincantarci dalle rassicurazioni del
materno. Voleva mostrare una via nella quale tra esseri umani fosse
accettabile la lacerazione, l'estraneita', come dono.
Mi e' venuto da pensare anche ultimamente a quel libro. Da molti anni ormai
insegnava bioetica all'universita' di Salerno. Aveva pubblicato diversi
articoli sulla biopolitica e il femminismo. Mi diceva che proprio l'isteria
femminile - quella per la quale non si puo' contare le donne una per una a
causa di un legame altro tra loro - era cio' che le poneva fuori dai giochi
della biopolitica. Riprendeva cosi' il vecchio concetto criticato.
E poi era studiosa appassionata di Simone Weil. Nel 1997 aveva pubblicato
Simone Weil e la passione di Dio. Da pochi mesi era uscito Simone Weil.
Un'intima estraneita' (Citta' aperta, 2006), dove riprende l'interesse per
la matematica della Weil per rileggere molti suoi concetti. Credo che chi
studia per molto tempo una pensatrice abbia qualche cosa di lei. In Angela
mi sembra di vedere, come nella Weil, il desiderio di sradicarsi per aprirsi
all'infinito. Mossa che, invece di allontanarla dal mondo, l'ha riportata
puntualmente ad intervenire anche nel dibattito politico: si pensi al sito
adateoriafemminista, che ha aperto con altre. E' come per la Weil: amore per
il concetto, politica e desiderio d'infinito.

DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

ANTONIO VIGILANTE: RELIGIONE E NONVIOLENZA IN ALDO CAPITINI
[Riproponiamo il testo della relazione di Antonio Vigilante su "Religione e
nonviolenza in Aldo Capitini" alla tavola rotonda su "Nonviolenza e
religione" svoltasi a Perugia il 23 settembre 2000, nell'ambito delle
iniziative di approfondimento collegate alla marcia Perugia-Assisi per la
nonviolenza del 24 settembre di quell'anno. Ringraziamo nuovamente Lanfranco
Mencaroni per averci messo a disposizione il testo della relazione scritta
da Vigilante, relazione che lo stesso Mencaroni lesse alla tavola rotonda.
Antonio Vigilante (per contatti: agrypnos@tiscali.it) e' studioso e amico
della nonviolenza, di grande acutezza e profondita'; nato a Foggia nel 1971,
dopo la laurea in pedagogia si e' perfezionato in bioetica; docente di
scienze sociali, dirige la collana "L'Aratro. Testi e studi su pace e
nonviolenza" delle Edizioni del Rosone di Foggia, fa parte del comitato
scientifico dei prestigiosi "Quaderni Satyagraha", collabora a diverse
riviste ed e' autore di rilevanti saggi filosofici sulla nonviolenza. Tra le
opere di Antonio Vigilante: La realta' liberata. Escatologia e nonviolenza
in Aldo Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia 1999; Quartine, Edizioni del
Rosone, Foggia 2000; Il pensiero nonviolento. Una introduzione, Edizioni del
Rosone, Foggia 2004.
Aldo Capitini e' nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato,
docente universitario, infaticabile promotore di iniziative per la
nonviolenza e la pace. E' morto a Perugia nel 1968. E' stato il piu' grande
pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo Capitini:
la miglior antologia degli scritti e' (a cura di Giovanni Cacioppo e vari
collaboratori), Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977 (che
contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoche' integrale -
ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche dell'epoca -
bibliografia degli scritti di Capitini); recentemente e' stato ripubblicato
il saggio Le tecniche della nonviolenza, Linea d'ombra, Milano 1989; una
raccolta di scritti autobiografici, Opposizione e liberazione, Linea
d'ombra, Milano 1991, nuova edizione presso L'ancora del Mediterraneo,
Napoli 2003; e gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996;
segnaliamo anche Nonviolenza dopo la tempesta. Carteggio con Sara Melauri,
Edizioni Associate, Roma 1991; e la recentissima antologia degli scritti (a
cura di Mario Martini, benemerito degli studi capitiniani) Le ragioni della
nonviolenza, Edizioni Ets, Pisa 2004. Presso la redazione di "Azione
nonviolenta" (e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org)
sono disponibili e possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di
Capitini non piu' reperibili in libreria (tra cui i fondamentali Elementi di
un'esperienza religiosa, 1937, e Il potere di tutti, 1969). Negli anni '90
e' iniziata la pubblicazione di una edizione di opere scelte: sono fin qui
apparsi un volume di Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, e un
volume di Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1994, seconda edizione
ampliata, Fondazione centro studi Aldo Capitini, Perugia 1998. Opere su Aldo
Capitini: oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il
messaggio di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda almeno:
Giacomo Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Clara Cutini (a cura di),
Uno schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988;
Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di
Fiesole (Fi) 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini.
Tra religione ed etica laica, Clueb, Bologna 1991; Fondazione "Centro studi
Aldo Capitini", Elementi dell'esperienza religiosa contemporanea, La Nuova
Italia, Scandicci (Fi) 1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per
una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini,
Pisa 1998, 2003; AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume
monografico de "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante,
La realta' liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del
Rosone, Foggia 1999; Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta
2001; Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini,
Cittadella, Assisi 2004; cfr. anche il capitolo dedicato a Capitini in
Angelo d'Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001;
per una bibliografia della critica cfr. per un avvio il libro di Pietro
Polito citato; numerosi utilissimi materiali di e su Aldo Capitini sono nel
sito dell'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini:
www.aldocapitini.it, altri materiali nel sito www.cosinrete.it; una assai
utile mostra e un altrettanto utile dvd su Aldo Capitini possono essere
richiesti scrivendo a Luciano Capitini: capitps@libero.it, o anche a
Lanfranco Mencaroni: l.mencaroni@libero.it, o anche al Movimento
Nonviolento: tel. 0458009803, e-mail: azionenonviolenta@sis.it
Lanfranco Mencaroni (per contatti: l.mencaroni@libero.it), medico, amico e
collaboratore di Aldo Capitini, e' infaticabile prosecutore dell'opera
comune, animatore dell'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini (per
contatti: e-mail: capitini@tiscalinet.it, sito: www.aldocapitini.it) e
curatore del sito del "Cos in rete" (www.cosinrete.it) che mette a
disposizione anche una ricchissima messe di testi di e su Capitini, ed e' un
fondamentale punto di riferimento per amici e studiosi della nonviolenza]

Emancipatore di coscienze
Il mio intervento intende approfondire il rapporto tra religione e
nonviolenza in Aldo Capitini, che e' stato il primo a proporre in Europa il
problema filosofico della nonviolenza, e la cui opera resta ancora oggi
fondamentale per approfondirne rigorosamente il significato, per sviluppare
una intera teoria nonviolenta legata alla piu' avanzata cultura
contemporanea. Capitini e' stato anche un critico della religione
istituzionalizzata, ed un teorico della religione aperta. Cerchero' di
mostrare questi due aspetti dell'opera capitiniana, ed il loro legame, il
loro reciproco fecondarsi.
Credo che sia pero' necessario, anzitutto, precisare l'ispirazione generale
del lavoro del filosofo perugino: cio' che orienta la sua ricerca teorica e
la sua prassi nel corso di trent'anni. Mi pare di poter individuare lo scopo
fondamentale di tutta la sua opera nella emancipazione delle coscienze. Uso
questa espressione pensando a quanto noto' Carlo Rosselli in Socialismo
liberale, a proposito della mancanza, in Italia, di coscienze emancipate:
"... in Italia - scriveva Rosselli - l'educazione dell'uomo, la formazione
della cellula morale base - l'individuo-, e' ancora da fare" (1). E ancora:
"Gli italiani sono pigri moralmente, c'e' in loro un fondo di scetticismo e
di machiavellismo di basso rango che li induce a contaminare, irridendoli,
tutti i valori, e a trasformare in commedia le piu' cupe tragedie" (2). Le
cause di questo indifferentismo morale erano da Rosselli ricondotte
all'influenza negativa della educazione cattolica, "pagana nel culto e
dogmatica nella sostanza" (3), che ha impedito la nascita negli italiani
d'un pensare autonomo, libero, responsabile; e il fascismo non era che il
risultato ovvio della storia di un popolo abituato da secoli all'obbedienza,
al lasciar fare.
Questa impietosa analisi della situazione italiana ci introduce alla
problematica capitiniana. Come Rosselli, Capitini scorgeva sulla realta'
civile, religiosa e politica italiana il peso di una tradizione che non e'
piu' possibile accettare passivamente, e bisognava invece negare,
condannare, combattere, insieme ai poteri che di essa si avvantaggiavano: la
Chiesa cattolica, il fascismo, i partiti, le istituzioni chiuse.
Se questo e' lo scopo principale dell'opera capitiniana, allora essa, di cui
non si puo' non rivendicare il significato europeo e mondiale, rivela pure
un legame particolarissimo con la realta' italiana. Capitini parla all'uomo
contemporaneo, ma rivolgendosi anzitutto all'italiano, additandogli i suoi
mali storici, chiamandolo alla responsabilita', alla riflessione, alla
autonomia, alla serieta' morale. Ad un certo punto si presenta in lui anche
l'idea di un'Italia che, uscendo dall'esperienza decisiva del fascismo,
diventa ancora una volta, attraverso la nonviolenza, guida di civilta' per
l'intera Europa.
La critica religiosa intendeva corrodere quel tanto di Controriforma che
ancora dominava la vita religiosa italiana; la teoria nonviolenta, che nella
sua essenza era rivoluzionaria (come ha ben chiarito Rocco Altieri) (4), era
reazione al malinteso realismo politico della patria di Machiavelli, che nel
fascismo giungeva alla massima espressione storica, e che era anch'esso una
dimostrazione della mancanza di formazione spirituale degli italiani.
*
La "cellula morale" e la compresenza
Molte sono le realta' incontrate, scoperte da Aldo Capitini nel corso della
sua ricerca appassionata e coerente: la realta' liberata, la compresenza, la
libera religione, la nonviolenza, l'omnicrazia. Ma cosa cercava il giovane
filosofo, segretario alla normale di Pisa, quando inizio', prima con l'amico
Claudio Baglietto e poi da solo, il suo percorso intellettuale? Da dove
parte Capitini? Cosa lo preoccupa?
C'era nei due giovani, come in tutti i migliori della loro generazione, una
forte preoccupazione per la decadenza spirituale del tempo, per la crisi
morale ed intellettuale, sulla quale gia' si contava una ricca letteratura,
da Spengler a Julien Benda. E' alla soluzione di questa crisi che Capitini
vuole contribuire: la sua si caratterizza fin dall'inizio come una
riflessione sulla civilta' occidentale attraversata dalla crisi. Cercare la
soluzione alla crisi, e' il problema di Capitini.
C'e' in lui anche una visione disincantata della realta', che e' bene
sottolineare. Osservando il mondo naturale, vi scopre la violenza e
l'assurdo di una universale reciproca distruzione: il pesce grande che
mangia il pesce piccolo. Volgendosi alla storia, trova gli errori della
volonta' di potenza e della guerra. La realta' sociale gli appare segnata
dall'ingiustizia, dallo sfruttamento, dalla sopraffazione. La vita
individuale e' esposta alla malattia, al limite, all'handicap, alla morte.
Ovunque, insomma, c'e' violenza e male. Senza questo primo sguardo
sconsolato, Capitini non avrebbe conquistato la visione positiva della
libera religione e della nonviolenza.
La violenza ed il male non possono essere accettati. Capitini si rifiuta sin
dal principio di considerare la realta' come un tutto immutabile, un blocco
impenetrabile alle nostre aspirazioni: e' consapevole della importanza
dell'immanenza, del piano storico, ma non e' disposto a divinizzarlo,
accettando come mali inevitabili i suoi limiti e le sue assurdita'. Ne', del
resto, questa consapevolezza lo spinge verso la Trascendenza. A cio' si
oppone non solo la sua formazione filosofica, ma anche, come meglio vedremo
tra un po', la considerazione che una Trascendenza autoritaria non fa che
confermare gli aspetti violenti della natura e della storia.
Ne' divinizzazione dell'immanenza, ne' accettazione della Trascendenza,
dunque. Capitini segue la via di un radicale ripensamento dell'immanenza.
Rifiutare il Dio della tradizione non vuol dire accettare il mondo cosi'
com'e'. E' possibile ripensare la realta' che ci circonda, chiedendosi se
davvero in essa vi sia soltanto violenza.
Da dove partire per ripensare la realta'? Dall'uomo: non dall'uomo in
generale -dall'umanita'- ne' dall'uomo appartenente ad una classe sociale,
ma dall'uomo singolo, dall'uomo comune. Per cogliere le caratteristiche del
singolo, Capitini parte da se stesso, ascolta la propria coscienza. Non
inizia sviluppando una teoria, ma esplorando una realta' -la realta' umana.
Parte dai dati elementari che gli sono forniti dalla propria esperienza
interiore e dalla propria vita etica; dati non filtrati ed elaborati alla
luce di un sicuro metodo analitico, ma sottoposti comunque ad un esame
filosoficamente tutt'altro che ingenuo.
Si e' visto un anticipo di esistenzialismo, in questo ritorno al singolo; ed
e' vero: ma con qualche non trascurabile differenza. Capitini e' mosso fin
dall'inizio -lo abbiamo appena visto- dalla preoccupazione pratica di
cercare una via d'uscita alla crisi della civilta'. Nell'uomo intende
riscoprire la leva per rovesciare un mondo in decadenza. Non si tratta di
mera analisi esistenziale, ma di una verifica delle possibilita' positive
dell'uomo. Di qui la seconda importante differenza: pur considerando l'uomo
comune,  Capitini vi scopre possibilita', potenzialita', risorse
eccezionali; non nella direzione del superomismo nietzscheano-dannunziano,
ma in  direzione etica.
Fin dalla prima opera -gli Elementi di un'esperienza religiosa del 1937 -
Capitini cerca di comprendere e consolidare quella che, ricorrendo ancora a
Rosselli, possiamo chiamare cellula morale: e sara' questa cellula il
fondamento della nuova realta'.
L'uomo puo' tenersi nel limite: chiudersi nella propria singolarita', come
essere separato ed in lotta con le altre singolarita'.  Ma c'e' per lui
un'altra possibilita'. Ognuno puo' aprirsi all'altro, annullare il proprio
limite, dire tu agli altri uomini, agli animali, alla natura. E' quello che
Capitini chiama "atto di unita'-amore" (5). E' un atto semplice ma
meraviglioso: con esso si sospendono le leggi della realta'. E' un atto che
attesta la possibilita' di una diversa interpretazione della natura-storia:
se posso amare l'altro, se posso vivere la sua vita come la mia stessa vita,
allora la realta' non e' solo violenza. Questa possibilita' insensata di
amore dovra' trovare un posto nel mondo. Individuata questa prima cellula
morale, non si potra' ripensare il tessuto dell'immanenza? Oltre la natura e
la storia, Capitini pensa una diversa realta', la cui essenza non e'
separazione e conflitto, ma l'unita' di tutti nel valore; una unita' che non
e' Totalita', non annulla trascendendole le singole individualita', ma le
abbraccia e le salva, portandole verso la piena realizzazione del bene. Una
realta' nella quale i morti stanno accanto ai vivi, impegnati in un'unica,
corale impresa di superamento della logica vitale-violenta della natura e
della storia. Capitini parla di realta' liberata, di realta' di tutti, di
Uno-Tutti e, infine, di compresenza. E' importante tener presente che non si
tratta di una categoria conoscitiva, ma di una categoria pratica. La
compresenza, cioe', non e' una realta' da pensare, da cercare tra  gli altri
enti. E', invece, una realta' da attuare, e' una aggiunta alla nostra
esperienza del mondo. La grandiosa realta' di una comunione sovratemporale
di tutti gli esseri viventi, unificati dalla creazione dei valori, non e'
oggetto di contemplazione, ma impegno, compito da attuare qui ed ora, con la
certezza che la realta' violenta del mondo non potra' essere per sempre
indifferente ed impermeabile ai valori, e che, come essa si lascia
trasformare dalla tecnica umana, cosi' dovra' lasciarsi spiritualizzare,
abbandonare il limite, la contrapposizione, il male per farsi realta' libera
e liberata.
*
La religione aperta
Quel primo atto fondamentale, con il quale l'io si apre all'altro, e'
l'essenza della religione come la intende Capitini. Religione e', per il
filosofo perugino, l'atto con il quale io, sporgendomi oltre il limite della
mia individualita', deponendo ogni violenza ed ogni diffidenza, vivo una
piena passione per il tu ed annuncio, in questo modo, una nuova realta'. "La
religione -scrive in Vita religiosa - e' farsi vicino infinitamente ai
drammi delle persone, interiorizzare. Essa e' spontanea aggiunta, e' un
darsi dal di dentro e percio' libero incremento e pura offerta, non
sostituzione violenta che io voglia fare all'infinita capacita' di decidere
delle coscienze" (6). Significativi gli aggettivi: spontaneo, libero, puro.
L'atto religioso ha in se' qualcosa di inspiegabile. Come puo' accadere che
io, messo in un mondo conflittuale, sospenda la lotta e mi metta in ascolto,
mi appassioni per l'altro? E' un atto libero, gratuito -in un certo senso
una sorta di lusso della realta', e percio' un momento particolarmente
solenne non solo per la vita del singolo, ma per il destino del mondo. Per
questo Capitini afferma che con questo atto di apertura si passa dalla
teologia - descrizione di Dio come Ente trascendente -  alla "teogonia in
atto" (7). Nell'incontro dell'io con il tu Dio nasce come vicinanza,
intimita' assoluta. E' la luce dell'infinito che si accende nella oscurita'
dei limiti e delle insufficienze degli esseri e delle cose. Infinita' che
non e' altro che l'infinita' dell'amore con il quale possiamo accogliere
ogni creatura, superando la nostra stessa finitezza, il dolore, lo
sconforto.
Bisogna ora notare la distanza di questo atto religioso capitiniano dalla
religione istituzionalizzata. Dio, come Ente, non esiste: per evitare ogni
equivoco e marcare la distanza della sua concezione religiosa da quella
corrente, Capitini preferira' parlare di compresenza piuttosto che di Dio;
per la stessa ragione,  per indicare la vita religiosa cosi' intesa non
parla di fede, ma riprende da Michelstaedter il termine persuasione.
Non esistono, in Capitini, esseri od oggetti sacri distinti dagli altri.
Ogni essere e' sacro, ogni essere merita quell'amore, quel rispetto assoluto
che il credente ha per Dio, per i santi, per le cose sacre. Non ha senso,
nella prospettiva della religione aperta, la distinzione tra sacerdoti e
semplici credenti, perche' il Dio-compresenza si apre nella vita di ognuno,
vi si giunge attraverso una esperienza esistenziale, e non attraverso la
rivelazione affidata ad una casta sacerdotale. Ogni uomo, in Capitini, e'
sacerdote della compresenza. Di piu': ogni uomo, amando gli esseri d'un
amore infinito, e' profeta di una diversa realta'.
La religione profetica di Capitini e' il rovesciamento della religione
sacerdotale. Quest'ultima e' fatta di elementi dogmatici, alimenta la
superstizione, si circonda di riti e cerimoniali, giustifica l'esistenza di
chiese autoritarie, il cui potere agisce nella societa' in senso
conservatore, ha paura del pensiero libero e dell'autonomia delle coscienze.
La religione aperta e profetica e' invece essenzialmente annuncio di una
nuova realta' attraverso la prassi. A rappresentarla, specifica Capitini,
non sono le Chiese, ma individui isolati che "la testimoniano col martirio
personale, anche perche' sono, di solito, rivoluzionari e in contrasto coi
potenti, e annunciano il tema escatologico della fine e di una nuova realta'
e societa'" (8). La vita di Capitini, la sua attivita' politica, la sua
costante, coraggiosa opposizione alla Chiesa cattolica sono il risultato di
questa concezione rivoluzionaria della religione: individuo isolato, non si
stanca di ripetere che l'autoritarismo cattolico, il dogmatismo, la
connivenza col potere sono errori che offendono una matura coscienza
religiosa. La religione aperta e' avvicinarsi infinitamente alle creature, e
cosi' facendo distaccarsi dal mondo cosi' com'e', iniziare un movimento di
liberazione e di riscatto.
Critico del cattolicesimo (e non solo di quello pre-conciliare: le stesse
aperture del Concilio gli sembrano parziali ed insufficienti), Capitini e'
anche non cristiano. E' questa una precisazione assolutamente fondamentale.
E' forte la tentazione di mostrare il carattere tutto sommato ancora
cristiano della religione capitiniana: siamo abituati a legare in qualche
modo al cristianesimo tutte le esperienze spiritualmente significative della
nostra cultura. Contro questi tentativi c'e' la chiarissima affermazione di
Capitini di essere "post-cristiano". Post-cristiano e' qualcosa di piu' di
non-cristiano: nega molti punti essenziali del cristianesimo, ma non tutto.
Nega con decisione che Gesu' sia il Cristo, il Figlio di Dio: convinzione
senza la quale non si puo' essere cristiani. Nega tutti gli aspetti
leggendari e non dimostrabili dei Vangeli. Cio' che non nega e' il meglio
dei Vangeli: le beatitudini, il modello di una spiritualita', di un agire
che si approssima agli ultimi. Gesu' ha insegnato dove puo' giungere una
coscienza religiosa, ma e' stato altro che un uomo: "fu anche lui, come
tutti, un essere con certi limiti; ma d'altra parte fu in lui, come in ogni
altro essere, la qualita' della coscienza che va oltre i limiti, che e' in
lui come in un mendicante" (9). Ognuno puo' partecipare della grandezza di
Gesu': l'imitazione di Cristo, cosi' intesa, non e' altro che la
realizzazione piena della propria realta' umana. Si potrebbe ugualmente
parlare di una imitazione del Buddha, di Francesco d'Assisi, di Gandhi, di
Tolstoj. Molti sono gli uomini che nel tempo hanno raggiunto la vetta d'una
compiuta religiosita', vale a dire di una piena umanita'.
Enrico Peyretti si e' chiesto se in Capitini non vi sia il rischio di una
religiosita' soltanto soggettiva, che, eliminando Dio come Altro, "esalta al
massimo grado di valore alcuni nostri valori umani, troppo umani".
L'accentuazione degli aspetti soggettivi dell'esperienza religiosa e la
conseguente riduzione di quelli oggettivi, condizionata secondo Peyretti
dalla critica del cattolicesimo del suo tempo, non consente comunque di
parlare di una religione solo soggettiva, perche' l'alterita' si presenta in
lui nella forma del tu, dell'altro uomo. "Se Dio c'e', vivente e altro da
noi, l'apertura al tu e' apertura a lui, anche quando non lo conosciamo e
non lo possiamo affermare" (10). E certo non si puo' accusare di
soggettivismo un pensatore che fin dall'inizio ha messa al centro il tu, ed
ha individuato nell'apertura all'alterita' il fatto fondamentale
dell'esistenza.
Capitini parla di libera religione e religione aperta, ma sottolinea anche
piu' volte che la sua concezione puo' essere vissuta in una prospettiva
ateistica, e che si puo' fare a meno di parlare di Dio a proposito della
compresenza. Se la religione e' trascendenza, e l'ateismo e' immanenza, il
pensiero capitiniano non e' ne' religioso ne' ateistico: cerca piuttosto una
terza via. L'immanenza e' il punto di partenza di un movimento di
trascendimento, che porta la natura e la storia verso una realta' liberata.
Una realta' che non e' al di la' di questo mondo: e' questo stesso mondo,
riscattato dai suoi limiti. Questa realta' liberata dal limite e' per
Capitini realta' di tutti: la salvezza, cioe', non e' solo di alcuni uomini,
degli uomini giusti o di coloro che hanno fede. La salvezza capitiniana non
prevede dannazioni ed Inferni. L'assassino ed il santo sono l'uno accanto
all'altro nella compresenza. E' una concezione che apparira' sconcertante, e
certamente inaccettabile per il cristiano. Ma si tratta anche
dell'approfondimento della logica dell'amore, che colma gli errori, e li
purifica accogliendoli nel suo movimento verso la perfezione. Tutti e' una
parola che risuona in Capitini come un impegno per l'uomo persuaso: ed e'
una parola che comprende giusti ed empi, dittatori e martiri, uomini ed
animali. Riconoscere i limiti, gli errori, le cadute dei giusti (per
Capitini presenti anche in Gesu') ed al tempo stesso il travaglio, la
drammatica scissione interiore sempre presente nei malvagi, aiuta a
comprendere l'impossibilita' di operare distinzioni. Ogni essere e' in lotta
con i proprio limiti: ogni essere pertanto partecipa della compresenza, che
e' in lotta con i limiti della natura e della storia.
*
Religione e politica
La libera religione di Capitini e' naturalmente politica. Essa non e' solo
aperta perche' non dogmatica: e' anche aperta a tutte le dimensioni
dell'attivita' umana. Per Capitini e' irrilevante il problema della
sopravvivenza individuale. Se religione e' andare oltre la propria
finitezza, aprirsi agli altri, allora il vero problema non e' quello della
mia salvezza, ma della salvezza di tutti; non mi ribellero' alla mia
mortalita', ma alla mortalita' dell'altro, di tutte le creature che amo. Se
poi non esiste la Trascendenza, questa salvezza di tutti non puo' avvenire
che in questo mondo: dev'essere la perfezione della storia e della natura.
Una perfezione che non scende dall'alto, ma e' messa in moto, anticipata dal
nostro agire, dalle nostre scelte.
Il libero religioso non e' legato al Tu trascendente ed impegnato a
conquistarsi un Paradiso privato: e' invece legato a tutti, fedele alla
terra, attivo per la liberazione di tutti. "La patria del religioso e' la
socialita'" (11), scrive ne La realta' di tutti. La religione e' per
Capitini libera aggiunta. Aggiunta vuol dire che la religione si accompagna
ad altro: si aggiunge alla politica, all'economia, all'educazione, alla
morale, alla conoscenza, all'arte. Aggiungendosi ad esse, le trasforma, le
purifica, le ricongiunge alla verita' dell'essere umano. Ma l'aggiunta e'
anche libera. Il religioso da', ma non impone. E' un contributo spontaneo,
che non chiede sottomissioni, non perseguita chi la pensa diversamente, non
crea istituzioni al di fuori delle quali ci si perde. Libera aggiunta
significa testimonianza: io credo che questo sia il bene, e percio' lo
seguo; se voi credete altrimenti, seguite pure la vostra via: io non vi
giudico, non vi condanno, non vi impongo nulla. In questo atteggiamento la
preoccupazione per gli altri si accompagna all'assoluto rispetto per la loro
coscienza, perche' la vita religiosa e' spontaneo aprirsi, ed il meglio che
si puo' fare per favorirla e' offrire l'esempio della propria persuasione.
Come ha osservato Mario Martini, per Capitini le religioni valgono in quanto
"hanno dato vita ed hanno perfezionato il senso della liberazione dell'uomo"
(12). Il meglio delle religioni e' la consapevolezza dei limiti, degli
errori, del male, e l'aspirazione al meglio, alla pienezza. Capitini e' in
Italia colui che ha saputo cogliere e riproporre la dimensione sovversiva
della religione: quella dimensione studiata da Ernst Bloch in Thomas Munzer
come teologo della rivoluzione. Religione e' al tempo stesso fare guerra e
fare pace con il mondo. Essa, sostiene in Religione aperta, "e' separazione,
e' lotta, e' guerra", in quanto contrasta i limiti del mondo; "in quanto
essa parla di Dio, o di una realta' liberata, indica un'unita' piu'
profonda, la possibilita' di una vera pace" (13). L'uomo religioso dovra'
essere dunque un rivoluzionario, uno che e' teso con tutto se stesso alla
trasformazione, qui ed ora, del mondo.
*
La nonviolenza
Ecco dunque il significato, in Capitini, della nonviolenza: essa e' la
rivoluzione, purificata dalla aggiunta religiosa. E' il tipo di rivoluzione
adatta al persuaso religioso, a colui, cioe', che si solleva contro i
limiti, ma che ha anche coscienza del valore infinito delle persone e della
unita' di tutti. La nonviolenza e' rivoluzione per tutti, che, come ogni
rivoluzione, deve combattere contro alcuni, ma lo fa avendo costantemente
presente il loro stesso bene. La premura per l'avversario e' l'essenza della
prassi rivoluzionaria nonviolenta, che la distingue da ogni altra concezione
rivoluzionaria. Un'altra importante distinzione riguarda la concezione della
prassi che e' al fondo di questo tipo di rivoluzione. La rivoluzione
religiosa e nonviolenta non discende da una conoscenza sicura delle leggi
che governano la storia, non ha alle spalle una grandiosa dialettica. Questo
potrebbe sembrare un limite, ed e' invece per Capitini un pregio della
prassi nonviolenta. Non essendo legata a schemi dialettici, tanto grandiosi
quanto dogmatici, la prassi nonviolenta e' prassi pura: non ha bisogno,
cioe', di conoscere il mondo per modificarlo, e' fin dall'inizio impegnata
nella trasformazione del mondo; essa, scrive, "essendo prassi fin
dall'inizio, puo' portarla fino al massimo, investendo la realta' con
trasformazioni delle stesse categorie che alla conoscenza parrebbero
immodificabili" (14). Una prassi rivoluzionaria legata ad una concezione
della realta' storico-naturale (quale, ad esempio, il materialismo
dialettico) deve misurare le proprie ambizioni, adeguarsi alla realta'
esteriore: e rischia presto di perdere slancio, dar vita a semplici riforme,
realizzare innovazioni solo apparenti.
La prassi religiosa, partendo dal piano pre-politico della coscienza e della
relazione con l'altro, puo' raggiungere la massima estensione e richiedere
le trasformazioni piu' radicali. Il "dire tu", che e' l'inizio di tutto il
pensiero di Capitini, e' per lui anche la prima tecnica della nonviolenza.
Nel momento in cui scopro l'altro come realta' dotata di un valore infinito,
ho gia' superato la logica della violenza e del conflitto: ho gia'
conquistato, cioe', l'essenziale della nonviolenza. Capitini sa bene,
naturalmente, che questa visione fondamentale non e' raggiunta una volta per
tutte, ma va riconquistata di volta in volta, e difesa contro le cadute
sempre possibili. Il nonviolento dovra' cominciare il suo lavoro proprio da
se stesso: la nonviolenza, scrive il filosofo perugino, ha anzitutto "un
carattere di edificazione interiore" (15). La realta' storica non e' piu'
vista come svolgimento meccanico dominato da forze sopraindividuali. La
nonviolenza, a differenza di altre teorie politiche, ha bisogno di uomini
consapevoli, autonomi, sani; essa dovra' promuovere quindi anzitutto la
formazione spirituale dell'uomo - e qui si torna alla osservazione di
Rosselli sulla necessita' di formare l'individuo.
Il contributo piu' profondo di Capitini alla riflessione sulle tecniche
della nonviolenza va ricercato, a mio avviso, proprio in questa dimensione
della formazione spirituale. Penso, ad esempio, alle pagine di Religione
aperta nelle quali parla di quattro "modi di vita che trasformano
intimamente la realta'-societa'-umanita' com'e' ora" (16): il silenzio, che
serve ad ascoltare con maggiore attenzione le altre creature; la
meditazione, che sospende l'attivismo; l'ascolto della musica, che con la
sua pura bellezza anticipa la realta' liberata; la gentilezza verso tutti,
che porta in ogni incontro il senso dell'unita' di tutti.
Dalla ispirazione liberamente religiosa discendono altre due positive
caratteristiche delle nonviolenza di Capitini. La prima e' il rilievo dato
al vegetarismo. "L'ispirazione della nonviolenza e' l'amore religioso, e
questo non puo' arrestarsi all'umanita'"(17), scrive negli Elementi di
un'esperienza religiosa. La nonviolenza e' in Capitini rispetto ed amore che
dall'umanita' si estende agli animali, alle piante, alle cose stesse: essa
intende diminuire la quantita' totale di violenza presente nel mondo, e
percio' non si arresta alla violenza appariscente dell'uomo contro l'uomo,
ma si sofferma anche sulla violenza naturale, legata alla necessita' di
nutrirsi. C'e' inoltre, anche se non sufficientemente sviluppato, un accenno
a quella particolare violenza che consiste nel non rispettare le cose,
nell'usarle male, nello sciuparle, nello "studiarle malamente o soltanto per
l'utile" (18). E' il problema ecologico, oggi cosi' importante. Questa idea
di una riduzione della violenza totale -nei rapporti umani, nei confronti
degli animali, nell'uso delle cose e delle risorse naturali- ha sullo sfondo
il sogno della religione profetica: il sogno di una realta' nella quale il
lupo possa abitare con l'agnello.
La seconda caratteristica e' il legame tra la nonviolenza e l'omnicrazia. La
societa' nonviolenta dev'essere caratterizzata per Capitini da un potere
diffuso, da una partecipazione politica che va ben oltre le forme della
democrazia rappresentativa. I luoghi del potere diffuso sono libere
assemblee popolari (i Centri di Orientamento Sociale) dove si discutono i
diversi problemi della vita comune, si propone, si controlla il potere. Mi
pare che si possa scorgere in questo richiamo di tutti all'impegno una
traduzione politica del rifiuto capitiniano dell'idea del sacerdozio. La
religione e la politica sono le due dimensioni fondamentali dell'esistenza
umana: di esse deve fare esperienza diretta, senza intermediari. Non e' piu'
possibile abbandonarsi fiduciosamente ad istituzioni che hanno dimostrato
pienamente i loro limiti. L'idea di una societa' nella quale il potere si
apre e si diffonde e' inoltre una conseguenza della concezione della
compresenza. L'assemblea e' per Capitini anche il luogo nel quale ognuno
scopre la vicinanza dell'altro, e si avverte -certo in modo ancora
parziale - l'unita' di tutti nella prospettiva della compresenza. Ancora una
volta la formazione politica coincide con il sorgere di una nuova vita
religiosa, lontana dalla sterilita' dei riti e delle cerimonie tradizionali.
*
Importanza dell'aggiunta religiosa
L'approccio liberamente religioso alla nonviolenza si espone ad una duplice
critica. I credenti nella Trascendenza (siano essi cattolici o critici del
cattolicesimo) accuseranno Capitini di aver fondato troppo debolmente la
prassi nonviolenta sull'idea filosofica di compresenza; sosterranno che una
prassi cosi' rischiosa, che si spinge fino al sacrificio di se', ha bisogno
di un fondamento religioso forte, di un Dio che guida e sostiene piu'
concretamente della evanescente compresenza capitiniana, di una legge divina
che rende possibile la critica e l'opposizione ai poteri umani - e
riproporranno piuttosto la figura d'un Tolstoj.  I laici invece accuseranno
il pensatore perugino di aver messo troppa religione nella sua teoria della
nonviolenza; di non aver dunque elaborato una teoria politica pura,
universalmente condivisibile, autosufficiente. Pietro Pinna, ad esempio, si
e' preoccupato di assicurare che la teoria nonviolenta di Capitini e'
autosufficiente, puo' stare senza la sua concezione religiosa, da Pinna
definita "sconcertante" e "paradossale" (19). Matteo Soccio ha osservato che
la nonviolenza di Capitini e' "profondamente pervasa di spiritualita' e
fortemente caratterizzata da una metafisica (la realta' di tutti, la
compresenza) bisognosa continuamente di decifrazione perche' il linguaggio
e' difficile per chi 'non crede'" (20). Piu' recentemente, Enzo Marzo
scrive: "Un'eccessiva esaltazione dell''uomo religioso' rispetto al
'cittadino', il far passare concetti che sono e devono essere politici
attraverso la cruna della religiosita', per quanto venata di laicita' e
distinta dalla fede, hanno opacizzato la forza dirompente di valori sempre
piu' necessari per una pacifica convivenza" (21).
Si tratta, in sostanza, del riproporsi di quei recinti ideologici che
Capitini ha combattuto per tutta la vita. Capitini e' stato un pensatore di
frontiera: la sua grande capacita' e' stata quella di cogliere con uno
sguardo generoso le grandi correnti ideologiche del nostro tempo, e di
comprendere che la salvezza e' nell'incontro di pensiero laico ed anelito
religioso, di passione per l'assoluto e di azione nel contingente.
Che la filosofia di Capitini debba essere "continuamente decifrata" e'
osservazione poco condivisibile. Sicuramente la piu' piena comprensione del
significato della compresenza capitiniana, del suo valore, del suo posto nel
pensiero contemporaneo e' una impresa non semplice anche per gli studiosi.
Ma Capitini sa anche semplificarsi, ridurre le sue idee ai termini
essenziali, sa trovare il giusto tono colloquiale per avvicinare anche il
lettore piu' distratto: in nessun caso chiede di "credere" in un corpo di
verita' gia' costituito; mostra piuttosto costantemente il percorso
attraverso il quale e' giunto alle sue convinzioni, ed aiuta il lettore a
compiere un medesimo percorso, lo guida alla riscoperta della propria
interiorita' e della propria esperienza intersoggettiva. La bellezza delle
pagine capitiniane e' anche qui, in questo tono fraterno, cosi' raro nella
filosofia contemporanea.
Quella di Capitini non e' una metafisica astratta, ma una metafisica
pratica: la sua "decifrazione" e' possibile a chiunque, attraverso la prassi
della nonviolenza. Non si tratta, quindi, di far dipendere la nonviolenza da
dogmi, da idee avulse dall'esperienza, da tradizioni non criticate, da una
fede gia' costituita. Si tratta invece di comprendere fino in fondo il
significato del "non uccidere". Da dove viene questa scelta? E dove va?
Quale realta' condanno scegliendo di non uccidere? E verso quale realta' mi
muovo? Questi interrogativi vogliono approfondire la logica della
nonviolenza, e la risposta che Capitini da' ad essi e' un tentativo di
decifrazione della stessa nonviolenza.
Senza questi interrogativi la nonviolenza rischia di ridursi a poca, misera
cosa. Condivido la preoccupazione di Rocco Altieri: la preoccupazione,
cioe', che senza riferimento religioso la stessa politica nonviolenta possa
diventare "senz'anima e senza scrupoli" (22). Si possono, si devono
discutere le risposte che Capitini ha dato a quegli interrogativi, ma
sarebbe un grave errore metterli da parte come superflui e fuorvianti.
Se la nonviolenza e' la forza della verita' (satyagraha), il nonviolento
dev'essere un cercatore di verita'. Aldo Capitini ha cercato la verita'
nella sua interiorita' e nella relazione con gli altri. Ha scoperto alcune
cose molto interessanti, e poiche' gli sembrava che queste cose potessero
dare senso ad una intera vita, ha parlato di religione. Avrebbe potuto
parlare di spiritualita', non sarebbe cambiato nulla. Per trent'anni ha
seguito il suo discorso di verita': ed e' un discorso limpido, lineare, che
ognuno puo' verificare da se', ripercorrendo il suo percorso, ponendosi le
stesse domande, cercando se necessario soluzioni diverse.

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PIETRO POLITO: L'IDEA DI OMNICRAZIA NEL PENSIERO DI ALDO
CAPITINI
[Dal sito dell'Associazione nazionale Amici di Aldo Capitini
(www.aldocapitini.it) riprendiamo il seguente testo di Pietro Polito,
presentato come relazione a un convegno su "La figura e l'opera di Aldo
Capitini" svoltosi a Pisa nel 1997, e poi pubblicato nella prestigiosa
rivista fondata da Piero Calamandrei "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre
1998, alle pp. 125-143 (segnaliamo che una versione rivista e' poi divenuta
il capitolo V, "Per una critica dell'idea di omnicrazia", alle pp. 123-145
del bel volume di Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta
2001).
Pietro Polito (Forio d'Ischia, 1956), ricercatore al Centro studi Piero
Gobetti e all'Universita' di Torino, fa parte della redazione di "Teoria
Politica" e collabora con varie riviste, tra cui "Mezzosecolo" e "Nuova
Antologia"; ha pubblicato numerosi saggi sul pensiero politico novecentesco,
con particolare riguardo agli autori democratici, radicali e pacifisti del
Novecento italiano, ed ha curato diverse opere di Norberto Bobbio. Tra le
opere di Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta 2001.
Aldo Capitini e' nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato,
docente universitario, infaticabile promotore di iniziative per la
nonviolenza e la pace. E' morto a Perugia nel 1968. E' stato il piu' grande
pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo Capitini:
la miglior antologia degli scritti e' (a cura di Giovanni Cacioppo e vari co
llaboratori), Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977 (che
contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoche' integrale -
ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche dell'epoca -
bibliografia degli scritti di Capitini); recentemente e' stato ripubblicato
il saggio Le tecniche della nonviolenza, Linea d'ombra, Milano 1989; una
raccolta di scritti autobiografici, Opposizione e liberazione, Linea
d'ombra, Milano 1991, nuova edizione presso L'ancora del Mediterraneo,
Napoli 2003; e gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996;
segnaliamo anche Nonviolenza dopo la tempesta. Carteggio con Sara Melauri,
Edizioni Associate, Roma 1991; e la recentissima antologia degli scritti (a
cura di Mario Martini, benemerito degli studi capitiniani) Le ragioni della
nonviolenza, Edizioni Ets, Pisa 2004. Presso la redazione di "Azione
nonviolenta" (e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org)
sono disponibili e possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di
Capitini non piu' reperibili in libreria (tra cui i fondamentali Elementi di
un'esperienza religiosa, 1937, e Il potere di tutti, 1969). Negli anni '90
e' iniziata la pubblicazione di una edizione di opere scelte: sono fin qui
apparsi un volume di Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, e un
volume di Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1994, seconda edizione
ampliata, Fondazione centro studi Aldo Capitini, Perugia 1998. Opere su Aldo
Capitini: oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il
messaggio di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda almeno:
Giacomo Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Clara Cutini (a cura di),
Uno schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988;
Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di
Fiesole (Fi) 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini.
Tra religione ed etica laica, Clueb, Bologna 1991; Fondazione "Centro studi
Aldo Capitini", Elementi dell'esperienza religiosa contemporanea, La Nuova
Italia, Scandicci (Fi) 1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per
una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini,
Pisa 1998, 2003; AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume
monografico de "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante,
La realta' liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del
Rosone, Foggia 1999; Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta
2001; Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini,
Cittadella, Assisi 2004; cfr. anche il capitolo dedicato a Capitini in
Angelo d'Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001;
per una bibliografia della critica cfr. per un avvio il libro di Pietro
Polito citato; numerosi utilissimi materiali di e su Aldo Capitini sono nel
sito dell'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini:
www.aldocapitini.it, altri materiali nel sito www.cosinrete.it; una assai
utile mostra e un altrettanto utile dvd su Aldo Capitini possono essere
richiesti scrivendo a Luciano Capitini: capitps@libero.it, o anche a
Lanfranco Mencaroni: l.mencaroni@libero.it, o anche al Movimento
Nonviolento: tel. 0458009803, e-mail: azionenonviolenta@sis.it]

Si puo' guardare all'idea di omnicrazia, che e' un'idea prevalentemente
politica, da piu' punti di vista. In primo luogo, distinguendo la parola dal
concetto, si tratta di chiarire l'origine e il significato della parola e,
poi, senza alcuna pretesa di completezza, seguire il rilievo progressivo che
il tema viene assumendo nel pensiero e nell'azione di Aldo Capitini, che a
poco a poco giunge a porre l'omnicrazia al centro sia dei suoi impegni
politici sia della sua proposta filosofico-religioso-politica. Nel pensiero
di Capitini, infatti, la tematica politica si trova strettamente connessa
con quella filosofica e religiosa al punto che si puo' scorgere quasi una
corrispondenza tra i concetti impiegati nell'una o nell'altra (1). Pertanto,
passando dalla parola al concetto, la critica politica non puo' non essere
preceduta e accompagnata da una critica volta a definire il fondamento
filosofico e religioso dell'omnicrazia. Quanto alla critica politica, il
problema e' quello di individuare il posto che l'omnicrazia occupa tra le
idee politiche novecentesche: si tratta, cioe', di chiarire i lineamenti di
una posizione che lo stesso Capitini in un inedito del '64 presenta come
"una teoria politica che chiamerei piu' che democratica, 'omnicratica', in
vista dell'effettivo potere di tutti su tutto" (2).
*
La parola e il concetto
Etimologicamente omnicrazia significa "potere" (dal greco: kratos) di
"tutti" (dal latino: omnis, omne). Si tratta di una parola inconsueta
perche' e' composta di due elementi: omni (variante, oggi rara, di onni),
che e' il primo elemento di parole composte di origine latina o di
formazione moderna (onnipotente, onnisciente); crazia, che, invece, e' il
secondo elemento di parole composte derivate dal greco o formate
modernamente (democrazia, aristocrazia, plutocrazia). A differenza di
democrazia, la parola omnicrazia non e' entrata nel linguaggio politico e
tanto meno nel linguaggio comune. Non la si incontra nei dizionari di
politica e nemmeno nei dizionari della lingua italiana (3). Con una sola
eccezione: il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore
Battaglia, che segnala sia l'aggettivo onnicratico sia il sostantivo
omnicrazia. Battaglia presenta l'omnicrazia come una "voce dotta", di cui
da' l'etimologia e informa che si tratta di un neologismo, che, "secondo il
pensiero di Aldo Capitini", significa "partecipazione di tutti al potere e
allo Stato" (4).
Sulla base delle notizie fin qui raccolte, si puo' affermare che la storia
della parola comincia con Capitini. Ma quando la parola e il concetto
cominciano a entrare nel suo pensiero e linguaggio politico? In quali
contesti ricorre l'espressione omnicrazia? e' un tema degli anni piu' tardi
oppure se ne trovano tracce gia' in precedenza?
Per rispondere a queste domande puo' essere utile un rapido excursus sulla
parola omnicrazia, e su quelle derivate, omnicratico, omnicraticamente, nei
principali scritti di Capitini. Senza dubbio si puo' dire che il tema
dell'omnicrazia diventa dominante nell'ultimo periodo. Infatti, salvo
errore, la parola non compare negli scritti degli anni Trenta e Quaranta.
Per la prima volta la s'incontra nella Lettera di religione 32, che reca la
data del 25 gennaio 1956 (5), in cui Capitini risponde alle critiche mosse
da "un mio amico" al libro Religione aperta, uscito quell'anno. La tesi
sostenuta da "un mio amico" e' che il socialismo e' una teoria
autosufficiente che non abbisogna di alcuna aggiunta religiosa e che,
inoltre, secondo "un mio amico" ma contrariamente a quanto pensava Capitini,
era in corso di attuazione nei cosiddetti "paesi socialisti" (6).
Nella risposta Capitini ribadisce che, per lui, "la sintesi fra i tre
elementi: socialismo, liberalismo, nuova vita religiosa, e' stata sempre
viva", perche', a suo giudizio, non basta "affidarsi a un riformismo di tipo
socialdemocratico": "al riformismo di questo genere - osserva - faccio le
obbiezioni che il socialismo e' visto, nel campo nazionale o internazionale,
in modo insufficiente; che vi manca un fondamento religioso di realta' di
tutti" (7). Di qui - da tale insufficienza - l'esigenza di un ideale
politico, che poggiasse su un fondamento religioso: "nel mio pensiero (ho
detto: omnicrazia) e' l'uomo religioso, post-umanistico, che vuole vivere
unito con tutti nella massima solidarieta', anche al di la' della morte, e
percio' tende a costituire una societa' nuova in una realta' che abbia
consumato tutti i vecchi limiti, compresi il dolore e la morte (realta'
liberata); questa e' la sua apertura" (8).
Capitini ricorda che egli aveva gia' svolto in precedenza una critica
religiosa del socialismo nei libri: Elementi di una esperienza religiosa
(1937); La realta' di tutti (1948); Nuova socialita' e riforma religiosa
(1949). Ma, come si e' gia' detto, l'espressione omnicrazia non ricorre
negli scritti di questo periodo. Cio', naturalmente, non significa che il
tema e il concetto non siano gia' presenti nella sua riflessione. Esiste,
infatti, come vedremo meglio in seguito, uno stretto nesso tra il
liberalsocialismo sostenuto durante la lotta antifascista e la Resistenza e
l'ideale dell'omnicrazia. Sul piano linguistico, e' da osservare che in
Nuova socialita' e riforma religiosa, che raccoglie gli scritti politici
liberalsocialistici di Capitini, inserito in un contesto religioso e
sociale, s'incontra l'aggettivo omnicratico. Nel capitolo "Una dimensione
religiosa per la riforma in Italia" Capitini presenta l'"amore" e la
"realta' di tutti" come gli strumenti di liberazione della rivoluzione
religiosa, "i quali hanno il potere di tramutare l'uomo e la sua sostanza"
(9) e indica due "forme di lavoro in questa direzione": l'una consiste
nell'"operare per azioni politico-sociali di decentramento omnicratico dei
potere"; l'altra nel "celebrare religiosamente da se' o in gruppo, in
appositi momenti di raccoglimento o di riunione, questo capovolgimento che
sta avvenendo mediante i valori e l'uso degli strumenti di liberazione"
(10).
Quanto agli anni Cinquanta, oltre che nella gia' ricordata Lettera di
religione 32, nel 1958 Capitini ricorre alla parola "omnicrazia" per
distinguere la sua posizione da quelle genericamente democratiche. Sembra
avere qualche dubbio riguardo all'uso del termine. Tuttavia, rispondendo a
un'inchiesta di "Milano Sera" a proposito di "Democrazia e classe
dirigente", osserva: "Se fosse possibile, a evitare gli equivoci delle
imperfettissime democrazie finora attuate, sostituirei la non bella parola
di omnicrazia" (11).
Ma e' negli anni Sessanta - quando il tema acquista un rilievo centrale nel
pensiero e nell'azione di Capitini - che espressioni come omnicrazia,
omnicratico, omnicraticamente diventano frequenti soprattutto nei suoi
scritti politici e autobiografici ma, come vedremo, il tema ricorre anche
negli scritti filosofici e religiosi. I primi riferimenti s'incontrano nelle
Lettere di religione 54 e 55: nell'una (15 agosto 1963) l'omnicrazia viene
presentata come il fine della rivoluzione nonviolenta (12), nell'altra e'
associata alla prospettiva di una "riforma 'omnicratica'" (13).
La prima ampia riflessione sull'omnicrazia e' costituita dall'inedito Teoria
politica e struttura sociale dell'omnicrazia, ricordato all'inizio (14). E'
importante richiamare l'attenzione sulla data in calce al manoscritto: 10
gennaio 1964. Per Capitini, infatti, il 1964 e' un anno significativo dal
punto di vista dell'impegno politico diretto. Il lavoro avviato nel 1952 a
Perugia col Centro di coordinamento internazionale della nonviolenza e
soprattutto la famosa Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli
(Perugia-Assisi, 24 settembre 1961) cominciano a dare i loro frutti. Il 1964
e' l'anno in cui fonda "Azione nonviolenta", l'organo dei Movimento
nonviolento fondato nel '61, ed e' anche l'anno in cui inizia le
pubblicazioni il foglio mensile "Il potere e' di tutti". A partire gia' dal
titolo, l'inedito del 1964 rappresenta una significativa anticipazione della
sua opera piu' importante sull'argomento, Omnicrazia, compresa nel volume Il
potere di tutti, uscito postumo nel 1969, in cui Capitini "approfondisce la
ricerca sistematica del nesso omnicrazia, realta' di tutti, compresenza,
nonviolenza" (15).
Negli anni che lo separano dalla morte, avvenuta il 19 ottobre 1968, il
problema dominante dei suoi scritti diventa il problema dei potere.
L'omnicrazia, il potere di tutti, appunto, e' la risposta che Capitini da'
al problema del potere, ritenuto "il problema dei nostro tempo".
Alla luce di quanto abbiamo appena detto si spiega e si comprende, dunque,
perche' Capitini pone il tema dell'omnicrazia al centro dei suo interesse
per la politica.
A suo modo, egli e' stato un uomo politico anche se non un politico di
professione. Instancabile suscitatore, animatore, organizzatore,
protagonista di decine e decine di azioni, individuali e collettive, piu'
che un politico fu un uomo d'azione. Per lui agire politicamente significava
agire socialmente (e l'accento e' da porre piu' sul sociale che non sul
politico). Nel principale dei suoi scritti autobiografici, Attraverso due
terzi di secolo (16) - composto a pochi mesi dalla morte e uscito postumo
nel 1968 ne "La cultura", la rivista diretta da Guido Calogero -, scrive:
"Ma un campo, ancor piu' strettamente connesso con la profezia e
l'apostolato religioso, e' quello della trasformazione della societa', per
cui, rifiutando ogni carica offertami nel campo politico, ho piegato la
politica, e l'interesse in me fortissimo per essa, alla fondazione di un
lavoro per la democrazia diretta, per il potere di tutti o omnicrazia (come
la chiamo)" (17).
Ai fini del nostro discorso mi sembra rilevante sottolineare come nell'idea
di omnicrazia giungano a unita' i principali impegni politici di Capitini.
Si puo' scorgere una linea di continuita' tra le prime iniziative subito
dopo la Liberazione a Perugia nel 1944 e le ultime avviate nel nuovo clima
di rinnovamento che col Sessantotto scuote anche l'Italia; tra le
discussioni che avevano luogo nel Centro di orientamento sociale (18), e
quelle promosse dal foglio mensile, "Il potere e' di tutti", che, come si e'
gia' detto (sono parole di Capitini), "propugna la democrazia diretta (o
omnicrazia come la chiamo)" (19). "Il lavoro per i Cos, per il pacifismo
integrale, per la proprieta' pubblica aperta a tutti e creante continue
eguaglianze - scrive in Attraverso due terzi di secolo -, non sono che
effettuazioni dell'interesse per l'omnicrazia" (20).
*
Il fondamento filosofico e religioso dell'omnicrazia
Un'efficace sintesi del nesso che lega strettamente piano filosofico, piano
religioso, piano politico nel pensiero di Capitini ci e' stata data da
Norberto Bobbio. "Il concetto filosofico della realta' di tutti, trasferito
sul piano della riflessione politica - scrive Bobbio -, diventa l'ideale
della societa' di tutti, cioe' di una societa' completamente
de-istituzionalizzata. Al tema religioso della compresenza corrisponde sul
piano politico il tema dell'omnicrazia, che e' una risposta ulteriore e piu'
radicale all'esigenza posta ma non risolta dalla democrazia (sia
rappresentativa sia diretta)" (21). D'altra parte lo stesso Capitini pone
l'omnicrazia al centro, oltre che, come si e' visto, dei suoi impegni
politici, della sua proposta filosofico-religioso-politica: "Il tema
[dell'omnicrazia] si riconduce [...] a quella riforma che io propugno in
nome dello sviluppo della 'realta' di tutti'" (22).
Forse bisognera' dedicare una maggiore attenzione a un'espressione
ricorrente in modo quasi ossessivo nel singolarissimo linguaggio di
Capitini. Mi riferisco alla parola "tutti", che ritroviamo in alcune formule
come "realta' di tutti", "societa' di tutti", "democrazia di tutti", "potere
di tutti". Nel paragrafo intitolato La realta' di tutti, che non a caso apre
il saggio Omnicrazia, scrive: "Una volta si e' parlato tanto di Dio, oggi si
parla sempre piu' di 'tutti'. L'idea di 'tutti' e' servita per aprire
riforme religiose e rivoluzioni politiche e sociali" (23).
Altrove, riferendosi al periodo dell'opposizione al fascismo, Capitini
ricorda che "questa idea di 'tutti' mi prese sempre piu'" (24) e la presenta
come la "direzione" di ricerca che gli consenti' di andare oltre Croce, il
quale - osserva in Antifascismo tra i giovani - "restava estraneo alla
direzione dei mio lavoro, di capovolgere l'esistenzialismo dall'io al tu e
di intendere la compresenza di tutti alla produzione dei valori: egli vedeva
il Tutto incombere in ogni punto della storia, non i Tutti; era piu'
preparato a capire Dio che i Tutti, come religiosamente permanenti e
compresenti" (25).
Schematicamente possiamo dire che la considerazione filosofica dei tutti si
esprime nella realta' di tutti, la considerazione religiosa nella
compresenza, quella politica nell'omnicrazia. I tre modi di considerare i
tutti - filosofico, religioso, politico - si configurano come diversi
aspetti di una analoga sfida: "l'apertura a una realta' di tutti, liberata
dalla finitezza, il cui superamento e', si', gia' nella coscienza
appassionata della finitezza stessa, ma procede e sbocca escatologicamente
in una realta' di tutti, dove anche il malato, lo sfinito, il morto sono
compresenti e cooperanti con noi nella produzione dei valori piu' alti"
(26).
Sul piano piu' strettamente filosofico, in La compresenza dei morti e dei
viventi, l'omnicrazia e' intesa come una reazione contro "l'oligarchia della
ragione": "Quando si sia accettato, sul fondamento della prassi religiosa
dell'apertura a tutti, che la ragione meglio detta compresenza, si estende a
tutti, e tutti gli esseri fa partecipi del piu' alto, che e' la cooperazione
eterna ai valori, e' evidente che cessa ogni motivo per cui debba esserci
una rivolta di cio' che e' bollato per irragionevole contro cio' che presume
se' ragionevole, perche' la ragione e' riconosciuta come trovantesi, pur
invisibile e non pienamente consapevole, in tutti, e allora il moto non e'
piu' di rivolta contro un'oligarchia, essendosi stabilita, invece,
un'omnicrazia, per cui il moto e' interno, di diventare sempre piu'
consapevoli della cooperazione ragionevole della compresenza" (27).
Come si e' detto, il problema filosofico della realta' di tutti corrisponde
al problema religioso della compresenza: "Insomma, era il problema religioso
di trovare un posto per il malato, l'esaurito, colui che la civilta'
attivistica butta via come inutile ormai e improduttivo; e il posto e' nella
compresenza dei viventi e dei morti dove anche lo sfinito intimamente mette
la sua parte preziosa" (28). E, a sua volta, il problema religioso della
compresenza corrisponde al problema politico dell'omnicrazia. Scrive
Capitini in Attraverso due terzi di secolo: "Per me [l'interesse per
l'omnicrazia] e' intrinsecamente connesso con la religione che, per me, e'
piu' della compresenza che di Dio; e percio' la compresenza di tutti
(religiosamente dei viventi e dei morti) deve continuamente realizzarsi
[...] nell'omnicrazia, e chi e' centro della compresenza, e' centro anche di
omnicrazia; ed e' [l'interesse per l'omnicrazia] intrinsecamente connesso
con la nonviolenza, di cui e' l'idea politico-sociale" (29).
Il nesso tra il piano filosofico-religioso e quello politico emerge con
chiarezza da quella sintesi della teoria della compresenza che Capitini ci
offre in Educazione aperta. Mi limito a ricordare il brano fondamentale: "La
metafisica dell'Uno puo' generare l'autoritarismo; la metafisica della
compresenza genera la democrazia anzi l'omnicrazia (potere di tutti)" (30).
Giustamente Fabrizio Truini ha osservato che, per Capitini, "l'omnicrazia e'
basata sulla teoria della compresenza e mira a superare sul piano politico
le conseguenze sia della concezione hegeliana sia di quella marxista, che
dominano il mondo" (31). Agli occhi di Capitini, il pensiero di Hegel e
quello di Marx sono le due piu' grandi espressioni storiche della
"metafisica dell'uno": lo Stato etico (Hegel), la Classe onnipotente (Marx):
"La soluzione dell'omnicrazia e' diversa dall'una e dall'altra. Pone come
superiore al mondo degli interessi particolari la compresenza, che e' la
realta' di tutti e dei valori in un infinito accrescimento, e promuove non i
modi della guerra e dell'autoritarismo dall'alto, ma i modi della
nonviolenza e della permanente valorizzazione dal basso come assemblea e
produzione dei valori" (32).
*
L'idea di omnicrazia
Passiamo ora a esaminare il posto che l'omnicrazia occupa tra le idee
politiche novecentesche. In estrema sintesi si puo' dire che l'omnicrazia,
da un lato, si oppone alle idee politiche che nel corso dei Novecento si
sono risolte storicamente in una ipostatizzazione dei potere: specie il
fascismo e il nazismo, ma anche il comunismo; dall'altro - direbbe
Capitini -, si aggiunge nel solco delle idee politiche - liberalismo,
democrazia, socialismo - che, al contrario, possono essere interpretate come
le tappe storiche progressive di un processo di allargamento dei potere a
tutti.
In primo luogo, quindi, la critica politica omnicratica si esprime nella
critica del potere. Negli scritti di Capitini la critica negativa prevale
sulla critica positiva del potere. I lineamenti istituzionali del "potere di
tutti" restano alquanto imprecisati (tornero' su questo punto nelle
conclusioni). Mentre impareggiabile per continuita' ed efficacia si rivela
la critica negativa del "potere che viene dall'alto" in ogni sua forma.
Gli strali piu' ricorrenti della polemica capitiniana riguardano, da un
lato, la Chiesa cattolica, dall'altro, lo Stato. La polemica contro il
potere religioso e' rivolta contro il Dio-potenza in nome del Dio di tutti
della religione aperta; la polemica contro il potere politico e' rivolta
contro lo Stato-potenza in nome dei potere di tutti. Ha scritto Bobbio: "Vi
e' un Dio-potenza delle religioni tradizionali e uno stato potenza delle
societa' storiche, anche di quelle piu' avanzate, che e' il vero idolo da
abbattere. Dio e stato secondo Capitini debbono essere di tutti" (33).
Le societa' storicamente piu' avanzate sono le societa' democratiche, che,
pero', anch'esse non si sono liberate completamente della presenza dello
Stato-potenza. Il capitolo piu' importante della critica politica
dell'omnicrazia riguarda il rapporto tra la democrazia e il potere di tutti.
Ma la critica che Capitini conduce della democrazia non va confusa con la
critica degli scrittori conservatori in nome di un senso piu' profondo
dell'unita' sociale, o degli scrittori reazionari che ai "vizi" della
democrazia preferiscono una presunta bonta' delle dittature. Anzi, per
Capitini, l'omnicrazia e' l'esatta antitesi della dittatura in quanto
rappresenta contemporaneamente un'affermazione, integrazione e sviluppo
della democrazia.
La posizione di Capitini emerge chiaramente dal giudizio sull'esperienza
storica del fascismo. Nel saggio Apertura e dialogo (1963), egli descrive
l'"apertura all'omnicrazia contro il fascismo" come la prima di una serie di
aperture che attraverso l'"apertura contro stati di incivilta'" e
l'"apertura ai singoli tu", si conclude nell'"apertura alla realta' di
tutti" (34). Per Capitini, storicamente il fascismo ha rappresentato l'inter
ruzione violenta del processo di formazione di una democrazia "sana",
"cioe', aperta internamente a tutti": "Tale democrazia in Italia era
lentamente in formazione avanti al fascismo, ma non affatto sicura. Nel suo
urto contro il fascismo, violento senza il potere e violento con il potere,
si disfece, ma ebbe il tempo di dare alcune figure di eroi, o vittime che
assumevano cosi' la sofferenza, la testimonianza. Qualche italiano si
accorse di questo; la democrazia moriva bene, e morir bene, vuol dire
rinascere" (35).
Quando si riferisce alla sua idea di democrazia, Capitini e' attento sempre
a specificare: democrazia di tutti, per distinguerla dalla sua degenerazione
che chiama: democrazia di amministrazione (36). Contrariamente a quanto
riteneva, per esempio, Croce, al fascismo, secondo Capitini, avrebbe dovuto
succedere la prima e non la seconda: "Il Croce - si legge in Antifascismo
tra i giovani - disse che il liberalsocialismo non era altro che il
socialismo democratico e non si rese conto della differenza, nel suo fondo,
del punto a cui volevano arrivare alcuni di noi, e che non era il semplice
risuscitamento degli strumenti della democrazia parlamentare, insieme con
riforme 'sociali'" (37).
Gia' negli anni Trenta e Quaranta, quindi, nella concezione di Capitini,
scopo del liberalsocialismo non era il semplice ritorno alle condizioni
preesistenti al fascismo bensi' una trasformazione radicale, da lui
riassunta nella formula democrazia di tutti: "Nel regime fascista [...] vidi
la chiusura nei riguardi dell'autonomia della coscienza, della possibilita'
di strutture socialistiche della democrazia di tutti. [...] Ora venivo
costruendo il mio liberalsocialismo [...]. Qui 'apertura' significava
sostituzione, alla dittatura, di strutture socialistiche al servizio della
maggiore liberta' dell'individuo e del suo sviluppo nella permanente
liberta' di informazione e di critica; l'autonomia della coscienza
concretata in forme di autogoverno; una costante e ampliantesi democrazia di
tutti" (38).
L'ispirazione primigenia del liberalsocialismo torna nella considerazione
dei rapporti tra democrazia e omnicrazia. Come si e' gia' detto, Capitini si
considera un teorico dell'omnicrazia piu' che della democrazia. E' evidente
che quella tra democrazia e omnicrazia non e' solo una differenza di
carattere linguistico. Con l'idea di omnicrazia Capitini vuole rimandare
chiaramente a un altro ideale di societa' - il potere di tutti -, che non si
e' inverato storicamente nelle democrazie attuali. E' vero che storicamente
la societa' democratica ha rappresentato il superamento delle societa'
militari e religiose. Infatti, se il valore che ispirava le societa'
militari e' "l'obbedienza pronta e cieca"; quello che ispira le societa'
religiose e' "la formazione della fede", il valore della democrazia e' "lo
spirito critico": "Una societa' democratica - scrive Capitini - che stia
immobile, si corrompe e si muta: essa ha bisogno di rinnovarsi continuamente
dal di dentro; la sua salute sta nel movimento, e il movimento e' impresso
dal libero giuoco delle proposte riformatrici" (39).
Per questa sua caratteristica, lo abbiamo gia' accennato, la democrazia puo'
essere considerata come la tappa storica piu' prossima all'avvento di una
societa' omnicratica. "Lo sviluppo della democrazia, - scrive in Il potere
di tutti - in quanto cerca di allargare il potere al maggior numero
possibile di individui, superando le difficolta' conseguenti alle diversita'
di razza, di classe sociale, di ricchezza, di coltura, tende al potere di
tutti ma non lo raggiunge effettivamente" (40).
Tra le due forme di societa' non c'e' contrasto, nel senso che la democrazia
puo' avvicinare e preparare l'omnicrazia, mentre l'omnicrazia e' lo
svolgimento e l'inveramento della democrazia. In poche parole: l'omnicrazia
viene, verra', dopo la democrazia (41).
*
Dalla democrazia al "potere di tutti"
A un certo punto della sua vita, - nell'inedito del '64 Teoria politica e
struttura sociale dell'omnicrazia - Capitini lascia trapelare la convinzione
che stia sopraggiungendo "un momento storico" in cui attraverso un'azione
riformatrice consapevole sarebbe diventato possibile influire sulle
strutture politiche e sociali contemporanee in vista dell'effettivo potere
di tutti su tutto. Ma come? Capitini avanza quattro proposte riformatrici
che caratterizzano l'omnicrazia intesa come una "teoria politico-religiosa
che fonda nella 'comunita' aperta' questa sintesi di compresenza e di
centro" (42). Si tratta di quattro proposte che si aggiungono alla
democrazia.
Le prime tre aggiunte in senso lato possono essere considerate di carattere
istituzionale.
La prima aggiunta e' diretta allo sviluppo di una sempre maggiore estensione
del controllo dal basso. Dopo avere ricordato ancora una volta l'esperienza
dei Centri di orientamento sociale, Capitini scrive: "Sono tornato da allora
piu' volte a proporre la costituzione di decine di migliaia di centri
sociali per l'esame pubblico dei problemi con periodiche riunioni, come
preparazione e attuazione del controllo dal basso" (43). li suo
atteggiamento verso l'istituto parlamentare non va confuso col generico
antiparlamentarismo che in diverse situazioni storiche accomuna l'estrema
sinistra all'estrema destra. Per Capitini si tratta di andare oltre la
democrazia parlamentare, conservandone gli istituti che la
contraddistinguono, a cominciare da quella istituzione fondamentale della
democrazia che e' il parlamento: "Non sono d'accordo - scrive nel saggio
Omnicrazia - con i distruttori del sistema rappresentativo che le democrazie
occidentali hanno costruito; ma ne vedo i limiti. Bisogna - continua - esser
vissuti sotto una dittatura per capire che il libero funzionamento della
rappresentanza parlamentare e' qualche cosa di positivo [...] Non accetto la
frase del 'cretinismo parlamentare'" (44).
Pur ribadendo l'utilita' del parlamento, Capitini ne vede i limiti. Quali?
Un primo limite e' che la lotta politica in parlamento e' piu' facilmente
influenzabile "da parte di interessi particolari e settari". Un altro limite
e' che attraverso il parlamento si privilegia la formazione delle "persone
colte" che "hanno altri modi per esercitate una qualche influenza pubblica"
piu' che l'"educazione critica delle moltitudini popolari, quelle a cui
bisognerebbe tenere di piu'" (45).
Ma il limite principale e' che il parlamento, che pure e' dal basso per la
sua derivazione dall'elezione, "rischia di diventare "dall'alto", cioe'
dalla capitale, da un cerchio di conoscenze speciali e di interessi
riservati a pochi". Di qui l'esigenza "che esso ha bisogno di essere
integrato da moltissimi centri sociali, assemblee deliberanti o consultive
in tutta la periferia. Questa integrazione e' dal basso" (46). L'istituto
fondamentale dell'omnicrazia non e' il parlamento ma l'assemblea: "Il
principio che l'assemblea ha il potere - scrive - e' valido, perche' e' cio'
che assomiglia piu' di ogni altra cosa alla realta' di tutti che e' dal
basso e omnicomprensiva" (47).
La seconda proposta e' quella di aggiungere al metodo democratico il "valore
del metodo nonviolento". Manca un lavoro sulla teoria capitiniana della
nonviolenza che meriterebbe di essere oggetto di una indagine analitica e di
un lavoro a parte (48).
Per quanto riguarda il rapporto con l'omnicrazia, la nonviolenza viene
intesa da Capitini come un metodo piu' avanzato del metodo elettorale
perche', nel momento stesso in cui viene praticato, fa vivere l'esigenza
concreta del potere di tutti. A suo giudizio era ormai maturo il tempo per
cogliere il valore dei metodo nonviolento applicato a tutte le lotte: "Negli
ultimi decenni - osserva - usi cospicui di tale metodo sono state le lotte
per la liberazione dell'India e dei negri degli Stati Uniti. Le tecniche dei
metodo nonviolento insegnano il valore della collaborazione e della
noncollaborazione, del consenso e del dissenso, diffondendo a tutti i
cittadini la convinzione che si puo' sempre fare qualche cosa, e che si
debbono attuare larghe solidarieta', infondono in tutti i cittadini la
persuasione di possedere un potere di influenza, di controllo e di azione
sulla societa', e preparano percio' la trasformazione della societa' di
pochi in societa' di tutti" (49).
La terza aggiunta e' quella del "centro". La societa' omnicratica si
configura come una "comunita' aperta" (50), basata su "una struttura sociale
di tipo liberalsocialistico" in cui "acquista rilievo una posizione di
grandi conseguenze: la posizione del 'centro'" (51). E' stato ben detto che
l'utopia di Capitini e' lo "stato senza partiti". Alla critica dei limiti
dei parlamento, egli affianca una analoga critica dei limiti del partito,
che si rivela uno strumento inadeguato di "lavoro per la societa' di tutti".
In Nuova modalita' e riforma religiosa si legge: "I partiti esistono per il
'potere', per acquistarlo o per sostenerlo. Da cio' la loro ragione d'essere
e tutti i loro limiti, il machiavellismo, la disciplina interna, le gelosie,
il settarismo, il patriottismo di partito. La conquista del potere e'
l'assoluto per il partito. Il partito e' il mezzo e il potere e' il fine. Ma
qui sorgono gravi difficolta'. Puo' il mezzo essere diverso dal fine?" (52).
Con l'espressione "nuova socialita'" Capitini intende che "la partecipazione
dei cittadini alla discussione e alla decisione dei problemi collettivi sia
tanto intensa da non rendere necessaria l'intermediazione dei gruppi
organizzati": se il fine della politica non e' il potere ma la "nuova
socialita'" la forma della partecipazione non e' il partito ma il "centro",
"che e' non societario ma comunitario, non si schiera contro altri partiti,
ma si tiene aperto all'iniziativa di tutti, non impone dogmi ma discute
problemi, non conosce privilegi di tessera ne' poteri di funzionari" (53).
"Il centro - scrive Capitini - e' aperto al mondo circostante, non delimita
e chiude la sua azione, non registra cio' che riceve, va oltre gli iscritti,
gli iniziati, i battezzati, gli aderenti, i fruenti delle stesse idee o
degli stessi beni. Al posto della societa' circoscritta che esclude trova
posto il centro che da' e non sa piu' dove arriveranno le onde che partono
da esso" (54).
Vediamo ora la quarta aggiunta: l'aggiunta religiosa. Essa consiste nel
progressivo riconoscimento del nesso tra piano religioso e piano politico,
tra la compresenza e il problema politico e sociale, da cui scaturisce una
idea di comunita' "che - osserva Capitini - parra' insolita nelle
trattazioni giuridiche, politiche, sociali": "Della comunita' fanno parte
non soltanto i cittadini sani e attivi e producenti, ma anche i malati, gli
inerti, i disfatti e i morti. Possiamo essere aperti non soltanto ai
viventi, ma anche agli esseri prigionieri dei limiti del dolore e della
morte, ai crocifissi dalla realta' nella forma che essa ha attualmente; e
tale apertura a quel martirio, a quella testimonianza dell'insufficienza
della realta' attuale, fa accertare in noi una virtu' piu' profonda e
autentica, che e' quella della compresenza di tutti" (55).
Oltre ai limiti politici, per Capitini, la democrazia presenta dei limiti
religiosi. Tra l'omnicrazia e la democrazia egli intravede una differenza
fondamentale, qualitativa. Da una pagina del saggio Omnicrazia, dedicata al
problema dei potere, traggo un vero e proprio catalogo dei difetti, delle
possibili involuzioni della democrazia attuale. La democrazia - "nelle forme
finora realizzate - si vale di alcuni strumenti che possono non essere
accettati": 1. "attribuisce alla maggioranza un potere che qualche volta e'
eccessivo rispetto ai diritti delle minoranze"; 2. "fa guerre di Stato
contro Stato"; 3. "conferisce alle polizie il potere di torturate (come
avviene in tutti i paesi) e molte volte un soverchio intervento all'ordine
pubblico"; 4. "non e' sufficientemente aperta a cio' che potranno dare o
vorranno essere i giovanissimi e i posteri"; 5. "preferisce strumenti
coercitivi e repressivi a strumenti persuasivi ed educativi"; 6. "si lascia
sopraffare dalle burocrazie trascurando il servizio al pubblico anonimo"; 7.
"concentra il potere preferendo l'efficienza al controllo, e finisce col non
considerare sufficientemente i mezzi e le loro conseguenze, pur di
raggiungere un fine" (56). Ma, perche', in ultima istanza, la democrazia non
realizza effettivamente il potere di tutti? Ecco la risposta di Capitini:
"la democrazia conserva riferimenti al procedere della natura, l'omnicrazia
tende a essere sempre meglio attuatrice della compresenza. Per la democrazia
la vitalita', la forza, talvolta la costrizione, la rivoluzione e la guerra
o la guerriglia hanno il loro posto; per l'omnicrazia la compresenza si
presenta come valore costante e l'individuo unito alla compresenza ha una
'forza' maggiore di tutte le forze" (57).
E' una risposta che rivela la profonda ispirazione religiosa e non politica
del suo pensiero.
*
Una speranza
Non si puo' tacere l'indeterminatezza dell'omnicrazia dal punto di vista
istituzionale. Maurizio Griffo ha posto in evidenza la "sottovalutazione del
momento istituzionale" che condurrebbe Capitini, almeno dal punto di vista
pratico, a una marcata valutazione negativa delle istituzioni liberali: "e'
un fatto - continua Griffo - che a Capitini rimase estraneo il valore che lo
Stato di diritto e le istituzioni liberali, proprio nei loro aspetti
inerziali, possono avere". Se fu sempre molto sensibile all'importanza delle
concrete liberta' politiche, da quella di parola e di espressione a quella
di riunione, e al loro effettivo esercizio, tuttavia - osserva ancora
Griffo - Capitini "non vedeva il valore positivo del meccanismo
istituzionale e amministrativo che l'esercizio regolato di quelle liberta'
impone" (58). Forse e' una critica troppo severa, che ci sembra almeno in
parte smentita dalla polemica di Capitini contro "i distruttori dei sistema
rappresentativo". Ma e' vero che non e' sul terreno del meccanismi
istituzionali, delle regole dei gioco, delle norme fondamentali che sembra
porsi l'aspirazione a un potere di tutti: "quello che chiamava 'il potere di
tutti' - qui concordiamo con Griffo - resta un'esigenza intima da affermare
piu' che un articolarsi di procedure" (59).
Non a caso, infatti, piu' volte il pensiero di Capitini e' stato considerato
una profezia (60). Personalmente, nell'idea di un potere di tutti preferisco
scorgere piuttosto la prefigurazione di una speranza (61). Giova ripetere
ancora una volta che, per Capitini, il problema politico e'
indissolubilmente legato al problema etico-religioso. Il problema
dell'avvento di una societa' integralmente democratica - l'omnicrazia - e'
imprescindibile dal problema della formazione, nel linguaggio di Capitini,
della tramutazione, dell'uomo democratico, sic et simpliciter dell'uomo. La
"riforma omnicratica" mira a far nascere congiuntamente un "uomo nuovo" e
una "nuova societa'". Si spiega cosi' la centralita' dell'educazione, intesa
come informazione e formazione, acquisizione e produzione di problemi e di
valori, processo permanente e totale che coinvolge l'essere e tutti gli
esseri. Il luogo in cui questo progetto educativo si realizza e' il
"centro", che forma all'azione nonviolenta e prepara all'esercizio effettivo
del potere di tutti. Perche' cio' sia possibile il singolo come la societa'
devono farsi "centro", aprirsi alla trasformazione-rivoluzione della realta'
attuale, limitata, insufficiente, chiusa.
Nessuna trasformazione istituzionale sarebbe possibile se non e'
accompagnata da una rivoluzione interiore che trovi la propria origine nella
"coscienza produttrice dei valori". Piu' che come un progetto politico,
l'omnicrazia sembra configurarsi, ripeto, come una speranza, come un ideale
morale cui dovrebbero tendere gli uomini democratici. Particolarmente
significativa mi sembra la risposta di Capitini ai dubbi di una lettrice
circa il titolo della rivista, "il potere e' di tutti": "Il nostro titolo -
scrive Capitini - ha evidentemente un valore paradossale, o per meglio dire,
di realta' indubitabile [...] non ancora reale, ma che ispira seriamente il
nostro lavoro, e percio' possiamo dire in certo modo che e' [...] gia'
cominciata. Se dicessimo sia di tutti, sarebbe una specie di ordine; se
diciamo: e' di tutti, significhiamo una nostra persuasione su cui costruire"
(62).
Il saggio Omnicrazia e' percorso dalla contraddizione tra "un oggi
drammatico e un domani sperabile" e si conclude con la prefigurazione di
"una speranza" (63). Nell'idea di un potere di tutti e' racchiusa la
speranza, la persuasione, che l'uomo possa liberarsi dai "gruppi di
condizionamento" in cui si trova costretto: "lo Stato, l'Impresa, la Natura"
(64). Non e' un atto di fede. Direi, piuttosto, che il "potere di tutti"
puo' essere inteso e accolto come un ideale-limite, appunto, come una
speranza che potrebbe accomunare laici e religiosi.
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CINDY SHEEHAN: MATRIOTTISMO
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di
Cindy Sheehan. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq;
per tutto il mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch
in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di
parlargli per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua
figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio
movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro
Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel
sito www.koabooks.com]

Sebbene mi piacerebbe prendermi il merito di aver inventato la parola
"matriottismo", e' stata un'altra donna a fornirmi questo concetto in una
sua lettera. Ero cosi' affascinata da tale parola che ho riflettuto su un
possibile sistema di idee dietro di essa, su un nuovo paradigma per una vera
e duratura pace nel mondo.
Prima che io mi immerga nel concetto, esploriamo insieme la parola
"patriottismo". I dizionari lo definiscono come "amore per il paese e
volonta' di sacrificarsi per esso". Questo quando tutti sappiamo che
"patriottismo" negli Usa significa: sfruttare l'amore altrui per il paese
mandando gli altri e i loro figli a sacrificarsi fuori di esso, a beneficio
del bilancio della mia banca.
Sono stati scritti volumi e volumi sul patriottismo, sulle sue definizioni,
sul suo sostegno, sulla sfida all'intero concetto, eccetera. Io penso che la
nozione di patriottismo sia stata malvagiamente sfruttata, e usata per
guidare la nostra nazione in dozzine di guerre disastrose ed inutili.
L'idea di patriottismo ha virtualmente spazzato via intere generazioni dei
nostri preziosi giovani, ed ha permesso ai nostri leader nazionali di
commettere omicidi di massa su una scala che non ha precedenti. Il vile
sputo contenuto nella frase "se non sei con noi, sei contro di noi" e' in
pratica l'epitome del patriottismo senza freni. Dopo la tragedia dell'11
settembre, stavamo appena mettendo le piume di una societa' "matriottica",
quando i nostri governanti saltarono sul treno di una inappropriata e
mistificata vendetta, per mandare i nostri giovani a morire e uccidere in
due paesi che non erano una minaccia per gli Stati Uniti o per il nostro
modo di vivere.
I neocons hanno sfruttato il patriottismo per raggiungere i loro scopi:
imperialismo e saccheggio. Questo tipo di patriottismo comincia quando
andiamo all'asilo e ci viene insegnata la "Promessa solenne di lealta'" (un
impegno di obbedienza al governo da parte dei cittadini - ndt). Trascende
ogni ragionevolezza quando ci viene insegnato l'inno nazionale "Star
Spangled Banner", che e' un inno alla guerra. Nelle lezioni di storia si
sorvola sul genocidio dei nativi americani, mentre ci si narra la diffusione
dell'imperialismo americano sul nostro continente, sebbene ad esso non venga
dato nome sino al 1840, quando fu esposta la dottrina del "Destino
manifesto" per giustificare la conquista e la "civilizzazione" dei territori
messicani e delle popolazioni native. La dichiarazione del "Destino
manifesto" diceva di voler espandere "i confini della liberta'" sul
continente americano, con la presunzione che noi si avesse un avallo
speciale per questo da parte di Dio. Vi suona familiare?
Attraverso tutto il nostro percorso scolastico, i nostri cervelli vengono
lavati fino a farci credere che in qualche modo i nostri leader hanno sempre
ragione, e che certamente hanno a cuore i nostri migliori interessi quando
agitano la bandiera e ci convincono ad odiare i nostri simili, esseri umani
che si frappongono tra essi e gli immensi profitti della guerra. Come disse
Samuel Johnson, il patriottismo e' "l'ultimo rifugio dei mascalzoni".
*
Il "matriottismo" si situa all'opposto, non per distruggere, ma per portare
assieme lo yin e lo yang, e gettar fuori di bilancia il militarismo connesso
al patriottismo.
Non tutte le persone sono madri, ma c'e' una verita' universale che nessuno
puo' contestare, per quanto ci si metta (e credetemi, alcuni lo faranno), e
cioe' che tutti hanno una madre.
Le madri danno la vita e, se il bimbo e' fortunato, le madri nutrono la
vita. Se un uomo ha avuto una madre che ha nutrito la vita, allora ha gia'
una base di "matriottismo". Un matriota maschio o femmina ama il suo paese,
ma non al punto di dire "sto con il mio paese che abbia ragione o abbia
torto".
Un/una matriota sa che il suo paese puo' fare un mucchio di cose buone,
anche quando il governo non e' coinvolto in esse. Per esempio, non conosco
cittadini di altre nazioni che a livello personale siano generosi quanto gli
americani. Tuttavia, il matriota sa che il suo paese e' in torto nell'aver
ucciso migliaia e migliaia di innocenti esseri umani, e deve risponderne. Un
vero matriota non lancera' mai una bomba atomica, o bombe al fosforo bianco,
radendo al suolo citta' e villaggi, e non controllera' aeroplani a migliaia
di chilometri di distanza per uccidere uomini, donne e bimbi innocenti.
E la cosa piu' importante, la chiave per smettere di uccidere e risolvere i
problemi, e' che una matriota non mandera' mai, in qualunque caso, suo
figlio o il figlio di un'altra madre a combattere guerre insensate. Eppure
lottera' lei stessa, per proteggere suo figlio o sua figlia dal male.
Le ed i matrioti combattono le loro battaglie quando devono, ma non fanno
uso di violenza per risolvere i conflitti. I patrioti si nascondono
vigliaccamente dietro la bandiera e a cuor leggero mandano a morire la
gioventu' per riempire i loro conti in banca.
Le donne vennero a sciami a Camp Casey in agosto, per mettere mano alla
faccenda e lavorare per la pace, e donne da tutti gli stati americani e da
tutto il mondo mi hanno invitata a far loro visita ed a parlare in favore di
una vera e duratura pace. Gli uomini che riescono a toccare il proprio
"matriottismo" dentro se stessi sono egualmente importanti nello scopo di
sradicare la guerra.
*
Che siate un matriota maschio o femmina, sappiate che l'organizzazione Code
Pink, sostenuta da Gold Star Families for Peace, sta chiedendo un Giorno
internazionale di pace per il prossimo 8 marzo. Un giorno richiesto,
organizzato, sostenuto dalle donne. Donne ed uomini con tendenze
"matriottiche" possono avere maggiori informazioni al sito
www.womensaynotowar.org
E' bene venuto il tempo che noi matrioti ci si raduni per chiedere a voce
altissima la fine dell'immorale carneficina in Iraq. C'e' una cosa che so,
nel profondo del mio cuore. A mio figlio Casey, che era stato uno scout ed
un vero "patriota americano", la sua idea di patriottismo non ha fatto del
bene. Non potro' mai perdonarmi di non aver tentato con piu' forza di
contrastare il falso patriottismo in cui e' cresciuto.
So anche che le donne che non hanno voce, come le madri irachene che stanno
lottando per sopravvivere in un paese inutilmente devastato, contano su
donne come noi che possono usare le proprie voci per mettere fine alla
dottrina idiota di George Bush sulle guerre preventive di aggressione,
basate sulla giustificazione "Penso che quel paese potrebbe diventare
pericoloso per me e i miei amici".
La guerra finira' per sempre quando noi matrioti e matriote si alzeremo e
diremo: "No, non daro' mio figlio al falso patriottismo della macchina della
guerra, perche' mastichi la mia stessa carne ed il mio stesso sangue al fine
di sputare fuori profitti osceni".
"Non e' orgoglio amare il proprio paese, si deve essere orgogliosi di amare
il mondo intero. La terra e' un unico paese, e la cittadinanza di questo
paese e' l'umanita'" Baha'u'llah.
Il "matriottismo" e' soprattutto un impegno verso la verita' e verso la
celebrazione della dignita' di ogni vita.

4. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: IL CONTAGIO VITALE DI QUESTO FEMMINISMO
[Dal quotidiano "Liberazione" del 18 gennaio 2006. Lea Melandri, nata nel
1941, acutissima intellettuale, fine saggista, redattrice della rivista
"L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della rivista "Lapis", e' impegnata
nel movimento femminista e nella riflessione teorica delle donne. Opere di
Lea Melandri: segnaliamo particolarmente L'infamia originaria, L'erba
voglio, Milano 1977, poi Manifestolibri, Roma 1997. Cfr. anche Come nasce il
sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988; Lo strabismo della memoria, La
Tartaruga, Milano 1991; La mappa del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli
1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996. Dal sito
www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente scheda: "Lea Melandri ha
insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Attualmente tiene
corsi presso l'Associazione per una Libera Universita' delle Donne di
Milano, di cui e' stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987. E' stata
redattrice, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, della rivista L'erba
voglio (1971-1978), di cui ha curato l'antologia: L'erba voglio. Il
desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Ha preso parte attiva al
movimento delle donne negli anni '70 e di questa ricerca sulla problematica
dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le pubblicazioni:
L'infamia originaria, edizioni L'erba voglio 1977 (Manifestolibri 1997);
Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli 1988 ( ristampato da Bollati
Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni 1991;
La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996;
Una visceralita' indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle
donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Franco Angeli editore 2000;
Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati
Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di posta su diversi giornali: 'Ragazza
In', 'Noi donne', 'Extra Manifesto', 'L'Unita''. Collaboratrice della
rivista 'Carnet' e di altre testate, ha diretto, dal 1987 al 1997, la
rivista 'Lapis. Percorsi della riflessione femminile', di cui ha curato,
insieme ad altre, l'antologia Lapis. Sezione aurea di una rivista,
Manifestolibri 1998. Nel sito dell'Universita' delle donne scrive per le
rubriche 'Pensiamoci' e 'Femminismi'"]

Che differenza c'e' tra la politica istituzionale e un movimento come quello
che si e' materializzato per le strade e in piazza Duomo a Milano il 14
gennaio? Forse e' la domanda che sorge spontanea e che fa da sottofondo a
ogni sussulto di partecipazione diretta, "dal basso", come si diceva una
volta. Ma e' anche, purtroppo, quella che si eclissa per prima, una volta
chiuso il sipario sulle grandi manifestazioni, se non si e' in grado di
collocare l'emergenza in un contesto piu' generale di contenuti e di
iniziative politiche capaci di durare nel tempo e di estendersi localmente,
per contagio. Di "uscite dal silenzio" se ne sono viste molte nel nostro
paese, non si puo' certo dire che la societa' italiana viva in un
indifferente acquietamento consumistico e televisivo. Ma sappiamo anche
quanto sia facile, per un movimento non organizzato, rientrare nell'ombra,
eclissarsi dentro tortuosi percorsi carsici aspettando la prossima occasione
per rivedere l'orizzonte.
La spinta ad accomunare corpi, pensieri, voci, a farsi forti di una larga
condivisione di affetti, e di idee, non nasce mai dal nulla, anche se
l'affollatissimo corteo di sabato scorso ha fatto gridare: miracolo a
Milano! Tra chi ha temuto di veder ricomparire il fantasma della "rivolta
femminile" degli anni '70, mal digerita allora e ancora piu' indigesta dopo
che se ne e' sperata e decretata la morte, e chi ha voluto a tutti i costi
credere che si trattasse dell'iniziativa di una "nuova generazione", c'e' la
realta' di oltre vent'anni di impegno da parte di singole, gruppi,
associazioni di donne che dal femminismo hanno tratto non solo cambiamenti
personali, ma un'idea diversa della cultura e della politica, a partire
dalla messa a tema del rapporto tra i sessi.
Questa realta', il 14 gennaio era largamente rappresentata: donne sorprese
che un vento nuovo, improvviso, le avesse fatte rincontrare nelle assemblee
cittadine della vigilia, o addirittura sul treno che le portava a Milano,
felici di trovarsi a fianco di persone conosciute negli anni in cui era
abituale vedersi in grandi convegni nazionali, vacanze, viaggi, e poi cadute
nella dimenticanza insieme alla tensione politica, che allora animava la
speranza di possibili cambiamenti. Ma anche incredule nel constatare di
minuto in minuto che una massa enorme, variamente composita di donne e
uomini, ragazze e ragazzi, bambini, non identificabili sotto particolari
sigle di appartenenza, stava prendendo il posto dei cortei inconfondibili
della generazione femminista separatista degli anni '70.
Non e' un caso che nessun giornale abbia scritto a lettere cubitali, secondo
un cliche' mai tramontato e di sicuro effetto: "le streghe sono tornate". Al
contrario. Il femminismo, richiamato da quasi tutti gli articoli di cronaca
e di commento alla manifestazione, e' stato visto per la prima volta come
forza civile capace di interpretare sentimenti diffusi di insofferenza per
il clima di restaurazione religiosa, deciso ad opporsi, in modo composto e
determinato, alla violazione delle liberta' piu' elementari riguardanti i
corpi, le persone, le relazioni piu' intime.
*
Che questa "uscita", cosi' vistosamente condivisa, di problematiche venute
alla coscienza negli anni '70 abbia avuto al centro la questione
dell'aborto, visto non piu', o non soltanto, come "dramma" o "colpa"
femminile, e' doppiamente interessante. Non servono dotte ricerche
antropologiche o psicanalitiche per sapere che le gravidanze indesiderate
attraversano millenni di controllo, sfruttamento, violenza sul corpo
femminile, che, se proprio si vuole parlare di genocidio, protratto e
passato sotto silenzio, le prime vittime sono le donne, morte per parto, per
aborti, stupri, omicidi da parte di padri, mariti, amanti.
Solo Giuliano Ferrara, con cinismo e misoginia profonda, puo' accostare,
come ha fatto a piu' riprese a "Otto e mezzo", gli aborti selettivi a danno
del sesso femminile in India e Cina alla decisione di una donna di non dar
corso a una maternita' che non ha scelto o che puo' compromettere la sua
salute fisica e mentale. Significa colpevolizzare le donne in nome della
stessa violenza che hanno subito, assimilare la responsabilita' di culture e
regimi patriarcali a una scelta personale che, pur nella sua valenza
contraddittoria, risponde a una affermazione incontestabile di liberta':
liberta', prima di tutto, da quella legge di natura, la capacita' di
generare la vita, su cui gli uomini hanno creduto di poter fissare il
destino storico dell'altro sesso, cancellandone non solo la sessualita' ma
anche il legittimo desiderio di esistere nella pienezza di manifestazioni
intellettuali, morali, relazionali.
*
E' vero, nessun politico dei due schieramenti ha detto finora di voler
abolire la legge 194. Ingenuita', ipocrisia, astuzia di giocolieri passata
per mediazione politica? Mettiamoci d'accordo, ha detto lunedi sera a "Porta
a Porta" Piero Fassino, si tratta di questioni "antropologiche" delicate,
non e' impossibile arrivare a scelte condivise tra chi e' contro l'aborto e
chi non lo e'. Gianfranco Fini, seduto davanti a lui, giustamente annuiva.
Tra uomini non dovrebbe essere effettivamente difficile trovare un'intesa su
un terreno che gia' li accomuna nel pregiudizio antico che vuole la donna
essenzialmente madre, "madre anche quando e' vergine", come scriveva Paolo
Mantegazza. La Chiesa ne sa qualcosa. L'unica parola d'ordine passata tra i
rappresentanti della politica istituzionale e' stata finora la difesa o la
promozione della maternita'. Che la destra cattolica integralista lo faccia
portando i suoi angeli protettori o dissuasori nei consultori, e la sinistra
con le politiche famigliari, i bonus per le madri o per i nuovi nati, la
logica di fondo non cambia. La responsabilita' maschile, nella vicenda che
ha al centro la relazione piu' universale e piu' intima tra i sessi,
all'incrocio tra natura e storia, tra amore e violenza, non puo' di certo
sfuggire a chi abbia un minimo di cognizione di se', un'attenzione sia pure
fuggevole alle vite reali. Ma la difesa della maschera della neutralita'
sembra effettivamente che sia l'ultima sponda del privilegio maschile,
almeno di quello che si affaccia dalla scena istituzionale.
Non cosi' dal versante della societa', ridotta a spettatrice di una politica
sempre piu' separata, mossa da competizione, personalismi, ostilita'
manifesta e orizzonti ridottissimi. La forte presenza di uomini alla
manifestazione di Milano, indetta da un'assemblea di donne, e con i
contenuti inequivocabili ereditati dalla storia del femminismo, ha dentro
indirettamente alcune acquisizioni nuove, importanti: l'immaginario legato
all'aborto - il corpo femminile onnipotente dispensatore di vita e di
morte - si va decantando; gli uomini cominciano a riconoscersi parte in
causa, non certo secondaria, nel mantenere la "naturalita'" del destino
femminile; la centralita' politica - di ogni tema politico - del rapporto
uomo-donna non e' piu' l'ossessione di poche irriducibili "vestali" del
femminismo. Cio' nonostante, da questa ottica i politici ancora non vedono,
non sentono, non parlano, e alcuni, ostinatamente, continuano a cercare
fantasmatici "organizzatori".
Si spera che siano le donne, tornate da Milano commosse e determinate a non
tornare nell'ombra, a fare comparire nei programmi elettorali la piu'
clamorosa rimozione della storia.

5. LIBRI. FRANCESCA M. CORRAO: UN SENTIERO DI LETTURA NEL MONDO ARABO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 gennaio 2006. Francesca Maria Corrao
e' docente di lingua e letteratura araba all'Istituto Universitario
Orientale di Napoli, acuta saggista e fine traduttrice. Tra le opere di
Francesca Maria Corrao: Giufa' il furbo, lo sciocco, il saggio, Mondadori,
Milano 1991; (diretta da), Antologia della poesia araba, E-ducation.it -
Gruppo editoriale L'Espresso, Firenze-Roma 2004]

Negli ultimi dieci anni il Cairo ha cambiato aspetto. Oggi la citta' appare
molto piu' pulita, un nuovo parco pieno di palme collega la storica moschea
universita' di Al-Azhar con la cittadella, e la celebre rocca militare da
cui Muhammad Ali guido' la rivolta per liberare l'Egitto dalla presenza
francese, e' stata restaurata. Come un grande fiume ogni sera la gente si
affolla per le strade e lungo le vie illuminate donne di tutte le eta' vanno
in giro a bordo di automobili lussuose o di semplici utilitarie.
Questo e' il segnale di un grande cambiamento: sino a non molti anni fa le
donne che andavano a cena fuori o al cinema senza essere accompagnate da
padri, mariti o fratelli, erano poche, e sicuramente "estremiste". Adesso un
numero crescente di donne lavora, e ha quindi conquistato l'indipendenza
economica e di conseguenza un certo margine di liberta'. A differenza di
prima puo' accadere che una professionista, se non ha trovato un compagno
adeguato, scelga di vivere da sola: questo tuttavia avviene solo nei
quartieri piu' "progrediti", dove le donne non corrono il rischio di essere
stigmatizzate dalla comunita' del vicinato, come accadrebbe nelle periferie,
in cui le tradizioni arcaiche si sposano con i rigurgiti misogini degli
integralisti, in barba a ogni dichiarazione di uguaglianza espressa nel
Corano.
Questa ricchezza di posizioni, pero', tende a non essere percepita in
occidente, dove si parla del mondo arabo senza sfumature, e quasi solo per
metterne in evidenza il volto deteriore.
*
Per capire la complessa eredita' culturale dell'Egitto moderno puo' essere
utile leggere un libro di qualche decennio fa, da poco pubblicato anche in
Italia, Diario di un procuratore di campagna di Tawfiq al Hakim (Edizioni
Nottetempo). L'opera apre infatti uno spiraglio su un mondo lontano e ci
permette di sbirciare dietro i veli della vita di provincia. Attraverso
l'ironico racconto di un procuratore di una piccola citta' sul delta
scopriamo una societa' chiusa ancora assorta nelle tradizioni antiche.
L'autore racconta le indagini svolte per svelare gli assassini di un uomo
apparentemente innocuo; a turbare la scena - come spesso nelle storie
egiziane - appare, per scomparire presto, una splendida ragazza, e intorno
alla sua figura si accendono mille enigmi e fantasie. Lo svolgimento delle
ricerche rivela tante piccole scene, descritte con esilarante sagacia, di un
mondo diviso tra la rigidita' dei funzionari, inefficienti e corrotti, e la
schiacciante prepotenza dei signorotti locali, sullo sfondo della misera
vita dei contadini che si trascinano da una millenaria poverta' verso un
sistema moderno ma sempre piu' repressivo. Ma il romanzo e' anche una
occasione per denunciare l'insofferenza dell'autore per un lavoro cui e'
costretto per necessita' mentre la sua mente da letterato lo porterebbe
altrove, a Parigi in un ambiente artistico e trasgressivo che meglio
risponde alla sua indole. Ironico e poco clemente, lo scrittore descrive i
faticosi tentativi di un Egitto che stenta a imitare il mondo occidentale.
*
Da quando al-Hakim scrisse il suo Diario, pero', molte cose sono cambiate.
Oggi le universita' hanno aperto i battenti in tante zone che prima
sembravano culturalmente ed economicamente ferme ai primi anni del
Novecento. La citta' di Minya, per esempio, e' diventata un importante
centro di affari e di ricerche avanzate. Il cuore della resistenza
fondamentalista non ha cambiato sede ma volto. Si muove verso una svolta
democratica? E' difficile a dirsi, anche se proprio la maggiore presenza
delle donne potrebbe fare molto per cambiare l'atmosfera generale. Per il
momento, pero', la situazione si presenta controversa: se all'universita' le
studentesse sono la maggioranza assoluta, non si puo' fare a meno di notare
che siano quasi tutte velate: un velo tuttavia, che sembra rappresentare -
piu' che una dichiarazione di castita' - quasi un vezzo, un modo di
dichiararsi diverse dalla cultura occidentale. In giro infatti non si vedono
burqa' o chador, ma fazzoletti decorati con ogni tipo di ninnolo e gioiello
e magari indossati sopra un paio di jeans accuratamente sdruciti.
*
Su queste contraddizioni che segnano la situazione femminile nel mondo arabo
esistono oggi diversi testi, dalla recentissima antologia Parola di donna,
corpo di donna (curata da Valentina Colombo per gli Oscar Mondadori)
all'ultimo libro della marocchina Fatema Mernissi, Karawan. Dal deserto al
web (Giunti), che racconta attraverso numerose testimonianze l'aiuto che la
tecnologia, se utilizzata saggiamente, puo' fornire anche nelle localita'
piu' sperdute. La coraggiosa scrittrice, come tante altre intellettuali
attive anche in Medio Oriente, ha creato una Ong per aiutare le donne a
vendere i loro prodotti mettendoli direttamente online, nella convinzione
che la vera sfida oggi consista nell'emancipare le donne dall'ignoranza e
dalla sudditanza economica.
*
Da decenni, del resto, le organizzazioni non governative si moltiplicano in
tutto il territorio. Tra le pioniere fu, di nuovo in Egitto, la scrittrice e
medico Nawal al-Saadawi (autrice fra l'altro di Firdaus. Storia di una donna
egiziana, edito nel 2001 ancora da Giunti) che organizzo' una struttura per
molti versi simile ai nostri consultori per insegnare alle donne analfabete
le piu' elementari cure sanitarie. Ostacolata in ogni modo, prima dal
governo e poi dai fondamentalisti, la scrittrice fu nel 2001 accusata di
aver affermato che il pellegrinaggio alla Mecca era un costume pagano. In
realta' al-Saadawi aveva voluto sottolineare l'atteggiamento di apertura
dell'Islam ricordando che la religione sin dagli inizi aveva saputo
accogliere usi e culture preesistenti che bene si accordavano con la nuova
fede, ma un giudice del tribunale shara'itico accuso' prontamente la
scrittrice del reato di apostasia condannandola a divorziare dal marito (un
musulmano non puo' essere coniugato con un'apostata). Solo la pronta
reazione di alcuni intellettuali egiziani e una valanga di e-mail da ogni
parte del mondo sono riuscite a convincere il presidente Mubarak a
intervenire salvando la scrittrice dalle grinfie dei calunniatori.
*
Che le donne siano le rappresentanti di questi nuovi fermenti del mondo
arabo e' dimostrato anche dalla loro presenza attiva a incontri e convegni
internazionali, come quello su "Intellettuali e potere" che si e' tenuto
alla fine del 2005 presso l'universita' del Cairo. Sono state numerose le
studiose che hanno presentato analisi fondate su una conoscenza seria dei
testi critici occidentali e orientali, sulla base del presupposto che, come
dice il poeta marocchino Muhammad Bennis, l'apertura verso le altre culture
e' in primo luogo una questione di ospitalita', di accoglienza. Voce di
spicco nell'incontro e' stato, fra gli altri, il poeta palestinese Murid
al-Barghuti (autore di Ho visto Ramallah, uscito nel 2005 per Illisso
edizioni), che ha ricordato gli intellettuali arabi costretti al silenzio in
patria o alla fuga all'estero, dove rimangono spesso chiusi dietro un muro
di indifferenza, e che ha messo in evidenza come il problema della liberta'
e del potere non riguarda solo "gli altri" ma ogni essere umano, richiamando
alla presa di coscienza individuale e alla necessita' di sviluppare un forte
senso di responsabilita'.
Un comportamento esemplare in questo senso viene dal testo autobiografico di
Suad Amiry - Sharon e mia suocera, edito nel 2003 da Feltrinelli - che
racconta la sua esperienza di affermata architetta rientrata da Londra in
Palestina per contribuire alla crescita della nuova Autorita' palestinese.
Nell'esilarante resoconto della sua vita quotidiana da' prova di come, da
donna comune, e' costretta a trovare soluzioni geniali per sopravvivere
nell'inferno quotidiano, schiacciata tra le esigenze della suocera e le
ordinanze di Sharon. Il materiale non manca, tanto che nel 2005 Amiry ha
pubblicato un altro libro (Se questa e' vita. Vivere a Ramallah in tempo di
occupazione, Feltrinelli).
Ma queste testimonianze di ordinaria follia si trovano in gran numero anche
in Domani andra' peggio. Lettere da Palestina e Israele, 2001-2005 (Fusi
Orari, pp. 240, euro 15), la raccolta di articoli di Amira Haas, una
coraggiosa giornalista israeliana che si batte per la difesa del buon senso,
al duro prezzo di essere invisa a molti.
*
Incontrare l'altro e' un'impresa difficile e dolorosa, scriveva Arnold
Toynbee, e questa amara verita' e' ben nota agli arabi da oltre due secoli.
Colonizzati prima e successivamente devastati da guerre fratricide
sapientemente alimentate da interessi stranieri.
Molti intellettuali ne parlano con amarezza, alcuni con ironia, altri invece
si nutrono di questo orrore per sublimarlo in opere tra il surreale e il
metafisico: fra questi, saggi critici (Adonis, La musica della balena
azzurra, Guanda; Fatema Mernissi, Islam e democrazia, Giunti), poesie
(Adonis, In onore del chiaro e dello scuro, Archivi del Novecento) e anche
bei romanzi, come quello della libanese Hoda Barakat, L'uomo che arava le
acque (Ponte alle grazie), dove si narra con straordinaria sensibilita' lo
smarrimento dell'uomo e il disintegrarsi dell'essenza della cultura
materiale in Medio Oriente sotto i colpi di mortaio della guerra civile
libanese.
*
Tuttavia non ci si rassegna e le attivita' culturali - mostre, festival,
film, concerti, opere teatrali, dibattiti, presentazioni di libri - a Beirut
come al Cairo si sono moltiplicate rispetto a pochi anni fa, grazie anche
alle scelte di politici contestati. Un esempio viene dal pittore Farouk
Husni, ministro della cultura egiziano da oltre un decennio, che continua ad
aprire spazi culturali anche agli artisti dell'opposizione, senza badare
troppo alle polemiche. Obiettivo di Husni e' di dimostrare che le attivita'
governative non emarginano gli intellettuali scomodi, accogliendo in questo
senso l'invito piu' volte reiterato del Nobel per la letteratura Nagib
Mahfuz: anche nelle piu' recenti interviste in occasione del suo
anniversario, il piu' amato scrittore arabo non ha perso infatti la sua
grinta e ha incoraggiato i giovani a darsi da fare per frenare l'avanzata
oscurantista.
*
In questa direzione del resto vengono organizzate iniziative dedicate ai
fautori di una cultura aperta e moderna. Prossimamente e' previsto un
omaggio a Muhammad 'Afifi Matar, poeta filosofo scomodo, vittima spesso dei
suoi modi "passionari". A settanta anni il Consiglio superiore della cultura
riconosce finalmente i meriti di questo amante di Empedocle e cancella cosi'
il ricordo dei giorni di carcere negli anni Novanta (si era dichiarato
contrario all'intervento militare dell'Egitto in Iraq, ed era "scivolato"
sul pugno di un poliziotto rompendosi il naso). Anche allora il tam tam
degli intellettuali arabi e occidentali, dentro e fuori dall'Egitto, lo
hanno salvato dal carcere; ha vinto la solidarieta' e cosi' anche il diritto
alla liberta' di opinione.
*
Fra le altre figure della cultura egiziana, il cui valore viene adesso
riconosciuto spicca anche il nome del poeta 'Abd al-Mu'ti al-Higazi che,
rientrato da un decennio dall'esilio volontario in Francia, cura oggi una
rubrica sul piu' diffuso giornale egiziano, "al-Ahram"; e da li' parla
liberamente dei fatti del giorno senza risparmiare i suoi strali all'amico
di un tempo, il ministro della cultura per l'appunto. Ad al-Higazi il
Consiglio superiore della cultura ha recentemente dedicato una giornata di
studi convocando i massimi esperti di poesia a parlare della sua produzione.
A guidare i lavori Gabir Asfour, il grande critico letterario prestato
all'amministrazione pubblica per gestire un'operazione culturale faraonica:
lanciare la cultura araba nel mondo e tradurre migliaia di libri dalle
lingue occidentali in arabo ogni anno. Tra i presenti la vera responsabile
del progetto, la dinamica e colta Shuhra Muhammad al-'Alim; che ama
scherzosamente dire di se' che e' piu' brava di Shehrazad perche' e'
riuscita a dare alle stampe mille e un libro in un anno invece che in tre
come la celebre eroina dei racconti orientali.
*
Attualmente Shuhra Muhammad al-'Alim sta promuovendo la traduzione di
racconti italiani in collaborazione con la facolta' di lingue
dell'universita' di 'Ayn Shams e il ministero degli affari esteri. Un'altra
iniziativa in questo senso e' stata promossa dal poeta Hasan Teleb che,
assieme ai docenti di italiano dell'universita' di Helwan, sta traducendo
un'antologia dei poeti italiani del Novecento. Il problema e' l'assenza di
coordinamento tra gli intellettuali italiani e quelli arabi. Ancora oggi,
sebbene fioriscano meritevoli iniziative in cui gli intellettuali arabi sono
invitati a partecipare a incontri e scambi in Italia, si riscontra che
troppo spesso i nomi sono sempre gli stessi oppure non sono significativi; e
lo stesso accade in Oriente. Si tratta di un vecchio problema: gia'
all'inizio del secolo scorso al Cairo la poetessa Mayyi Ziyada traduceva
poeti italiani assolutamente ignoti, e lo stesso facevano negli anni
Cinquanta a Beirut i redattori della rivista "Shi'r" che pubblicavano
accanto ai testi di Montale (che, come poi Mahfuz, ha avuto la fortuna di
ricevere il Nobel) i versi di illustri sconosciuti. Senza sparare a zero sul
passato, sarebbe auspicabile che oggi, nei paesi di lingua araba, come in
Italia, non si ripetessero gli stessi errori.
*
Postilla
Tra i libri delle pioniere del nuovo Egitto va sicuramente ricordato
"Firdaus. Storia di una donna egiziana" di Nawal al-Saadawi, edito da
Giunti-Astrea nel 2001 (pp. 128, euro 8,50). Tra i volumi citati
nell'articolo segnaliamo inoltre: di Tawfiq al Hakim "Diario di un
procuratore di campagna" (Edizioni Nottetempo, pp. 213, euro 13,50);
l'antologia "Parola di donna, corpo di donna" curata da Valentina Colombo
per gli Oscar Mondadori (pp. 310, euro 8,40). Dell'autrice marocchina Fatema
Mernissi Giunti-Astrea ha pubblicato nel 2004 "Karawan. Dal deserto al web"
(pp. 256, euro 10,80) e, nel 2002, "Islam e democrazia. La paura della
modernita'" (euro 12). Del poeta palestinese Murid al-Barghuti, Illisso ha
tradotto "Ho visto Ramallah" (pp. 184, euro 13). Feltrinelli, nel 2003, ha
mandato in libreria "Sharon e mia suocera" di Suad Amiry, affermata
architetta rientrata da Londra in Palestina, e nel 2005 "Se questa e' vita"
(pp. 135, euro 8,50). "Domani andra' peggio. Lettere da Palestina e Israele
2001-2005" (Fusi Orari, pp. 240, euro 15) e' invece la raccolta degli
appassionati e coraggiosi articoli della giornalista israeliana Amira Haas.
Guanda ha tradotto nel 2005 "La musica della balena azzurra. La cultura
araba, l'Islam, l'Occidente" (pp. 201, euro 14) di Adonis, considerato tra i
maggiori poeti contempornaei di lingua araba. E, dello stesso autore, gli
Archivi del Novecento "In onore del chiaro e dello scuro" (pp. 97, euro 12).
E' uscito nel 2003 per Ponte alle Grazie il romanzo della libanese Hoda
Barakat, "L'uomo che arava le acque" (pp. 184, euro 12).

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir@peacelink.it,
luciano.benini@tin.it, sudest@iol.it, paolocand@libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info@peacelink.it

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MARIA G. DI RIENZO: L'"IRRAGIONEVOLE" DIANE WILSON E I
DIRITTI UMANI DELLE DETENUTE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per
questo testo.
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista
teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche
sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di
Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne
nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005.
Diane Wilson e' madre di cinque figli e una spina nel fianco delle compagnie
chimiche sulla costa del Golfo del Texas; attraverso scioperi della fame ed
altre azioni dirette nonviolente, ha fatto pressione sulle compagnie sino a
costringerle spesso a smettere di inquinare la baia; ambientalista e
pacifista di lunga data, e' cofondatrice del gruppo pacifista femminista
"Codepink"; e' stato recentemente pubblicato il suo nuovo libro, "An
Unreasonable Woman" (Una donna irragionevole)]

Diane Wilson, l'ambientalista autrice di "An Unreasonable Woman" (Una donna
irragionevole) e' da due mesi in prigione, condannata a 150 giorni di
reclusione.
La sentenza riguarda un'azione diretta nonviolenta che Diane opero' nel
2002, a Seadrift (Texas) dove vive: allora scalo' una torre della Dow
Chemical, di cui la Union Carbide e' una sussidiaria, e vi pianto' uno
striscione su cui stava scritto "Giustizia per Bhopal", riferendosi al noto
disastro del 1984 in cui migliaia di indiani morirono a causa di una fuga
tossica dagli impianti delle suddette compagnie chimiche.
Da lungo tempo Diane affianca le vittime del disastro di Bhopal, che ancora
chiedono giustizia per la morte dei loro cari, ed ha anche tentato di
incontrare l'allora responsabile della Union Carbide in India, Warren
Anderson, chiedendogli di tornare sul luogo e di affrontare le accuse che
gli sono state mosse dalla giustizia indiana. Condannata l'azione del 2002
dallo stato del Texas, Diane poteva evitare l'arresto restando in uno
qualsiasi degli altri stati americani, ma il 5 dicembre 2005 ha preferito
acquistare il biglietto per una riunione indetta dal partito repubblicano a
Houston (Texas) allo scopo di raccogliere fondi. In mezzo alla sala, mentre
il vicepresidente statunitense Dick Cheney faceva il suo discorso, ha
srotolato un altro striscione: "L'avidita' delle corporazioni economiche
uccide: da Bhopal a Baghdad". All'esterno, attivisti pacifisti affollavano
l'ingresso con cartelli contro la guerra in Iraq. Diane Wilson e' stata
immediatamente arrestata e trasferita alla prigione di Victoria County per
scontare la sentenza comminatale nel 2002.
*
Madre di cinque figli, ex capitana di una nave da pesca e cofondatrice di
"Code Pink: donne per la pace", Diane e' un'attivista ambientalista dal 1989
e ha compiuto azioni memorabili. Il suo lavoro per la salvaguardia della
baia del Golfo del Texas e per la salute di chi ci vive le hanno guadagnato
molti riconoscimenti negli Usa e all'estero. Dalla prigione, il 20 gennaio,
ha mandato una lunga lettera allo sceriffo della contea in cui si trova, di
cui traduco le parti essenziali:
"Caro sceriffo O'Connor,
sono una detenuta di sesso femminile della prigione di Victoria County, che
deve scontare una sentenza di 150 giorni e pagare una multa di 2.000 dollari
per aver protestato contro il rifiuto della Dow Chemical Company di
presentarsi nei tribunali dell'India a rispondere delle accuse mosse alla
sua sussidiaria (che controlla totalmente), la Union Carbide, in relazione
al disastro di Bhopal.
Sono qui relativamente da poco, essendo entrata in prigione il 10 dicembre
2005, tuttavia ho gia' un buon numero di lagnanze.
Molte vengono dalle mie compagne di prigionia e lei si chiedera' perche' non
le presentano esse stesse. E' molto semplice: non esiste alcuna strada
praticabile per presentare esposti e se c'e' le mie compagne non ne sono
state informate.
Esiste un modulo prestampato che dovrebbe servire a stabilire una
comunicazione, ma i tempi di risposta variano da una settimana a mai.
Nessuno fornisce informazioni, non c'e' un documento, un volantino, che
spieghi le procedure da seguire o i diritti delle detenute, e neppure
qualcosa di abbastanza semplice come 'dove si trova il commissario'.
Ho chiesto dei testi di diritto, poiche' le mie compagne raramente vedono un
avvocato, mi hanno detto che non ce ne sono di disponibili. Se le detenute
chiedono assistenza legale viene loro risposto: 'Vedrai l'avvocato al
processo' ovvero, solitamente, dieci minuti prima del dibattimento in
tribunale.
Le donne in questa prigione sono in maggioranza afroamericane o ispaniche e
molto povere. Le loro condanne riguardano per lo piu' fatti minori, piccoli
traffici, e niente di violento, eppure sono forzate a restare in cella senza
assistenza legale per lunghi periodi di tempo.
Non credo di stare sollevano nessuna istanza che lei non conosca gia'. Ho
parlato con un funzionario del sistema carcerario tempo fa (non faro' il suo
nome) e lui mi disse che era ben conscio della lunghezza dei tempi per
ottenere un avvocato e un processo. Ne discusse con un giudice, mi disse, e
la risposta del giudice fu piu' o meno: 'Eh gia', e' un problema'.
Percio' credo che lei possa capire quanto sono sconcertata dal fatto che non
vi sia neppure l'accesso ai testi di diritto penale. Il personale carcerario
mi ha detto che l'accesso ai testi e' possibile solo quando l'assistenza
legale non e' disponibile, ma io non ho ancora accesso ne' ai primi ne' alla
seconda.
Poiche' ho insistito per accedere alla biblioteca legale, sul modulo
prestampato di cui sopra, dopo una settimana ho avuto la risposta: Non
abbiamo una sala di 'scritura'. Certo, questo spiega tutto. Niente sala di
'scritura', niente biblioteca legale.
Allora ho chiesto quali fossero gli standard della prigione: ci saranno pure
degli standard che la prigione deve mantenere, ed io e le mie compagne
abbiamo il diritto di sapere quali sono. Circa dieci giorni piu' tardi, la
risposta diceva: Qual e' il suo problema?
Il mio problema e' che le detenute non hanno voce, non hanno accesso
all'assistenza legale o ai testi di diritto, non hanno una sala di
'scritura' e non conoscono gli standard della prigione. Questo e' il mio
problema.
Percio' le scrivo, visto che lei e' il gradino successivo nella catena di
comando, e le invio non solo la richiesta di conoscere gli standard ma anche
le altre lagnanze e preoccupazioni che ho raccolto da che sono qui.
Salute: non so se lei ha seguito il lavoro investigativo giornalistico di
Mike Ward e Bill Bishop dell'"Austin American Statesman" sul sistema
sanitario nelle prigioni texane. I due reporter hanno documentato
maltrattamenti sistematici sui detenuti malati, l'accesso alla struttura
sanitaria come forma di ricatto e di punizione, e la somministrazione
irrazionale e pericolosa di medicinali. Se non ha letto questo rapporto lo
faccia, perche' cose simili stanno accadendo nella sua prigione. I tre casi
che le presento sembrano costituire una sorta di procedura usuale per questo
carcere, un problema a lungo termine (e si', le donne in questione sono
giovani e povere, ispaniche o afroamericane).
1. Mary De Leon. La signorina De Leon ha passato 18 mesi nel carcere di
questa contea per questioni legate a sostanze psicotrope. Per tutti i
diciotto mesi, la signora De Leon ha sofferto di calcoli alla vescica. Il
responso del servizio sanitario e' stato 'latte di magnesio e stai
sdraiata'. Le condizioni della giovane peggiorarono al punto che era
perennemente scossa da tremiti e brividi, e sveniva. La risposta fu di nuovo
'magnesio e materasso'. Verso la fine dei 18 mesi, la signora De Leon ebbe
una sincope dal dolore ed una compagna di cella chiamo' le guardie.
Trasferita d'urgenza all'ospedale, Mary seppe la' che la sua vescica si era
rotta. Non ha intentato causa alla prigione, per paura di essere punita.
2. Lacy Leyva. La signorina Leyva ha scontato un mese di prigione. Lamentava
forti dolori ai reni, ma le fu dato solo un antidolorifico ogni otto ore
(Ibuprofen). I dolori divennero lancinanti, cosi' oltre all'antidolorifico
le si consiglio' di stare sdraiata. Appena rilasciata, la signora Leyva si
reco' all'ospedale dove le fu diagnosticata un'insufficienza renale. Al
termine del ricovero ricevette una chiamata dalla prigione sul suo cellulare
che diceva: 'Vai allíospedale. Sospettiamo che tu abbia un'insufficienza
renale'.
3. Shandra Williams. La signora Williams fu incarcerata anche se stava
portando avanti una gravidanza a rischio (era circa di sette mesi), cosa
nota al tribunale ed all'amministrazione carceraria. In prigione le sue
condizioni peggiorarono. Comincio' ad avere emorragie, ma l'infermiera era
riluttante a crederle e le chiedeva di mostrarle gli assorbenti. Percio' la
signora Williams dovette anche subire l'umiliazione di dover provare che
stava male e sanguinava. Come rimedio la si mise in isolamento, visto che la
solitudine era una cosa che odiava. Aspettava il suo primo figlio ed era
spaventata dal non avere assistenza medica. Perche' smettesse di lamentarsi
le fu dato un calmante (Benadryl). Quando la riportarono in cella le si
ruppero le acque. Le fu detto che aveva le allucinazioni, che non era vero.
L'infermiera le disse di non preoccuparsi, perche' avrebbe partorito il mese
dopo. Dopo di che la rimisero in isolamento, cosa che la rese folle di paura
perche' non aveva contatto con nessun altro essere umano. Era allarmata
perche' il bambino stava nascendo in anticipo sulla data prevista e perche'
l'infermeria le aveva rifiutato persino il monitoraggio volto a stabilire le
condizioni di salute del nascituro. Poiche' mostro' agitazione all'idea di
tornare in isolamento, il sergente le disse che ci sarebbe andata con le
buone o con le cattive: le 'cattive' prevedevano l'uso della pistola da
stordimento. Una delle donne di guardia ne era cosi' preoccupata che
trasporto' lei stessa le cose di Shandra nella cella d'isolamento, e la
convinse ad entrarci blandendola. Subito dopo, la signora Williams entro' in
travaglio, ed era quindi un parto prematuro. Per avere aiuto, la signora
Williams dovette strisciare sul pavimento dalla toilette al bottone
d'allarme sul muro. Dopo tre tentativi qualcuno si degno' d'arrivare. Il
neonato, che era uscito di piedi, penzolava attorno alle caviglie di sua
madre. Nel pandemonio che segui', la signora Williams fu trasferita in
ambulanza all'ospedale. Il bimbo era morto, e alla madre fu consegnato il
cadaverino in un lenzuolo. Nessuno le disse che il piccolo era morto: se ne
accorse da sola quando vide che suo figlio non si muoveva e non respirava.
Non fu fatto alcun tentativo di avvisare suo marito. Quando, molto dopo,
riusci' a saperlo e ad arrivare all'ospedale, il cadavere nel lenzuolo
passo' a lui. Alla signora Williams, riportata in prigione, non fu concesso
neppure il permesso di assistere ai funerali del bimbo. Shandra mi ha detto
che piu' tardi lei, sceriffo O'Connor, la chiamo' nel suo ufficio e le disse
che lo sfortunato incidente non era sua responsabilita', ma era dovuto agli
errori dell'amministrazione carceraria sotto il precedente sceriffo Michael
Ratcliff.
Date le conseguenze a lungo termine e le terribili sofferenze imposte a
queste donne, io spero che lei voglia dare a questa questione la
considerazione che merita.
Materiale di lettura: la biblioteca della prigione consiste in un carrello
di metallo che trasporta trenta romanzi rosa spiegazzati. Poiche' qui sono
permesse poche distrazioni, potrei dire nessuna, forse questa e' la ragione
per cui le carcerate fanno rose con la carta igienica e colorano la propria
carta da lettere con la pasta dentifricia. Confesso che sono un po'
riluttante a dirle questo, temendo che le guardie corrano a confiscarci le
rose e ad accusarci di contrabbando di carta igienica. Cio' che
l'amministrazione carceraria si propone di ottenere negando materiale di
lettura va oltre quello che io posso capire. A me sembra una punizione
crudele, e controproducente per qualsiasi forma di riabilitazione.
Accesso ai programmi scolastici: poiche' la maggioranza delle detenute sono
assai povere, giovani ed appartenenti a minoranze, sono rimasta di stucco
quando ho scoperto che il programma scolastico offerto viene usato come
forma di ricatto. Una mia compagna di cella, che sta lottando disperatamente
per migliorare se stessa e crescere il suo figlioletto di nove anni, e'
riuscita ad ottenere l'accesso al programma solo per esserne espulsa a causa
di un bigliettino passato ad una compagna di classe. A molte detenute il
programma scolastico non viene concesso. Non capisco questa riluttanza da
parte dell'amministrazione a permettere che le detenute conseguano un
diploma di scuola superiore. E' noto che grazie ad esso potrebbero trovare
lavori migliori e meglio pagati, e che una persona soddisfatta del proprio
lavoro e' meno incline a cacciarsi nei guai con la legge.
Trattamenti umilianti: capisco che alcune di queste osservazioni per lei non
significheranno nulla, e che lei potrebbe pensare che il trattamento dei
detenuti in uso nelle prigioni texane non e' nulla rispetto ai tipi di abusi
perpetrati ad Abu Ghraib in Iraq. E' vero, ma per quello che serve le
ribadisco che ho letto inchieste assai documentate e che ho sperimentato
trattamenti orribili io stessa. Mentre scontavo una sentenza a cinque giorni
nel carcere di Houston, sono stata trattenuta in una gelida 'sala di
smistamento' assieme ad altre detenute per ore ed ore, sicche' fummo
costrette a dormire su di un pavimento di cemento ricoperto da spazzatura e
dai liquami che traboccavano da una toilette intasata. Di quando in quando
una guardia faceva capolino per urlarci: 'Vacche!'. Dopo di che fummo
smistate nelle celle, dove ci fu ordinato di spogliarsi e di sfilare in
mutande. Erano tutte donne che non avevano visto ancora ne' un giudice ne'
un avvocato, e alcune erano 'dentro' per violazione delle norme sul
traffico! Nella mia cella fummo ammassate in 70: la guardia che passava di
tanto in tanto questa volta urlava: 'Stupide cagne!', perche' facevamo
troppo rumore.
Lo scorso 10 dicembre sono stata trasferita alla sua prigione, dove sono
stata messa in una cella con a mia disposizione un nudo materasso posato sul
pavimento. Per tre giorni non mi sono stati dati ne' un lenzuolo, ne' un
sapone, ne' dentifricio, ne' un pettine. Alle mie richieste di questi
oggetti veniva risposto: 'Compila il modulo'.
Mi considero relativamente fortunata, in queste esperienze, perche' essendo
un'attivista ho sostenitori all'esterno che chiamano la prigione e mandano
lettere. La maggior parte delle donne qui non ha questa fortuna. Questa
lettera, in parte, la scrivo per loro. Si dice che un paese civile si
giudica da come tratta i suoi membri piu' deboli. E' mia speranza che lei
riconoscera' quanto importanti siano il suo lavoro e le istanze contenute in
questa lettera, e che mi rispondera' nel merito.
Cordiali saluti, Diane Wilson".
*
Per gli aggiornamenti, consultate il sito:
www.chelseagreen.com/2005/items/unreasonablewoman/fromjail

-------------

RIFLESSIONE. ERMANNO ALLEGRI: DOPO IL REFERENDUM
[Ringraziamo Ermanno Allegri (per contatti: ermanno@adital.com.br) per
questo intervento. Ermanno Allegri e' direttore di "Adital", Agenzia
d'informazione "Frei Tito" per l'America Latina, tel. 8532579804, fax:
8534725434, cellulare: 8599692314, sito: www.adital.com.br; "sacerdote
bolzanino da trent'anni in Brasile, gia' segretario nazionale della
Commissione Pastorale della Terra e ora direttore di un'agenzia continentale
(Adital, sito: www.adital.com.br), nata come strumento per portare
all'attenzone della grande informazione latinoamericana i temi delle
comunita' di base e l'impegno contro la poverta'. Allegri e' stato chiamato
a contribuire al coordinamento delle azioni di sensibilizzazione in vista
del referendum che si terra' in Brasile alla fine di ottobre che ha come
tema la messa al bando del commercio delle armi da fuoco che in tutta
l'America Latina costituisce un rilevante fattore di violenza" (Francesco
Comina)]

Amici italiani,
vi mando il mio commento a caldo dopo aver visto che il si' ha perso. Ancora
mi brucia dentro questa sconfitta. Purtroppo s'e' verificato quello che si
temeva. Abbiamo perso un'opportunita' d'oro per far avanzare la pace nel
mondo. Nonostante tutto vi ringrazio per aver sostenuto la possibilita' di
mettere un freno alla corsa alle armi.
Un saluto carissimo a tutte e tutti voi,
Ermanno
*
Il risultato del referendum non lascia dubbi. Ha vinto, e con ampio
vantaggio, la cultura della paura e della ricerca individuale di soluzioni
contro la violenza, con il 64% dei voti. La cultura della pace, la societa'
e lo stato ne escono sconfitti. Quelli che hanno appoggiato il si' sono
stati, di fatto, una minoranza, anche tra quelli che avrebbero dovuto
impegnarvisi per tradizione o per dovere: le ong, i movimenti sociali e
popolari, le chiese, i sindacati e i partiti di centro-sinistra. Lo stesso
governo poco ha fatto in favore del si'.
Per spiegare questa sconfitta non serve analizzare i grandi mezzi a
disposizione della destra. Questa sconfitta rivela tutta la fragilita' della
nostra gente e della nostra organizzazione. Questa e' la cruda verita'.
Molti sono rimasti seduti vedendo il referendum passare: da quelli che
continuano a credere che le buone idee, per se stesse, sempre finiscono per
vincere (santa ingenuita', ancora), a quelli che ritengono che questo
referendum non meritava investimento di tempo ed energie per il fatto che
c'erano punti della vita nazionale ben piu' importanti da essere decisi
attraverso un referendum, quali la macroeconomia, le politiche pubbliche, o
il non pagamento del debito estero, ecc. Questa gente per l'esigenza (e la
necessita') di un buon pranzo "ottimo e abbondante" ha rinunciato anche alla
colazione.
*
E' triste vedere come ci siano persone che ancora non percepiscono che piu'
dell'80% della popolazione brasiliana e' distante da qualsiasi tipo di
organizzazione sociale che permetta un progredire nella coscientizzazione,
nell'organizzazione, cioe' nella possibilita' di crescere come persone umane
e come cittadini. Sono questi che formano la massa facile da manovrare che
in qualunque momento (e in qualsiasi elezione) possono seguire la proposte
piu' forti e convincenti, siano queste giuste o sbagliate.
Molti educatori hanno dimenticato che Paulo Freire parlava di un processo
educativo che puo' e deve cominciare sempre che esista l'opportunita' di
raggiungere piu' gente possibile per aiutarli a diventari cittadini con
pieni diritti. La cultura della pace, e' chiaro, non si limita a un
referendum, ma puo' fare di questo l'inizio di una inclusione. Si sono forse
dimenticati questi educatori che la violenza e' la maggior preoccupazione
del popolo brasiliano dopo la disoccupazione?
E' doveroso constatare come abbiamo ancora serie difficolta' per
organizzarci intorno a iniziative comuni e di dimensioni nazionali.
Questa settimana si realizza a Brasilia, l'assemblea popolare "Mutirao"
(lavoro d'insieme) per un nuovo Brasile. Circa 10.000 persone parteciperanno
dell'evento. La speranza e' che la sconfitta nel referendum e la
comprensione di cio' che significa, ci aiutino a pensare a passi e
iniziative concrete per azioni comuni e rilevanti mobilizzazioni sociali e,
allo stesso tempo, per un lavoro di accostamento alle masse popolari che
hanno difficolta' a mettersi sul cammino della partecipazione. Questo puo' e
deve essere fatto, senza attendere che prima cambi la macroeconomia o si
sconfigga l'impero del Nord.
E cosa fare con i nostri deboli strumenti di comunicazione, sempre a rischio
di chiudere le proprie attivita'? Dobbiamo analizzare seriamente la mancanza
di canali per comunicare, non abbiamo mezzi per mantenere un contatto con le
masse, mentre "gli altri" controllano il 90% dei mass-media. Il peggio e'
che non ci si puo' aspettare da questo governo, che offre milioni ai
mass-media di destra (gli stessi che poi lo pugnalano alla schiena), un
sostegno alla democratizzazione dei mezzi di comunicazione: e' meglio
giocare alla lotteria e aspettare seduti. Per questo "Adital", all'inizio di
luglio, quando il Tribunale supremo elettorale fisso' la data del referendum
per il 23 di ottobre, ha tentato due iniziative: iniziare subito la campagna
con un sito ad hoc e promuovere un incontro di strutture, riviste e siti per
costruire una strategia comune in favore del si'. Bisognava cominciare
subito. Purtroppo non ci siamo riusciti.
*
Nonostante tutto, la sconfitta del referendum deve essere un momento per
riflettere sui passi da fare. La societa' civile deve continuare il suo
cammino: abbiamo gia' sofferto altre sconfitte e non ci siamo fermati per
questo. La dinamica della storia deve essere piu' forte che le nostre
amarezze. La storia non finisce qui. Si tratta di capire e di convincersi
che le grandi vittorie, i grandi cambiamenti nel paese non sono forse facili
e a breve termine come desidereremmo. La storia di un paese non cambia per
decreto.
Ricordo la famosa frase di Joao Pedro Stedile, leader del Movimento dei
senza terra: "Siamo in un tempo in cui dobbiamo piantare alberi, non
insalata". Dobbiamo saper approfittare tutti i tipi di verdura che troviamo,
sapendo pero' che i grandi cambiamenti sociali hanno bisogno di radici
profonde e ampie.
Una nuova cultura di pace poteva anche contare sull'insalata del referendum,
ma la pace come frutto della giustizia sociale, della distribuzione piu'
equa del reddito, della democratizzazione dei mezzi di comunicazione, ecc.,
sara' frutto di un lavoro di lunga lena, ed esige oggi la continuita', il
perfezionamento e l'aumento del lavoro sociale e politico.

RIFLESSIONE. MAURO BRILLI: DOPO IL REFERENDUM
[Ringraziamo Mauro Brilli (per contatti: mauro.brilli5@tin.it) per questo
intervento. Mauro Brilli, nato a Livorno nel 1941, dal 1977 a Viterbo,
artista poliedrico, poeta, pittore e musicista, organizzatore ed animatore
di eventi culturali, impegnato nel movimento per la deistituzionalizzazione
e per i diritti umani di tutti gli emarginati dalla societa', e' uno storico
protagonista delle lotte per i diritti umani di tutti gli esseri umani.
Opere di Mauro Brilli: alcuni suoi lavori sono nel sito www.brillimauro.com]

Le armi fanno paura, e gettano un'ombra di triste quotidianeita' sugli occhi
puri dei bambini e di chi crede profondamente nella pace.
Per tante persone fa ancora piu' paura il non potersi difendere, il trovarsi
impreparati di fronte agli eventi delittuosi di cui il mondo e' pieno per le
tantissime ragioni primarie di poverta' e ingiustizia, che spingono l'uomo,
il quale non sa sottrarsi alla propria esasperazione.
Si' al disarmo anche se inesorabilmente lento; marca un percorso di pace a
cui non dobbiamo sottrarci.
Si' al disarmo per tutti coloro che rimangono vittime di una "disabilita'
senza sbocchi", di uno sterminio che non puo' avere giustificazioni.
Si' al disarmo per riconquistare una serenita' perduta, in questa immensa
voragine di solitudine.

RIFLESSIONE. GIANCARLA CODRIGNANI: DOPO IL REFERENDUM
[Ringraziamo Giancarla Codrignani (per contatti: giancodri@libero.it) per
questo intervento. Giancarla Codrignani, presidente della Loc (Lega degli
obiettori di coscienza al servizio militare), gia' parlamentare, saggista,
impegnata nei movimenti di liberazione, di solidarieta' e per la pace, e'
tra le figure piu' rappresentative della cultura e dell'impegno per la pace
e la nonviolenza. Tra le opere di Giancarla Codrignani: L'odissea intorno ai
telai, Thema, Bologna 1989; Amerindiana, Terra Nuova, Roma 1992; Ecuba e le
altre, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1994]

Non conosco i dati sui quali si basavano le previsioni positive sull'esito
del referendum brasiliano contro il commercio delle armi. Chi conosce il
Brasile sa che, dopo gli anni in cui era praticamente un lager in mano ai
militari, questo paese (potenzialmente ricchissimo se non fosse espropriato
dei suoi beni) non ha conosciuto "il riscatto della democrazia", ma "il
degrado dell'impoverimento".
I missionari che vivono nelle favelas conoscono la dialettica che esclude
quei ricchi di cui si dice che vivono dietro muri, guardaspalle e pitbull:
e' la dialettica fra chi ha paura e chi fa paura. Nessuno dei due vorrebbe
essere cosi', si suppone; ma il tempo, se non risarcisce, violenta.
Un paese che da diverse generazioni (tenendo per generazione i cinque anni
che vedono succedersi nei nostri paesi il ciclo liceale) vede otto milioni
di ragazzi uscire dalla famiglia per non farvi ritorno e sopravvivere
aggregandosi in bande, che base sociale puo' produrre? La meta' delle armi
che circolano nel paese non escono dal commercio regolare e sono - senza che
il referendum li scomponga - nelle mani di quella che si definisce con un
termine che rende pessimisti nei confronti degli esseri umani: la
delinquenza. A chi le usa non fanno grande effetto: il violento di oggi,
quando era piccolo usava il coltello e il gioco piu' bello era sniffare
colla. La polizia li affronta come in guerra e sono troppi quelli che
vengono sparati.
Tra gli afavelados non mancano gli "onesti", ma non muoverebbero un dito per
"moralizzare" l'ambiente: una volta che, con un gruppo di amici visibilmente
europei, stavo in una parrocchia dei poveri, arrivo' trafelata una madre a
dire che suo figlio e i suoi amici venivano ad assalire la chiesa per
rapinarci. Il parroco ci fece uscire da un'altra porta e ci accompagno'
fuori dalla zona a rischio: nessuna denuncia, che, del resto, sarebbe stata
inutile. Le citta' brasiliane sono anelli concentrici di differenza sociale:
al centro i ricchi, poi, via via, gli altri, fino al ceto medio povero che
confina con le favelas e che ha piu' paura.
In campagna sarebbe meno peggio, se non fosse che regioni vaste come
l'Umbria sono sotto il controllo di un solo proprietario e i paesi
all'interno, comprese le istituzioni, dalla polizia ai tribunali, sono al
suo servizio: chi si azzarda ad alzare la testa puo' finire male.
Naturalmente i decenni non passano invano e le lotte hanno ottenuto qualche
spostamento democratico, fino a portare alla presidenza uno come Ignacio da
Silva. Il quale non ha ricevuto con l'investitura la bacchetta magica e
rischia di perdere consenso.
L'Italia ha portato alla presidenza del governo uno come Berlusconi. Anche
l'Italia e' "decaduta", nonostante dopo il fascismo e la guerra avesse dato
prova di dignita' e capacita' costruttive. Si puo' perdere anche quando non
si e' piu' poveri e ci si dimentica di essere stati afavelados...
Dico questo perche' i problemi di questo referendum sono piu' nostri, di
occidentali benestanti e produttori di armi, che brasiliani. Come
occidentali, ci rendiamo conto che l'America di Bush - che e' il paese piu'
indebitato del mondo - ha bilanci della Difesa stratosferici; e che l'Italia
spende a Nassirya un miliardo di euro. Si potrebbe sognare che si potrebbero
convertire i bilanci della difesa in cooperazione e ogni anno si potrebbero
salvare due o tre paesi del Sud del mondo...
Possiamo ancora pensare un coordinamento europeo per prevedere, prima o
poi, un referendum europeo, o siamo gia' sicuri di non farcela perche' siamo
ancora pochi a sostenere che le armi non difendono?
Allora bisogna diffondere senza indugio una cultura di disarmo e di
prevenzione dalle violenze di guerra, mafia, droga. La nonviolenza e' in
cammino anche sul veicolo della conoscenza...

RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: DOPO IL REFERENDUM
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey@libero.it) per questo
intervento. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno
di pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha
fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il
foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel
Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian
Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro
Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo
comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione
col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento
Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora
a varie prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del
"non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto
il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei
Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la
sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia
storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente
edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il
principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha
curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte riproposta anche su
questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari suoi interventi sono
anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla pagina web
http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu' ampia
bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15
novembre 2003 di questo notiziario]

Ero in viaggio, ho sentito alla radio, alle 6 di lunedi', il risultato
negativo del referendum brasiliano.
Osservo soltanto:
1) porre un problema, fare un proposta giusta, e' importante anche quando
non e' capita, anche quando e' respinta. Il problema e' posto. Il problema
rimane.
2) la nostra capacita' di parlare, spiegare, diffondere, argomentare, deve
crescere in qualita' e anche in estensione, per la via della comunicazione
orizzontale senza mai cercare la potenza verticale che e' della
manipolazione spregiudicata.
3) se non si ottiene per legge una cosa giusta e necessaria, si puo'
continuare a cercarla per via volontaria: come la prima fase di questa
campagna fu la consegna volontaria delle armi, cosi' il Brasile, e ogni
altro popolo, potra' continuare, insistere, crescere in civilta'.
4) ascolto sempre il GR1 di radio-Rai: prima non ha mai parlato del
referendum, ne ha parlato solo dopo la vittoria del no, subito.
Buona salute, buon coraggio, buona resistenza, buona speranza.

RIFLESSIONE. CARLO SANSONETTI E LORELLA PICA: DOPO IL REFERENDUM
[Ringraziamo don Carlo Sansonetti e Lorella Pica dell'associazione "Sulla
strada" (per contatti: carlo.sansonetti@libero.it) per questa lettera.
Carlo Sansonetti, parroco di Attigliano, ha preso parte a varie rilevanti
esperienze di solidarieta' concreta in Italia e in America Latina, ed e'
trascinante animatore dell'esperienza di "Sulla strada".
Lorella Pica (per contatti: lorellapic@libero.it), gia' apprezzata pubblica
amministratrice, e' impegnata nell'associazione "Sulla strada", nella
rivista "Adesso", in molte iniziative di pace, solidarieta', nonviolenza.
Per sostenere le attivita' di solidarieta' in America Latina e in Africa
dell'associazione "Sulla strada": via Ugo Foscolo 11, 05012 Attigliano (Tr),
tel. 0744992760, cell. 3487921454, e-mail: sullastrada@iol.it, sito:
www.sullastradaonlus.it; l'associazione promuove anche un periodico,
"Adesso", diretto da Arnaldo Casali, che si situa nel solco della proposta
di don Primo Mazzolari; per contattare la redazione e per richiederne copia:
c. p. 103, 05100 Terni, e-mail: adesso@reteblu.org, sito:
www.reteblu.org/adesso]

La morte, ancora una volta, ha vinto la sua battaglia contro la vita.
Uomini amanti la vita, in piedi.
Lo sapete bene, solo tre giorni dura il silenzio della vita, poi il suo
ruggito, potente, si erge di nuovo, per sempre: e' gia' ora di ricominciare.
Cari amici della vita, sorelle e fratelli nostri, vi stiamo vicini e con voi
rialziamo la testa pronti per le nuove lotte.
Troppi rimangono in silenzio, noi, facce di bronzo, annunciamo ancora pace e
nonviolenza.

INIZIATIVE. QUARTA GIORNATA ECUMENICA DEL DIALOGO CRISTIANO-ISLAMICO:
VINCERE LA PAURA PER COSTRUIRE LA PACE
[Da Giovanni Sarubbi (per contatti: gsarubb@tin.it) riceviamo e volentieri
diffondiamo il seguente comunicato del 19 ottobre 2005. Giovanni Sarubbi,
amico della nonviolenza, promotore del dialogo interreligioso, giornalista,
saggista, editore, dirige l'eccellente rivista e sito de "Il dialogo"
(www.ildialogo.org)]

Segnaliamo altre importanti iniziative in vista della quarta Giornata
ecumenica del dialogo cristianoislamico del 28 ottobre 2005. Segnaliamo
l'iniziativa che si svolgera' a Reggio Calabria, con il coinvolgimento di
tutte le Chiese cristiane della citta'; quelle che si svolgeranno a Citta'
di Castello, Novellara, Bologna, Verona, Faenza, Sesto Calende, Genova. Una
iniziativa e' in preparazione a Caserta. Il vescovo di Modena, che ha
approvato con entusiasmo l'iniziativa, ha annunciato per domenica 23
ottobre, dalle pagine del settimanale diocesano "Il nostro tempo", la
lettura durante le messe in tutte le parrocchie della diocesi di un suo
invito ufficiale ad accogliere l'iniziativa del digiuno per il 28 ottobre.
Molti sono i settimanali diocesani o di area cattolica che hanno riportato
con enfasi la notizia, che e' stata riportata anche sui principali organi di
informazione di area protestante.
*
Ma l'evento piu' significativo di questa settimana e' stata la lettera del
Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso che ha formulato un
messaggio augurale ai musulmani, firmato dal presidente del dicastero,
monsignor Michael L. Fitzgerald, sul tema: "Continuando sulla via del
dialogo".
Nel testo monsignor Fitzgerald ha ricordato che nel 1991, in occasione della
prima guerra del Golfo, Giovanni Paolo II affermo' la necessita' di "un
dialogo sincero, profondo e costante fra credenti cattolici e credenti
musulmani, dal quale potra' scaturire una piu' grande conoscenza e fiducia
reciproca". "Queste parole - ha affermato monsignor Fitzgerald - sono
certamente ancora attuali".
Fitzgerald ha ricordato l'impegno di Giovanni Paolo II per il dialogo con
l'islam e la stima di cui egli godeva nei paesi musulmani e da parte dei
rappresentanti religiosi dell'islam. Ha ancora ricordato che Francesco
d'Assisi e' stato, fra i cattolici, il pioniere del dialogo islamo-cristiano
e che proprio ad Assisi nel 1986 Giovanni Paolo II ha promosso l'incontro di
tutte le religioni per la pace.
Dopo aver ricordato l'anniversario, proprio il 28 ottobre, della
promulgazione della "Nostra Aetate", monsignor Fitzgerald ha richiamato le
parole con le quali il nuovo papa Benedetto XVI ha accolto i i
rappresentanti di altre religioni che avevano partecipato alla celebrazione
d'inizio del suo pontificato, ed in particolare le parole rivolte ai
musulmani: "Sono particolarmente grato per la presenza tra voi di membri
della comunita' musulmana, ed esprimo il mio apprezzamento per la crescita
del dialogo tra musulmani e cristiani, a livello sia locale, sia
internazionale. Vi assicuro che la Chiesa vuole continuare a costruire ponti
di amicizia con i seguaci di tutte le religioni, al fine di ricercare il
bene autentico di ogni persona e della societa' nel suo insieme". monsignor
Fitzgerald ha poi richiamato le conclusioni di papa Benedetto XVI, che ha
affermato: "Pertanto, e' imperativo impegnarsi in un dialogo autentico e
sincero, costruito sul rispetto della dignita' di ogni persona umana,
creata, come noi cristiani fermamente crediamo, a immagine e somiglianza di
Dio".
Ed e' proprio partendo dalle parole del papa che monsignor Fitzgerald chiude
la sua lettera affermando che "spetta a noi rafforzare il nostro impegno per
costruire buone relazioni fra le persone di differenti religioni, promuovere
il dialogo culturale e lavorare insieme per una maggiore giustizia ed una
pace duratura. Dimostriamo, come cristiani e musulmani, che si puo' vivere
insieme in una sincera fraternita', cercando sempre di compiere la volonta'
di Dio Misericordioso che ha creato l'umanita' perche' fosse un'unica
famiglia".
Ricordiamo, infine, che con il prossimo comunicato stampa verra' diffusa,
come da tradizione, la lettera che Brunetto Salvarani, direttore di
"Cem-Mondialita'", ha scritto per il 28 ottobre, quarta giornata ecumenica
del dialogo cristianoislamico.
Con un cordiale saluto di shalom - salaam - pace
Il comitato organizzatore della quarta giornata ecumenica del dialogo
cristianoislamico

APPELLI. ABOLIRE I CENTRI DI PERMANENZA TEMPORANEA
[Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il
seguente appello]

"Tutto quello che ho sempre sostenuto segnalandolo nelle sedi istituzionali,
adesso e' finalmente emerso dall'inchiesta di questo giornalista coraggioso
dell''Espresso' al quale darei un premio". Queste parole sono parte della
dichiarazione di Biagio Palumbo rilasciata alla stampa nei giorni scorsi.
Palumbo e' l'ex direttore del Centro di permanenza temporanea (in sigla:
Cpt) di Agrigento. Il giornalista coraggioso invece e' Fabrizio Gatti.
Prendendo alla lettera l'appello dei mesi scorsi del presidente Ciampi ai
giornalisti di "tenere la schiena dritta", Gatti ha realizzato un'inchiesta,
pubblicata dal settimanale "l'Espresso", sulle violenze e sugli abusi
commessi nel Cpt di Agrigento. Il suo ottimo lavoro ha permesso nei giorni
scorsi di tornare a discutere di quei luoghi di illegalita' e diritti negati
che sono i Cpt italiani.
Situazioni che vengono denunciate da anni, da molte voci inascoltate. Gia'
nel 2000 lo stesso Gatti aveva realizzato la stessa inchiesta sul Cpt di Via
Corelli a Milano. Tra i primi a denunciare le violenze e gli abusi nei Cpt,
soprattutto nel Regina Pacis di Lecce, fu Dino Frisullo. L'indimenticato e
indimenticabile Dino e' stato fino alla morte (avvenuta nel giugno di due
anni fa) anima e colonna dell'associazione "Senzaconfine". Le denunce e le
inchieste sul Regina Pacis, sui Cpt e sulle condizioni dei migranti in
Italia nel 2002 diedero vita a "Mare Nostrum", film d'inchiesta di Stefano
Mencherini, regista Rai e giornalista indipendente. Sono passati tre anni,
nei quali il film ha subito censure senza fine. L'inchiesta di Fabrizio
Gatti sull'"Espresso" ha ribadito quel che gia' "Mare Nostrum" aveva
denunciato.
Nei mesi scorsi una campagna popolare, lanciata da diverse associazioni
(Peacelink, Articolo 21, Melting Pot), ha raccolto centinaia di firme e ha
proposto un digiuno a staffetta cui hanno preso parte decine tra persone
comuni, migranti, parlamentari e persone impegnate nel sociale. Rilanciamo
oggi le richieste della campagna.
Chiediamo quindi che questa sia l'occasione per mostrare agli italiani la
verita'.
Cessi quindi la censura del servizio pubblico (pagato da tutti i cittadini
italiani) su "Mare Nostrum", sulla condizione fatta ai migranti e sui Cpt, e
si avvii un vero dibattito a livello nazionale sull'incostituzionalita',
l'illegalita' e il fallimento della legge Bossi-Fini e dei Cpt.
Cosi' che sia finalmente possibile superare e chiudere questi luoghi
disumani, dove abusi e violenze avvengono giornalmente.
*
Primi firmatari: Alessia Montuori, associazione "Senzaconfine"; Carmine
Miccoli, prete, Pax Christi; Mao Valpiana, "Azione Nonviolenta"; Riccardo
Orioles, giornalista antimafia; Carlo Ruta, giornalista antimafia; Antonella
Serafini, del sito www.censurati.it; don Albino Bizzotto, "Beati i
costruttori di pace"; padre Alex Zanotelli, missionario comboniano; Agnese
Ginocchio, cantautrice per la pace; Luca Kocci, redattore di "Adista".
*
Per aderire inviare una e-mail a: marenostrum_peacelink@yahoo.it

APPELLI. "BEATI I COSTRUTTORI DI PACE": UN APPELLO AI VESCOVI ITALIANI
SULLO SCANDALO DEI CENTRI DI PERMANENZA TEMPORANEA
[Da Mariagrazia Bonollo (per contatti: salbega@lillinet.org) riceviamo e
volenteri diffondiamo il seguente appello promosso dal movimento dei "Beati
i costruttori di pace" (per contatti: tel. 0498070522, e-mail:
beati@libero.it, sito www.beati.org)]

Carissimi fratelli vescovi,
Lampedusa, come Falluja, ha incontrato il vostro silenzio totale.
Non solo in nome di Gesu' Cristo, ma anche in nome della semplice comune
umanita' vi chiediamo di esprimere un po' di indignazione e di compassione.
Sull'eucarestia potrete esprimere idee bellissime, fare proposte attraenti,
ma senza la storia essa rimane un rito svuotato. Le nostre idee su Gesu' a
volte ci distolgono dal Gesu' vivo.
Come cristiani, che sentono sempre di piu' il disagio per la distanza tra il
sentire comune dei fedeli e i loro vescovi, vi chiediamo di compiere un
gesto semplice e pratico di comunione e di riconciliazione.
A nessuno di noi e' permesso visitare i Centri di permanenza temporanea
(Cpt) come quello di Lampedusa. Qualcuno di voi ci aiuti a rompere
concretamente queste barriere invalicabili per legge entrando dentro a
qualcuna di queste strutture, per chiedere perdono, riaffermando il pieno
rispetto della dignita' dei piu' poveri che premono alle nostre frontiere, e
perche' come Chiesa, anche nelle comunita' locali, non ci rendiamo
conniventi con le angherie e l'umiliazione del povero.

INCONTRI. UN INCONTRO A VITERBO
[Dall'Arci di Viterbo (per contatti: viterbo@arci.it) riceviamo e
diffondiamo]

L'Arci Servizio Civile di Viterbo, in collaborazione con il Centro di
ricerca per la pace, organizza per giovedi' 27 ottobre 2005, con inizio alle
ore 16, presso la sala conferenze della Provincia, in via Saffi a Viterbo,
un incontro sul tema "Gestire i conflitti, costruire la pace. verso una
prospettiva nonviolenta".
Parteciperanno all'incontro come relatori: Elena Buccoliero, del comitato di
coordinamento del Movimento Nonviolento, autrice del libro Bullismo,
bullismi; Lisa Clark, dei "Beati i costruttori di pace"; Andrea Cozzo,
docente di teoria e pratica della nonviolenza presso l'Universita' di
Palermo; Daniele Lugli, segretario nazionale del Movimento Nonviolento;
Fabio Mini, generale dell'esercito italiano, autore del libro La guerra dopo
la guerra.
Per informazioni: tel. 0761321860.

INIZIATIVE. MOVIMENTO INTERNAZIONALE DELLA RICONCILIAZIONE E MOVIMENTO
NONVIOLENTO DEL PIEMONTE E DELLA VAL D'AOSTA: 4 NOVEMBRE, NON FESTA MA
LUTTO
[Dagli amici del Movimento Internazionale della Riconciliazione e del
Movimento Nonviolento del Piemonte e della Val d'Aosta (per contatti:
info@cssr-pas.org) riceviamo e volentieri diffondiamo]

Per le autorita' militari e civili il 4 novembre e' un giorno di festa. Per
il popolo italiano e' un giorno di lutto.
In quella prima guerra mondiale 650.000 italiani sono morti. E quella
"vittoria militare" ci porto' il fascismo, altre guerre, altri morti.
La festa fu una ricorrenza istituita dal fascismo per trasformare le vittime
della prima guerra mondiale in eroi coraggiosi che si immolavano per la
Patria. Una guerra che costo' all'Italia 650.000 morti e un milione di
mutilati e feriti, molti di piu' di quanti erano gli abitanti di Trento e
Trieste, i territori ottenuti con la vittoria della guerra che erano gia
stati concessi all'Italia dall'Austria in cambio della non belligeranza. La
prima guerra mondiale fu un affare per grandi industriali, politici
corrotti, funzionari statali senza scrupoli, alti ufficiali con le mani in
pasta.
E oggi? Le spese militari aumentano a discapito di quelle sociali.
Anche nel 2005 sono aumentate le spese militari e raggiungeranno la cifra
record di 20.793 milioni di euro: quasi un miliardo di euro in piu' (oltre
il 5%) rispetto al 2004, al quale va aggiunto anche 1,2 miliardi di un fondo
speciale per le spese delle missioni militari all'estero.
Ben il 25% di questi soldi se ne va per comprare nuove armi.
*
Il 4 novembre troviamoci tutti in piazza Castello a Torino per esprimere il
nostro dissenso all'ufficialita' di questa giornata in cui non c'e' proprio
nulla da festeggiare.
Appuntamento per tutti in piazza Castello a Torino con le bandiere
arcobaleno per una presenza di volonta' di pace. Occuperemo la piazza dalle
ore 16,30 fino all'"ammainabandiera" prevista alle ore 17,30.
Alle ore 18 appuntamento al Centro "Sereno Regis" per un incontro sul tema:
La prima guerra mondiale, la madre di tutte le guerre.
*
Movimento Internazionale della Riconciliazione, Movimento Nonviolento.
Questa iniziativa e' proposta assieme a molte altre associazioni
antimilitariste, pacifiste, nonviolente.

RIFLESSIONE. LIDIA MENAPACE: LA VENDETTA DEL PATRIARCATO. IN PARLAMENTO
[Dal quotidiano "Liberazione" del 16 ottobre 2005. Lidia Menapace (per
contatti: lidiamenapace@aliceposta.it) e' nata a Novara nel 1924, partecipa
alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica
amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra
le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti
della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli
scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e
riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. Il
futurismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; L'ermetismo.
Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; (a cura di), Per un movimento
politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia
Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza
sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara
Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il
papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna,
Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001; (con Fausto
Bertinotti e Marco Revelli), Nonviolenza, Fazi, Roma 2004]

Sono furibonda dopo la maschia esibizione di nonnismo parlamentare di
qualche giorno fa. Direi solo male parole a tutti. Infatti non e' che noi
femministe non avessimo segnalato il pericolo di una vendetta del
patriarcato. C'erano state avvisaglie nel referendum e nella costante
diminuzione di donne elette. Ne' avevamo o abbiamo da essere molto
soddisfatte del centrosinistra, che esibisce costantemente tavoli tutti o
quasi di uomini.
Recentemente il centrosinistra organizzo' a Venezia un incontro tra Prodi e
le associazioni di donne, e si trovo' davanti a una compatta, ripetuta,
tenace e molto signorile e composta richiesta - tra molte altre cose - di
riequilibrio della rappresentanza; rispose per bocca del suo candidato a
presiedere il governo: "Toglietevi dalla testa che qualche uomo vi ceda il
posto: i posti si conquistano!". Sembra che l'articolo della Costituzione in
cui si dice che compito della Repubblica (e si presume anche dei suoi
governi) e' rimuovere gli ostacoli e promuovere le persone eccetera
eccetera, non sia conosciuto da nessuno.
Sono stufa di dovere a ogni riunione (seminario, gruppo di riviste,
dibattito) intervenire petulantemente in proposito, ironizzando su me stessa
e sentendomi dire, se non riesco a condire le parole con un sorriso: "Ma
come sei cattiva!". Loro non sanno la rabbia che ho in corpo. Comunque noi
non demordiamo: da circa cinquemila anni ci dite che siamo stupide, ci dite
che non serve che andiamo a scuola, che non capiamo niente di politica, anzi
siamo "per natura" inadatte alla politica, siamo irrazionali, emotive,
pettegole, amorali, insomma inferiori: se ancora non ci avete convinte,
sara' bene che cambiate registro.
Voglio solo ricordare che potremmo svergognare il nostro establishment
davanti alle Nazioni Unite, raccogliendo firme da mandare al Palazzo di
vetro, per denunciare che l'Italia approvo' allegramente all'unanimita' una
raccomandazione dell'assemblea in cui si diceva che i governi e gli stati
dovevano prendere misure transitorie atte a riequilibrare in modo stabile la
rappresentanza tra i generi. Dopo pochi mesi aboli' le quote: che ne dite?
Alzheimer politico? ci prendiamo il gusto di inondare le Nazioni Unite con
un fiume di firme di denuncia?
La raccomandazione delle Nazioni Unite era fondata sugli studi delle
sociologhe del nordeuropa che avevano scoperto che un soggetto da tempo
discriminato ha bisogno di misure di riequilibrio e che tali misure possono
essere tolte quando stabilmente la proporzione tra i soggetti considerati
(nel caso i generi) si stabilizza tra il 60 e il 40%. Se non si arriva a
tale bilanciamento tra i generi (potendo anche il genere femminile trovarsi
in maggioranza) il processo non si puo' considerare avvenuto.

LIBRI. ANNA MARIA MERLO PRESENTA L'ULTIMO LIBRO DI FETHI BENSLAMA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 21 ottobre 2005.
Anna Maria Merlo e' corrispondente da Parigi del quotidiano e acuta
osservatrice delle vicende politiche, sociali e culturali francesi.
Fethi Benslama e' psicoanalista, docente universitario a Parigi, prestigioso
saggista, impegnato contro il razzismo e l'integralismo, per i diritti umani
di tutti gli esseri umani]

"Not in my name", dicono i manifestanti anglosassoni per protestare contro
guerre e aggressioni dei loro governi: una simile posizione guida Fethi
Benslama, psicoanalista e professore di psico-patologia a Paris VII, nella
sua Declaration d'insoumission a' l'usage des musulmans et de ceux qui ne le
sont pas (Flammarion, pp. 98, euro 9,50) quando scrive "In nome dell'islam:
tale e' oggi l'invocazione macabra, la folle litania che si aggiudica il
potere assoluto di distruggere". Il libro e' nato su richiesta del gruppo di
lavoro che si e' formato a Parigi sulla base del Manifeste des libertes,
pubblicato nel febbraio del 2004, dove donne e uomini chiedevano a tutti
coloro che si riconoscono contemporaneamente nei valori della laicita' e nel
riferimento all'Islam come cultura di uscire dal loro isolamento e di
opporsi all'ideologia dell'islamismo, che con gli attentati semina morte in
nome di una religione. Islam, musulmani: "quando la forza del nome irradia
cosi' tante devastazioni, non possiamo considerare che questo avvenga per
caso": ecco il punto di partenza iconoclasta di Benslama. Certo, il passato
e' saturo di ragioni che si identificano con le devastazioni economiche,
sociali e culturali del colonialismo prima e dei regimi post-coloniali poi;
vengono avanzate delle scuse, come il fatto che anche sotto altri nomi
(cristianesimo, comunismo, imperi coloniali ecc.) siano state giustificate
violenze inaudite. Ma oggi - dice Benslama - chi si riconosce nella cultura
dell'Islam (con la I maiuscola, per indicare appunto una cultura...) ha un
"dovere di rivolta". Perche' "la barbarie non puo' essere accidentale".
*
Le monarchie petrolifere, alla fine degli anni '60, approfittando della
guerra fredda e degli errori del fronte progressista, "hanno irrigato con la
loro ricchezza acquisita con facilita' i semi dell'islamismo". Un processo
favorito dalla democrazie occidentali: "presi nella morsa tra i movimenti
religiosi totalitari, gli stati dispotici e gli arrangiamenti dei governi
democratici, i cercatori di liberta' del mondo musulmano non trovano neppure
sulla loro strada gli intellettuali europei e americani che, non tanto tempo
fa, avevano prodigato il loro sostegno ai dissidenti dei sistemi totalitari
dell'est", constata amaro l'autore. Di qui i problemi di identita' che
costituiscono la principale minaccia contro le solidarieta' tra generazioni,
popoli, culture. E' una questione che deve interessare tutti, non i soli
musulmani, dice Benslama, perche' la rivendicazione di identita' e'
sfruttata dall'islamismo radicale ed e' proprio a partire da una sua
ridefinizione che puo' costruirsi la rivolta.
*
Fethi Benslama individua nell'oppresione delle donne il fattore che
"organizza nell'insieme della societa' l'ineguaglianza, l'odio per
l'alterita', la violenza, ordinate dal potere maschio".
Non a caso il Manifeste era nato al momento della controversia sul velo in
Francia. "Contrariamente a quanto la polemica sul velo ha lasciato
accreditare, sia tra i suoi difensori che tra i detrattori, il velo non e'
un segno, ma cio' che deve occultare i 'segni malefici' di cui il corpo
della donna e' portatore in quanto tale". Il velo, come "antisegno
ostentatorio della donna percepita come un male necessario", perpetua la
dicotomia delle identita' sessuali, fondate sulla differenza naturale,
"supporto principale delle ideologia della purezza, che costituiscono il
corpo della donna come il lugo immaginario di un rischio di infestazione
genealogico del gruppo da parte dell'altro".
*
La rivolta sta nel "mettere disordine nella purezza", cioe' "rimettere in
primo piano nella vita pubblica, nello scambio e nell'alternanza al potere,
la questione del cosmopolitismo e della minoranza, facendo riferimento al
principio che rende indissociabili eguaglianza e liberta'".
Benslama scrive: "l'avrete capito, se consideriamo che l'emancipazione delle
donne e' il punto dove si stringe e dove si dispiega il ventaglio dei
problemi piu' cruciali per l'avvenire democratico del mondo musulmano e'
perche' il complesso religioso che organizza i rapporti di alterita'
nell'islam ha, piu' che altrove, inchiodato la posizione del genere
femminile, con lo scopo di imporre il potere maschile".
Per opporsi alla posizione difensiva dell'islamismo di massa, Benslama
propone anche un approccio pratico, cioe' un'azione politica e intellettuale
tale da aprire degli spazi per "esperienze singolari di liberta'", a
cominciare da un'Universita' delle liberta' (un'universita' popolare), per
arrivare a superare, attraverso una riappropriazione degli strumenti
culturali, il mito identitario dell'islamismo, su posizioni laiche, che
disinguano la sfera spirituale da quella legislativa.
Certo, avverte, il modo con cui vengono trattati in Europa gli immigrati di
origine musulmana non aiuta, anzi, li spinge nelle braccia degli imam che
predicano il mito identitario come sola risposta all'esclusione.

DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

EDITORIALE. GIOBBE SANTABARBARA: DUE CATTIVE NOTIZIE E DUE BUONE
[Giobbe Santabarbara e' uno dei principali collaboratori del "Centro di
ricerca per la pace' di Viterbo]

La prima cattiva notizia e' che il referendum per proibire il commercio
delle armi in Brasile e' stato perso.
La seconda, conseguente, e' che migliaia di brasiliani continueranno ad
essere assassinati quest'anno, e negli anni a venire.
Si puo' uccidere premendo un tasto, si puo' uccidere dicendo un monosillabo,
si puo' uccidere stando a guardare.
*
Ma la prima buona notizia e' che il referendum per il disarmo si e' pur
svolto. Che in uno dei piu' grandi paesi del mondo una cosa cosi' immensa
come chiedere all'intera popolazione di pronunciarsi per il disarmo, ebbene,
questa cosa e' accaduta.
E se e' accaduta una volta, potra' accadere ancora, potra' accadere ovunque.
Una muraglia e' stata abbattuta per sempre, una cosa prima impensabile e'
divenuta realta'.
Forse saremo sconfitti ancora molte volte, ma ogni volta torneremo di nuovo
a tentare di abolire le armi con la forza della democrazia, col libero voto
degli esseri umani, piu' coscienti, piu' persuasi, piu' forti, e piu'
numerosi di prima. E infine vinceremo.
Perche' alla fine vincera' il disarmo. Con tutto il cuore speriamo che
avvenga prima che le armi - e un modello di sviluppo e un sistema di potere
che nella tecnologia dell'uccidere e nel virus del dominio trova la sua
perversa ideologia e prassi - avranno ridotto la civilta' umana e l'umana
famiglia a una esistenza infera di inenarrabili dolori in un pianeta
irreversibilmente devastato e contaminato. Non possiamo perder tempo.
*
La seconda buona notizia e' che oltre trentatre milioni di esseri umani in
uno stesso paese in uno stesso giorno hanno detto si' al disarmo, si' alla
vita, si' alla forza della verita', si' alla scelta della nonviolenza. Un
pronunciamento di proporzioni cosi' vaste, di limpidezza cosi' assoluta, di
concentrazione cosi' puntuale, non si era mai verificato nella storia del
mondo.
Trentatre milioni di esseri umani. La piu' grande potenza umana che fin qui
si sia mai espressa per il disarmo.
Ah, mi dico, se ovunque nel mondo avessimo dato man forte alle sorelle e ai
fratelli in Brasile, oggi il disarmo sarebbe gia' legge in uno dei piu'
grandi paesi del mondo. E nel giro di pochi anni questa vittoria avremmo
potuto riprodurre ovunque, paese dopo paese, passo dopo passo, camminando
per ogni strada, bussando a ogni porta, stringendo una mano dopo l'altra in
un'unica catena ad unire l'umanita' intera contro il male e la morte,
facendo crollare come un castello di carte il sistema della violenza e della
menzogna: perche' la verita' e' contagiosa, e niente e nessuno puo'
fermarla.
Quanto avremmo voluto che la prima vittoria fosse venuta ier l'altro. Ci
vorra' piu' tempo. Ma e' il compito che abbiamo. E non ci fermeremo, non
possiamo fermarci.
*
Resta immenso un dolore, indicibile. Il dolore di sapere che potevamo
salvare tante vite e non ne siamo stati capaci; il dolore di non esser
riusciti a persuadere altri che occorreva entrassimo nella lotta anche noi,
l'umanita' intera; il dolore di non aver sfondato il muro dell'indifferenza
internazionale, laddove la solidarieta' internazionale poteva far vincere il
si', poteva far vincere l'umanita', poteva far vincere il mondo, poteva
salvare innumerevoli vite di concrete donne e concreti uomini che
continueranno ad essere uccisi dalle armi assassine.
Versa le tue lacrime ancora una volta, ancora una volta fatti cuore, vecchio
Giobbe. La lotta continua.

MATERIALI. DAL SITO WWW.REFERENDOSIM.COM.BR UN PRIMO COMMENTO
[Dal sito ufficiale della campagna per il si' (www.referendosim.com.br)
riprendiamo il seguente primo immediato commento all'esito del referendum]

Per coloro che lottano per la vita e per un Brasile con meno armi, il
risultato del referendum non e' una disfatta. Infine, piu' di 33 milioni di
brasiliani hanno votato con convinzione contro le armi.
Del 64% degli elettori che hanno votato contro la proibizione, molti hanno
fatto queta scelta per protesta contro l'attuale governo, contro
l'inefficienza della polizia, e per altri motivi ancora che non implicano
un'approvazione delle armi.
A sostegno del voto per il no hanno giocato interessi eterogenei, mentre i
milioni di brasiliani che hanno votato si' rappresentano una forza solida e
coerente impegnata nella lotta per il disarmo. E questa lotta continua.
*
Il referendum ha posto all'ordine del giorno il tema della sicurezza
pubblica, ed ha fatto si' che lo Statuto del disarmo fosse ampiamente
divulgato e discusso. I 36 articoli della legge che continuano ad essere in
vigore rappresentano un progresso della legislazione brasiliana per il
controllo delle armi da fuoco. Tra le misure previste dallo Statuto del
disarmo ci sono nuovi mezzi per disarmare la criminalita', migliorare
l'azione della polizia e combattere il traffico delle armi. Ad esempio:
- la proibizione del porto d'armi per il cittadino comune; il possesso
illegale di armi e' un crimine grave per cui sono previste pene fino a sei
anni di detenzione;
- l'aumento della pena per il delitto di traffico d'armi;
- l'integrazione delle banche-dati delle istituzioni relative alle armi in
Brasile: la Sigma, dell'esercito, che archivia informazioni sulla
produzione, commercializzazione, esportazione, importazione e
immagazzinamento negli arsenali; e la Sinarm, della polizia federale, che
archivia informazioni sulle armi registrate, sui porti d'arma concessi, e
sulle armi sequestrate.
- la registrazione e marcatura di tutte le armi prodotte nel paese e vendute
alle forze di pubblica sicurezza, affinche' si possa identificare la
provenienza delle armi sequestrate.
Ora dobbiamo concentrarci nella lotta affinche' lo Statuto del disarmo sia
rispettato ed applicato integralmente. Non possiamo tornare indietro.
*
Il referendum ha costituito un'esperienza che ha arricchito la democrazia in
Brasile. Speriamo che la coscienza della popolazione sull'importanza della
propria partecipazione civica aumenti sempre piu', e che altri referendum si
svolgano.
A tutte le persone che si sono impegnate nella campagna per il si'
rivolgiamo un sincero ringraziamento, e un invito a far si' che la conquista
di una cultura della pace divenga impegno quotidiano e sia costantemente
presente nel nostro agire.

PREFETTURA DEL MUNICIPIO DI SAN PAOLO (BRASILE): CENTO MOTIVI PER
RINUNCIARE ALLE ARMI
[Dal sito www.referendosim.com.br riprendiamo il seguente documento della
Commissione municipale per i diritti umani della Prefettura del Municipio di
San Paolo a sostegno della Campagna di disarmo promossa dal governo federale
brasiliano, con la quale si invitavano tutti i cittadini a consegnare le
armi da fuoco alle autorita' affinche' venissero distrutte.
La Campagna di disarmo avra' come punto d'arrivo il referendum del 23
ottobre 2005 con cui si chiede all'intera popolazione brasiliana di
rispondere al seguente quesito: "Deve essere proibito il commercio delle
armi e delle munizioni in Brasile?".
Segnaliamo la presenza  in questo documento di molte ripetizioni e di alcune
flagranti contraddizioni (cfr. ad esempio i nn. 2, 18, 45), frutto
evidentemente dell'aggregazione senza adeguata collazione di ricerche e
statistiche diverse, e della mancanza quindi di una revisione che ponendo a
confronto i dati palesemente incompatibili decidesse per una sola fonte o
segnalasse la verificata indecidibilita' tra fonti diverse ugualmente
autorevoli (o ugualmente incerte). Abbiamo preferito mantenere tale
incongruenze nella nostra traduzione, anziche' uniformare o trovare formule
che le attenuassero o compatibilizzassero; ci e' parso infatti utile
rispettare il testo anche in queste sue peculiarita', e del resto questo ci
offre l'occasione sia per evidenziare che le raccolte di dati e le
statistiche sono sempre opinabili e sempre meriterebbero una discussione e
verifica critica (a onta di coloro che pensano che una statistica possa
sostituire un ragionamento, o un dato numerico possa surrogare una scelta
morale), sia per chiarire una volta per tutte che cio' che ci sta a cuore
non e' la minuziosa, pedante, ad un tempo macabra e astratta contabilita'
dei ragionieri della morte, ma la scelta decisiva di voler salvare le vite
umane, le concrete, preziose, insostituibili vite umane che sarebbe cosi'
facile salvare se si facesse la scelta ragionevole e urgente del disarmo;
gia' Omero sapeva che da se stesse le armi provocano gli esseri umani ad
uccidersi. Le armi, in quanto servono sempre e solo a uccidere, sono sempre
nostre nemiche: di noi singoli, unici, fragili esseri umani, e dell'umanita'
intera (p. s.)]

1. Ogni giorno in Brasile cento persone muoiono uccise da armi da fuoco.
2. Ogni giorno in Brasile una persona muore vittima di un incidente con
un'arma da fuoco.
3. Ci sono piu' morti per armi da fuoco che per incidenti automobilistici.
4. Il 67% delle morti di esseri umani tra i 15 e i 34 anni e' causato da
armi da fuoco.
5. Solo nello scorso anno i morti per armi da fuoco sono stati 36.000. Una
persona ogni 15 minuti.
6. Il Brasile e' il paese in cui si muore e si uccide di piu' con armi da
fuoco.
7. Il Brasile ha il 2,8% della popolazione mondiale, ma ha il 7% degli
omicidi con armi da fuoco nel mondo.
8. In Brasile si muore piu' per armi da fuoco (29,6%) che per incidenti
automobilistici (25,1%).
9. Le armi da fuoco sono la prima causa di morte dei giovani in Brasile.
10. In Brasile per un giovane la probabilita' di morire per arma da fuoco e'
due volte e mezzo piu' alta (34%) che quella di morire per incidente
automobilistico (14%).
11. La persona che si arma si illude che cio' la protegga. Questo accade
solo nei film. Nella vita reale il criminale ha l'iniziativa
dell'aggressione e sceglie il momento in cui siete distratti. Se voi
tentaste di usare la vostra arma, probabilmente morireste.
12. Una persona che ha delle armi in casa ha il 57% di probabilita' in piu'
di essere assassinata rispetto a una persona che non ha armi.
13. Se un criminale trova un'arma nella vostra auto o nella vostra casa, la
usera' contro di voi e la vostra famiglia, e poi se la portera' via.
14. La maggior parte degli omicidi e' commessa per incomprensioni e
aggressioni tra parenti e conoscenti: risse in locali e bar, liti tra
automobilisti, scontri tra tifoserie, e conflitti in casa. Sono situazioni
in cui le colluttazioni fisiche sono sostituite da sparatorie.
15. Ad esempio, nella zona sud di San Paolo nel 46% degli omicidi vittima e
autore si conoscevano.
16. Chiunque puo' perdere la testa, e avendo un'arma a portata di mano puo'
diventare un assassino.
17. Contrariamente a quanto pensa la maggior parte delle persone, sul totale
delle morti per arma da fuoco solo il 10% sono il risultato dell'attivita'
di ladri (furto o rapina seguita da morte).
18. Gli incidenti con armi da fuoco uccidono in media un brasiliano ogni
ora.
19. Ogni tre persone ricoverate in ospedale per ferite da proiettile, una ha
avuto un incidente con un'arma. E le vittime piu' numerose sono bambini.
20. Ogni giorno mediamente muoiono quattro brasiliani per suicidio con armi
da fuoco.
21. Lo stato di Rio Grande del Sud e' uno degli stati piu' armati del
Brasile ed occupa il secondo posto per i suicidi con armi da fuoco. Una
ricerca svolta dal dottor David Hemenway, dell'Universita' di Harvard, e'
giunta alla conclusione che in tutto il mondo "dove ci sono piu' armi da
fuoco, ci sono piu' suicidi".
22. La persona comune che compra un'arma in un negozio involontariamente
finisce per rifornire il crimine quando la sua arma e' rubata nel corso di
un'aggressione, o perduta, o rivenduta a terzi.
23. Ogni anno nello stato di San Paolo 11.000 armi legali vengono rubate e
passano nelle mani dei criminali.
24. Disarmare i criminali e' compito della polizia. Quasi tutti gli articoli
del nuovo Statuto del disarmo cercano di dare mezzi alla polizia per
combattere meglio la criminalita' organizzata (pene alte per il contrabbando
di armi, marcatura di armi e munizioni, banca dati nazionale, etc.).
25. E' un mito ritenere che le armi che ci minacciano siano armi a canna
lunga, straniere, importate di contrabbando. Rcerche svolte in
collaborazione con le forze di polizia a Rio de Janeiro hanno dimostrato che
il 74% delle armi sequestrate in contesti di illegalita' sono brasiliane, e
il 78% e' costituito da pistole e revolver.
26. Le armi straniere e a canna lunga sono usate negli scontri tra bande, o
tra i criminali e la polizia. Cio' che ci minaccia nelle aggressioni sono
pistole e revolver, in maggior parte prodotti in Brasile. Da cui
l'importanza del controllo su queste armi legali, come prevede lo Statuto
del disarmo.
27. I delitti commessi con armi da fuoco sono molto piu' letali di quelli
commessi all'arma bianca.
28. In una aggressione con armi da fuoco la probabilita' di essere uccisi e'
del 75%, mentre in una aggressione all'arma bianca essa e' del 36%.
29. Le armi da fuoco possono colpire piu' persone in pochi secondi, come
accade nelle stragi, e provocano morti anche attraverso pallottole vaganti.
Secondo la polizia ogni mese a Rio de Janeiro 40 persone muioiono colpite da
pallottole vaganti.
30. Il sistema sanitario pubblico spende circa 12.000 reali per ogni vittima
di arma da fuoco. Importo che potrebbe essere utilizzato per curare numerosi
malati, acquistare medicine, potenziare gli ospedali...
31. La Campagna di disarmo ha gia' ridotto il numero degli omicidi e degli
incidenti con armi da fuoco. A Maringa', il numero delle persone uccise da
armi da fuoco e' calato del 30%.
32. Nello stato di San Paolo e' gia' diminuito il numero degli omicidi e la
quantita' delle armi per le strade.
33. Dove ci sono un'arma e due persone, c'e' potenzialmente un omicidio.
34. L'obiettivo della Campagna di disarmo non e' di sequestrare le armi dei
criminali - funzione che deve esser svolta dalle forze di polizia - bensi'
fare in modo che il cittadino onesto non tenga armi da fuoco in casa, per
evitar omicidi provocati da discussioni banali, litigi in famiglia, per
strada, nei bar, e giochi di bambini con revolver, che molte volte finiscono
in tragedia.
35. La cosa importante e' creare nuovi modelli di rifiuto della violenza,
modelli di vita migliore per tutti. Vivere meglio significa avere un paese
piu' sicuro.
36. Ogni dieci volte che un cittadino onesto afferra un'arma, nove volte il
criminale ne trae vantaggio.
37. Secondo un rapporto di "Control Arms", vi sono oltre 650 milioni di armi
di piccole dimensioni nel mondo oggi, in maggior parte nelle mani di uomini,
e in questo scenario le donne subiscono violenza direttamente e
indirettamente a causa delle armi da fuoco.
38. Uno studio realizzato negli Stati Uniti dimostra che la presenza di
un'arma da fuoco in casa aumenta del 41% il rischio che qualcuno in quel
luogo sia assassinato; per le donne il rischio aumenta del 272%.
39. In Sudafrica ogni 18 ore muore una donna assassinata dal marito o
dall'ex-marito.
40. Tra il 1995 e il 2003, quando il Canada inaspri' le leggi sulle armi da
fuoco, l'indice delle uccisioni di donne cadde del 40%.
41. Cinque anni dopo che l'Australia inaspri' le leggi sulle armi da fuoco,
nel 1996, il tasso delle uccisioni di donne diminui' della meta'.
42. La vitima di un'aggressione con un'arma da fuoco ha 12 volte piu'
probabilita' di morire di chi e' vittima di un'aggressione a coltellate, una
colluttazione fisica, etc.
43. Le donne quasi mai comprano, possiedono o usano un'arma; ma continuano a
subire le conseguenze delle armi da fuoco.
44. Un cittadino armato ha il 57% di probabilita' in piu' di essere
assassinato rispetto ai cittadini disarmati.
45. In Brasile ogni 7 ore una persona e' vittima di un incidente con un'arma
da fuoco.
46. Nel nostro paese ogni dieci omicidi nove sono commessi con armi da
fuoco.
47. A San Paolo quasi il 60% degli omicidi sono commessi da persone senza
precedenti penali e per futili motivi.
48. A Rio de Janeiro ogni due giovani che muoiono uno e' vittima di armi da
fuoco. Le armi da fuoco causano  al servizio sanitario un costo di piu' di
200 milioni di reali.
49. La violenza in America Latina consuma il 10,5% del Prodotto interno
lordo.
50. Negli Usa, per ogni volta che un cittadino usa un'arma da fuoco per
uccidere in condizioni di legittima difesa, vi sono 131 casi di morte per
omicidio, suicidio o incidente con uso di armi.
51. La probabilita' per una donna di morire assassinata con un'arma dal
marito o dall'amante, e' due volte maggiore della possibilita' di essere
uccisa da uno sconosciuto. Chi tiene un'arma in casa, in caso di aggressione
ha quasi tre volte piu' probabilita' di morire di chi e' disarmato.
52. La maggior parte degli omicidi avviene nelle grandi citta', in cui sono
concentrate le armi da fuoco.
53. Le armi costituiscono molto piu' un rischio che una protezione per chi
le porta con se'.
54. Difendere una societa' attraverso il disarmo e' tutt'altro che una
visione ideologica o romantica, significa piuttosto fare concretamente la
scelta di una societa' piu' pacifica in cui tutti possiamo essere
effettivamente piu' sicuri.
55. La stragrande maggioranza dei crimini in Brasile e' commessa con armi
brasiliane e di calibro permesso.
56. Delle armi sequestrate dalla polizia a Rio de Janeiro, piu' dell' 80%
erano brasiliane, e il 90% di calibro permesso; ovvero: anche se il
criminale non compra le armi in negozio, sono le armi entrate in
circolazione in modo legale le piu' utilizzate per commettere reati e
uccidere nel nostro paese. Lo stereotipo del trafficante che usa fucili o
mitragliatrici e' impressionante, ma nella realta' provoca un numero infimo
di morti se comparato alle vittime dei tradizionali revolver calibro 38.
57. Molte armi arrivano nelle mani dei criminali dopo essere state rubate a
persone che le avevano comprate per difendersi, oppure sono sottratte a
imprese di security o persino alla polizia. Nella sola San Paolo, in cinque
anni, piu' di 70.000 armi debitamente registrate sono state rubate. Proibire
la vendita delle armi nel paese avrebbe pertanto un effetto significativo
nella diminuzione del numero di armi nelle mani dei criminali.
58. Quasi meta' degli omicidi sono commessi da persone che non sono legate
alla criminalita', che non hanno precedenti penali, e che non hanno motivo
di detenere armi illegali.
59. Contrariamente a quanto molti pensano, circa meta' degli omicidi non
sono commessi da criminali nel corso di aggressioni o massacri. Centinaia di
persone muoiono tutte le settimane uccise da individui senza precedenti
penali e che conoscono. Sono quelle che perdono la vita in circostanze
banali: liti automobilistiche, nei bar, o addirittura assassinate in casa da
familiari. E' molto difficile evitare che questi conflitti si verifichino,
ma se riusciremo a ridurre il numero di armi, quella che poteva restare una
colluttazione non si trasformera' in un assassinio.
60. Una ricerca realizzata a San Paolo segnala la diminuzione delle lesioni
fisiche e l'aumento degli omicidi nella capitale, e una situazione inversa
nelle zone interne. Si percepisce che la maggior facilita' nel procurarsi e
nell'usare le armi nelle grandi citta' ha quotidianamente trasformato molte
liti in assassinii, i feriti in morti, le risse in tragedie. Invece
nell'interno, in cui la presenza di armi da fuoco e' minore, l'aumento della
violenza si riflette in una crescita delle lesioni fisiche, ovvero in
colluttazioni si' gravi, ma che non provocano la morte.
61. Anche se la legge sul disarmo ottenesse soltanto di ridurre una parte
degli omicidi, avrebbe gia' prestato un grande servizio alla nazione,
salvando migliaia di vite all'anno. Pochi atti del congresso nazionale
possono avere un cosi' grande effetto in cosi' poco tempo.
62. Negli ultimi vent'anni il numero dei brasiliani assassinati e' aumentato
del 273%, sette volte piu' che la crescita della poplazione. Nel solo anno
1998 quasi 50.000 persone sono state uccise, di cui circa 45.000 vittime
dell'uso delle armi da fuoco.
63. A causa dei tristi dati del Brasile relativi agli omicidi, l'Onu ci ha
dato la qualifica di paese che piu' uccide con armi da fuoco nel mondo. Per
farsi un'idea: la possibilita' per un brasiliano di morire per arma da fuoco
e' da 3 a 4 volte maggiore della media mondiale.
64. La nostra realta' si rivela ancor piu' spaventosa per il fatto che
sappiamo che i giovani sono le principali vittime della violenza che ci
affligge. Solo nel 1998, 6.876 giovani tra i 10 e i 19 anni sono stati
assassinati in Brasile. Nella sola Rio de Janeiro, tutti i giorni 8 persone
tra i 15 e i 24 anni perdono la vita vittime di armi da fuoco. In questa
fascia d'eta' la probabilita' di una persona di essere uccisa da un'arma da
fuoco e' quattro volte e mezzo maggiore che per la restante popolazione.
65. Le statistiche brasiliane degli omicidi descrivono in modo asettico e
quindi inadeguato le migliaia di volti delle vittime e la tristezza dei
familiari inconsolabili di fronte alla violenza causata da revolver e
pistole in tutto il paese.
66. Non possiamo assistere inerti al fatto che si perdano altre vite umane
tutti i giorni; occorre proibire al piu' presto, una volta per tutte, la
vendita di armi nel nostro paese.
67. La violenza armata non e' soltanto un problema di applicazione della
legge, o di sicurezza nazionale. Questa forma di violenza ha provocato una
enorme crisi delle strutture della sanita' pubblica a livello mondiale.
68. La violenza prodotta dalle armi da fuoco di piccole dimensioni causa una
sofferenza immensa ad amici e familiari di migliaia di morti e di piu' di un
milione di feriti nel mondo ogni anno. Oltre agli effetti immediati, vi sono
le lesioni fisiche e psichiche permanenti, la distruzione di famiglie, la
perdita di produttivita' economica, e il consumo di risorse dei servizi
sanitari pubblici, elementi la cui quantificazione e' difficile.
69. La classe medica internazionale si scontra con grandi difficolta' nel
cercar di affrontare le necessita' immediate delle vittime di armi da fuoco,
a causa dell'elevato costo della riabilitazione fisica e psicologica
indispensabile per tante di esse.
70. Le stesse caratteristiche delle armi da fuoco di piccole dimensioni,
facili da portare e da nascondere, resistenti e durevoli, a basso costo e
con un grande potere letale, rende molto difficile trovarle e sequestrarle,
con grave danno sia per i sistemi sanitari pubblici sia per lo sviluppo
economico e sociale in tutto il mondo.
71. Circa 500.000 persone muoiono ogni anno nel mondo vittime di ferite
causate da armi da fuoco di piccole dimensioni usate sia per risolvere
conflitti, sia per commettere reati, sia in altri eventi violenti.
72. Il costo delle morti per armi da fuoco consuma il 14% del Prodotto
interno lordo dell'America Latina, il 10% del Pil del Brasile, e il 25% del
Pil della Colombia.
73. Le armi leggere agiscono come un virus contagioso, che attraversa con
facilita' frontiere politiche ed economiche, causando danni alle popolazioni
vulnerabili, in particolare quelle situate nelle aree povere, politicamente
instabili e dominate da conflitti politici.
74. Le donne sono doppiamente vittime delle armi. Esse subiscono gli effetti
negativi della violenza armata sia come vittime, sia come madri, mogli,
compagne e sorelle di quelli che sono stati uccisi o feriti da armi da
fuoco.
75. Solitamente sono le donne che devono sopportare il peso di sostentare
una famiglia e sostenerla anche sul piano psicologico dopo che il
capofamiglia e' stato ucciso o ferito cosi' gravemente da non poter piu'
lavorare.
76. Le donne sono spesso vittime di crimini violenti, aggressioni
domestiche, violenza sessuale, suicidi e incidenti con armi da fuoco proprio
a causa della facile disponibilita' di armi - siano esse armi detenute
legalmente o illegalmente.
77. Al contrario della credenza popolare, le armi non proteggono le donne
nei casi di violenza domestica.
78. La presenza di armi in casa aumenta la possibilita' che una relazione
irregolare finisca per avere un esito fatale.
79. I casi di aggressione domestica e violenza sessuale con presenza di armi
da fuoco hanno una probabilita' molto maggiore di sfociare in morte, che non
quelli in cui non vi sia presenza di armi.
80. Secondo uno studio del "New England Journal of Medicine" (Stati Uniti,
1993), nelle abitazioni in cui vi siano armi da fuoco si corre un maggior
rischio di omicidi tra familiari che nelle case in cui non vi siano armi.
81. Le donne hanno una concezione piuttosto differente da quella degli
uomini su cosa sia la sicurezza. In generale le donne considerano la
presenza di armi da fuoco in casa come una minaccia, mentre gli uomini si
sentono piu' sicuri. Frequentemente le armi sono un simbolo del potere
maschile e favoriscono l'uso della violenza per risolvere i conflitti.
82. Gli uomini che portano armi in casa con l'intenzione di garantire la
sicurezza della famiglia, in verita' la stanno ponendo in condizioni di
maggior pericolo. I dati del "Violence Policy Center" (Stati Uniti, 1999)
rivelano che un'arma da fuoco in casa aumenta di cinque volte il rischio di
suicidio per le donne, e di tre volte il rischio di omicidio.
83. L'idea che tenere un'arma in casa sia una efficace modalita' di
protezione contro i criminali e' errata. Vari studi dimostrano che e' molto
piu' probabile che una persona usi un'arma contro il suo o la sua partner,
piuttosto che la usi contro un estraneo.
84. Vi e' troppa violenza. Il tasso di omicidi per arma da fuoco in Brasile
e' cinque volte superiore a quello di un paese violento come gli Stati
Uniti.
85. I ragazzi sono tra le maggiori vittime. A Rio de Janeiro, muoiono per
arma da fuoco 24 volte piu' ragazzi che ragazze nella popolazione tra i 14 e
i 24 anni.
86. Il giovane carioca ha 55 volte piu' probabilita' di essere ucciso da
un'arma da fuoco che un coetaneo degli Stati Uniti, paese che pure e' assai
violento.
87. Avere un'arma in casa e' un pericolo. Tutte le ricerche scientificamente
rigorose sull'uso delle armi concludono che la presenza di un'arma e' piu'
un rischio che una buona difesa; il preteso "diritto di difesa" di un uomo
ad avere un'arma per proteggere la sua casa, in realta' viola il diritto
della sua famiglia alla sicurezza.
88. Secondo una ricerca fatta negli Stati Uniti, un'arma da fuoco in casa ha
22 volte piu' probabilita' di essere usata in omicidi, incidenti o suicidi,
che per difesa.
89. Voi potreste diventare un assassino.
90. Negli Stati Uniti, secondo il Ministero della Giustizia di quel paese,
il 14% delle vittime di arma da fuoco tra il 1976 e il 2000 sono stati
uccisi da familiari, il 37,7% da conoscenti, e appena il 15% da sconosciuti.
A Rio ogni tre crimini con vittime da armi da fuoco uno coinvolge una
persona conosciuta, come un parente, un amico, un collega, un vicino, un
collaboratore.
91. Le armi causano incidenti gravi. In Brasile gli incidenti sono la
principale causa di ricovero ospedaliero dei bambini con lesioni da arma da
fuoco. I bambini sono fortemente attratti dalle armi.
92. Le armi sono usate per suicidarsi. Ogni giorno muoiono in media quattro
brasiliani suicidatisi con un'arma da fuoco.
93. "Chi reagisce muore". Nella maggioranza dei casi in cui un cittadino
tenta di reagire con un'arma a un'aggressione, il risultato e' tragico per
la vittima.
94. Togliere le armi dalla circolazione aiuta a disarmare i criminali. A Rio
un terzo (33%) delle armi usate per commettere crimini erano state
acquistate legalmente da brave persone, e successivamente erano finite nelle
mani sbagliate.
95. Le armi da fuoco uccidono di piu'. Quando un'aggressione avviene usando
un'arma da fuoco, la vittima corre un rischio di morire due volte maggiore
di quando si usa un altro tipo di arma.
96. Le donne sono favorevoli al disarmo. Le donne non apprezzano le armi,
perche' quando un uomo uccide o muore per l'uso di un'arma, la donna deve
farsi carico della sofferenza e del sostentamento della famiglia. La
violenza armata e' un problema creato da uomini male informati o insicuri.
E' compito delle donne convincere gli uomini delle tragiche conseguenze
dell'uso delle armi. Di qui lo slogan delle donne: "No alle armi. Ne' per
lei ne' per lui".
97. Nel municipio di Rio, il 94% di coloro che muoiono per arma da fuoco
sono uomini.
98. Il rischio di morire per arma da fuoco per un uomo tra i 20 e i 24 anni
nel municipio di Rio e' 30 volte piu' alto di quello di una donna della
stessa fascia d'eta'.
99. La Campagna di disarmo da' gia' risultati. Nel Parana' la campagna ha
gia' ridotto del 20% il numero di omicidi, e del 34% gli incidenti con armi
da fuoco.
100. La campagna di consegna delle armi e' un'opportunita' che ogni persona
ha per disfarsi della sua arma ed essere remunerata dal governo, in modo
legale. Chi effettua la consegna puo' ricevere da 100 a 300 reali di
indennizzo. A partire da dicembre chi avra' un'arma non registrata potra'
essere arrestato. Chi ha un'arma, ha un problema. Questa campagna vi aiuta a
risolverlo.

MASSIMILIANO PILATI: ALCUNI TESTI E SITI PER IL DISARMO
[Da "Azione nonviolenta" n. 8-9 di agosto-settembre 2005. Massimiliano
Pilati (per contatti: massi.pilati@lillinet.org) fa parte del comitato di
coordinamento del Movimento Nonviolento; e' impegnato nel nodo trentino
della Rete di Lilliput e nel gruppo di lavoro tematico "nonviolenza e
conflitti" della Rete di Lilliput; e' stato tra gli animatori della campagna
"Pace da tutti i balconi"]

Alcuni testi
- Elisa Lagrasta, Le armi del Belpaese, Ediesse, Roma 2005.
- Francesco Vignarca, Mercenari Spa, Rizzoli, Milano 2004.
- Maurizio Simoncelli (a cura di), Armi leggere guerre pesanti, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2002.
- Chiara Bonaiuti, Achille Lodovisi (a cura di), Il commercio delle armi.
L'Italia nel contesto internazionale, Book, 2004.
- Riccardo Bagnato, Benedetta Verrini, Armi d'Italia. Protagonisti e ombre
di un made in Italy di successo, Fazi Editore, 2005.
- Maurizio Simoncelli, Guerre senza confini. Geopolitica dei conflitti
nellepoca contemporanea, Ediesse, Roma 2003.
- M. Rusca, M. Simoncelli, Hydrowar. Geopolitica dell'acqua tra guerra e
cooperazione, Ediesse, Roma 2004.
- Maurizio Simoncelli (a cura di), Le guerre del silenzio. Alla scoperta dei
conflitti e delle crisi del XXI secolo, Ediesse, Roma 2005.
- Dossier "L'eredita' della guerra. Dopo le mine, le munizioni cluster:
un'altra emergenza umanitaria annunciata", in
www.campagnamine.org/varie/dossier.pdf , a cura della Campagna italiana
contro le mine (www.campagnamine.org)
- Enrico Peyretti, Storia del concetto di disarmo, in "La nonviolenza e' in
cammino" nn. 951, 952, 954, del 5, 6 e 8 giugno 2005 (nel web:
http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html)
*
Alcuni siti utili
www.nonviolenti.org
www.disarmo.org
www.controlarms.org
www.archiviodisarmo.it
www.amnesty.it
www.disarmonline.org
www.retelilliput.net
www.armstradetreaty.com
www.exa.it

ILEANA MONTINI: DEL PATRIARCATO ANCORA
[Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini@tin.it) per questo
intervento. Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, gia'
insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta. Nata nel 1940 a Pola da genitori
romagnoli, studi a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima
scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia; giornalista per
"L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle; di forte impegno
politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e fatto parte di, varie
redazioni di periodici: della rivista di ricerca e studio del Movimento
Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo
Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain"
di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della rivista "Jesus
Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle"
insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il manifesto"; ha
collaborato anche, tra l'altro, con la rivista "Testimonianze" diretta da
padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come "Reti", "Lapis", e alla
rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora al "Paese delle donne".
Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita' di Base; e preso parte
ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non solo genericamente
politico ma gramscianamente intellettuale e morale della sinistra critica in
Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa,
scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (Bertani,
Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini (Bertani,
Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella
cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un
libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui ha
redatto il progetto e  curato la supervisione delle operatrici: titolo: "...
ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente
ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta Crocella, Attraverso il
silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che racconta l'esperienza del
Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione
psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni
d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un progetto di Ileana Montini e con
alcune donne alla fine degli anni ottanta, preceduto dalla fondazione,
insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir".
Ha recentemente pubblicato, con altri coautori, Il desiderio e l'identita'
maschile e femminile. Un percorso di ricerca, Franco Angeli, Milano 2004. Su
Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica, la sua riflessione, hanno
scritto pagine intense e illuminanti, anche di calda amicizia, Lidia
Menapace e Rossana Rossanda]

"A proposito di elezioni tedesche: raccontava un giornalista che, nel corso
della campagna elettorale, la stampa riguardo alla candidata della Cdu si e'
spesso soffermata su aspetti di costume, tralasciando il contenuto delle sue
dichiarazioni. Sembravano tutti interessati a come si comportera' il partner
nelle visite ufficiali, se frequentera' gli avvenimenti mondani previsti per
le mogli durante le visite ufficiali dei capi di stato, se lei chiudera'
prima il parlamento per correre a casa a cucinare.
Insomma il mondo visto con gli occhi delle donne e' ancora troppo strano per
molti uomini e si continua in quello sforzo inutile di separare i due
sessi... cominciamo la settimana: e che ci regali ancora un po' di sole".
Cosi' mi scrive un'amica sociologa e ricercatrice all'indomani delle
elezioni in Germania.
A campagna elettorale ultimata vale la pena di riflettere anche su questi
aspetti che, segno del permanere della tradizione patriarcale, tormentano
molto di piu' il nostro latino e mediterraneo contesto; non soltanto i
leghisti, per intenderci.

GIULIO VITTORANGELI: VEDERE L'ORRORE
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli@wooow.it) per
questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori
di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da
sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

Oggi la guerra non e' piu' risorsa estrema, ma un normale strumento di
esercizio della forza necessaria, anzi di "autodifesa" in nome della quale
tutto si puo' giustificare. "Perche' la' fuori ci sono nemici e vogliono
distruggerci". Dall'altra parte, ci pensano gli integralisti ad alimentare
il fuoco.
Quella che sembrava l'eccezione mediorientale e' diventata la modalita'
corrente dei conflitti, ormai per loro natura asimmetrici a livello sia
regionale che globale; uso sproporzionato della forza, messa in mora del
diritto internazionale, indifferenza alla sorte dei civili. Ed orrore segue
orrore, in una sequenza senza fine, che fatichiamo non solo a comprendere,
ma anche a nominare; come se le parole avessero oramai perso il loro
significato.
Non capiamo, non immaginiamo, che cosa significhi accettare la guerra come
normalita', come il quotidiano bagno di sangue tra iracheni. Come le mille
persone morte il 31 agosto a Baghdad, nella fuga dalla moschea di
Kadhimiyah; morti per panico: causa del massacro sarebbe stata la voce
secondo la quale uno o piu' attentatori suicidi stavano per farsi saltare in
aria.
C'e' un famoso quadro, l'Angelo di Klee, che testimonia di questo
smarrimento, in particolare nella descrizione che ne fa Walter Benjamin: "Vi
e' rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da
qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca
e' aperta, le ali sono dispiegate... Ha il viso rivolto al passato. La' dove
davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un'unica
catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa
ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere
i fantasmi...".
Ma certamente il quadro storico che piu' testimonia la tragedia della guerra
e' Guernica di Pablo Picasso; decisivo intervento della cultura nella lotta
politica. Dipinto nel 1937, durante la guerra civile spagnola (si protrarra'
per quasi tre anni e provochera' un milione di morti), come risposta ai
bombardamenti tedeschi (l'aiuto nazifascista al servizio del generalissimo
Francisco Franco) sull'antica citta' di Guernica con l'intento di provocare
una strage e seminare il terrore nella popolazione.
"Lo scopo del pittore non e' di suscitare sdegno e pieta', ma di sviluppare
una forza di suggestione che renda noto l'eccidio al mondo civile,
costringendolo a sentirsi corresponsabile e, quindi, a reagire. Per far
questo Picasso sceglie di usare la forma. In Guernica, infatti, non c'e'
colore, non c'e' rilievo. Colore e rilievo sono due qualita' con cui la
natura si fa conoscere dall'uomo, eliminandole si cancella il rapporto
dell'uomo con la natura, cioe' la vita. Nel quadro, infatti, c'e' solo morte
in atto. Il linguaggio usato e' quello manifestamente cubista della
scomposizione formale. La crisi della forma, erede della cultura classica,
e' la crisi di un'intera civilta': la violenza e la morte geometrizzano i
volti e le figure" (Camilla Cascino, "Il paese delle donne", n. 11, 2004).
Prima ancora di Picasso, gia' Francisco Goya si era cimentato nel
documentare gli orrori della guerra.
*
Purtroppo gli orrori non documentati visivamente - oggi abbiamo fotografi e
televisioni - cadono facilmente nel dimenticatoio.
Una decina di anni prima dell'eccidio di Guernica, in Nicaragua, ad Ocotal,
durante la lotta di liberazione di Sandino contro l'invasione Usa, avviene
il primo bombardamento aereo sferrato deliberatamente contro la popolazione
civile. L'aviazione degli Stati Uniti inizia la sua storia con
un'aggressione deliberata, un massacro di civili di una nazione con la quale
non era nemmeno in guerra. Una macchia che l'aviazione militare statunitense
ha cercato in tutti i modi di cancellare.
"L'aviazione non adotto' nessuna misura, falciando colpevoli ed innocenti,
dando vita ad un eccidio senza precedenti nella storia gia' abbastanza
sofferta del Nicaragua... Tra le persone a terra perirono anche donne e
bambini che, come i loro uomini e padri, non potevano difendersi. Molti di
loro vedevano per la prima volta un aereo e, senza sapere bene che fare,
rimanevano nella spianata ad osservare l'avvicinamento degli apparecchi fino
a quando venivano falciati senza pieta'" (Massimo Campisi, Sandino. Il
generale degli uomini liberi, Fratelli Frilli Editori, Genova 2003).
Il rapporto ufficiale avrebbe parlato di almeno trecento sandinisti morti.
*
Oggi che vediamo la "democrazia" trapiantata a suon di bombe (quando invece
democrazia e guerra sono inconciliabili), a noi che la vita ci sta a cuore
per il puro e semplice fatto che e' vita e che non va sciupata, spetta il
non facile compito di non arrenderci alla durezza vischiosa del presente.
Per questo, come ha scritto l'ong "Un ponte per...", "Ci uniamo al lutto del
popolo iracheno per i morti di oggi, per quelli di ieri e per quelli di
domani. Sosteniamo il ritiro immediato delle truppe italiane e continuiamo
con forza a chiedere che l'Iraq ritorni ad essere una priorita' della
comunita' internazionale, del movimento pacifista, del mondo politico e
sociale".

STEFANO GALIENI INTERVISTA RICCARDO PETRELLA
[Dal quotidiano "Liberazione" del 17 settembre 2005.
Stefano Galieni, giornalista, e' impegnato in varie iniziative per i
diritti.
Riccardo Petrella, intellettuale di forte impegno civile, docente
universitario a Lovanio, e' uno dei punti di riferimenti a livello
internazionale delle iniziative contro la mercificazione dell'acqua e per il
riconoscimento e la difesa dell'accesso all'acqua come diritto umano per
tutti gli esseri umani]

Al dibattito sui beni comuni, organizzato alla festa nazionale di
"Liberazione", e' intervenuto fra gli altri Riccardo Petrella, Presidente
italiano del "Contratto mondiale sull'acqua", docente universitario a
Lovanio in Belgio e, dal 10 luglio scorso, nominato da Nichi Vendola
presidente dell'Acquedotto pugliese. Nel rispondere alle domande costringe
l'interlocutore a tenere saldi i legami profondi fra quelle che sembrano
essere problematiche "tecniche", da addetti ai lavori, e la loro ricaduta
sul piano dei rapporti sociali, della vita quotidiana delle persone, persino
dei sentimenti. ´E' inevitabile. Pensare di poter ridurre tutto a problemi
di ordine tecnologico, perseverare nell'idea che il fallimento delle
politiche neoliberiste risieda nei mezzi utilizzati e non nei fini per cui
li si impiega e' un errore colossale. Di cui le persone comuni cominciano a
rendersi facilmente conto".
- Stefano Galieni: In che senso?
- Riccardo Petrella: L'intera societa' in cui viviamo e' stata
fondamentalmente illusa da alcuni concetti chiave. In primis che affidandosi
al mercato come motore certo di uno sviluppo, si sarebbero risolti
gradualmente molti problemi. Una ipotesi che e' stata fatta propria dalle
destre, che ha cominciato ad imporsi sin dagli anni Settanta con
l'avvicinamento britannico al progetto dell'Unione Europea e che ha permeato
anche l'agire politico di certa sinistra. Tant'e' che oggi c'e' chi discute
solo partendo dal principio astratto di "governanza". Un principio secondo
cui, in un contesto come quello europeo, che prima coinvolgeva 15 paesi e
ora ne coinvolge 25, con dinamiche bisogni, culture, aspettative e punti di
partenza diversificati, ci sia bisogno di una "semplificazione delle regole
condivise" lasciando al mercato il compito di reimpostarle e di negoziarle.
*
- Stefano Galieni: In linea con quanto affermato giorni fa dal presidente
della Commissione europea Barroso?
- Riccardo Petrella: Esattamente. Ma, cercando di andare oltre le
dichiarazioni di principio, e' necessario riflettere. E' vero che ogni
direttiva, ogni regolamento europeo, dovendo tener conto delle esigenze di
tutti i paesi, diviene complicato e carico di burocrazia, ma e' altrettanto
vero che questo problema non si risolve costruendo un sistema totalmente
privo di regole, come vorrebbe la destra; un sistema in cui ogni elemento
che eravamo abituati a considerare come diritto (dall'acqua alla casa, ad un
lavoro decente, all'istruzione, a un sistema previdenziale) diviene elemento
che ogni volta va contrattato; il bene comune diviene merce e sul prezzo
della merce si discute e vince chi ha maggior potere. L'applicazione di
questo sistema e' divenuta palese a partire dal 1985 e sembrava non ci fosse
modo di sfuggire a questa logica. Tuttora, e mi viene in mente l'incontro al
"Cantiere" con Prodi, una certa sinistra moderata fatica ad accettare l'idea
 che questo modello non abbia futuro, si illude che basti restituire
efficienza al sistema, risolvere i problemi della tecnologia con gli
strumenti della tecnologia, si continua a parlare di competitivita' come se
questa sia la chiave per salvarci dai guai.
*
- Stefano Galieni: Manca una cultura dei mezzi rapportata ai fini?
- Riccardo Petrella: Peggio ancora: si accetta l'idea che il fine,
l'obiettivo, sia un concetto assoluto e unico. In realta' non e' detto. Cio'
che per qualcuno costituisce un risultato positivo potrebbe non esserlo
inevitabilmente per gli altri attori in campo. Quello che si deve mettere in
discussione insomma non sono solo i mezzi utilizzati per cambiare le cose,
la loro maggiore o minore funzionalita', ma i fini a cui si puo' e si deve
tendere. Per esempio, rendere merci piu' o meno accessibili o concessioni,
quelli che invece sono diritti, non puo' essere un fine condiviso.
*
- Stefano Galieni: In queste affermazioni si coglie una sintesi della
distanza fra politica e societa'...
- Riccardo Petrella: E' vero che una certa idea della politica non da' piu'
delle risposte confacenti a concetti che sono entrati nel pensare collettivo
come il diritto all'acqua, alla salute, alla formazione, alla pace,
all'ambiente. In questo senso le tante iniziative prodotte attorno a questi
temi hanno seminato bene.
*
- Stefano Galieni: Come pensi sia possibile intervenire sugli stessi
processi di liberalizzazione nei paesi del sud del Mediterraneo che nel 2010
rischiano di venir schiacciati dagli accordi di libero scambio?
- Riccardo Petrella: Si prospettano condizioni difficili per tante ragioni:
intanto io e te in gran parte di quei paesi non potremmo esercitare il
nostro mestiere o dire cio' che pensiamo senza finire in galera. Ma poi c'e'
una situazione di debolezza oggettiva dei singoli paesi che si rapporteranno
singolarmente ad un colosso economico complesso come l'Unione Europea,
cercheranno rapporti privilegiati con singoli Stati, ma rischiano di restare
sotto ricatto. La societa' civile nel Nord Africa fatica ad emergere e noi
non abbiamo dato aiuto. L'aiuto che dovremmo dare e' lottare di piu' per
cambiare le cose nelle nostre societa'. Superando questa retorica del
Mediterraneo di cui parlano tutti, facendo invece cose concrete. Tra gli
elementi che mi appassionano nel nuovo incarico che rivesto in Puglia c'e'
quello di ripensare il rapporto con un bene primario come l'acqua non con
l'occhio rivolto alla garanzia dei nostri privilegi ma avendo di fronte uno
scenario internazionale. So bene che e' una sfida ambiziosa, ma se vogliamo
praticare il concetto che l'acqua e' un bene comune non mercificabile
dobbiamo lavorare su questi scenari, altrimenti non ne vale la pena.

COSMA ORSI INTERVISTA THERESA FUNICELLO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 settembre 2005.
Cosma Orsi, economista, insegna all'Universita' di Leeds.
Theresa Funicello e' una intellettuale femminista nordamericana, filosofa e
docente universitaria, militante per i diritti umani]

Poco nota in Italia, Theresa Funicello e' invece una figura di spicco nella
"teoria critica" statunitense. Filosofa della politica, femminista,
attivista per il diritto al welfare per i poveri, nel 1993 ha pubblicato il
suo libro piu' importante, Tiranny of Kindness: Dismantling the Welfare
System to End Poverty in America (Atlantic Monthly Press). Alla sua uscita,
il "Washington Post" lo ha definito un libro essenziale per la comprensione
del welfare americano degli ultimi trent'anni e della discussione sulla sua
riforma sviluppatosi durante gli anni Novanta, mentre il "Library Journal"
lo ha proposto come miglior libro dell'anno. Il nome di Theresa Funicello e'
anche legato al movimento delle Madri per il welfare e allo State
Legislature, considerato uno dei testi piu' avanzati e "progressivi" per una
riforma del welfare state, testo scritto in quanto assistente speciale
presso il Dipartimento per i servizi sociali di New York quanto era sindaco
il democratico Mario Cuomo. Docente universitaria, fa parte anche del Bien
(Basic Income European Network) e dell'Usbig (United State Basic Income
Groug). Nei trent'anni della sua carriera molti sono stati i suoi interventi
per l'American Society of Newspaper Editors (Associazione degli editori di
giornali), per l'American Foundation for Communication (Fondazione Americana
della comunicazione), e per il Centre for Popular Economics (Centro per
l'Economia Popolare). Una vita, la sua, che ha il sapore dell'epica, visto
che e' passata dalla condizione di "donna senza un tetto sotto il quale
dormire e dipendente dal sistema americano di welfare" a fondatrice della
Social Agenda, un'associazione per la difesa dei diritti delle donne povere.
La vittoria piu' significativa dell'associazione da lei fondata e' stata
l'estensione e la fruizione della tassa Child Tax Credit cha ha permesso a
milioni di famiglie povere - di fatto escluse dai suoi benefici - di
ottenere un reddito che permettesse loro di uscire dalla trappola della
poverta'.
L'abbiamo incontrata in Europa, dove e' stata invitata per un ciclo di
conferenze per illustrare le misure di protezione sociale negli Stati Uniti.
*
- Cosma Orsi: Ci sono molte correnti del pensiero femminista. A quale si
sente piu' vicina?
- Theresa Funicello: A nessuna. Molte delle persone che frequento e con le
quali ho rapporti di stretta amicizia sono pero' femministe radicali
americane, come ad esempio Robin Morgan o Gloria Steinem - dalle quali ho
imparato moltissimo. Le madri che come me hanno dovuto o devono tuttora
piegarsi al welfare state americano non hanno interesse a vedere il mondo
attraverso le lenti del pensiero maschile dominante, che da sempre tende a
sminuire il lavoro delle donne, inteso come cura per gli altri, o come la
capacita' di costruire e stringere legami nella comunita'. L'universo
maschile si comporta come se il nostro lavoro non avesse un ruolo
fondamentale nel processo di sviluppo e crescita economica. La prima cosa da
capire e' che tutte le donne lavorano. L'esperienza delle donne povere e'
stata e rimane alquanto diversa da quella vissuta dalle femministe di ogni
tempo. Noi eravamo interessate al diritto di crescere i nostri figli. Il
pensiero che ha dominato l'universo femminista ha invece combattuto
prevalentemente sul diritto o meno di avere figli. Recentemente la mia
riflessione si e' concentrata sul fatto che il processo della maternita',
dal concepimento alla cura post-natale e oltre, sta alla base del processo
di formazione del capitale. Detto nel modo piu' semplice possibile, le donne
producono e mantengono sia i lavoratori che i capitalisti.
*
- Cosma Orsi: Lei spesso usa la frase: "il welfare e' una questione
femminile". Cosa intende?
- Theresa Funicello: La maggior parte delle persone che percepiscono o che
hanno necessita' di un reddito indipendente dal salario sono le donne e i
loro figli. E questo non vale solo negli Usa, ma in tutti i pesi del mondo.
*
- Cosma Orsi: In "Tiranny of Kindness" lei fa riferimento alla carita' come
una logica mercantile dello sfruttamento della poverta'. Puo' spiegarci in
modo piu' preciso cosa intende?
- Theresa Funicello: E' una lunga storia. La poverta' negli Stati Uniti e'
un grosso affare. La maggior parte del denaro che dovrebbe soddisfare le
necessita' primarie dei milioni di famiglie povere e' speso per saziare la
sete di denaro di organizzazioni (virtualmente no-profit) guidate da
managers professionisti che si dipingono come i paladini dei poveri.
Sfortunatamente, il loro unico scopo e' quello di intercettare i fondi messi
a disposizione dalle fondazioni private e dal governo. Basandosi su dati
statistici spesso inesatti o creati ad arte, i manager della poverta' si
ritengono gli unici ad essere capaci di alleviare questa condizione sociale
che coinvolge milioni di persone. La realta' e' ben diversa: i poveri
rimangono poveri, mentre i managers e i gruppi no-profit che essi dirigono
diventano sempre piu' ricchi e potenti. C'e' da dire, inoltre, che la
collusione con le multinazionali per lo scambio di donazioni in soldi
contanti ha raggiunto livelli imbarazzanti. Lo scambio di favori permette
alle multinazionali di disfarsi di prodotti (nella maggior parte dei casi
alimentari) avariati, e al tempo stesso di chiedere una riduzione delle
tasse. Una delle piu' grandi catene di supermercati degli Stati Uniti,
suggerisce alle sue affiliate nell'America centro-orientale: "Non gettate,
donate!". I gruppi no-profit che ricevono i beni alimentari pesano le
donazioni, calcolano il loro valore in dollari sulla base del tonnellaggio,
fornendo alle multinazionali la prova che esse donano. Le multinazionali
ricevono sgravi fiscali che raggiungono il doppio del valore di mercato
delle merci donate. Le agenzie no-profit raccolgono - a spese del governo,
naturalmente - la merce donata, meta' della quale prima di essere ripartita
tra coloro che esse ci dicono voler aiutare, viene gettate in discariche.
Quel poco che rimane da distribuire e' igienicamente dubbio e con un valore
nutrizionale pressoche' nullo. Tutti sono contenti perche' i poveri sono
nutriti. Eccetto i poveri, naturalmente.
*
- Cosma Orsi: Dodici anni sono trascorsi dalla pubblicazione di "Tiranny of
Kindness". Ci sono stati cambiamenti sostanziali nel sistema che lei ha
descritto?
- Theresa Funicello: Si'. E in senso peggiorativo. Nel 1996, la cosiddetta
riforma del welfare state avviata per riconfermare Bill Clinton alla
presidenza, basandosi su dati e analisi del tutto infondate ha acuito i
problemi piuttosto che risolverli. La riforma rimane il tentativo piu'
misogino della storia del nostro paese. L'amministrazione Bush non ha fatto
nulla per alleviare la brutalita' del programma di riforme varato da
Clinton. La sola azione degna di nota dell'amministrazione Bush e' stata
quella di estendere i benefici della Child Tax Credit. Il risultato e' stato
quello di permettere a milioni di famiglie povere con figli a carico di
uscire dalla trappola della poverta'. Per questa ragione un senatore
democratico l'ha chiamata il "programma anti-poverta' piu' importante mai
implementato dai lontani anni Sessanta". C'e' da rilevare, inoltre, che
alcune delle pratiche descritte nel mio libro, che hanno fatto arricchire il
sottobosco formato da professionisti appartenenti alla middle-class e le
multinazionali che li supportavano, sono diminuite.
*
- Cosma Orsi: Qual e' il modello di welfare per cui si batte da piu' di
trent'anni?
- Theresa Funicello: Ad essere sincera, sono contraria ad ogni forma di
welfare, se con questo termine ci si riferisce al sistema attualmente in
vigore negli Stati Uniti. Esso infatti implica che chi non ha mezzi a
sufficenza per condurre un'esistenza dignitosa non puo' contribuire al bene
comune. In altre parole, il modello statunitense di sicurezza sociele deriva
da una visione del mondo molto "corporate", risponde cioe' a logiche
imprenditoriali, mercantili. Abbandonare questa prospettiva e favorire la
nascita di un visione maggiormente centrata su valori umani e' il compito
che io e la mia organizzazione ci siamo prefissati. Per ottenere tale scopo
e' necessario un ripensamento del modo in cui si distribuisce il reddito. Ad
esempio, bisognerebbe promuovere politiche pubbliche capaci di redistribuire
una parte della ricchezza alle donne (e alcuni uomini) che dedicano una gran
parte della loro esistenza al prestare cure ad altri ("caregivers"). Per non
parlare degli artisti e molte altre categorie la cui attivita', pur essendo
intrinsecamente produttiva, non produce reddito.
*
- Cosma Orsi: Sappiamo che tra le politiche publiche da lei favorite c'e' il
reddito di cittadinanza. Ci puo' spiegare qual e' la sua interpretazione di
questo concetto?
- Theresa Funicello: Io lo chiamo giusta distribuzione. Il reddito di
cittadinanza non e' altro che un reddito garantito per tutti, con
un'addizionale per coloro che svolgono compiti di cura nei confronti degli
altri. Ad esempio, se la base da cui si partisse fosse di 7.000 euro annui a
persona, a coloro, in maggioranza donne, che prestano attivita' di cura
gratuita ad adulti e bambini o che sono impegnati in attivita' domestiche,
dovrebbero essere assegnati altri 7.000 euro addizionali. Sarebbe un chiaro
riconoscimento del lavoro non pagato di milioni di donne. Vederlo
riconosciuto adeguatamente rappresenterebbe una vittoria storica.
*
- Cosma Orsi: Quali azioni si dovrebbero intraprendere per vedere finalmente
l'introduzione del reddito di cittadinanza?
- Theresa Funicello: Questa e' una domanda assai difficile, in quanto ogni
azione in tal senso dipende dalla politica in vigore nei differenti paesi.
Per prima cosa credo che si debba esplorare piu' a fondo la questione
riguardante la relazione tra l'universo femminile e la creazione della
ricchezza. Cioe', andrebbe rivista l'idea del valore delle donne, e con
questo non mi riferisco ovviamente al valore sociale, ma piu' specificamente
alla nostra capacita' di incrementare il processo di creazione della
ricchezza economica di un paese. In secondo luogo, un simile cambiamento di
prospettiva andrebbe applicato a tutta la popolazione. Negli Stati Uniti
stiamo per pubblicare un libro a fumetti che ha come personaggio principale
un super eroe il cui nome e' Carrie Giver (gioco di parole intraducibile,
che in italiano suonerebbe come "il badante" - n.d.r.). Credo che la
semplicita' e unicita' di questa idea richiamera' l'attenzione di un ampio
pubblico.
*
- Cosma Orsi: Il reddito di cittadinanza e' l'unica politica strutturale che
secondo lei dovrebbe essere introdotta per cambiare l'attuale modello di
sviluppo?
- Theresa Funicello: Assolutamente no. Ma sarebbe certamente un buon inizio,
con le modifiche che ho citato poco fa.
*
- Cosma Orsi: A seguito della pubblicazione del suo libro nel 1993 alcune
delle fondazioni private che lei ha duramente attacato hanno criticato
duramente il suo lavoro, al punto che lei ha sostenuto che hanno boicottato
il volume...
- Theresa Funicello: All'inizio, molti giornali e riviste si espressero in
termini piu' che favorevoli. Il "Library Journal" gli conferi' il premio
come miglior libro dell'anno, e successivamente Tiranny of Kindness fu
persino nominato per la corsa al Premio Pulitizer di quell'anno. Ma al "New
York Times", che senza esagerare rappresenta una buona fetta del Partito
Democratico, e a gran parte di quelle fondazioni private di lotta alla
poverta' il libro non piacque e hanno dato vita a una vera e propria
campagna contro le tesi li' espresse. Poi ho avuto notizia che alcune
associazioni di base hanno avuto pressioni affinche' boicottassero il libro:
in caso contrario non avrebbero piu' ricevuto donazioni o fondi per le loro
attivita'. Soltanto alcuni personaggi legati all'intellighenzia della
sinistra piu' radicale - in maggior parte professori - continuarono e
continuano a richiedere il testo per i loro corsi universitari e anche
alcuni conservatori, pochi in verita', ne tessono le lodi.
Sicome sono arrivata all'attivismo politico a causa della mia condizione di
madre povera, conosco il modo per sopravvivere senza mezzi e cosi' ho
continuato la mia battaglia. Con l'avvento di internet tutto e' diventato
piu' facile. Con una somma relativamente esigua e' stato possibile prosegure
la campagna in favore della Child tax Credit. Abbiamo messo una cartolina
postale indirizzata alla signora Bush su di un sito internet. Chiunque
avesse voluto, poteva sottoscrivere la campagna e inviare una cartolina alla
moglie del presidente, con la preghiera di inoltrarla a suo marito.
Poiche' la maggioranza degli americani non era al corrente dell'esistenza
del problema creato dall'impossibilta' di rendere effettiva questa tassa, e
date le ristrettezze finanziarie in cui il nostro gruppo si era ritrovato,
era impossibile mobilitare le persone per una grande manifestazione. Non mi
sono scoraggiata. Sono salita su di un taxi a New York e da li' ho
attraversato gli Stati Uniti da un capo all'altro, fermandomi ovunque fosse
possibile rilasciare interviste e fare discorsi in pubblico. Era chiaro che
nei piccoli centri la mia presenza non passava inosservata, creando una
ghiotta notizia per la stampa locale. Cosi' le mie opportunita' di parlare a
favore della nostra campagna si moltiplicarono esponenzialmente. In 21
giorni di viaggio ho percorso qualcosa come undicimila miglia. A dispetto
della volonta' dei giornali nazionali di non pubblicare nulla circa la
battaglia che la mia organizzazione stava combattendo, la notizia riusci' a
passare a livello locale. A distanza di due settimane dalla fine del mio
viaggio il Congresso voto' la legge e al presidente non resto' altro da fare
che controfirmarla.
*
- Cosma Orsi: Che riflessione inducono i tragici fatti di New Orleans?
- Theresa Funicello: La prima cosa che si deve capire e' che chi e' stato
lasciato abbandonato a se stesso sono nella maggior parte i poveri e i
poverissimi. Tutti a carico del welfare americano. Nei piani di evacuazione
queste persone sono codificate come lavoratori non essenziali senza mezzo di
trasporto. Il sindaco di New Orleans e il governatore dello Stato non
avevano un piano, sapevano di non avere un piano, e hanno fatto di tutto per
fermare chiunque volesse aiutare ad uscire da quell'inferno. Entrambi sono
democratici.

UMBERTO SANTINO: LA MEMORIA E IL PROGETTO
[Dal sito del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di
Palermo (www.centroimpastato.it) riprendiamo il seguente appello per la
creazione di un "Memoriale-Laboratorio" della lotta alla mafia. Umberto
Santino (per contatti: csdgi@tin.it) ha fondato e dirige il Centro siciliano
di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo. Da decenni e' uno dei
militanti democratici piu' impegnati contro la mafia ed i suoi complici. E'
uno dei massimi studiosi a livello internazionale di questioni concernenti i
poteri criminali, i mercati illegali, i rapporti tra economia, politica e
criminalita'. Tra le opere di Umberto Santino: (a cura di), L'antimafia
difficile,  Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo
1989; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, La violenza programmata. Omicidi e
guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, Franco Angeli, Milano
1989; Umberto Santino, Giovanni La Fiura, L'impresa mafiosa. Dall'Italia
agli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 1990; Giorgio Chinnici, Umberto
Santino, Giovanni La Fiura, Ugo Adragna, Gabbie vuote. Processi per omicidio
a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Franco Angeli, Milano 1992 (seconda
edizione); Umberto Santino e Giovanni La Fiura, Dietro la droga. Economie di
sopravvivenza, imprese criminali, azioni di guerra, progetti di sviluppo,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1993; La borghesia mafiosa, Centro siciliano
di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia come soggetto
politico, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo
1994; Casa Europa. Contro le mafie, per l'ambiente, per lo sviluppo, Centro
siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia
interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino Editore, Soveria
Mannelli 1995; Sicilia 102. Caduti nella lotta contro la mafia e per la
democrazia dal 1893 al 1994, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato", Palermo 1995; La democrazia bloccata. La strage di Portella
della Ginestra e l'emarginazione delle sinistre, Rubbettino Editore, Soveria
Mannelli 1997; Oltre la legalita'. Appunti per un programma di lavoro in
terra di mafie, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato",
Palermo 1997; L'alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di
Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli
1997; Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000; La cosa e
il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2000. Su Umberto Santino cfr. la bibliografia ragionata
"Contro la mafia. Una breve rassegna di alcuni lavori di Umberto Santino"
apparsa su questo stesso foglio nei nn. 931-934]

Negli ultimi anni piu' volte alcune associazioni operanti a Palermo hanno
proposto la creazione di una Casa delle associazioni, uno spazio comune che
ospiti in una stessa sede varie realta' attualmente prive di sede o con sedi
precarie e inadeguate.
Intendiamo rilanciare quella proposta ma pensiamo non solo a uno
spazio-contenitore, in cui possano operare piu' agevolmente centri studi e
associazioni, ma a qualcosa di piu' ampio e maggiormente rispondente a una
richiesta che proviene da vari settori, in particolare dalla scuola e dalla
societa' civile.
Un esempio: il nostro Centro frequentemente riceve richieste di visite di
scolaresche che non possiamo esaudire per l'esiguita' degli spazi
dell'attuale sede, ma le richieste riguardano piu' che una visita a locali
ingombri di materiali (libri, periodici, atti giudiziari, ecc.) la
possibilita' di percorrere un itinerario che illustri la realta' della mafia
e della lotta contro di essa.
Per venire incontro a questa esigenza, sempre piu' avvertita e diffusa,
riteniamo sia necessario creare uno spazio polivalente che sia insieme:
mostra permanente, attraverso l'esposizione-fruizione di materiali vari
(filmati, fotografie, documenti, libri, giornali, ecc.) che illustrino la
storia del fenomeno mafioso e della societa' in cui esso si e' sviluppato, e
contestualmente offrano un percorso delle lotte contro di esso, dal
movimento contadino a oggi; biblioteca-emeroteca e raccolta di atti
giudiziari e di altri materiali di documentazione; casa delle associazioni
antimafia; laboratorio per la progettazione di nuove iniziative.
Per avviare questo progetto proponiamo di allestire una mostra sulla mafia e
sulla lotta alla mafia, che rielabori e integri le mostre fotografiche
"Mafia oggi" e "Mafia dalla terra alla droga", curate dal Centro Impastato,
che sono state esposte in varie regioni d'Italia e in altri Paesi. La mostra
dovrebbe essere un primo passo per la creazione di una struttura permanente.
*
Per la realizzazione della proposta, che doterebbe Palermo di un nuovo
spazio che dovrebbe inserirsi in una riprogettazione del patrimonio
museografico e culturale della citta' (per fare un esempio, manca finora un
museo della citta'), occorre individuare un edificio-contenitore,
possibilmente confiscato alla mafia e nel centro storico (si e' parlato di
Villa Pantelleria come sede di una Biblioteca della legalita', ma i tempi
per il restauro rischiano di essere troppo lunghi e forse sarebbe piu'
conveniente restituirla alla sua vecchia destinazione di laboratorio
musicale), che risponda alle esigenze gia' accennate.
Palermo e la Sicilia hanno bisogno di recuperare la loro identita' e la loro
storia, che non e' fatta solo delle stragi e dei crimini della mafia, ma
anche delle lotte che l'hanno contrastata e hanno cercato di costruire una
realta' diversa e che, in certi periodi, come per esempio con le lotte
contadine, a cui si affiancavano le lotte degli operai del Cantiere navale,
hanno generato mobilitazioni di massa tra le piu' grandi e significative
d'Europa. E le mobilitazioni degli anni '80 e '90 e degli ultimi anni, il
lavoro nelle scuole, l'uso sociale dei beni confiscati, fanno parte di una
storia che merita di essere documentata adeguatamente e rilanciata.
In altre citta' sono sorti spazi della memoria, come i Memoriali della
Resistenza, e riteniamo che Palermo debba dotarsi di uno spazio adeguato,
insieme memoria storica della sua Resistenza al dominio mafioso e
progettazione di un presente e futuro di Liberazione.
In parecchi punti della citta' negli ultimi anni sono state apposte delle
lapidi che ricordano alcuni caduti nella lotta alla mafia: un ricordo
doveroso che dovrebbe estendersi e scavare nel passato meno recente. Abbiamo
piu' volte proposto che vengano ricordati altri caduti, come Giovanni Orcel,
il segretario dei metalmeccanici assassinato il 14 ottobre del 1920 nel
corso Vittorio Emanuele, all'angolo con via Collegio Giusino, e che venga
apposta una lapide in via Alloro dove, al numero 97, non piu' esistente, il
21 e 22 maggio del 1893 si tenne il congresso dei delegati dei Fasci
siciliani. Ma i Fasci siciliani meriterebbero qualcosa di piu': una strada,
una piazza, un monumento, per ricordare una stagione di lotte finita
purtroppo nel sangue e nell'emigrazione. In ogni caso lapidi, monumenti,
celebrazioni di anniversari da soli non bastano: la memoria richiede
immagini, volti, documenti, ricerche, ricostruzioni di luoghi e di storie,
itinerari percorribili e spazi frequentabili agevolmente.
Il nostro Centro, fin dalla sua costituzione, con il convegno "Portella
della Ginestra: una strage per il centrismo", e' impegnato in questa
direzione, e ultimamente ha collaborato con l'Associazione nazionale
magistrati per la realizzazione del progetto "Le date della memoria" e la
redazione del volume La memoria ritrovata, ha rivisto l'elenco dei caduti
nella lotta alla mafia e delle vittime innocenti, i cui nomi sono letti il
21 marzo di ogni anno, e ha proposto all'associazione nazionale "Libera" la
pubblicazione di un'Agenda dell'Italia civile, con le schede sui caduti,
utilizzando i materiali gia' pubblicati nell'opuscolo Sicilia 102.
Il Centro Impastato invita associazioni, scuole, istituti universitari,
realta' culturali, forze politiche e sindacali, cittadini interessati, a un
impegno comune per mettere a punto la proposta del "Memoriale-Laboratorio" e
presentarsi alle Istituzioni con un progetto definito o almeno tratteggiato
nelle grandi linee e con qualche indicazione relativa a spazi utilizzabili.
*
Nel frattempo il Centro Impastato espone una sua esigenza: l'attuale sede e'
inadeguata, e per la mole dei materiali accumulati in quasi trent'anni di
attivita' e per l'impossibilita' di fruizione di buona parte di essi, in
particolare dei materiali dell'emeroteca. Si pone con urgenza il reperimento
di altri locali, quanto meno per ospitare l'emeroteca, per conservare un
patrimonio che rischia il deperimento e la distruzione e per consentirne la
fruizione.
Proponiamo pertanto che i materiali dell'emeroteca vengano sistemati
adeguatamente per il tempo occorrente per la realizzazione del progetto piu'
ampio e invitiamo quanti dispongono dello spazio necessario, o possono darci
indicazioni utili, a prendere contatti con il Centro Impastato.

RIFLESSIONE. DANIELE LUGLI: PIU' FORTE CHE LA BOMBA
[Da "Azione nonviolenta" n. 8-9, agosto-settembre 2005 (sito:
www.nonviolenti.org). Daniele Lugli (per contatti: daniele.lugli@libero.it)
e' il segretario nazionale del Movimento Nonviolento, figura storica della
nonviolenza, unisce a una lunga e limpida esperienza di impegno sociale e
politico anche una profonda e sottile competenza in ambito giuridico ed
amministrativo, ed e' persona di squisita gentilezza e saggezza grande]

"Piu' forte che la bomba" e' il titolo di uno straordinario articolo di Aldo
Capitini, pubblicato su "Epoca" il 17 agosto 1945, all'indomani dunque
dell'atomica su Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto). Inizia con una precisa
descrizione del mondo globalizzato, come gia' lo vedeva sessanta anni fa, e
dell'impatto che su questo avrebbe avuto il monopolio della forza nucleare.
"Questo tempo e' tale che tutto in esso si riassume e culmina. Questo mondo
distinto in continenti e in tante genti, ecco che si va unificando, e la
resa del Giappone (una specie di Cartagine) e' un altro passo. Ecco un
cosmopolitismo crescente, macchine, film, edifici, che possono collocarsi
indifferentemente in qualsiasi parte della terra; ed ecco infine che la
forza, invece di stare decentrata in migliaia e migliaia di industrie di
guerra si raccoglie in una bomba di sovraterrena potenza, che mette al
bivio: o essere terribilmente violenti o essere inferiori sul piano della
forza. La vittoria ha piegato le ali e ha scelto la sua dimora? l'imperium
non gira piu' da popolo a popolo? Si torna a riconoscere ad uno solo il
diritto di far guerra, quell'uno che potenzialmente e' il tutto, e non piu'
ai singoli popoli, diritto riaffermato nel Rinascimento? Certamente, sorge
il problema della forza e della scelta del mezzo per lottare, per
affermare".
*
La distruzione di Hiroshima e Nagasaki ha, come i maggiori storici
ammettono, solo avvicinato una resa sicura, ma e' stata soprattutto un
segnale potente nei confronti dell'Unione Sovietica, "un martello", nelle
parole di Truman, da far volteggiare sulle teste di "quei ragazzi del
Cremlino". Il monopolio nucleare non e' stato mantenuto: l'equilibrio del
terrore che ne e' conseguito, la divisione del mondo in blocchi, la politica
del rischio calcolato, le guerre che si sono susseguite, fino al crollo
dell'Urss, hanno solo differito la situazione intravista da Capitini e
sperata da Truman. Ora il "martello" della supremazia militare ruota sopra
le teste di tutti.
Gli Usa possiedono infatti un armamento, quantitativamente e
qualitativamente, imparagonabile con quello degli altri Paesi e continuano a
investire con una spesa annua che e' il triplo di quella dei Paesi d'Europa
messi assieme. E' un buon affare: non solo le armi dismesse trovano comunque
compratori, ma i settori propulsori dell'economia (di questa economia della
quale viviamo e moriamo) sono alle armi strettamente connessi.
Microelettronica, spazio, difesa e sicurezza rappresentano l'1,7% del Pil
mondiale, ma l'innovazione tecnologica generata influenza positivamente il
50% del Pil. Si calcolano, come conseguenti della conquista della Luna da
parte degli Usa e del progetto "guerre stellari", ricadute di 160.000
prodotti e tecnologie di vasto uso. Per indagare le origini dell'universo
non si e' trovato di meglio che sparare a una lontanissima e tranquilla
cometa. C'era un solo colpo in canna, sia pure da 300 milioni di dollari, ma
il bersaglio e' stato centrato. E' una modalita' di "conoscenza" molto
diversa da quella indicata dalla Bibbia, che pure i governanti nordamericani
citano continuamente.
*
Con la scusa delle armi di distruzione di massa, che non c'erano e lo si
sapeva, si e' fatta la guerra in Iraq. Ora c'e' una proposta, dei sindaci di
Hiroshima e Nagasaki, con colleghi di 110 nazioni, avanzata nel maggio
scorso all'Onu per far approvare, entro il 2010, un trattato per
l'abolizione di tutte queste armi, a partire da quelle nucleari, da rendere
esecutivo entro il 2020. Vedremo quali Paesi, a cominciare dal nostro, si
impegneranno veramente. La ricerca e la sperimentazione in questo campo non
si sono comunque mai arrestate.
Sistemi d'arma sempre piu' raffinati e complessi vengono messi a punto.
Decisive sono le connessioni, la raccolta, il trattamento, la compattazione,
la precisione delle informazioni che i mezzi operativi trasmettono e
ricevono, letali sensori in terra, in acqua, in aria, nello spazio. Abbiamo
visto all'opera in "guerre facili" aerei, veicoli, navi stealth (se non
proprio invisibili, furtivi) e robotici. Novita' si annunciano
nell'aviazione, nella marina, ma anche nelle forze di terra, dove la
vittoria e' facile per l'esercito piu' armato e addestrato, ma l'occupazione
e' comunque difficile. Si sperimentano blindati sempre piu' letali, leggeri,
ecologici perfino, e intelligenti. Ma tutte le armi sono una piu'
intelligente dell'altra. Anche le mine sono capaci di raccogliere
informazioni, oltre ad uccidere. Entro il 2014, leggo su "il Sole - 24 Ore",
gli Usa avranno pronta una tecno-brigata, prevista nel programma Futur
Combat System, insieme integrato di una ventina di componenti, contando
oltre al sistema computerizzato anche l'uomo.
*
E' questo un componente critico che va opportunamente preparato. "Il
processo ha inizio nel campo reclute. L'addestramento iniziale nelle forze
armate e' sempre un'esperienza traumatica. La nuova recluta viene
maltrattata, umiliata e sottoposta ad uno stress fisico e psicologico tale
che quelle poche settimane modificano notevolmente la sua personalita'.
Un'importante abitudine acquisita durante questo processo e' l'obbedienza
immediata e assoluta. Non c'e' un motivo particolare per cui si debbano
piegare i calzini o fare i letti in un certo modo, se non perche' l'ha detto
l'ufficiale. L'intento e' che si manifesti la stessa obbedienza quando
l'ordine e' molto piu' importante. Addestrato a non mettere in dubbio gli
ordini l'esercito diventa una macchina da guerra: l'impegno e' automatico".
La citazione, e si potrebbe continuare a lungo, non e' tratta da una
pubblicazione antimilitarista, ma dal libro di testo delle migliori business
school americane Thinking Strategically, edito in Italia da "Il Sole - 24
Ore" col titolo Io vinco tu perdi.
Ma l'uomo continua ad avere un difetto, individuato gia' da Brecht. Puo'
pensare. Puo' ritenere che l'intelligenza non consista unicamente
nell'essere connesso a un sistema e rispondere in forma prevista agli input.
*
A questo difetto sono affidate le nostre speranze. Gia' soldati americani,
sempre piu' numerosi, varcano, come ai tempi del Vietnam, la frontiera del
Canada per sottrarsi alla guerra. E l'esercito americano ha affidato ad una
societa' specializzata il compito di individuare il target piu' opportuno di
giovani cui inviare proposta di arruolamento.
Il problema non si presenta ancora nel nostro Paese. Sospeso l'obbligo
militare, il primo bando di concorso per soldati di professione ha visto
18.000 domande per 5.000 posti messi a disposizione. Neanche tanti a ben
vedere considerato che al termine della ferma c'e' un posto in polizia, nei
vigili del fuoco, nella Croce Rossa.
Gli impegni, gia' al loro massimo storico, in "missioni di pace" delle
nostre forze armate, sono destinati a crescere. Sara' infatti un generale
italiano ad assumere in agosto la direzione delle forze Nato in Afghanistan,
un altro fara' lo stesso a settembre in Kossovo, a dicembre l'Eufor, che ha
rimpiazzato la Nato in Bosnia, sara' diretta da un italiano. Gia' da un anno
e mezzo la Multinational Force and Observer in Sinai e' comandata da un
italiano e si prospetta un ampliamento dei suoi compiti nei confronti della
delicatissima striscia di Gaza. E' facile prevedere una forte pressione per
l'aumento delle spese per "la difesa" e sistemi d'arma in particolare.
*
Luttuosi, recenti avvenimenti hanno confermato, non ce n'era veramente
bisogno, non solo la vulnerabilita' delle nostre societa' nei confronti del
terrorismo internazionale, ma l'alimento che lo stesso piuttosto riceve da
guerre condotte nei confronti di "stati canaglia", nella speranza di
distruggerne le basi. E questo avviene in un quadro politico che, nella
breve autobiografia, scritta nel '68 poco prima di morire, Aldo Capitini
aveva previsto: "Si vedra' molto del laicismo anche notevolmente critico
accettare prima o poi l'influenza americana, anche se essa si fara' meno
democratica, ma giudicata da quei laici pur sempre il male minore, in una
certa circolazione di culture e di beni. E quest'accettazione e' un fatto
compiuto, non solo per i laici, che sembrano almeno in Italia in via di
estinzione, ma per forze che in passato si dicevano comuniste. Si vedra' la
spinta rivoluzionaria farsi sempre piu' estremista, attuando anche colpi
violenti se non di guerra, di guerriglia, fino alla speranza di un
controimpero che spazzi tutto il vecchio".
E anche questo l'abbiamo visto, nel mondo e nel nostro paese pure. Negli
"anni di piombo" l'estremismo, che si voleva a favore degli oppressi,
credette nella lotta armata, sempre complice dell'oppressione. E la violenza
terrorista, accompagnata dall'oscurantismo religioso, e' un nemico ben
attuale.
Per chi non accetta il prepotere capitalistico, ne' la barbarie, che
pretenderebbe di opporglisi, si ripropone il problema che nello scritto del
'45 Capitini aveva sintetizzato: Certamente, sorge il problema della forza e
della scelta del mezzo per lottare, per affermare.
E la risposta e' ancora quella della nonviolenza, individuale e collettiva,
del suo approfondimento, teorico e pratico. Solo attraverso il varco della
nonviolenza e' possibile approdare a quell'esito che Capitini indicava,
concludendo la sua gia' ricordata autobiografia: "L'Europa unita al Terzo
mondo e al meglio dell'America, elaboreranno la piu' grande riforma che mai
sia stata comune all'umanita', quella riforma che rendera' possibile abolire
interamente le diseguaglianze attuali di classi e di popoli e abolire le
differenze tra i "fortunati" e gli "sfortunati". Un passo importante,
decisivo, necessario, perche' il varco si compia, e' costituito dal disarmo.

ELIZABETH BAUCHNER: PERCHE' ABBIAMO SEGUITO CINDY SHEEHAN
A CRAWFORD
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione questo articolo di
Elizabeth Bauchner.
Elizabeth Bauchner, scrittrice, vive a Ithaca, nello stato di New York.
Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey in Iraq; dal 6 agosto e' stata
accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo
le vacanze, con l'intenzione di parlargli per chiedergli conto della morte
di suo figlio]

La Casa della pace di Crawford si situa su un piccolo appezzamento di terra
a poche miglia dal ranch dove il presidente Bush trascorre le vacanze.
L'edificio e' stato acquistato nel 2003 da due persone che vogliono rimanere
anonime, e che pensavano che Crawford avesse bisogno di un Centro dedicato
alla pace. Chiunque siano, possiamo dire che la loro intuizione era giusta.
Quando il 6 agosto scorso Cindy Sheehan ha sistemato la sua sedia da
giardino di fronte al ranch di Bush, e ha chiesto un incontro con lui
affinche' le spiegasse per quale nobile causa suo figlio Casey era morto in
Iraq, la Casa della pace si e' trasformata nell'epicentro di dozzine di
organizzatori e volontari che hanno aiutato Cindy e i suoi sostenitori.
Il 27 agosto anch'io sono andata la', con i miei bambini. Un volontario
della Casa ci accolse e ci disse dove potevamo montare la tenda. Siamo
rimasti accampati per tre giorni, i bambini hanno giocato nel labirinto
costruito accanto alla Casa e hanno fatto conoscenza con moltissime persone.
Non saprei neppure dire quanta gente ha partecipato alle iniziative in quei
tre giorni, iniziative che hanno incluso una messa con sacerdoti di diverse
fedi, due matrimoni, e le visite di Al Sharpton e Martin Sheen; un
volontario mi ha detto che piu' di 8.000 persone avevano firmato il registro
della Casa della pace solo nelle due ultime settimane.
La mia decisione di recarmi a Crawford non e' stata improvvisa. Avevo
organizzato una veglia di sostegno a Cindy a Ithaca dove vivo, il 10 agosto,
con l'aiuto degli attivisti di "MoveOn", sperando che ci saremmo trovati
almeno in dodici. Ebbene, in 500 risposero all'appello. Mi sono sentita
infondere molta energia, quel giorno, ed ora sto gia' sistemando le cose
affinche' la mia famiglia ed io si possa partecipare tutti alla marcia per
la pace a Washington il 24 settembre prossimo.
*
Ho portato i miei tre bambini (di 14, 7 e 4 anni) a Crawford perche' ero
convinta che dovessero prendere parte a quell'evento storico, il quale era
cosi' fortemente connesso al legame fra madre e figlio.
A nome nostro, madri e figli in Iraq vengono uccisi a migliaia. A nome
nostro, i nostri ragazzi e ragazze tornano a casa nei feretri avvolti dalle
bandiere.
Come madre, io sento che e' di importanza fondamentale sostenere Cindy e
protestare contro la guerra in Iraq. E volevo mostrare ai miei bambini che
noi abbiamo il diritto, e persino l'obbligo, di contestare le azioni del
nostro governo, quando esse vanno cosi' direttamente contro i nostri valori.
Adottino poi o no i miei sentimenti contro la guerra, ho voluto che i miei
figli vedessero che dissentire e' uníopzione accettabile.
*
A guidarci attraverso i due accampamenti (Camp Casey I e II) e' stato un
volontario della Casa della pace, Juan Torres, il cui figlio e' morto in
Afghanistan. Torres crede che suo figlio sia stato assassinato per aver
denunciato l'uso di droghe fra i suoi commilitoni alla base aerea di Bagram.
Mi disse che il Pentagono continua a rifiutarsi di investigare sulla morte
di suo figlio.
Beatrice, una dimostrante, mi racconto' invece di aver perso il nipote in
Iraq, che amava come un figlio. Come Cindy, voleva conoscere i nobili motivi
che lo avevano ucciso.
Mentre io mi trovavo a Crawford, madri da tutti gli Stati Uniti vennero con
4.500 rose con cui ornare le croci che erano state piantate in nome dei
caduti. A parecchie di esse era appesa la piastrina di riconoscimento dei
soldati. Piangevano in molti, durante la cerimonia, per l'immensa perdita di
vite umane. I miei bimbi aiutarono a decorare le croci con le rose,
muovendosi lentamente e in silenzio, solenni per intuito. Piu' tardi,
svegliandosi da un sonnellino, la mia figlia piu' piccola mi disse: "Mamma,
noi dobbiamo pensare e pensare, anche quando dormiamo e sogniamo, dobbiamo
pensare e pensare a tutti quei ragazzi che sono morti".
*
Cindy Sheehan ha mobilitato i pacifisti in tutta la nazione, o meglio
ancora, in tutto il mondo. Ed e' per questo che e' stata attaccata e
insultata, definita un "attrezzo della sinistra" e una "politicante".
Per me, lei ha messo il volto di un genitore sulla terribile realta' della
guerra.
Lei, Beatrice, Juan: queste persone hanno perso coloro che amavano, figli
che non avrebbero mai dovuto essere mandati in guerra, come non avrebbero
dovuto andarci gli oltre 1.800 altri morti.
Quando ho chiesto a Cindy, durante una conferenza stampa a Camp Casey II,
come avremmo potuto evitare la guerra ai nostri figli e figlie, lei
comincio' a dire: "Crescendo i nostri bambini..." e l'emozione la
interruppe. Ricomincio' daccapo, dicendo che non aveva mai parlato a suo
figlio Casey del fatto che il suo paese poteva abusare di lui o fare di lui
un uso sbagliato. Chiese a tutte le madri presenti di spiegarlo ai loro
figli, perche' Casey non avrebbe mai creduto che il suo presidente potesse
mentirgli o abusare di lui.
E poiche' tale presidente aveva chiarito che non avrebbe parlato con lei,
Cindy avrebbe fatto pressione perche' fosse il Congresso a rispondere alle
sue domande.
Non so come andranno le cose, se Cindy riuscira' ad avere delle risposte da
Bush o dal Congresso, ma credo che il suo piu' grande risultato lo abbia
gia' raggiunto: ha convinto madri come me a stare al suo fianco.
Il coraggio di Cindy Sheehan merita tutto il seguito che sta avendo.
*
Per maggiori informazioni:
- Meet With Cindy: www.meetwithcindy.org
- Crawford Peace House: http://crawfordpeace.nfshost.com
- The Bring Them Home Now Bus Tour: www.bringthemhomenowtour.org

ANGELO CAVAGNA: CAMBIAMO E SALVIAMO L'ONU
[Dai volontari del Gavci (per contatti: gavci@iperbole.bologna.it) riceviamo
e volentieri diffondiamo questi appunti pensati per un intervento a
braccio - quindi col margine di approssimazione tipico del discorso orale -
da padre Angelo Cavagna. Padre Angelo Cavagna (per contatti:
gavci@iperbole.bologna.it) e' religioso dehoniano, prete operaio, presidente
del Gavci (gruppo di volontariato con obiettori di coscienza), obiettore
alle spese militari, infaticabile promotore di inizative di pace e per la
nonviolenza. Opere di Angelo Cavagna: Per una prassi di pace, Edb, Bologna
1985; (a cura di, con G. Mattai), Il disarmo e la pace, Edb, Bologna 1982;
(a cura di), I cristiani e l'obiezione di coscienza al servizio militare,
Edb, Bologna 1992; I malintesi della missione, Emi, Bologna; (a cura di), I
cristiani e la pace, Edb, Bologna 1996]

Ho partecipato a Perugia ad alcuni incontri nell'ambito dell'assemblea
dell'Onu dei popoli e della marcia Perugia-Assisi. Avevo chiesto di fare un
piccolo intervento, ma gli iscritti erano gia' tanti e non fu possibile.
Scrivo quello che avrei voluto dire, nella speranza che, in un modo o
nell'altro, possa giungere ai destinatari.
*
Anzitutto richiamo l'attenzione di tutti sullo studio di Antonio Papisca e
Marco Mascia contenuto nella cartella del convegno sulla riforma dell'Onu.
*
La nonviolenza non e' passivita'
La prima cosa che volevo dire e' la seguente: sia i giornalisti che i
politici, salvo una minoranza, sono chiusi mentalmente nel sistema militare,
per cui alla difesa civile non armata e nonviolenta non danno alcun valore,
non entra mai nelle loro vedute divulgative o nei loro programmi politici,
come se si trattasse di un atteggiamento passivo o di un sogno utopistico.
Cito l'esempio della rivoluzione popolare nonviolenta delle Filippine contro
il dittatore Marcos. Mi pare che Benigno Aquino dapprima fosse partito con
la rivoluzione armata. Poi, imprigionato, abbia lanciato la lotta
nonviolenta. Mandato in esilio e poi richiamato, mentre scendeva dall'aereo,
venne ucciso. A capo della lotta nonviolenta si pose la moglie, Cory Aquino.
Ad un certo punto questa diede al popolo dieci punti di lotta nonviolenta,
fra i quali l'indicazione di ritirare i soldi dalle banche da lei nominate,
nelle quali Marcos aveva i suoi interessi. L'articolista di un prestigioso
quotidiano scrisse da Manila un articolo ironicissimo, il cui sugo era
condensato in queste parole conclusive: "Cosi', con questi dieci punti di
lotta nonviolenta, il dittatore Marcos potra' dormire altri vent'anni di
sonni tranquilli". Invece, in capo a una settimana, Marcos dovette fare le
valigie, senza che fosse sparato un colpo. Altro che vent'anni di sonni
tranquilli.
Del resto, chi avrebbe il coraggio di dire che Gandhi, Martin Luther King,
Rodolfo Seguel in Cile, Perez Esquivel in Argentina, Nelson Mandela in
Sudafrica e tanti altri nonviolenti sono stati dei passivi o degli utopisti?
Il papa Giovanni Paolo II, nel discorso della giornata della pace d'inizio
del terzo millennio, dopo aver scritto che il secolo XX era stato il piu'
insanguinato della storia, aggiunse: "Chi salvo' l'onore dell'umanita'
furono coloro che lottarono con metodi nonviolenti e scrissero pagine
storiche magnifiche". In questo senso, mi sembra, va fatto un invito
particolare agli operatori dell'informazione e della comunicazione e,
soprattutto, ai politici.
*
Una riforma radicale dell'Onu
L'Onu e' nata come istituzione di pace proprio dopo le due guerre mondiali.
Dopo la prima, era nata la "Societa' delle Nazioni"; ma non funziono'. Dopo
la seconda, venne istituita l'Onu: meglio di niente, pero' non funziona.
Cito il giudizio scritto da Kofi Annan, attuale segretario generale
dell'Onu. Mi trovavo, circa un anno fa, dal barbiere. Mentre attendevo il
mio turno, vidi un giornale (era "l'Unita'"). Proprio l'articolo di fondo,
in prima pagina, era di Annan, sulle istituzioni internazionali Il giudizio
finale diceva testualmente: "Le istituzioni internazionali, che dovrebbero
garantire giustizia e pace per tutti i popoli sono a uno stato poco piu' che
embrionale". In pratica, non funzionano.
E' da parecchio tempo che sto notando una cosa curiosa. Quasi tutti quelli
che discutono dell'Onu dicono che bisogna dare maggiore forza a tale
istituzione; ma con questo non vogliono creare un superstato. Bisogna
rispettare la sovranita' di ogni singolo stato. Bisogna incrementare i
rapporti multilaterali fra gli stati sovrani armati; ma non si vuole dare
all'Onu una vera autorita' sovrastatale.
Da notare che l'articolo 11 della Costituzione italiana, dopo la prima parte
che dice: "L'Italia ripudia la guerra...", continua nelle seconda parte
dicendo: "L'Italia consente, in condizioni di parita' con gli altri stati,
alle limitazioni di sovranita' necessarie ad un ordinamento che assicuri la
pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo".
Era chiaro ai costituenti che, per avere la pace mondiale, occorreva un
governo mondiale.
Invece oggi si vuole il "villaggio planetario" ma senza sindaco e senza
consiglio comunale; in pratica un villaggio di matti, come di fatto e'.
L'unico organo dell'Onu che decide qualcosa e' il Consiglio di sicurezza,
dove si sono seduti i rappresentanti delle nazioni vincitrici con il diritto
di veto singolo. Non esiste un vero parlamento eletto e un vero governo
democratico, che ne applichi le leggi. E' significativo che oggi alcuni
governi parlino di riforma dell'Onu, ma intendendo avanzare la propria
candidatura ad entrare proprio nel Consiglio di sicurezza, e non per creare
un vero governo democratico mondiale, con il principio di sussidiarieta'.
Conseguenza logica di quanto sin qui detto, bisogna far sparire tutti gli
eserciti del mondo (uso omicida della forza). E' sufficiente un corpo di
polizia internazionale (uso non omicida della forza) alle dirette dipendenze
dell'Onu, come al formarsi dell'unita' d'Italia furono sciolti tutti gli
eserciti preesistenti al suo interno.
Oppure, per capire che ci vuole una vera Onu, dobbiamo aspettare una terza
guerra mondiale, magari atomica?

MARIA G. DI RIENZO: CANDIDATE IN AFGHANISTAN
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per
questo articolo. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto
rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento
di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel
movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta'
e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza; e' coautrice
dell'importante libro: Monica Lanfranco, Maria G. Di Rienzo (a cura di),
Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003]

Voi giurerete che sono speciali, dopo aver letto di loro, ma esse si
giudicano molto ordinarie. Sono tre donne afgane della provincia di Ghazni
candidate al Parlamento. Naturalmente le candidate sono una minoranza nel
paese, e quindi anche in questo territorio situato a sud est di Kabul (12
contro i 119 uomini per gli undici seggi della provincia, di cui tre
riservati alle donne), ma a lasciare un segno credo proprio che ci
riusciranno.
*
Prendete ad esempio Hosai Andar, che viaggia da sola, senza timore alcuno,
per pubblicizzare la propria candidatura fin nei luoghi piu' remoti e
difficili. Molti uomini candidati non si azzardano a fare quello che Hosai
fa, e ammettono di evitare con cura determinate zone. Hosai non ha problemi,
dice: certo, il fatto che sia una fiera oppositrice dei signori della guerra
che controllano parte della sua stessa provincia la mette in pericolo, ma
lei ripete di essere serena e di non aver paura di nessuno. "Il mio motto
e': civilta'. Se riesco a farmi strada sino al Parlamento, vedrete che ci
libereremo di tutti i signori della guerra".
*
Rahila Kobra Alamshahi, da parte sua, ha molto a cuore il problema delle
persone disperse e senza casa e degli orfani che vivono per strada. Due
bimbe di strada le ha prese con se', Sausan di circa quattro anni e Nilofar
di circa sei (le piccole non sanno dire la loro eta'). Le ha trovate
nell'immondizia, vicino a casa sua, che frugavano in cerca di cibo.
"Dormivano in un container", racconta Rahila, "Durante il giorno cercavano
nei rifiuti la frutta marcia, grazie alla quale sopravvivevano. Queste due
bambine sono l'esempio di una condizione che troppi vivono ancora in
Afghanistan. E' per loro che ho deciso di tentare la corsa al Parlamento. Se
ce la faccio, potro' aiutare altri bimbi. Ho preso Sausan e Nilofer con me
come figlie. Ora sono la loro madre e avro' cura di loro finche' vivro'".
Nella squadra dei suoi sostenitori, gli uomini vanno a dozzine. Rahila li
istruisce personalmente nella sede del proprio comitato elettorale. Problemi
durante la campagna? 'Il maggiore e' che mi accusano di essere cristiana e
dicono che per questo motivo la gente non dovrebbe votare per me. Non ho
niente contro i cristiani, ma sono musulmana e questa e' una menzogna dei
miei avversari".
Rahila Kobra Alamshahi e' una sciita ed ha vissuto 27 anni in Iran. Vede la
propria candidatura come un fatto assolutamente normale. E la sua sicurezza?
Non riesce a riferire la domanda a se stessa, la sua sicurezza e' parte
della sicurezza generale. "Alcune zone della provincia sono ancora sotto il
dominio talebano, e non sono sicure. Questa e' una cosa da risolvere".
*
E poi c'e' Kobra Sadat, che le prime elezioni le ha vinte a casa propria. Si
e' registrata in segreto, poiche' il marito si opponeva alla sua idea di
candidarsi. Gli ha detto la verita' a cose fatte, quando con l'aiuto dei
figlio diciottenne aveva gia' portato a termine tutte le procedure ed il suo
nome era scritto nero su bianco nella lista. "Ne avevo discusso molte volte
con mio marito, ma lui continuava a rispondermi che tutti quelli che ci
conoscevano lo avrebbero insultato e gli avrebbero chiesto ragione del
comportamento di sua moglie. Quando gli dissi che mi ero candidata comunque,
voleva che mi togliessi in fretta dalla lista, prima che la gente potesse
venire a saperlo. Ma io non ero díaccordo, e non l'ho fatto". Dopo un bel
po' di accese discussioni in cui Kobra e' stata sostenuta vigorosamente
proprio dalla famiglia del marito, quest'ultimo ha cambiato opinione. Ora e'
il suo piu' grande sostenitore: "Sta andando casa per casa a dire alle
persone di votare per sua moglie".
Il piu' grosso problema della campagna elettorale, per Kobra, e' quello
economico. Non ha molto danaro da spendere in manifesti e volantini. "Ma la
gente sa la differenza fra il bene e il male", aggiunge ottimista. "Posso
farcela anche senza spendere altri soldi". Speriamo che abbia ragione. Anzi,
che l'abbiano tutte e tre.

GIULIANA SGRENA: OGGI A KABUL
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 17 settembre 2005. Giuliana Sgrena,
giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu'
prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle
culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e'
stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase
piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata
rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche
alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai
liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo liberatore Nicola
Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu' del velo,
Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma
1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq,
Manifestolibri, Roma 2004]

I muri della capitale afghana sono tappezzati di cartelli elettorali, la
loro dimensione dipende dalle disponibilita' finanziarie dei candidati. Ieri
si e' conclusa la campagna elettorale in vista delle elezioni di domani che,
a parte i manifesti, quasi non si e' vista, limitata com'era - per problemi
di sicurezza - a riunioni negli alberghi e a messaggi trasmessi dalla radio
e dalla televisione.
Ogni candidato - 5.800, di cui 2.800 per il parlamento (wolesi jirga,
consiglio del popolo) e 3.000 per le provinciali - aveva diritto a
registrare un messaggio di due minuti.
Poche le eccezioni a questa campagna elettorale clandestina. La combattiva
Soraya Perlika, leader dell'Unione delle donne afghane, ha lanciato pesanti
accuse contro i mujahidin e ha rivalutato la figura del presidente
Najibullah parlando a un centinaio di persone - in maggioranza donne, alcune
con il burqa, altre nascoste dentro il taxi - davanti alla grande moschea
dell'Aid. Mentre Ramazan Bashardost, ex-ministro della pianificazione, ha
piazzato una tenda nel parco della citta', dove riceve i suoi sostenitori.
Non e' solo l'assenza di campagna ma anche il sistema elettorale a
sorprendere: tutti i candidati si presentano come "indipendenti", anche se
appartengono a un partito, che cosi' viene penalizzato perche' non puo' fare
un gioco di lista. Un sistema elettorale fortemente voluto dal presidente
Hamid Karzai, un senza partito, che conta evidentemente di potersi meglio
destreggiare tra "indipendenti". Un sistema che rischia di favorire il voto
"tribale" e la candidatura di personaggi la cui appartenenza e' perlomeno
imbarazzante. Ma a chi ha contestato la presenza nelle liste dei signori
della guerra, Karzai ha risposto: "Ora abbiamo la liberta' di scelta. Se
considero qualcuno un criminale non lo voto". Senza contare che questa
liberta' di scelta e' solo sulla carta e i mezzi di coercizione dei signori
della guerra sono molti.
*
A quattro anni dall'inizio dell'intervento militare della coalizione guidata
dagli Stati Uniti, che ha segnato la fine del regime dei taleban, i seguaci
del mullah Omar sono riabilitati in nome della "riconcilizione nazionale".
Mentre Osama bin Laden (obiettivo dichiarato della guerra al terrorismo)
continua ad essere uccel di bosco. I taleban di spicco in competizione sono
quattro, tra i quali l'ex ministro per la prevenzione del vizio e la
promozione della virtu', Maulawi Qalamudin Mohmand, candidato nella
provincia di Logar, mentre l'ex ministro degli esteri Wakil Ahmad Mutawakil
si presenta nella roccaforte di Kandahar. Senza rinnegare il loro passato e
riciclati dagli americani, che avevano gia' finanziato la loro presa del
potere nel 1996, gli ex ministri e comandanti taleban hanno tutte le chance
per essere eletti, con l'appoggio dei mullah. Sdoganati in cambio
dell'accettazione della presenza militare Usa.
*
Candidati non solo taleban ma anche capi mujahidin. Oltre ai tagiki Rabbani
e Qanuni, tra gli altri, il wahabita Abdul Rasul Sayyaf, e Hamayoon Jareer,
genero di Gulbuddin Hekmatyar, uno dei maggiori responsabili della
distruzione di Kabul durante gli scontri tra mujahidin. Ma Jareer, che
abbiamo sentito ieri, minimizza i crimini commessi dai militanti del Partito
islamico, fondato da Hekmatyar, di cui e' stato un dirigente. E si presenta,
come molti altri "reduci", con l'immagine di fautore della pace oltre che di
sostenitore di Karzai. Sembra di fare un salto nel passato dell'Afghanistan.
Tornano anche i comunisti, candidati "indipendenti", senza riferimenti a una
appartenenza che ora e' fuori legge, secondo la costituzione islamica. E non
tutti sono presentabili come Soraya Perlika che ha sempre fatto le sue
battaglie, coraggiosamente, alla luce del sole (nel novembre 2001 aveva
organizzato la prima manifestazione delle donne senza burqa). Infatti, per
fare la campagna elettorale - ma non e' candidato - e' rientrato dal
Pakistan il generale Tanai, che non aveva esitato ad allearsi con
l'estremista islamico Hekmatyar per tentare un golpe contro Najibullah,
fallito. Se la "riconciliazione" parlamentare funzionera' si vedra' poi, ma
non sembra convincere molti afghani.
*
E' difficile prevedere quanti dei 12 milioni di iscritti alle liste
elettorali (su una popolazione stimata in 28-29 milioni di abitanti)
parteciperanno al voto per eleggere i 249 deputati. I candidati sono
riconoscibili oltre che dal nome, dalla foto e da un simbolo, scelto a sorte
tra quelli "neutri" indicati dal Joint electoral management body, formato da
afghani e funzionari Onu, che ha organizzato le elezioni. Il ricorso al
simbolo - utensili da lavoro, frutta, animali, etc. - e' determinato
dall'alto tasso di analfabetismo: l'85% delle donne e il 55% degli uomini.
Nonostante tutti i limiti di queste elezioni, che concludono il processo
avviato dalla Conferenza di Bonn nel dicembre 2001 ma non il protettorato
americano, si tratta del primo voto a suffragio universale dal 1969, quindi
simbolicamente importante. Il voto e' una possibilita' di partecipare. Che
molti non hanno mai avuto. Soprattutto le donne, che negli ultimi tempi si
sono iscritte in molte alle liste elettorali. Le candidate sono solo 583, il
10%, nonostante la costituzione preveda una quota in parlamento del 25%. Ma
molto combattive.
*
Il clima che si respira nella capitale afghana e' di attesa, non senza
tensione per quello che potrebbe ancora succedere. Timori condivisi anche
dalle autorita', se non hanno ancora comunicato i seggi elettorali. A
rassicurare non basta certo un grande manifesto che campeggia nei punti
strategici della citta' con un alpino italiano - il comando dell'Isaf e'
stato assunto il 3 agosto dal generale Del Vecchio - insieme a un poliziotto
e un militare afghani. Insieme dovrebbero garantire la sicurezza. Mentre i
21.000 soldati della coalizione sono sempre impegnati a fare la guerra
contro gli irriducibili taleban che non hanno accettato la riconciliazione e
"boicottano" le elezioni. Una guerra a "bassa intensita'" che dall'inizio
della primavera ha causato 1.200 morti (civili, candidati, funzionari
impegnati nelle elezioni, e 50 soldati Usa).
*
Ma l'Afghanistan e' un paese spaccato, gli abitanti di Kabul sembrano voler
ignorare quello che avviene nel sud. La gente e' stufa della guerra ed e'
alle prese con i problemi quotidiani. Molti e gravi. Oltre alla sicurezza,
lavoro, sanita', scuola, etc., aumenta la sperequazione tra i poveri, sempre
di piu', e i ricchi, pochi, che fanno i soldi soprattutto con il traffico
della droga. Quest'anno la pioggia ha garantito un raccolto record del
papavero da oppio.
L'immagine di Kabul ben rappresenta il paradosso afghano: l'elettricita'
arriva solo qualche ora al giorno e in molti quartieri mai, manca l'acqua,
ma i telefonini vanno a ruba. Palazzi di vetro spuntano tra catapecchie e
campi profughi.

ENRICO PEYRETTI: AVVOCATO DELL'AVVERSARIO, MINISTRO DELLA
PACE
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey@libero.it) per averci
messo a disposizione questo suo scritto, pubblicato dapprima sul
quindicinale "Rocca", nel fascicolo del 15 marzo 1992, poi ripreso nel suo
libro La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998, alle pp. 46-49, e qui
riprodotto con lievi ritocchi e integrazioni. Enrico Peyretti (1935) e' uno
dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu'
nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; ha insegnato
nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino
al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e'
ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino,
sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato
scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita'
piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha",
edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la
Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale
della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le sue
opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989;
Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace,
Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999;
Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e'
disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica
Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e
nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al
libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro
di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recente
edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi
interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla
pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu'
ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731
del 15 novembre 2003 di questo notiziario]

Una delle tante lezioni da trarre dalle guerre recenti, mi sembra questa:
come ogni stato ha i suoi ambasciatori, oltre le spie, cosi' dovrebbe avere
un "avvocato dell'avversario", col compito di cercare, ascoltare, sostenere,
nei conflitti acuti, le ragioni dell'avversario. Oltre il ministro della
difesa (che pensa ancora la difesa soltanto in termini di guerra), ci vuole
il ministro della pace. Era questa la proposta di Aldo Capitini nel marzo
1948 (cfr. Aldo Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa, Cappelli,
Bologna 1990, pp. 15-16, e Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni Cultura
della Pace, S. Domenico di Fiesole 1989, p. 102) e il suggerimento di Tullio
Vinay nel febbraio 1977 (cfr. Tullio Vinay, L'utopia del mondo nuovo.
Scritti e discorsi al Senato, Claudiana, Torino 1984, p. 285). Un tale
ministro sarebbe incaricato di tenere aperta, e riaprire sempre, la ricerca
dialettica e autocritica della verita' e giustizia nelle controversie, con
esclusione delle soluzioni violente, come impongono l'art. 11 della
Costituzione e la Carta dell'Onu.
Questa istituzione, acquisita nella tecnica giudiziaria (anche il peggiore
colpevole ha diritto alla difesa; la logica del ragionamento giudiziario ha
bisogno dell'"avvocato del diavolo" previsto nel diritto canonico), e' stata
finora esclusa dai conflitti politici tra stati, rimasti alla fase primitiva
in cui ognuna delle parti si pretende assoluta. Anche in assenza di un Terzo
che imponga e garantisca la pace con la forza (necessario nel pensiero di
Hobbes per le relazioni interne e di Bobbio per quelle esterne), la pace
(cioe' la gestione dei conflitti in forme non distruttive) puo' essere
assicurata, meglio ancora che dal Terzo superiore, dal relativizzarsi di
ogni parte, dal riconoscimento essenziale dell'altro. Infatti, lo spirito di
guerra e', nella sua essenza, il disconoscimento dell'umanita'
dell'avversario, che lo trasforma in nemico totale e fonda il diritto
(necessita', dovere, merito, gloria) di ucciderlo.
La guerra puo' essere superata, oltre che sul piano etico profondo (l'altro
e', col suo solo essere, il fondamento del mio obbligo di rispettarlo e
favorirlo, che mi vieta di distruggerlo in caso di contrasto), col rendere
giuridico il conflitto. Essere un soggetto in una unita' giuridica, in un
sistema di regole per convivere, consiste nel riconoscersi parte di un
insieme, nel sapere di non essere tutto. Questa unita' morale e giuridica
e', in modo intero, la famiglia umana completa. Gli stati ne costituiscono
delle parti che si sono fatte ciascuna un tutto.
L'"avvocato dell'avversario" avrebbe la funzione di rappresentare l'altro
all'interno di una parte che, nel conflitto, entra in un delirio di
totalita'. Infatti, la stessa idea di sovranita' assoluta che costituisce
gli stati moderni, e' fattore di guerra, e' belligena. La realta' storica
dell'interdipendenza smentisce e corregge oggi, provvidenzialmente, questa
pretesa. D'altra parte, alla durezza degli interessi iniqui e privilegiati,
si aggiunge oggi l'ondata di nazionalismi, di nazioni che si induriscono in
stato. Cio' indica che coscienza e cultura non sono adeguate al movimento
reale di unificazione della famiglia umana.
*
Occorrono istituzioni rappresentative dell'altra umanita', fuori da questo
particolare stato, cosi' come, nonostante i molti difetti, le istituzioni
democratiche rappresentano ad ogni cittadino i diritti degli altri cittadini
entro la porzione di umanita' compresa in questo stato. Si potrebbe
attribuire un vero ruolo politico interno agli ambasciatori degli altri
popoli e stati (specialmente dello stato con cui si e' in conflitto), o
all'autorita' delle Nazioni Unite, e questo sarebbe il meglio, oppure si
puo' assegnare ad un organo dello stato il compito di rappresentare
interessi e punti di vista dell'avversario. Non c'e' altro modo di fare la
pace, quella che sta al posto e non al termine della guerra. Questa seconda,
infatti, non e' pace, ma volonta' del vincitore imposta al vinto, e' lo
scopo stesso della guerra, altrettanto distruttiva, foriera di altra guerra,
e non alternativa ad essa.
Che cosa accade invece ora? Quando il conflitto si fa acuto, si scatena la
"propaganda di se stessi" da ognuna delle parti: la prima vittima e' la
verita', l'ascolto dell'altro; l'informazione viene gonfiata e insieme
distrutta, perche' vero e falso si confondono, diventano indistinguibili;
cosi' l'umanita' viene massacrata dentro le persone, tanto nei sopravvissuti
come negli uccisi. Oggi e' tecnicamente possibile la comunicazione
universale immediata, quindi e' possibile che il conflitto resti umano e gli
uomini non si facciano sostituire dalle armi, idolo che esige sacrifici
umani e decide nel modo piu' irrazionale e ingiusto.
E' necessita' della vita e della dignita' lavorare con forte iniziativa,
anche unilaterale, per giuridicizzare il conflitto militare. L'obiettivo
pieno non puo' essere altro che la scomparsa del rapporto militare, con
tutto il suo apparato e la relativa mentalita', tragicamente tornata in
auge. I passi saranno parziali, ma quella e' la meta. Nulla di meno.

LE DONNE BRASILIANE DICONO SI' AL REFERENDUM PER PROIBIRE IL
COMMERCIO DELLE ARMI
[Dal sito www.referendosim.com.br riprendiamo questo appello di donne per il
si' al referendum che il 23 ottobre chiedera' all'intera popolazione
brasiliana: "Volete che sia proibito il commercio delle armi da fuoco e
delle munizioni?"]
*
Come donne diciamo si' al diritto a vivere
In Brasile e nel mondo sono gli uomini quelli che piu' uccidono e piu'
muoiono uccisi dalle armi da fuoco. Ma anche le donne sono direttamente e
indirettamente colpite da questo tipo di violenza:
- nelle capitali brasiliane il 44,4% delle donne vittime di omicidio nel
2002 sono state uccise con armi da fuoco (Iser, 2005: dati Datasus, 2002).
- Nel 2004 a Rio de Janeiro 2.130 donne sono state ricoverate per ferite da
arma da fuoco (Iser, 2005: dati Datasus).
- Inoltre, sono principalmente le donne che si prendono cura delle persone
ferite da armi da fuoco, e sono principalmente le donne che garantiscono
sostegno psicologico ed economico alle famiglie e alle comunita' devastate
dalla violenza.
- Il numero delle donne che restano vedove in conseguenza di questa violenza
cresce ogni anno, e poche' le donne brasiliane guadagnano in media il 58,6%
del salario percepito dagli uomini (Ibge, 2003), questo contribuisce
all'impoverimento delle famiglie brasiliane e alla femminilizzazione della
poverta'.
*
I dati lo provano: le armi non proteggono
Le armi acutizzano i problemi come la violenza contro le donne:
- a livello mondiale dal 40 al 70% degli omicidi di donne sono commessi da
loro partners o comunque persone con cui erano in relazioni intime (Dahlburg
and Krug, 2002).
- piu' della meta' (53%) delle donne vittime di omicidi e di tentativi di
omicidio conoscevano il loro aggressore - mentre per gli uomini questa
percentuale cade al 18%. E piu' di un terzo di queste donne avevano o
avevano avuto una relazione d'amore con il loro aggressore (Iser, 2005: dati
delle Delegazioni Legali di Rio de Janeiro tra 2001 e 2005).
- In molti casi gli autori di stupri non sono degli estranei. Nello stato di
Rio de Janeiro, secondo i dati raccolti tra il 2001 e il 2003, il 48,8%
degli autori di stupri erano conosciuti dalle vittime (Cesec, 2005).
*
Le armi causano incidenti, particolarmente con i bambini in casa
- Ogni giorno tre bambini (di eta' da 0 a 14 anni) sono ricoverati in
ospedale per lesioni provocate da armi da fuoco, due per motivi accidentali
e una a causa di una aggressione (Iser, 2005: dati Datasus, 2002).
- Tra i giovani tra i 15 e i 24 anni - il gruppo piu' a rischio di violenza
armata in Brasile - quasi un terzo (31%) degli ospedalizzati per lesioni da
arma da fuoco risulta ferito per causa accidentale (Iser, 2005: dati
Datasus, 2002).
*
Il disarmo aumenta la sicurezza, particolarmente delle donne
Il maggior controllo delle armi ha contribuito a far diminuire i rischi per
tutta la societa'; e la riduzione del numero delle donne morte e' il primo e
piu' significativo risultato:
- in Canada, tra il 1995 e il 2003, il tasso di omicidi eseguiti con armi da
fuoco e' calato del 15%; gli omicidi di donne eseguiti con armi da fuoco
sono diminuiti del 40% (Canadian Department of Justice, 2004).
- In Australia, cinque anni dopo l'approvazione della legge del 1996 che
praticamente proibiva la vendita delle armi da fuoco, il tasso di omicidi
eseguiti con armi da fuoco e' caduto del 50% rispetto alle vittime
complessive; in riferimento alle donne la diminuzione e' stata del 57%
(Australian Institute of Criminology, 2003).
*
Secondo i dati ufficiali le donne sono piu' della meta' dell'elettorato in
Brasile.
La decisione e' nelle nostre mani.
Il 23 ottobre diciamo si' al diritto a vivere, si' al referendum per il
disarmo.

EDUARDO GALEANO: LE GUERRE MENTONO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 settembre 2005. Eduardo Galeano e' nato
nel 1940 a Montevideo (Uruguay); giornalista e scrittore, nel 1973 in
seguito al colpo di stato militare e' stato imprigionato e poi espulso dal
suo paese; ha vissuto lungamente in esilio fino alla caduta della dittatura.
Dotato di una scrittura nitida, pungente, vivacissima, e' un intellettuale
fortemente impegnato nella lotta per i diritti umani e dei popoli. Tra le
sue opere, fondamentali sono: Le vene aperte dell'America Latina,
recentemente ripubblicato da Sperling & Kupfer, Milano; Memoria del fuoco,
Sansoni, Firenze; il recente A testa in giu', Sperling & Kupfer, Milano. Tra
gli altri suoi libri editi in italiano: Guatemala, una rivoluzione in lingua
maya, Laterza, Bari; Voci da un mondo in rivolta, Dedalo, Bari; La conquista
che non scopri' l'America, Manifestolibri, Roma; Las palabras andantes,
Mondadori, Milano]
- Ma il motivo... disse il signor Duval. Un uomo non uccide per niente.
- Il motivo? rispose Ellery, stringendosi nelle spalle. Lei il motivo lo
conosce.
(Ellery Queen, Avventura nella Casa delle Tenebre)
Le guerre dicono di esserci per nobili ragioni: la sicurezza internazionale,
la dignita' nazionale, la democrazia, la liberta', l'ordine, il mandato
della Civilta' o la volonta' di Dio. Nessuno ha l'onesta' di confessare: "Io
uccido per rubare".
In Congo, nel corso della guerra dei quattro anni che e' in sospeso dalla
fine del 2002, sono morti non meno di tre milioni di civili. Sono morti per
il coltan, ma neppure loro lo sapevano. Il coltan e' un minerale raro, e il
suo strano nome designa la mescolanza di due rari minerali chiamati columbio
e tantalio. Il coltan valeva poco o nulla, finche' si scopri' che era
imprescindibile per la fabbricazione di telefoni cellulari, navi spaziali,
computer e missili; e allora e' diventato piu' caro dell'oro.
Quasi tutte le riserve conosciute di coltan sono nelle sabbie del Congo.
Piu' di quarant'anni fa, Patrice Lumumba fu sacrificato su un altare d'oro e
di diamanti. Il suo paese torna ad ucciderlo ogni giorno.
Il Congo, paese poverissimo, e' molto ricco di minerali, e questo regalo
della natura continua a rivelarsi una maledizione della storia.
Gli africani chiamano il petrolio "merda del diavolo". Nel 1978 venne
scoperto il petrolio nel sud del Sudan. Si sa che sette anni dopo le riserve
erano gia' piu' del doppio, e la maggior quantita' giace nell'ovest del
paese, nella regione del Darfur. La', di recente, c'e' stata, e continua a
esserci, un'altra strage. Molti contadini neri, due milioni secondo alcune
stime, sono fuggiti o sono stati uccisi dai proiettili, dai coltelli o dalla
fame, al passaggio delle milizie arabe che il governo appoggia con carri
armati ed elicotteri. Questa guerra si traveste da conflitto etnico e
religioso fra i pastori arabi, islamici, e i contadini neri, cristiani e
animisti. Ma il fatto e' che i villaggi incendiati e i campi distrutti erano
dove adesso cominciano ad ergersi le torri petrolifere che perforano la
terra.
La negazione dell'evidenza, ingiustamente attribuita agli ubriachi, e' la
piu' nota abitudine del presidente del pianeta, che, grazie a dio, non beve
nemmeno un goccio. Lui continua ad affermare che la sua guerra in Iraq non
ha niente a che vedere con il petrolio.
"Ci hanno ingannato occultando sistematicamente informazioni", scriveva
dall'Iraq, nel lontano 1920, un certo Lawrence d'Arabia: "Il popolo inglese
e' stato portato in Mesopotamia per cadere in una trappola dalla quale sara'
difficile uscire con dignita' e con onore".
Lo so che la storia non si ripete, ma a volte ne dubito.
E l'ossessione contro Chavez? Non ha proprio niente a che vedere con il
petrolio del Venezuela questa campagna forsennata che minaccia di uccidere,
in nome della democrazia, il "dittatore" che ha vinto nove elezioni pulite?
E le continue grida d'allarme per il pericolo nucleare iraniano non hanno
proprio niente a che vedere con il fatto che l'Iran contenga una delle
riserve di gas piu' ricche del mondo? E se no, come si spiega la faccenda
del pericolo nucleare? E' stato forse l'Iran il Paese che ha gettato le
bombe nucleari sulla popolazione civile di Hiroshima e Nagasaki?
L'impresa Bechtel, con sede in California, aveva ricevuto in concessione,
per quarant'anni, l'acqua di Cochabamba. Tutta l'acqua, compresa l'acqua
piovana. Non appena si fu installata, triplico' le tariffe. Scoppio' una
rivolta popolare e l'impresa dovette andarsene dalla Bolivia.
Il presidente Bush si impietosi' per l'espulsione, e la consolo'
concedendole l'acqua dell'Iraq.
Davvero generoso da parte sua. L'Iraq non e' degno di essere distrutto solo
per la sua favolosa ricchezza petrolifera: questo paese, irrigato dal Tigri
e dall'Eufrate, si merita il peggio anche perche' e' la pozza d'acqua dolce
piu' ricca di tutto il Medio Oriente.
Il mondo e' assetato. I veleni chimici imputridiscono i fiumi e la siccita'
li stermina, la societa' dei consumi consuma sempre piu' acqua, l'acqua e'
sempre meno potabile e sempre piu' scarsa. Tutti lo sanno: le guerre del
petrolio saranno, domani, guerre dell'acqua.
In realta', le guerre dell'acqua sono gia' in corso. Sono guerre di
conquista, ma gli invasori non gettano bombe, ne' fanno sbarcare truppe. I
tecnocrati internazionali, che mettono i paesi poveri in stato d'assedio ed
esigono privatizzazione o morte, viaggiano in abiti civili. Le loro armi,
mortali strumenti di estorsione e di castigo, non si vedono e non si
sentono.
La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, due ganasce della
stessa morsa, hanno imposto, in questi ultimi anni, la privatizzazione
dell'acqua in sedici paesi poveri. Fra essi, alcuni dei piu' poveri del
mondo, come il Benin, la Nigeria, il Mozambico, il Ruanda, lo Yemen, la
Tanzania, il Camerun, l'Honduras, il Nicaragua... L'argomento era
irrefutabile: o consegnano l'acqua o non ci sara' clemenza per i debiti o
nuovi prestiti.
Gli esperti hanno anche avuto la pazienza di spiegare che non lo facevano
per smantellare sovranita' nazionali, bensi' per aiutare la modernizzazione
dei paesi che languivano nell'arretratezza per l'inefficienza dello stato. E
se le bollette dell'acqua privatizzata non potevano essere pagate dalla
maggioranza della popolazione, tanto meglio: magari cosi' si sarebbe
finalmente svegliata la loro assopita volonta' di lavoro e di superamento
personale.
Chi comanda in democrazia? I funzionari internazionali dell'alta finanza,
che nessuno ha votato? Alla fine dell'ottobre dell'anno scorso, un
referendum ha deciso il destino dell'acqua in Uruguay. La maggior parte
della popolazione ha votato, con una maggioranza mai vista, confermando che
l'acqua e' un servizio pubblico e un diritto di tutti. E' stata una vittoria
della democrazia contro la tradizione dell'impotenza, che ci insegna che
siamo incapaci di gestire l'acqua o qualsiasi altra cosa, e contro la
cattiva fama della proprieta' pubblica, screditata dai politici che l'hanno
usata e maltrattata come se cio' che e' di tutti non fosse di nessuno.
Il referendum dell'Uruguay non ha avuto nessuna ripercussione
internazionale. I grandi media non sono venuti a conoscenza di questa
battaglia della guerra dell'acqua, persa da quelli che vincono sempre; e
l'esempio non ha contagiato nessun paese del mondo. Questo e' stato il primo
referendum dell'acqua e finora, che si sappia, e' stato anche l'ultimo.

C'E' SOLO UNA VIA: LA NONVIOLENZA
[Da "Athenet on line. Notizie e approfondimenti dall'Universita' di Pisa",
n. 6, maggio 2002 (sito: www.unipi.it) riprendiamo questo intervento di
Tiziano Terzani li' pubblicate col titolo "Prima che sia troppo tardi.
Riflessioni sulla guerra in corso"; dalla stessa fonte riprendiamo anche la
seguente presentazione redazionale dell'autore: "Tiziano Terzani e' uno dei
giornalisti italiani che gode di maggior prestigio a livello internazionale.
Laureatosi in giurisprudenza a Pisa nel 1962, e' stato sino allo scorso anno
corrispondente per l'Asia del settimanale tedesco 'Der Spiegel'. E' uno dei
pochi giornalisti rimasti a Saigon dopo la rotta dell'esercito statunitense.
Ha vissuto a Singapore, Hong Kong, Pechino, Tokio, Bangkok e New Delhi. Lo
scorso marzo Terzani e' tornato a Pisa per presentare il suo ultimo libro:
Lettere contro la guerra".
Dal sito www.tizianoterzani.com riprendiamo la seguente breve biografia
basata su date e luoghi ricavati dai libri di Tiziano Terzani e Angela
Staude: "1938. Tiziano Terzani nasce il 14 settembre del 1938 a Monticelli,
quartiere di Firenze. A 17 anni conosce quella che poi diventera' sua
moglie, Angela Staude (nata nel 1939 a Firenze da genitori tedeschi, padre
pittore e madre architetto). 1962. Si laurea con lode in Giurisprudenza
presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, frequentata grazie a una borsa
di studio. 1965. Mette piede per la prima volta in Asia, quando viene
inviato in Giappone dall'Olivetti per tenere alcuni corsi aziendali. 1969.
Consegue un Master in Affari Internazionali alla Columbia University di New
York, seguendo corsi di storia e lingua cinese. Nell'agosto dello stesso
anno nasce il primo figlio, Folco. Ansioso di partire per l'Asia, rinuncia
alle richieste di grandi quotidiani come "il Giorno" e "The Guardian",
accettando invece un contratto del "Der Spiegel": diventa cosi'
corrispondente dall'Asia per il settimanale tedesco. Lo sara' per 30 anni.
1971. A marzo nasce la secondogenita, Saskia. 1973. Pubblica "Pelle di
Leopardo" dedicato alla guerra in Vietnam. 1975. E' tra i pochi giornalisti
al mondo a rimanere a Saigon e assiste alla presa di potere da parte dei
comunisti. Da questa esperienza nascera' "Giai Phong! La liberazione di
Saigon" (1976). Il libro viene tradotto in varie lingue e selezionato in
America come "Book of the Month". 1979. Dopo quattro anni passati ad Hong
Kong, si trasferisce, sempre con la famiglia, a Pechino. Fra i primi
corrispondenti a tornare a Phnom Penh dopo l'intervento vietnamita in
Cambogia, racconta il suo viaggio in "Holocaust in Kambodscha" (1981). 1984.
Il lungo soggiorno in Cina si conclude a febbraio con l'arresto per
"attivita' controrivoluzionarie" e successiva espulsione. L'intensa
esperienza cinese, con il suo drammatico epilogo, da' origine a "La porta
proibita" (1985), pubblicato contemporaneamente in Italia, negli Stati Uniti
e in Gran Bretagna. 1985. Risiede ad Hong Kong per tutto l'anno, poi si
trasferisce a Tokyo dove rimane fino al 1990, quindi a Bangkok. 1991. In
agosto, mentre si trova in Siberia con una spedizione sovietico-cinese,
apprende la notizia del golpe anti-Gorbacev e decide di raggiungere Mosca.
Il lungo viaggio diventera' "Buonanotte, Signor Lenin" (1992), uscito anche
in Germania e Gran Bretagna, che rappresenta una fondamentale testimonianza
in presa diretta del crollo dell'impero sovietico. Il libro viene
selezionato per il "Thomas Cook Award", il premio inglese per la letteratura
di viaggio. Collabora nel frattempo, gia' dalla meta' degli anni ottanta,
con diversi quotidiani e riviste italiane ("Corriere della Sera", "la
Repubblica", "L'Espresso", "Alisei") e con la radio e tv svizzera in lingua
italiana insieme a Leandro Manfrini. 1994. Si stabilisce in India con la
moglie Angela Staude, scrittrice, e i due figli. 1995. Il capolavoro "Un
indovino mi disse" (1995) e' la cronaca di un anno vissuto come
corrispondente dall'Asia senza mai prendere aerei: il libro ottiene un
notevole successo di critica e di pubblico. 1997. Al ritorno da Calcutta
Terzani avverte i primi sintomi che porteranno alla diagnosi di cancro. A
Orvieto gli viene conferito il prestigioso "Premio Luigi Barzini all'inviato
speciale". 1998. La sua esperienza lo accredita a livello internazionale tra
i massimi conoscitori del continente asiatico e infatti in questo anno
pubblica "In Asia" dove descrive le multiformi realta' storiche, culturali
ed economiche del continente. Un libro a meta' tra reportage e racconto
autobiografico. 2001. Pochi mesi dopo gli attentati dell'11 settembre e
dell'attacco militare degli Stati Uniti in Afghanistan, interviene nel
dibattito sul terrorismo pubblicando "Lettere contro la guerra" (prima
edizione, marzo 2002), dedicate al nipote Novalis. Il libro per i suoi
contenuti decisamente forti, ma onesti, viene rifiutato da tutti gli editori
di lingua anglosassone. Significativa, anche se non molto conosciuta, la
protesta dell'Ambasciata americana a Roma, che sottolinea la gravita' di
alcuni passaggi del libro. Comunque sia, per contrastare questa "censura",
Terzani paga di tasca propria la traduzione del libro e la rende disponibile
gratuitamente su internet, dimostrando cosi' la liberta' assoluta delle
proprie opinioni. Curiosamente proprio in India comincia a girare una copia
"pirata", in inglese: Terzani stesso raccontera' divertito questo episodio,
a riprova di come la censura non possa nulla contro la liberta' di sapere,
ribadendo una volta per tutte come "i fatti siano un velo dietro cui si
nascondono le verita'". E la sete di verita' - in un mondo in piena guerra -
e' legittimamente tanta. 2002. Inizia il "pellegrinaggio di pace" attraverso
scuole e incontri pubblici appoggiando la causa di Emergency "Fuori l'Italia
dalla guerra" insieme a Gino Strada. Questo impegno civile viene documentato
in due modi. Il primo e' raccolto in un volume di Federica Morrone dal
titolo "Regaliamoci la pace". Una lunga conversazione con Tiziano Terzani
con allegati quindici contributi per una cultura di pace tra cui spiccano il
 Nobel Dario Fo, Gianni Mina', Vauro, Alda Merini, Margherita Hack, padre
Zanotelli, Giulietto Chiesa ecc. (prima edizione, novembre 2002). Il secondo
documento dell'impegno civile di Terzani e' raccolto invece in un filmato
che esce un mese piu' tardi con la nuova edizione di "Lettere contro la
guerra". La vhs "Tiziano Terzani - Il kamikaze della pace" e' un
film-documento di circa un'ora realizzato dalla Radiotelevisione Svizzera in
lingua italiana che vede la partecipazione di Jovanotti. Qui Terzani parla
della sua vita, ma anche dell'attualita' della guerra e dei valori di pace e
civilta' che l'umanita' sta calpestando senza remore. 2004. Nel marzo 2004
pubblica "Un altro giro di giostra - Viaggio nel male e nel bene del nostro
tempo" dove parla di se', della sua malattia e di come "vede il mondo". Il
19 aprile 2004 rilascia un'ultima intervista radiofonica alla storica
emittente fiorentina "Controradio". Il 27 e 28 maggio rilascia al regista
milanese Mario Zanot una lunga intervista filmata che diventera' poi un
film: "Anam, il senzanome". Quattro mesi dopo (il 28 luglio), proprio mentre
tutte le sue opere vengono ristampate in edizione economica, si spegne nella
sua casa all'Orsigna, piccolo borgo sull'Appennino pistoiese. Ma prima di
"lasciare il suo corpo", raccoglie i suoi pensieri in un lungo
dialogo-diario con il figlio Folco che uscira' nella primavera del 2006"]

Dopo trentacinque anni di giornalismo sono andato in pensione, ma la mia
idea non era quella di smettere di lavorare, volevo fare un altro viaggio.
Siccome tutta la vita avevo viaggiato... fuori, volevo fare un viaggio...
dentro. Cosi', mi sono trasferito sull'Himalaya, in una capanna senza acqua,
luce, telefono, senza umani per chilometri. Ci vogliono due ore di cammino
attraverso una foresta di rododendri e due ore con una jeep per arrivare
dove c'e' qualcuno che vende della frutta, del riso, dove c'e' un
cyber-caffe' dal quale mando i messaggi a mia moglie, al mondo... E dinnanzi
alle piu' grandi montagne del mondo, godevo del silenzio. Passavo ore seduto
sull'erba sotto i deodar, gli alberi di Dio, dei cedri altissimi pieni di
corvi con i quali ho fatto amicizia; vengono a mangiare con me al mattino lo
yogurt che faccio con delle bacche. Ero pronto a passare cosi' il resto
della mia vita, quando nel settembre scorso sono venuto in Italia per il mio
sessantatreesimo compleanno - mia moglie sta a Firenze e ogni tanto, ogni
due o tre mesi, ci incontriamo, lei viene a trovarmi, io vado a trovarla -
cosi' mi sono ritrovato, come tutti voi, come tutto il mondo, davanti alle
torri che cadevano. Un amico mi ha telefonato: "vai subito alla
televisione", sono arrivato in tempo per vedere il secondo aereo che
impattava.
*
Forse perche' vivo in Asia da tanto tempo, forse perche' sono convinto che
la vita e' una e che il piu' bel simbolo di questa unita' e armonia e' il
simbolo dello yin e dello yang, del tao, in cui all'interno della luce c'e'
una radice di tenebra, e all'interno della tenebra c'e' un punto di luce, ma
in questo sgomento orribile ho visto il punto di luce e mi sono detto: "bah!
Questa e' una buona occasione!". L'ho sentito forte: "questa e' una buona
occasione!". Certo, una buona occasione perche' il mondo e' cambiato, le
torri hanno cambiato il nostro mondo, l'hanno cambiato profondamente; e' il
momento che cambiamo anche noi. Per la prima volta l'orrore del nostro
rapporto col mondo era dinnanzi a tutti noi. L'atomica e' stata una grande e
orribile svolta nella storia dell'umanita', tant'e' vero che tutti quelli
che vi avevano partecipato e avevano un cuore hanno dovuto riflettere sulla
moralita', sulla giustificazione di quella bomba... Una bomba sganciata su
due citta', uccidendo trecentomila persone, tutte civili. Percio' non
facciamoci raccontare che le torri sono qualcosa di nuovo, qualcosa di
orribilmente nuovo. Le guerre ormai uccidono solo i civili, di soldati ne
uccidono sempre di meno; questa guerra poi ne e' la dimostrazione. Ma la
bomba atomica in verita' non l'abbiamo vissuta, abbiamo visto delle foto,
l'abbiamo letta nei libri, ma era qualcosa di lontano. Erano giapponesi,
erano cattivi, si erano comportati orribilmente nel corso della guerra; e il
fatto che poi per trentacinque anni la guerra fredda avesse congelato la
capacita' atomica delle due potenze, ci ha allontanato dall'orrore del
nostro suicidio. L'11 settembre invece ce l'ha messo davanti, e abbiamo
visto tutti, tutto il mondo ha visto l'orrore di questo crimine.
Allora, come dicevo, ho pensato che l'11 settembre fosse una grande
occasione per riflettere, per fermarsi, per stare in silenzio e chiedersi:
"ma che ci facciamo su questa terra? Cosa vogliamo fare delle nostre vite?".
Non scrivevo piu' da tempo, lavoravo a un'altra cosa. Tutto quel che avevo
da dire sul giornalismo l'avevo detto nel libro In Asia. Col giornalismo
percio' avevo chiuso, ma davanti alla tragedia ho sentito il dovere di dire
le due o tre cose che in trent'anni mi pare di aver capito. E' cosi' che ho
scritto la prima lettera per raccontare dei fondamentalisti che si preparano
alla jihad, essendo uno dei pochi che aveva avuto modo di conoscerli per
puro caso.
*
Io non sono molto intelligente, ne' molto colto, ne' molto brillante, pero'
sono fortunatissimo. La prima volta al fronte fischia una pallottola e
colpisce quello accanto. Sono catturato dai kmer rossi, vengo messo al muro,
riesco a ridere e non mi ammazzano. Incontro una donna a diciassette anni e
ci vivo insieme fino a sessantatre e spero anche per il tempo che mi rimane.
A volte la fortuna e' anche qualcosa a cui bisogna tirare dei calci, ma io
ce ne ho sempre avuta molta. Poi ho un po' d'istinto. Nel 1996 sapevo che
quell'uomo che aveva messo la bomba al Wtc era passato da un luogo che si
chiamava l'universita' della jihad, che poi era un campo di addestramento.
Ci sono andato e per due giorni sono rimasto in mezzo a quella gente
sentendomi un appestato, perche' ero un occidentale, portatore di questa
cultura depravata, ma ho imparato tante cose.
Da giornalista ho sempre sentito che se volevo capire i conflitti non potevo
stare da una parte sola, dovevo anche capire gli altri. Nel '73 in Vietnam
passai il fronte per andare a trovare i vietcong. Quando andavo in pattuglia
con gli americani, ci sparavano addosso e anche per me quelli diventavano il
nemico, ma questa identificazione con un fronte mi pesava. Me ne rendo conto
solo ora, ma mi sono sempre interessato, magari istintivamente, all'altro:
chi e', cosa pensa, cosa fa, perche'? E cosi', come ho passato le linee con
i vietcong, nel '96 ho passato le linee del terrorismo e ho scritto le mie
riflessioni in una lettera che ho mandato al "Corriere della Sera".
Lasciatemi subito dire che io non ho uno stipendio dal "Corriere", ma sono
grato al "Corriere" e al suo direttore, Ferruccio De Bortoli, per aver
pubblicato, con coraggio, devo dire, tutto quello che gli ho mandato.
Perche' la mia voce era stonata in quei giorni; era come tirare un sasso
contro un castello di vetro, fatto di ipocrisie, di banalita', di reazioni
automatiche, di politici e commentatori che senza fantasia ricorrevano a
quello che si sa dire, al tornaconto del momento, al dire "spalla a spalla
con gli americani".
Allora, ho scritto questa lettera che si concludeva con un appello al cuore,
per il quale sono stato preso per i fondelli da tutti: "Terzani gli e'
rincoglionito, gli e' diventato induista, gli e' diventato buddista", un
"sognatore dell'Oriente". Perche' avevo detto che la violenza genera solo
violenza, l'odio genera solo odio, l'odio si combatte solo con l'amore.
"L'amore? Oh, gli e' proprio grullo quello li'!". Sapete, gli indiani si
salutano cosi', dicendosi namaskar, che vuol dire: "saluto la divinita' che
e' in te". Se noi procediamo per la strada di definire il nemico, come ha
fatto Rumsfeld, "a wonder animal", non riusciremo mai ad evitare il
confronto di civilta' e con questo la fine di ogni civilta'.
*
Noi dobbiamo aprire un dialogo di civilta', non dobbiamo disumanizzare il
nemico, ma capirne le ragioni per evitare che lui faccia quell'atto, il piu'
innaturale della vita, che e' quello di uccidersi uccidendo.
Secondo me il terrorismo non si combatte uccidendo i terroristi, anzi in una
forma perversa noi creiamo terroristi con quello che stiamo facendo. Il
terrorismo si combatte eliminando le ragioni che fanno di un uomo un
terrorista; perche' quelli sono uomini come noi, sono nati, son cresciuti,
hanno amato, alcuni hanno famiglia, bambini. Guardate le storie di questi
giorni della Palestina, storie di ragazzi che si suicidano. Sono nati per
vivere, l'uomo nasce per vivere, non per suicidarsi. E allora, cos'e' che
porta un uomo a fare quest'atto cosi' innaturale? Capiamolo, e potremo
eliminare il terrorismo rimuovendone le cause.
Questa era la mia posizione il 14 settembre 2001. Apriti cielo... parte la
Fallaci con il suo urlo di rabbia meschina, secondo me, di orgoglio mal
riposto, che era poi un grido di vendetta. Intendiamoci, sul piano personale
io rispetto la Fallaci: e' una signora anziana; ha avuto una vita molto
movimentata, e' una persona che vive sola, in una scatola di una scatola, di
una scatola in quella scatola che e' New York. Non risponde al telefono, si
sente perseguitata. E' una persona che affronta a suo modo la vecchiaia e la
morte, quella cosa che ognuno di noi ha diritto di affrontare a suo modo. E
questo lo rispetto, anzi ho compassione. Pero' mi pare che affrontarla con
le passioni piu' basse, violente e meschine, non giovi ne' a lei - e le ho
augurato pace dentro, cosi' che la trovi anche fuori - ne' agli altri.
Quando poi ho saputo che la sua lettera veniva letta nelle scuole mi sono
proprio preoccupato, ne ho sentito il pericolo e ho voluto levare la mia
voce per la pace, la comprensione, la nonviolenza. Cosi' ho scritto una
lettera aperta che il "Corriere", molto generosamente, ha pubblicato.
*
A questo punto avevo tirato due sassi. Non potevo tornare in cima
all'Himalaya a guardarmi l'ombelico. Ho ripreso il mio sacco, ci ho messo
dentro il computer, con i miei soldi, senza l'accreditamento di nessuno, con
una carta da giornalista falsa, si' avete capito bene, falsa. Questo fatto
lo trovo divertentissimo. Tutta la vita... "sono Terzani di 'Der Spiegel'";
e improvvisamente sono... un pensionato. Adesso quando arrivo in aeroporto
sulla scheda, sapete, alla voce "professione", scrivo "pensionato", mi
piace, e' bellissimo... pero' quando vai a un ministero degli esteri, anche
da quei tagliagole che ora gestiscono Kabul, vogliono sapere chi sei, e non
potevo presentarmi cosi' "un pensionato? Mbe'?". E allora mi sono fatto fare
una carta da giornalista a Bangkok. Chi di voi ha conosciuto Bangkok sa che
c'e' una strada, Kaosang road, dove per 250 pat, per cinque dollari, ti
fanno una carta di Presidente della Repubblica, di chirurgo, di quello che
vuoi. Io me ne sono fatta fare una da giornalista e mi sono rimesso in
viaggio.
Ho passato due mesi in Pakistan, lungo la frontiera afghana, evitando gli
altri giornalisti, perche' c'e' un inseminamento di bugie spaventoso. Ad
Islamabad c'e' un solo grande albergo a cinque stelle, elegantissimo, pieno
di giornalisti, quelli che appaiono in mezzo busto. Stanno tutti su una
terrazza con una bella vista sulle montagne, e ci sono tante gabbiette, Bbc,
Cnn, Rai1, Tv2, Cbs. Insomma, sono tutti li', tutti hanno la loro gabbietta
e la cosa bellissima e' questa: stanno in questo albergo tutti assieme e
basta che qualcuno metta in giro una voce, che dia un'imbeccata in maniera
opportuna, che subito viene rilanciata da tutti i media del mondo. Il
Pentagono lo sa perfettamente e ne approfitta. The Office of Strategic
Influence, si chiama l'ufficio racconta-bugie. In questi giorni ci hanno
detto di averlo chiuso, ma raccontano tante di quelle bugie... E certo
c'erano decine di funzionari dell'ufficio in quell'albergo. La mattina
incontravano un giornalista spagnolo a colazione e gli dicevano: "ma hai
sentito? I talebani... ne hanno ammazzate oltre quarantamila di quelle
donne... e il burqa... Madonna! Pare - per dirne una - che i talebani
incatenino le donne sotto il burqa...". Allora il giornalista spagnolo
incontrava un collega: "oh, ma hai sentito?" e quello, che nel frattempo era
stato avvicinato da un altro funzionario dell'ufficio: "che incatenano le
donne?" "Si'... ma allora e' vero!". Dopo cinque minuti erano tutti lassu'
sul tetto: "i talebani hanno messo anche le catene ora...".
Allora, per evitare di essere inseminato me ne stavo in certe pensioncine
vicino all'universita' e come al solito ho avuto una fortuna cane. Ho
trovato due giovani che parlano il pashtun, una delle due grandi lingue
dell'Afghanistan. Erano studenti di medicina e adoravano parlare inglese,
l'unica lingua con cui ci si poteva intendere, perche' con tutte le lingue
che parlo non parlo quelle dell'Afghanistan. Me li sono presi tutti e due
come guide e interpreti, ho vissuto con loro, ho viaggiato con loro. Con
loro sono andato a vedere i jihadi, quei giovani che partivano con le
organizzazioni fondamentaliste, con il loro kalashnikov. Ce n'era uno senza
scarpe, gli ho detto: "ma come? vai in guerra scalzo?" "eeeeh" mi ha detto
"appeno arrivo taglio i piedi a un americano e gli piglio le scarpe".
Interessante. E' cosi' che loro vedevano la loro jihad... interessante. Un
mese dopo sono tornato a vedere cosa ne era di un gruppo che avevo visto
partire, entusiasta di combattere. Di quarantatre, ne erano tornati appena
tre. Quaranta fatti a pezzi dai B-52. Ho parlato con uno di questi: "e ora?"
gli ho chiesto; "Io sono gazi" mi ha risposto, come dire: sono un veterano,
per cui godo di grande prestigio nel villaggio "e sono agli ordini della mia
organizzazione", un'organizzazione fondamentalista che ora Musharaff ha
messo all'indice. "Agli ordini dell'organizzazione? Ma se l'organizzazione
ti ordina di andare a mettere una bomba a New York?" "ah! Ci vado subito",
mi ha detto.
*
Ecco il terrorismo. Il terrorismo nasce dall'asimmetria con cui tutto si sta
svolgendo nel mondo. Se tu vedi i tuoi quaranta colleghi fatti a pezzi dalle
bombe sganciate da quindici chilometri di distanza da un irraggiungibile
pilota, che beve la coca cola e schiaccia dei bottoni, come puoi, in quella
logica perversa della violenza, che io prego, chiedo, imploro di evitare,
come puoi vendicarti? Perche' parliamoci chiaro: tutta questa vicenda e'
all'insegna della vendetta.
Anche l'operazione americana, la nostra operazione, ha un fondo di vendetta,
e' evidente. Avete visto la fotografia del talebano a Guantanamo Bay in
ginocchio ai piedi del marine? Era incatenato, tutto rasato, aveva una
maschera, gli orecchi tappati. E quella foto non l'ha rubata un paparazzo
per mostrare gli orrori della guerra, l'ha consegnata il Pentagono alla
stampa. Perche'? Dopo si sono accorti di aver sbagliato, ma il Pentagono
l'ha consegnata perche' l'opinione pubblica americana aveva bisogno di
vedere che finalmente si erano vendicati e che avevano messo in ginocchio il
terrorista.
Il problema e' che quella stessa foto nel resto del mondo ha fatto un'altra
impressione, e ora l'America paga per questo: deve rifare i suoi conti, deve
riconquistare la simpatia del mondo, deve chiudere l'ufficio delle bugie,
perche' quella foto probabilmente era vera, ma veniva dall'ufficio delle
bugie. Insomma e' la vendetta, e non cercano nemmeno di nasconderlo.
E gli altri? Come si possono vendicare gli altri? Come si puo' vendicare uno
che non riesce a vedere il suo nemico, perche' gli vola sulla testa a
chilometri di altezza? L'unica vendetta possibile e' il terrorismo. Per
questo bisogna evitare il circolo vizioso della violenza se vogliamo evitare
il suicidio dell'umanita', perche' ormai le armi di distruzione di massa
sono tali che non c'e' scelta.
La guerra e' in corso. In questo momento i B52 sorvolano l'Afghanistan
pronti a bombardare qualcuno, forse Al Qaeda, forse no. In questo momento da
qualche parte un giovane di quelli di cui dicevo sta preparando una bomba,
che puo' mettere a Londra, a Mogadiscio, a New York... chissa' dove? La
guerra e' in corso, e non illudiamoci: non possiamo continuare a vivere come
se non fosse successo niente.
*
E allora ripeto: l'unico modo e' capire, l'unico modo e' fermarsi, in
silenzio, riflettere e trovare un modo per dialogare. C'e' solo una via: la
nonviolenza. Non c'e' stata mai una guerra che abbia messo fine a tutte le
guerre.

LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
 PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir@peacelink.it,
luciano.benini@tin.it, sudest@iol.it, paolocand@inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info@peacelink.it