Invalido a chi? Disabilità: le parole corrette

L’handicap delle parole

Le parole della disabilità. Una continua ricerca contro la banalità del linguaggio comune

ROMA – Non è facile trovare il modo migliore di definire la disabilità. Il numero 2 del mensile “SuperAbile Magazine” ha dedicato un’inchiesta a questo tema, curata da Antonella Patete, girando la domanda ad alcuni esperti, artisti e intellettuali: da Franco Bomprezzi a Matteo Schianchi, da Claudio Imprudente a Zanza, da Gianluca Nicoletti a Massimo Cirri, da Giampiero Griffo ad Antonietta Laterza, fino alla voce dell’autorevole linguista Tullio De Mauro. Per scoprire che non bisogna mai arrendersi alla banalità del linguaggio comune. “Handicappato sarà lei!”, il titolo provocatorio scelto come titolo per approfondire un argomento spinoso, che oscilla tra la burocrazia delle definizioni e “la moda del politicamente corretto”.


“A sostituire la parola handicappato ne sono arrivate altre, apparentemente più neutre ma in realtà tutte dense di diversi significati. Termini come disabile, diversamente abile, persona con disabilità si avvicendano o convivono in un continuo slittamento di significati. Insomma, in questo campo le parole sembrano proprio non trovare pace. Forse perché a lungo andare si rivelano tutte, in un modo o nell’altro, insufficienti o inadeguate”, commenta Patete.


Sull’espressione discussa e contestata “diversamente abile” o “diversabile”, l’inchiesta propone quattro voci e commenti, precisando che si tratta di “un neologismo che Superabile.it non usa mai, anche se non tutti gli organi di informazione, neppure quelli dedicati esplicitamente alle persone disabili, hanno fatto la stessa scelta”. Per Giampiero Griffo, membro dell’esecutivo mondiale dell’organizzazione Disabled people’s international, “termini buonisti come diversabile cancellano la condizione di discriminazione e mancanza di pari opportunità” e non descrivono “la relazione tra ambiente e caratteristiche della persona, usando un attributo che appartiene a tutte le persone”. Anzi, si chiede Griffo: “Conoscete persone che possono essere definite ugualabili?”.

Dello stesso avviso Matteo Schianchi, studioso di storia sociale della disabilità: “Abile qualifica sempre azioni e competenze delle persone. È una forma linguistica vaga”. Tuttavia “l’essenza di una persona non è data dalle sue abilità, che siano esse ipotetiche, reali, normali o diverse”. Ma allora come è nato questo neologismo e come (e perché) si è tanto ampiamente diffuso? A difenderne la legittimità è Claudio Imprudente, autore di una rubrica su Superabile.it: “Si è trattato del frutto di una riflessione condivisa, partita da me e dal Centro Documentazione Handicap di Bologna, insieme a tutti coloro che, normodotati e non, negli anni, in un modo o nell’altro, vi hanno preso parte. Di sicuro io ho dato una mano enorme a divulgarla”. E sulle polemiche: “Per cambiare la cultura si passa sempre prima dalle parole. In questo senso, dico sempre che la parola diversabile è uno scrigno vuoto, che bisogna riempire di contenuti. Una semplice provocazione che ci mette in grado di aprirci a prospettive e reazioni ulteriori”.


Ribatte Franco Bomprezzi, giornalista da sempre impegnato per i diritti delle persone disabili, mettendo in guardia da derive buoniste: “Non sopporto ‘diversamente abile’, perché chi utilizza questo termine è convinto di far bene, pensa di essere politicamente corretto, è lì pronto a darti un buffetto o una pacca sulla spalla. Chi lo dice, infatti, si ritiene ‘abile’ e basta, senza quel ‘diversamente’. E poi non è un caso che la locuzione piaccia al mondo della politica, sempre in cerca di consenso, un po’ piacione e molto compiacente. Diciamo la verità: nessuno di noi ha deciso di ‘specializzarsi’ in ‘diversa abilità’. È successo, e non per scelta. Siamo persone. Con disabilità. Più o meno”.
 
Leggi l’inchiesta sul secondo numero del magazine di Superabile

Fonte redattoresociale.it - c.a.