LAVORO
Quanto vale il lavoro? L’oblio di tale questione è una delle cause
della crisi sociale in cui ci troviamo. Esso non è solo fonte di valore, come
riconoscevano David Ricardo e Karl Marx, ma è valore di per sé, intrinsecamente.
Infatti il lavoro è dinamica di umanizzazione: la tensione radica
nel bisogno spinge gli esseri umani non tanto a cercare una qualsiasi risposta
per il suo soddisfacimento, quanto a costruire una risposta che, man mano che
prende forma, permette di trasformare, di affinare e di esprimere la loro
umanità.
L’essere umano è l’essere che risponde originalmente alla vita, è
responsabilità da ogni lato della sua esistenza e il lavoro è nucleo
costruttivo di questo esser responsabilità.
Il senso antropologico del lavoro si coglie ricordando il fatto che
lavorare significa generare risposte al bisogno che sono tali da arricchire e
da portare alla luce l’umanità di ognuno.
Perciò colpire il lavoro significa
stravolgere e bloccare il cammino dell’umanizzazione.
Il lavoro è creazione di nuove e più umane condizioni di vita. Esso
ha il compito di fare della terra una dimora ospitale per l’umanità, senza con
ciò distruggere o avvelenare il mondo vivente della natura.
Se Immanuel Kant definisce la libertà come “il potere di dare
inizio a qualcosa di inedito” (Critica della ragion pura. Bompiani, p.
813), allora il lavoro è il potere di svolgere questo inizio, di costruire
strutture, condizioni, beni, oggetti che rendono più sicura la vita umana e più
capace di armonia con la natura.
Il senso storico del lavoro e ricordarlo oggi è doloroso ma
culturalmente decisivo risiede nella promessa di togliere l’esistenza dei
singoli e dei popoli della precarietà, dall’angoscia dell’insicurezza, dalla
regressione alla brutalità della lotta per la sopravvivenza di tutti contro
tutti.
Perciò colpire il lavoro significa legare l’umanità a condizioni di
vita disperanti.
Il lavoro è servizio alla società e al bene comune: le nostre doti
ci sono date in affidamento e in amministrazione fiduciaria affinché i suoi
frutti vadano certo a favore nostro e dei nostri cari, ma anche di molti altri,
che possono contare sulle nostre capacità e sul nostro impegno.
È questa rete di corresponsabilità, in cui ciascuno fa la sua parte
al meglio, che la Costituzione evoca quando afferma che l’Italia è una
repubblica fondata sul lavoro.
Il senso etico del lavoro sta nell’assumere come proprio dovere il
servizio per altri. Perciò colpire il lavoro significa minare le basi
dell’attuazione del bene comune.
Il lavoro è cooperazione e corresponsabilità.
Infatti proprio nell’attività lavorativa sperimentiamo come ci sia
tra noi e gli altri un necessario rapporto di mutua intesa e di solidarietà
operativa, senza il quale nessuno potrebbe perseguire una risposta ai propri
bisogni e neppure il fine della prosperità economica.
Il senso sociale del lavoro sta nel generare e dilatare le correnti
dell’agire solidale, tendendo a trasformare le dinamiche di competizione in
dinamiche di cooperazione. Con ciò si schiude anche il senso politico del
lavoro, che è quello di una partecipazione corale all’allestimento delle basi
per la vita di tutti e che ne fa uno dei fondamenti della democrazia.
Perciò colpire il lavoro significa lacerare il tessuto di una
società, promuovere il diffondersi di una mentalità da schiavi e mandare in
rovina la democrazia.
Il lavoro è, deve poter essere, se condotto in condizioni di
rispetto della dignità umana, un atto d’amore.
Simone Weil ha ricordato che esiste una “spiritualità del lavoro” (La
prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana,
Edizioni di Comunità, p.87), il quale non può ridursi a mera fatica e a motivo
di sfruttamento. Il lavoro, per lei, esprime il pensiero, la libertà, la
responsabilità, la cura. È mediazione materiale e spirituale tra la nostra
creatività e la bellezza del creato, è dedizione, servizio rivolto a qualcuno,
non solo alla realizzazione di qualcosa.
Perciò colpire il lavoro significa
soffocare le energie vitali dell’amore umano, mortificare le persone in quanto
hanno di più prezioso e originale.
Per tutte queste ragioni è chiaro che l’economia, come d’altra
parte la politica, non è affatto una sfera completamente indipendente, perché
invece deve essere fedele alla dignità umana, così come deve accettare un
orientamento etico e un quadro giuridico normativo che impediscano il suo
volgersi contro la società. (Roberto Mancini)
Il lavoro in Italia è visto più come un problema da risolvere che
come un mezzo per realizzarsi, una fonte di soddisfazioni personali.
L’offerta di lavoro è molto bassa, tanto a causa dell'economia,
quanto della mentalità degli italiani. A differenza del mercato del lavoro di
altri Paesi più avanzati, molto elastico e vario, il mercato italiano offre
accanto alla possibilità di un lavoro indipendente (una professione), solo due
tipi di impiego:
1-un lavoro fisso, spesso statale
2-un lavoro precario (nell'industria privata o nelle società di
servizi).
Quindi, o si è assunti stabilmente e, in particolare con un lavoro
statale, si può essere sicuri di non essere mai licenziati o trasferiti, o si è
assunti solo temporaneamente, con brevi contratti, che non garantiscono nessun
tipo di stabilità. Per la mentalità italiana solo il primo tipo di lavoro è un
lavoro "vero", che dà sicurezza. Molti, specialmente i giovani, si
devono accontentare di lavori saltuari, senza alcun tipo di sicurezza.
Anche avere un lavoro saltuario, di fronte ad un mercato che offre
pochi sbocchi, è fonte di insicurezza e di insoddisfazione. La prospettiva,
infatti, di poter ritornare ad essere un disoccupato da un giorno all'altro, e
di non essere poi in grado di trovare un'occupazione nuova in breve tempo,
spaventa molti giovani che preferiscono appoggiarsi alle famiglie di origine
per un tempo esageratamente lungo.
Per quanto riguarda specificatamente la disoccupazione giovanile, il
prof. Pietro Giovannini dell’Università di Torino, rileva: “A giugno (2013) in
un convegno il ministro del Lavoro Enrico Giovannini aveva sostenuto che il
tasso di disoccupazione- che in Italia aveva ormai superato il 35 per cento
della forza lavoro- era una statistica fuorviante. Nell’ultimo bollettino Istat
il tasso di disoccupazione giovanile, calcolato per i giovani tra 15 e 24 anni,
è addirittura arrivato al 40 per cento. Sulla prima pagina del Corriere
della Sera, un autorevole giornalista come Dario di
Vico rilancia l’idea che il tasso di disoccupazione al 40 per cento è davvero
una statistica sbagliata, e ritiene invece che si dovrebbe tagliare la testa al
toro e comunicare “correttamente il dato del’11,1 per cento di disoccupati e
non quel 40 per cento o giù di li che ci fa accapponare la pelle ogni volta”...
Il tasso di disoccupazione è calcolato dall’Istat da più di un
ventennio secondo la definizione internazionale elaborato
dall’International Labour Office. Un lavoratore viene considerato disoccupato
se nel momento dell’inchiesta si trova simultaneamente in tre condizioni: i)
nella settimana precedente l’inchiesta non ha lavorato nemmeno un’ora, ii) ha
esplicitamente cercato un lavoro ed iii) è immediatamente disponibile a
lavorare. In Italia i giovani in queste condizioni sono circa
seicentosettantamila. I giovani occupati sono invece un po’ più di un milione.
Questi numeri sono incontrovertibili. La forza lavoro è definita in
tutto il mondo dalla somma dei disoccupati e degli occupati, e per i giovani è
pari a circa 1,6 milioni. Il tasso di disoccupazione è quindi definito come il
rapporto tra il numero dei disoccupati e il totale della forza lavoro. In
Italia questo numero è pari al 40 per cento, poiché seicentosettantamila diviso
1,6 milioni risulta pari a circa 0,4.
È certamente sbagliato- come giustamente rileva di Vico- sostenere che 40
giovani su 100 tra i 15 e i 24 anni sono disoccupati. Per orientarci in questi
numeri occorre ricordare che la maggior parte dei 6 milioni di giovani italiani
è statisticamente definito fuori dalla forza lavoro, o perché studente a
tempo pieno o- più tristemente- perché non studia, non lavora e non cerca
nemmeno un lavoro. Secondo di Vico il tasso di disoccupazione corretto sarebbe
quello ottenuto dividendo il numero di disoccupati per il numero di giovani
nella popolazione, arrivando quindi all’11 per cento circa da lui indicato.
Si potrebbe facilmente sostenere che anche il numero proposto da di Vico non va
bene, perché non tiene conto dei giovani che hanno smesso di cercare un lavoro
perché scoraggiati o dei giovani non occupati che cercano lavoro ma non sono
disposti a lavorare perché studenti, o ai giovani occupati part-time in modo
involontario. Se vogliamo, possiamo proporre decine di statistiche sulla
disoccupazione. Ma diventa davvero una discussione semi-accademica. O
addirittura semi-seria.
Alla fine, invece di proporre nuove misurazioni, sarebbe molto più importante
capire perché il tasso di disoccupazione giovanile – che in Italia cinque anni
fa era pari al 18 per cento – sia ora salito al 40 per cento, e perché
probabilmente non tornerà al livello del 2007 nei prossimi dieci anni. Oppure
chiederci perché la stessa statistica è pari al 10 per cento in Germania
e in Austria?
Perché la disoccupazione giovanile non è un problema statistico, ma
è davvero uno drammi del paese.”