Una
distinzione tra le tecniche individuali e le tecniche collettive della
nonviolenza è utile per la distribuzione del materiale, e anche per vedere più
chiaro lo sviluppo di tale strategia; tuttavia e da avvertire che una distinzione
netta è impossibile, non solo perché ciò che fa un individuo può esser fatto da
un altro individuo al suo fianco, e da un altro e da molti altri, ma anche
perché le tecniche collettive della nonviolenza alla loro volta hanno bisogno,
e di una capacità di iniziativa e di slancio generata da una consapevolezza
individuale, quale che sia il mondo d’attorno. La nonviolenza è la
valorizzazione dell’individuo, nei due significati: per rispetto e l’affetto
all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni individuo; per il
suscitamento delle energie profonde in ogni individuo, anche modesto, anche
fisicamente insufficiente e socialmente insignificante, che, con il metodo
nonviolento, può dare, invece, un contributo prezioso.
L’atto del tu
Si può,
dunque,dire che la prima tecnica nonviolenta da esaminare è quella del tu, del
rivolgersi con l’animo e con l’azione ad un singolo individuo,in modo da
interiorizzarlo, da sentirlo come prossimo,come sé esteso. Anzi l’atteggiamento
è tanto importante, che lo sia può vedere come più che una tecnica, ma la
premessa di molte tecniche , un orientamento dell’anonimo. Realmente l’atto del
tu va concretando con costanza ed esattezza,va ripreso e rinnovato tutte le
singole volte, con la volontà di far quello e non altro. Inoltre bisogna
osservare che se la nonviolenza sta nell’attuazione del singolo tu, nella
interiorizzazione viva di un individuo, l’orizzonte generale della nonviolenza
si intravede quanto il tu resta non singolare, ma è la disposizione a
rivolgerlo anche ad, altri,a molti, possibilmente e progressivamente a tutti è un tu non di scelta e di preferenza, ma un tu-tutti. La nonviolenza si
presenta molte volte alla coscienza come una legge, un dovere o un orientamento
di massima, che trae la sua forza, non dalla considerazione della conseguenza
che derivano dall’atto di nonviolenza, quanto invece da un preliminare
sentimento della realtà di tutti
esseri.
Un detto
attributo a Gesù Cristo, ma che non si trova cosi formulato nei Vangeli, è¹: “Vedesti il tuo fratello,vedesti
il tuo Dio.”
Commentava
Ernesto Buonaiuti²:
Noi saremmo presi, alla contemplazione dell’altro da noi,da un’onda così impetuosa
di apprensione sgomente e di commozione affascinata, se il nostro spirito non
fosse stato preliminarmente percosso dalle impressioni molteplici che vi
suscita, improvvise e irrompenti, il contatto sconcertante, per le stesse sue
possibilità misteriose, con il nostro
fratello. È dalla sua anima che noi attingiamo, prima che da ogni altro oggetto
sottoposto a nostro intuito prefazionale, il senso della ripulsione e
dell’attrazione, del maestoso e del tremendo, del fascino e dello spavento.
La cosa,
detta non nei termini del mistero e del sacro luminoso, ma in forma razionale
enuncia che per distinguere tra le cose gli esseri che vogliamo
considerare persone, è necessario un atto, una decisione, altrimenti gli
altri sarebbero cose, mezzi del mio io. Dice Guido Calogero³:
L’esistenza degli è termine non di constatazione, ma
di azione, è il vero e proprio prodotto della volontà morale dell’io. Niente
forza me a riconoscere gli altri: né l’assoluta necessità del mio essere, che
il ignora affattò, né la relativa
necessità di quanto empiricamente costatato o linguisticamente intendo, che mi
attesta le persone – cose, non le persone-io. Posso riconoscerli e non
riconoscerli: per riconoscerli, debbo volerlo. Ma questa è appunto la mia
volontà morale.
E siccome l’atto di nonviolenza verso un individuo,
esprime nel modo più altro la volontà di non considerarlo un mezzo, una cosa,
qui si vede con maggiore chiarezza che l’apertura al tu non è casuale, ma è un
altro esercizio, che può anche sue tecniche nel costituirsi e nello svolgersi.
Prima di affrontarne una rapida analisi dobbiamo guardare a quali esseri è
rivolto il tu nonviolento: tali esseri se sono
prevalentemente di esseri umani, quelli attualmente o potenzialmente
capaci di razionalità, altre volte sono anche di esseri subumani, esseri, in
viventi quale che sia la loro vita en quanto viventi,capaci di provare il dolore
della violenza, che può perfino stroncarne l’esistenza. Questo vuol dire che
mentre per le cose la nonviolenza può consistere nell’urlare per una sano
motivo,limpidamente e rettamente fondato – e questo è l’unico modo per non
recar loro un’offesa, - per gli esseri viventi l’orientamento generale potrebbe
essere di non recar loro dolore o distruzione
della vita.
La zoofilia e il vegetarianesimo
È noto che le ,manifestazioni di zoofilia risalgono
molto indietro, per es , nell’india antica, e si sono costituite in tradizioni
imponenti o si sono date espressioni
meno continuate ma potenti, anche in Occidente.
Buddha nel superamento dei sacrifici religiosi del rito e nell’affermazione di un’etica di
amore in tutte le direzioni e di compassione per ogni essere vivente, poneva
come primo de cinque divieti questo: “Non uccidere alcun essere vivente.”
È commentava :
Un uomo di buona condotta deve evitare di
distruggere qualsiasi vita, deve deporre il bastone e la espada, essere pieno
di modestia, di pietà di compassione, gentilezza verso tutti …Egli non inganna
alcun uomo. Mettendo da parte la diffamazione,egli si astiene dalla
calunnia:non ripete storie raccontate a detrimento de un altro, ma vive facendo
da legame fra coloro che son divisi,incoraggiando gli amici,promovendo la pace,
amando la pace …
L’etica del non uccidere gli esseri subumani era
sentita così profondamente che l’atre corrente religiosa, e più austera degli
jainiti istituì ospedali per gli animali, mantendovi in vita anche le bestie logore;
i monaci buddisti avevano cura nella primavera di non camminare dove
brulicassero piccoli animali l’imperatore Asoka del terzo secolo avanti Cristo,
divenuto buddista, fecce editti nei
quali annunciava il tamburo della pietà al posto del tamburo della guerra, e
proclamava che il non far male ad esseri viventi, è cosa buona.
Più note a noi sono le espressioni della “ carità”
di san Francesco verso tutte le
creature,le quali manifestano la nonviolenza oltre che nel desiderio de evitare
loro il dolore, nell’ appassionamento ad unirle, a raccoglierle tutte
compresenti, nel che è indubbiamente un
grande progresso sulla semplice pietà. Valga aggiungere agli aneddoti così noti
ed esemplari, qualche tratto forse meno conosciuto. San Francesco raccomandava che
negli orti si lasciasse un pezzo nel
quale non fossero poste le erbe da mangiare, ma liberamente erbe che a loro tempo portassero i “fratelli
fiori” ; se poteva rimetteva nell’acqua i pesci ancora vivi dopo che erano
estati presi, raccomandando loro di non farsi prendere; avendo salutato
dolcemente le pecore in un campo come era solito fare, tutte corsero a lui
rendendogli il saluto.
La buona volontà di estendere il rapporto di
simpatia con gli esseri subumani e conseguentemente il proposito di ridurne la
strage, specialmente di quelli più sensibili al dolore e di una vita più
complessa, è uno dei modi di attuare la nonviolenza, per lo meno
progressivamente, come non può non essere questo campo. Il filosofo Piero
Martinetti così terminava nel 1920 un
suo saggio su la psiche degli animali:
Giova
sperare che, quanto penetrerà in noi un più vero concetto della natura
dell’animale e dei suo rapporti con noi, esso aprirà anche al nostro occhio
spirituale un regno dello spirito più vasto che il regno umano:allora gli
uomini riconosceranno che vi è fra tutte le creature un rapporto ed
un’obbligazione vicendevole, ed estenderanno, senza sforzo , a tutti gli esseri
viventi quei sensi di carità, e di giustizia, che ora considerano come dovuti
soltanto agli uomini.
Queste parole sono confermate dall’esperienza di
chiunque abbia mostrato una disposizione benevola agli animali dalla vita più
complessa, con le cautele necessitarie
verso quelli che nella formazione storica della loro specie hanno
sviluppato particolarmente la crudeltà,del resto correggibile con una nuova e
diversa formazione storica (associazione con altri, alimentazione ecc.) Egli ha
accertato quali tesori di simpatia, di amicizia, di fiducia fedeltà sviluppano,
tesori che arricchirebbero la vita degli uomini, troppo ancora isolati ed
egocentrici. In questo campo della zoofilia si afferma una tecnica, che è una
vera e propria tecnica, fornita di molte nozioni scientifiche e pratiche,e con
un’ esperienza ormai millenaria: L’alimentazione vegetariana. “A parte da
coloro che la praticano per motivi di igiene o di povertà,gli altri vegetariani
adducono principalmente il motivo di risparmiare il macello di un certo numero
di animali, di fare a meno della caccia, di stabilire un rapporto del proprio animo
che sia non di strage, ma di simpatia e anche collaborazione, con numerose
categorie di esseri viventi. In questo modo anche nel compiere un atto vitale
come è il mangiare, viene portato un ideale, un di più, un’aggiunta del
l’anonimo.Naturalmente ciò non è visto come tutto, ma come fare qualche passo,
e nella vita umana è più possibile fare con buona volontà dei passi, che
stringere il tutto. I vegetariani che lo sono per nonviolenza, confermano che
si forma, di solito, in loro una più benevola disposizione dell’animo, e non
tanto per la qualità del cibo ingerito, quanto per la quotidiana decisione nei
riguardi di alcuni animali, non più considerati nel modo più crudele come
mezzi.
Per la zoofilia riportiamo la carta internazionale
degli animali,che fu pubblicata dall’ International cultural Forum,
Delhi,India, nel 1953, e che è uscita tradotta nel Numero unico della Società
vegetariana italiana intitolato perché uccidere per nutrirci?del luglio 1963.
Attraverso le epoche, santi, savi ed intellettuali hanno sentito ed insegnato
compassione per tutte le creature ed hanno richiesto vita divina per tutte.
All’uomo fu dato domino sugli animali, è certissimo che ciò non implica
tirannia. Si dovrebbero piuttosto parlare di custodia, cioè di salvaguardia
degli interessi degli esseri che sono senza aiuto.Noi abbiamo, quindi stabilito
di accettare i seguenti due principi:
1.
IL riconoscimento della reale parentela dell’uomo con le razze inferiori
implica l’estensione della sfera dei doveri morali,in conseguenza a tale senso
di parentela.
2.
È dunque ingiusto infliggere sofferenze,direttamente o indirettamente ad
ogni essere senziente,meno quando può essere addotto giusto motivo di
autodifesa o di assoluta necessità.
La piena applicazione dei seguenti punti può essere raggiunta
solo per gradi, quando l’uomo spiritualizza la sua mente,riconosce l’unicità
della vita nel suo processo essenziale ed ascende ad una veramente più alta
civiltà.
1)
Gli animali hanno diritto di vivere le loro proprie vite,ed uccidere un
animale è deplorevole. Ma ciò è inevitabile nell’attuale immaturo stato di
evoluzione. Nel frattempo, tutti gli animali, domestici o selvatici, dovrebbero
essere protetti per quanto è possibile
dalla crudeltà e dalla sofferenza causale dallo spietato trattamento da parte
dell’uomo.
2)
Quando è necessario uccidere un animale (dopo aver preso in
considerazione le alternative possibile),ciò deve essere fatto nel modo più
umano noto alla scienza e da persone autorizzate bene addestrate nelle tecniche
umane. Questo da applicarsi anche ai cosiddetti insetti ed animali nocivi, che
dovrebbero essere sterminati in via
ufficiale quanto è possibile, prevenendo così il pubblico in generale ed in
particolare i bambini dal commettere atti di crudeltà.
3)
IL trasporto degli animali dovrebbe essere fatto il più umanamente
possibile; ed in impieghi dove l’uso degli animali implica
sofferenza,condizioni innaturali ed in carcerazione sotterranea essi dovrebbero
essere sostituiti con mezzi meccanici.
4)
Sports crudeli di ogni genere,come la caccia, i combattimenti di tori,ecc. l’uso di animali sulle scene e il
cinematografo (eccetto per scopi d’istruzione dove si possa attestare dall’
impresario che non s’infligge paura o pena nell’ operazione) , nei circhi equestri,
la cattura degli animali per il giardini zoologici , per il serragli per le
pellicce e per altro dovrebbero essere abbandonati.
5)
Gli animali non dovrebbero essere fatti partecipare nella guerra, né in
quelle pratiche che mettono un animale in guerra con un altro. Né dovrebbero
essere uccise per sacrifici religiosi.
6)
La vivisezione ed ogni esperimento sugli animali causanti pena e (o)
sofferenza, sia atomici, farmaceutici ,psicologici o altro genere dovrebbero
cessare: è da infliggere la pena solo nel caso di beneficio per l’animale
stesso, col massimo uso di anestetici e
di mezzi di cura naturale. Ospedali e dispensari ambulanti,gratis per gli
animali dei poveri, dovrebbero venire istituiti in ogni luogo,con disposizione
riguardo a randagi.
7)
Tutti gli animali dovrebbero avere buone
condizioni necessarie di vita, cioè buon cibo per mantenerli in salute,
buoni alloggiamenti e buona compagnia e il massimo di libertà che i bari loro
proprietari possono concedere.
Distruggere umanamente gli
animali affetti da malattie incurabile ed infermi per vecchiaia. In caso di
vecchiaia in buona salute, si potrebbero provvedere soggiorni di riposo,
possibilmente in compenso del debito che noi abbiamo verso gli animali per il
loro contributo alla costruzione della nostra civiltà. Si dovrebbe agire dove e
necessario, per la conservazione della vita al stato naturale.
8)
Il pubblico dovrebbe essere istruito sui vantaggi, per la salute e per
l’evoluzione di una dieta più umana e del disuso di articoli di abbigliamento
che richiedono grande sofferenza degli animali. Metodi naturali di cura e
sostituzione umane per il cibo ed il vestiario si possono ottenere oggi in
abbondanza.
9)
Lo studio della vita degli animali e del loro appropriato trattamento
dovrebbe essere incluso nei programmi di ogni scuola e delle organizzazioni
giovanile. Gli antireligiosi e culturali dovrebbero rendersi conto della loro
responsabilità davanti all’educazione umana sia degli adulti che dei piccoli.
10)Un ministero di stato per
l’assistenza degli animali,comprendente persone de ben note simpatie umanitarie
e con buono stato di servizio,dovrebbe essere istituito in pieno al corrente di
tutte le questioni relative agli animali. La gentilezza verso gli animali
dovrebbe venire inculcata di buon’ora nei bambini per impedire crudeltà verso
gli insetti ed altre piccole creature. Si può mettere in rilievo che anch’essi
hanno speso un ruolo utile nella vita. Per esempio. Carlo Darwin ci fece vedere
l’incalcolabile servizio reso all’umanità dai lombrichi aerando il suolo e così
favorendo la nostra provvigione alimentare.
L’india e le comunità buddista essendo ideologicamente contro
l’uccisione , il problema del massacro degli animali da parte dell’uomo non si
pone per molta gente dell’Oriente.
Il superamento della
vendetta e del risentimento
Una delle tecniche
fondamentali della nonviolenza verso gli asseri umani è il superamento della
vendetta e del risentimento. In diverse civiltà storiche si è cercato di
concretare l’atteggiamento dell’ uomo che non si fa determinare dagli altri, ma
conserva e sviluppa una disposizione cerretta, aperta, benevola, quale che sia
la condotta degli altri, che dà il bene anche
se riceve il male; che per un senso è rivendicazione della propria
autonomia, e per un altro senso, è fiducia in un’unità che unisce, malgrado
tutto. Dice Socrate nel dialogo platonico critone: “ Né si deve prendere
ingiustizia né far male ad alcun uomo, neanche a chi abbia qualsiasi male
patito da costoro._” Nelle profezie di Isaia è la rappresentazione del “servo
di Dio “ con queste linee:
maltrattato, tutto sopportava umilmente, e non apriva la
bocca,com’agnello menato allo scannatoio; come pecora muta dinanzi a chi la
tosa, non apriva la bocca.
Nella tradizione indiana
molte sono le espressioni di questa bontà, malgrado tutto, anche in esseri non
umani:
L’albero non rifiuta riparo
neppure all’uomo che viene per tagliarlo.
Se insultato, rispondi con
una benedizione.
Non rimproverare, se
rimproverato; non insultare gli altri; persino gli dèi sono ansiosi di entrare
in relazione con colui che, colpito, non restituisce il colpo, e che non cerca
di nuocere neppure al malvagio che lo danneggia.
E nella predicazione
evangelica:
Voi avete udito che fu detto
agli antichi:”Non uccidere”; e chiunque avrà ucciso sarà sottoposto al
tribunale; ma io dico: chiunque si adira contro al suo fratello sarà sottoposto
al tribunale; e chi avrà detto al suo fratello”Raca” sarà sottoposto al
sinedrio; e chi gli avrà detto “pazzo”sarà condannato al fuoco della geenna. Se
dunque tu stai per offrire la tua offerta sull’altare, e quivi ti ricordi che
il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia quivi la tua offerta
dinanzi all’altare, e va prima a riconciliarti col tu fratello; poi, torna ad
offrir la tua offerta.
Voi avete udito che fu
detto: “Occhio per occhio e dente per dente”; ma io vi dico:Non fate resistenza
al malvagio; anzi se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche
l’altra;e se uno vuol chiamarti in giudizio per toglierti la tunica, lasciagli
anche il mantello.
Voi avete udito che fu
detto: “Ama il tuo prossimo” e odia il tuo nemico; ma io vi dico: Amate i
vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano, affinché siate figlioli
del Padre vostro che è nei cieli;poiché Egli fa levare il suo sole sopra il
malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sui ingiusti. Perchè, se
amate quelli che vi amano, che premio ne avete ? Non fanno anche i pubblicani
lo stesso? E se fatte accoglienza soltanto ai vostri fratelli, che fatte di
singolare?Non fanno anche i pagani altrettanto ? Voi dunque siate perfetti
com’è perfetto il Padre vostro celeste.
Non c’è bisogno di ricordare
il rilievo che ha per Gesù Cristo il perdono, che è l’espressione dell’umiltà
di sentirsi a propria volta bisognosi di perdono, e anche il rifiuto di farsi
trascinare nel meccanismo dell’azione e reazione, del risentimento della
vendetta. E invece l’atto positivo di aggiungere veramente qualche cosa di
propia e di celeste a ciò che è il mondo con le sue percosse.
Forse quella posizione
stessa per cui Gesù diceva: “_C’è più felicità nel dare che nel ricevere”; e
per cui trasformava l’insegnamento di non fare agli altri ciò che non vuoi sia
fatto a te, nella forma positiva:”tutte le cose che voi volete che gli uomini
vi facciano, fatele anche voi a loro.”
San Paolo vede che la carità
“non tiene conto dei torti che le fanno.”
San Francesco, imitatore di
Cristo, riprende l’insegnamento e stimola alla pratica:
Colui ama veramente il suo
nemico che non si duole dell’offesa che quello gli ha fatta, ma soltanto arde
per il peccato sull’anima dell’offensore per amor di Dio, e gli mostra con le
opere il suo amore.
E Tolstoi e Gandhi sono perfettamente sulla stessa
linea ( di amare coloro che ci odiano).
Richard Gregg, autore del
libro il potere della nonviolenza, spiega il senso di sorpresa nel violento al
vedere che non c’è dell’altra parte la reazione parimenti violenta:
La resistenza nonviolenta
agisce come una sorta di ju-jutzu morale. La nonviolenza e la buona volontà
della vittima operano come opera la mancanza di un’opposizione fisica in chi
usa lo ju-jutzu fisico, che fa perdere all’attaccante il suo equilibrio morale.
Egli improvvisamente e inaspettatamente perde l’appoggio morale che la consueta
resistenza violenta del più delle vittime gli presenterebbe.
Si sente insicuro a causa
della novità della situazione e per la sua ignoranza di come
affrontarla. Egli perde il suo equilibrio e la fiducia in se stesso. La vittima
non solo lascia venire l’attaccante, ma, per dir così, lo sospinge con
gentilezza, generosità e sofferenza volontari,in modo che l’attaccante perde
del tutto l’equilibrio morale .Chi
pratica la resistenza nonviolenta, sapendo che cosa egli sta facendo ed avendo un proposito più creativo e
forse anche un più chiaro senso degli ultimi valori che il suo avversario,
mantiene il suo equilibrio morale. Egli usa la leva di una saggezza superiore
per sottomettere la rozza forza diretta o violenza fisica dell’avversario.
Preghiere e atti di culto
Ci conviene ora di
soffermarsi un po’ sull’ uso che la nonviolenza può fare delle parole, in modi
che sono vere e proprie te tecniche. Bisogna comunicare senz’altro con la
preghiera, quando essa tende ad agire sugli altri, con la mediazione di Dio,
per ottenere una cosa altamente lecita, invece di ricorrere all’offesa o alla
difesa violenta.Un esempio direi sublime di questa preghiera è nei Promessi
Sposi, quando Lucia è rapita dagli uomini armati dell’Innominato:
Accorata, affannata,
atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non facevano nessun colpo,
Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini, e può quando
voglia intenerire i più duri…Trasportiamoci al castello dove l’ infelice era
aspettata. Era aspettata dall’ innominato,
con un’inquietudine con una sospensione d’anonimo insolita. Preghiera,
atti di culto, formule ed atti magici possono esser compresi tra le tecniche
nonviolente quando essi mirano ad esercitare sugli altri un potere che sia
sempre alla luce di un valore comune, tale cioè che valga per colui che compie
l’atto e per colui verso il quale è diretto, e verso cui si potrebbe usare la
violenza, se si volesse.La rinuncia all’uso della violenza, o della maledizione, che è il suo surrogato, vien
fatta affidando alla mediazione divina l’efficacia di indurre l’atro al bene.
La persuasione
E qui possiamo passare dal
campo della persuasione indiretta al campo della persuasione diretta,verso
l’altro.Noi dobbiamo lasciar fuori dalla nostra considerazione tutte quelle
forme di persuasione, che sono, sì, nell’apparenza, senza violenza, ma che
nella sostanza sono seduzione o coercizioni, come si dice, morali.Una tecnica
nonviolenza non può contraddire alla definizione stessa della nonviolenza come
apertura alla esistenza, alla libertà,allo sviluppo di ogni individuo, cioè
come proposito di considerare l’altro come fine, e non come mezzo; a ciò
conferisce certamente la disposizione a
sentire ciò che unisce, e che fu espressa così da Giovanni XXIII:
La provvidenza mi trasse dal
mio villaggio nativo e mi fece percorrere le vie del mondo in Oriente e in
Occidente, accostandomi a gente di religione e di ideologie diverse, in
contatto coi problemi sociali acuti e minacciosi, e conservandomi la calma e
l’equilibrio dell’indagine e dell’apprezzamento, sempre preoccupata – salva la
fermezza ai principi del Credo
cattolico e della morale--, più di
quello che unisce,che di quello che separa e suscita contrasti.
Molto si è discusso sui
poteri e sui limiti della persuasione,che per i greci era anche una dea che non
ha mai subito rifiuti. E molte volte si è avuta differenza verso la
persuasione, accusandola di formarsi in modo non limpidamente razionale e per
dimostrazione, ma coinvolgendo il sentimento, la commozione, il piacevole.
Nonviolento è colui che imposta il dialogo come una mutua collaborazione, nella
quale ciascuno partecipa liberamente alla indagine, in un alterno sforzo, come
dice Guido Calogero, del capire e del farsi capire,dell’interpretare e del
comunicare.
Ciascuno di noi cerca, volta
a volta di capire l’altro, cioè di mettersi dal punto di vista da cui l’altro
vede le cose, ricostruendo il meglio possibile la sua visione, e di farsi
capire dall’altro, cioè di condurre l’altro ad assumere l’angolo visuale suo,a
rifare in sé il suo mondo d’esperienza,a vedere come lui… Il dovere di noi tutti,
di rispettare la libertà degli altri comprendo le loro verità secondo la loro
coscienza, è nello stesso tempo la
verità suprema, quella che permette a tutti gli uomini di chiamarsi fratelli.
Questa è la ragione per cui
Socrate considerava “quale illecita violenza l’unilaterale pressione
dell’oratoria sofistica, e controbatteva Gorgia che voleva servirsi del
“persuadere con i discorsi” per “ poter prevalere in ogni specie di assemblea
politica,” che non è altro che volontà di potenza.
Il dialogo
Il dialogo, l’autentico
dialogo che presuppone la propria disposizione a lasciarsi convincere
dall’interlocutore se egli ci riesce,
è,dunque, una delle tecniche della nonviolenza;e lo è il discorso persuasivo
quando più è un’onesta e chiara
presentazione degli elementi oggettivi
di una questione, nessuno escluso per astuzia o sotterfugio. Non è da
dire che ogni discorso, ogni persuasione, sia violenza, sia costrizione. In
questo modo noi dovremmo mal giudicare anche ognuno che ci ha palato, che ci a
dato i suoi scritti; ma non possiamo dire che cosa saremmo noi senza quei
discorsi. Il discorso è legittimamente in accusabile di violenza,quanto più si presenta come un semplice contributo e
chiarimento, quanto più lascia libero l’ascoltante di decidere per suo conto, e
anche per questo il discorso
nonviolento deve essere sobrio e non pesante, non ripetuto alle stesse persone
innumerevoli volte; alieno per un verso dalla minaccia,e per altro verso dalla
menzogna.
La nonmenzogna è una delle
tecniche della nonviolenza: essa non significa dire tutto a tutti,il che
sarebbe anche un’immane fatica, ma è il riconoscere che ciò che noi pensiamo
tra noi è realmente a disposizione, quando occorra, di tutti, e che non c’è
altra alternativa che il silenzio, e non quella di la menzogna,che esclude
l’altro dalla fondamentale unità e vicinanza che deve esserci tra tutti.
Si può ripetere qui come
carattere generale che la nonviolenza tiene sommamente ai mezzi. Cioè al “come” si raggiunge un fine ; e perciò
non può ricorrere ai mezzi di una “persuasione occulta” che consegua lo scopo
di far acquistare un oggetto o di far votare per un candidato o di ottenere
l’assenso, seducendo un individuo; né può approvare minimamente la tortura,
così diffusa anche oggi, e tanto meno la pena di morte, che, tra l’altro, ha
anche una scarsa capacità persuasiva se nelle esecuzione capitali di ladri, che
si svolgevano in Inghilterra davanti ad una grande folla di spettatori e
spettatrice,osserva koestler, moltissimi, in mezzo a quella folla,erano ladri
che rubavano le borse!
Che la nonviolenza porti con
sé tecniche per ridurre grandemente la costrizione, si può vedere anche nel
metodo educativo. Si sono già visti diversi tipi di azione che hanno un valore
educativo, tipi di azione alieni dal colpire, abbattere, coercire l’altro. La
parola è indubbiamente uno degli strumenti fondamentali,quando sia usata nel
pieno rispetto dell’altro,senza ledere la sua esistenza,la sua libertà,il suo
sviluppo. Di recente si è potuto leggere nei giornali il fatto di padre
Gauthier, un ex-prete operaio,recatosi a costruire, con alcuni compagni, case
per i poveri a Betlemme:
Quando era cappellano dei
partigiani francesi, padre Gauthier fu preso e messo al muro. Un ufficiale delle SS teneva la pistola puntata
contro di lui. Padre Gauthier aveva
ventotto anni. Guardo diritto
l’ufficiale, come fa sempre con l’ombra di un sorriso, e gli disse: “tu non mi
conosci,ma io conosco te: tu sei un uomo .” L’ufficiale si guardò in giro
disse: “vattene,corri”
L’esempio
L’altro strumento
fondamentalmente è l’esempio. Quanto più la coercizione viene ridotta, tanto
più c’è bisogno di presentare esempi
che abbiano,per sé stessi, una efficacia persuasiva, talvolta anche fuori
dell’ordinario. Poteva sembrar facile alle alte classi della società romana
dell’antico Impero abbandonarsi alla corruzione, e nello stesso tempo
imprigionare e giustiziare i cristiani che esprimevano un duro giudizio morale.
Anche nell’educazione dei fanciulli la teoria ormai e l’ esperienza insegnano
che la coercizione e la violenza abituano spesso all’ipocristia e alla speranza
di potersi rifare su qualcuno appena possibile, e incattiviscono i migliori. Ma
è indubbio che se non si batte,bisogna
far molto, e sempre con il criterio dell’aggiunta,cioè di enunciare e
presentare direttamente o indirettamente il bene, piuttosto che di impedire e
impedire e proibire duramente.
Il digiuno
Vediamo ora tecniche di
azione nonviolenta come esempio o sacrificio,e cominciamo con il digiuno. Prove
dell’uso di questa tecnica le abbiamo avute anche vicino a noi recentissime: i
digiuni di Danilo Dolci in Sicilia. Essi,anche di lunga durata,sono stati
condotti per questi motivi. Primo: Per richiamare l’attenzione di chi potesse
fare qualche cosa per casi dolorosissimi e trascurati, sia delle autorità che
della popolazione circostante. Secondo: Per acuire la tensione popolare e
purificarla,prima di intraprendere
un’azione comune da condurre con il metodo nonviolento. La prima volta Danilo
Dolci annunciò il digiuno con una lettera aperta agli abitanti di trappeto, il
14 ottobre 1952:
L’inverno scorso ha visto
con i miei occhi anche un neonato morire perché affamato, tra centinaia di casi
dolorosissimi… Possiamo evitare che la morte spadroneggi… C’e un delitto di
omissione verso questi nostri fratelli, di cui dobbiamo pentirci e redimerci.
C’è da muoversi subito. A estremi mali estremi rimedi. Voglio fare penitenza
perché tutti si diventi più buoni. Prima che muoia un altro bambino di fame,
intanto, voglio morire io. Da oggi non mangerò più finche non ci saranno arrivati i trenta milioni necessari
a provvedere subito il lavoro a più bisognosi e l’assistenza più urgente agli
inabili. Allora i dolci era al primo suo atto del genere, essi spiega il tono
ultimativo, che egli ha poi trasformato in una prova e invito di raccoglimento
a tutti prima di una manifestazione, nella quale soprattutto egli raccomanda di
evitare ogni violenza. Nell’ultimo digiuno per la diga del Bruca a Roccamena,
il Dolci ha avuto compagni, e l’atto è
fatta appello,cosciente di operare una forma di “lotta nonviolenta”tanto è vero
che aderì il Comitato dei Centro della zona :
Sappiamo che per realizzare
il bene di tutti bisogna fare sacrifici: se no si ricorre ad essi nessuno fa
attenzione a quello che domandiamo. Per questo abbiamo deciso digiunare.
Vogliamo chiedere e ottenere giustizia nei modi più pacifici e più civili, e
condannare la violenza e la lupara.
Al digiuno a Roccamena si
associò anche Peter Moule, del Comitato inglese dei Cento, dichiarando di partecipare
al digiuno per manifestare il sostegno e la solidarietà del Comitato inglese
dei Cento, e annunciando che nello stesso tempo in Inghilterra parecchi membri del Comitato dei Cento avrebbero
digiunato per dimostrare la loro solidarietà:
Sono qui, inoltre, per
cercare di dimostrare il rapporto tra la questione della pace e della guerra, e
i problemi dello sviluppo socio – economico nonviolento. In Inghilterra siamo particolarmente impegnati nell’organizzazione della resistenza
nonviolenta alla guerra e ai preparativi di guerra, soprattutto nel campo delle
armi nucleari. Qui Roccamena, l’interesse è soprattutto nello sviluppo
socio—economico nonviolento. Noi abbiamo, perciò, uno scopo comune di
importanza internazionale:
l’eliminazione della
violenza dalla società, sia la violenza sociale ed economica, sia la guerra.
Nei riguardi del digiuno
Gandhi, che pur l’usò spesso, raccomandava cautela perché il digiuno gli
appariva un’arma pericolosa che può essere usata per costringere un avversario
a capitolare contro la sua volontà e senza essere stato persuaso della
superiorità morale della posizione dell’avversario digiunate. I
digiuni di Gandhi non erano mai diretti contro qualcuno. Ma ne
riconosceva il valore come assunzione di penitenza o riconoscimento di aver
errato, come mezzo per giungere ad un’espressione più perfetta di sé ed
ottenere la supremazia dello spirito sulla carne, come disciplina prima di
iniziare una campagna di disobbedienza civile come pressione per far cessare
stragi o discordie tra i seguaci. E quando un missionario americano gli osservò
che il suo digiuno era pur una forma di costrizione verso gli altri, egli
rispose:
Si una costrizione dello
stesso genere di quella che Gesù Cristo esercita su di voi dall’alto della
croce. – e un’altra volta disse –Solo quando io ebbi esarito tutte le mie
risorse – nel senso di sforzi umani- e resomi conto della mia totale impotenza,
posai la mia testa sul petto di Dio . Tale è il senso profondo e la portata del
mio digiuno.
L a croce
Il sacrificio supremo della
croce significa per sempre l’incontro della dura stoltezza del mondo e della
testimonianza massima della nonviolenza: l’umanità per millenni ne ha tratto e
ne trae insegnamenti, ammonimenti un modello e la propagazione di un
inesauribile conforto spirituale.
L’autoincendio religioso
Conviene sostare pur
brevemente a intendere un’altra forma o tecnica del sacrificio supremo, quella
mostrata dai buddisti del Vietnam con il loro autoincendiarsi. L’altro aveva il
significato si protesta contro la persecuzione religiosa operata dal governo
del tiranno Diem. Il primo dei bonzi (che vuol dire “uomini pii”) che si
bruciarono nelle vie di Saigon cospargendosi di benzina, lasciò un testamento
nel quale, tra l’altro,diceva:
Io sottoscritto… constatando
che il buddismo nel mio paese attraversa un pericolo di gravi difficoltà…non
posso restare con le braccia incrociate per vedere il buddismo deperire;è per
questo che mi sono offerto per bruciare questo corpo provvisorio che è il mio,
in offerta a Buddha, per ricondurre la benedizione sul buddismo… Chiedo al
governo di acconsentire al principio della uguaglianza delle religioni per il
bene eterno del nostro paese.
Di tale atto si possono dare
queste spiegazioni:
1.
L’uomo pio si offre in sacrificio per ottenere un mutamento nei fatti e
nella condotta di altri;e le preghiere di coloro che assistono al rogo
volontario,sono per ottenere l’accettazione del sacrificio.
2.
Per la rinuncia all’azione violenta sugli altri, il suicidio diventa
l’estremo tentativo di protesta scegliendo tra la morte dell’altro e la
propria, la propria morte, come se la sommo di una situazione una morte sia
necessaria per mutarla; e la preghiera dei presenti si sia necessaria per
mutarla;e la preghiera dei presenti si unisce perché sia accettata e resa
efficace l’attestazione suprema di aver ragione.
3.
Per il legame di infinito amore verso tutti gli esseri,il suicidio
pubblico ha un valore di testimonianza aperta, di persuasione disinteressata,
di atto di prender su di sé la consumazione del male che viene compiuto da
altri, tanto più che la propria morte tronca il processo di purificazione del
karma, purificazione da riprendere perciò in una nuova nascita.
4.
Far cadere su chi è responsabile dell’atto del suicidio le conseguenze
dell’atto stesso,creando un karma cattivo per l’avversario, dal quale egli
debba purificarsi. Possiamo pensare che nell’atto dei buddisti del Vietnam
meridionale si incontrino due elementi: l’elemento devozionale di offerta, come
era nella tradizione indiana che vedeva nel suicidio, e per il fuoco, uno dei
riti più graditi dalle loro divinità – elemento poi penetrato dall’induismo nel
buddismo, originalmente avverso al suicidio --;e l’elemento gandhiano, del
prendere su di sé la sofferenza per il male commesso da altri. Nemmeno Gandhi
era buddista,ma il penetrare di elementi diversi nelle diverse religioni è
frequente.
Verso i morti
Non lasciamo l’oriente e
accenniamo ad una manifestazione di pietà, che si può ricondurre anche
all’infinito rispetto per l’individuo a cui si volge il tu: quando egli sia
morto. L’affettuosa pietà al suo cadavere. E stato un film orientale, l’arpa
birmana, a mostrarci il voto di quel giovane che nel dopoguerra,quando i
giapponesi pregustano la gioia profonda del tornare a casa, del riprendere le
semplici abitudini della vita nella pace delle vie e delle case, rimane invece
nell’Indocina per seppellire i cadaveri dei morti in battaglia, e si fa monaco,
col voto di restare lì, nell’infinita tristezza e tra la polvere dei campi di
battaglia sconvolti, finchè non abbia
finito la sua opera religiosa. Un’espressione anche questa di nonviolenza,
tanto persistente nella storia e nell’umanità,verso chi non può fare
violenza,ma merita un affetto dell’animo e una cura per ciò che di corporeo ha
lasciato di sè.
La non collaborazione
Nell’esame delle tecniche
della nonviolenza non abbiamo finora fatta un posto adeguato e distinto alle
tecniche che derivano dal principio della noncollaborazione. Il loro posto ci
sembra che sia qui, nel passaggio dalle tecniche individuali alle tecniche collettive. Tuttavia, anche se
la noncollaborazione collettiva ha
preso dimensioni imponenti ed ha un’articolazione compressa, non bisogna
dimenticare che il punto di partenza è stato ed è concretamente individuale, ed
ha inizi molto lontani. Per tenerci nel nostro ambito, quello della
nonviolenza, chiariremo che la noncollaborazione nonviolenta si realizza non
semplicemente quando uno dice: “No,
questa cosa non la faccio”; ma quando la
noncollaborazione non esclude il mantenimento di un rapporto di amicizia, dia
more, di vicinanza. L’idea si esprime anche con la famosa frase di “combattere
il peccato.” Cioè la non collaborazione non è totale,non esclude il tu,l’altro,
l’unità con tutti, il tu—tutti; ma esclude semplicemente di dare il proprio
aiuto all’attuazione di una cosa che non si accetta,fermo restando il rapporto
di affetto con la persona che realizza
la cosa inaccettabile. E la noncollaborazione così realizzata,viene ad
essere una specie di sollecitazione all’altro, perché si accorga di ciò che sta
facendo, e che noi consideriamo inaccetabile.
In certo senso si può dire che è una noncollaborazione collaborante, in
quanto, -e tavolta a duro prezzo-, dà all’avversario un contributo che può
avvertirlo e ance persuaderlo; e questa vicinanza all’altro compensa quella
certa freddezza che potrebbe apparire nel rifiuto della collaborazione.
Questa è la ragione per cui
tra le tecniche della noncollborazione sta la pubblicità data al proprio
rifiuto di collaborare, pubblicità in due sensi: l’uno verso la persona con cui
si viene in contrasto per la collaborazione sottratta; l’altro verso l’opinione
pubblica, perchè tutti lo sappiano. Si è già visto che chi usa tecniche della
nonviolenza deve essere attivissimo e unito con gli altri, anche se con ciò non
si vuole togliere nulla al valore della nonviolenza nel suo lato intimo e
silenzioso, de assoluta buona qualità. L’iniziativa di informare l’avversario
può essere l’estremo tentativo de persuasione della bontà della propria causa,
e nello stesso tempo l’annuncio del proprio dissenso e dell’azione conseguente.
L’iniziativa di informare gli altri è anche un riconoscimento del valore che
viene attribuito al diritto democratico delle libertà di comunicazione, di
informazione e di associazione.
La noncollaborazione può
effettuarsi nei riguardi di altre persone o nei riguardi di un’autorità, di
un’istituzione, di una legge, nel qual caso vine ad essere disobbedienza
civile.
Casi innumerevoli e continui,
ad ogni livello, esistono di noncollaborazione nella quale viene portato uno
spirito nonviolento nel modo negativo: nella rinuncia di associare la
noncollaborazione a modi violenti, e nel modo positivo: nella disposizione di
amicizia verso la persona di cui siamo avversari; ci sentiamo uniti, malgrado
in contrasto per il fatto particolare, perché riteniamo che nella persona c’è
anche altro, una capacità di sviluppo , di superare il male stesso che sta
facendo, e in ogni modo, qualsiasi cosa faccia, essa è sempre un essere della
realtà di tutti. Nel suo profondo la nonviolenza si rifiuta di chiudere una
persona nel suo agire attuale, come una cappa che lo immobilizzi in eterno. E
l’unità con tutti vale infinitamente, e perciò è da tener presente alla
considerazione di ogni agire particolare.
Non collaborare bisogna,
perché è scelta doverosa, è miglioramento e correzione della realtà, è cimento
della nostra energia e della nostra formazione, è contributo che si dà alla
vita de tutti. Il conformismo, l’omertà, la fuga dall’impegnasi giustamente,
l’adulazione, la leggerezza dello sperimentare tutto a danno di altri, il non
scrutare instancabilmente nelle situazioni per percepire dove soste un male per
l’esistenza, la libertà lo sviluppo degli individui, sono viltà gravi. L’amico
della nonviolenza sta attento anche a percepire dove esiste una violenza
cristallizzata da anni e da secoli, che non pare violenza, ma loè stata e si è
via via consolidata. Dice Martin Luther King: “La più grande tragedia di questo
periodo di trasformazione sociale non è nei clamori chiassosi del cattivi, ma
nel silenzio spaventoso delle persone oneste.”
Anche nei decenni recenti
forme di noncollaborazione, è spesso con aspetti tragici, si sono attuate, con
uno spirito di civismo spesso, cioè proprio per un rapporto vivo con i propri
cittadini, e talvolta anche con uno spirito di nonviolenza, cioè di unità
profonda con gli stessi avversari. Nell’opposizione al fascismo vi fu chi visse
la tensione di attuare la noncollaborazione, rifiutando l’iscrizione al partito
fascista, che fu da un certo anno la condizione per avere impieghi pubblici,
non associandosi a quelle forme di educazione dei giovanissimi, e infine
sottraendosi del tutto al comandi del governo fascista, perché si può non
collaborare con una legge particolare, e si può rifiutare interamente
l’autorità di un governo.
Antigone nella Tebe antica
attuò la disobbedienza verso una sola legge, quella che proibiva di seppellire,
o anche di coprire con un po’ de terra, il cadavere di uno dei suoi fratelli,
Polinice, quello che era venuto con un esercito contro la propria città ed era
stato ucciso. Nella tragedia di Sofocle Antigone difende il suo atto
richiamandosi, contro la legge di Creonte, alle leggi “non scritte”, ma che sono
immutabili (1): “Così per me che mi capiti questa sorte, non è per nulla un
dolore; ma se sopportassi che il figlio di mia madre restasse un cadavere
insepolto, di questo mi dorrei.” E mentre Creonte dice che l’uomo che fa il
bene non deve avere la stessa sorte del criminale, e che un nemico non gli sarà
caro nemmeno dopo la sua morte, Antigone replica: “L’Ade vuole per tutti leggi
eguali; chi sa se le leggi che dividono gli uomini vhe fanno il bene degli
uomini criminali sono sante presso i morti? Io non sono nata per condividere
L’odio, ma per condividere l’amore.”
Come prova dell’importanza
della noncollaboraazione, sappiamo che esiste il rimorso della collaborazione
dat6a. E noto quale tormento sia entrato nella coscienza di Claude Eatherly,
uno dei superpiloti che bombardarono Hiroshima: egli non ha pace, fa anche
stranezze. Il filosofo Gunther Anders gli ha indirizzato una lettera, che tra
l’altro dice (2):
Per noi il fatto che lei non
riesce a “venirea capo” dell’accaduto, è consolante. E questo perché ci mostra
che lei cerca di far fronte, a posteriori, all’affetto (che allora non poteva
concepire) della sua azione; e perché questo tentativo, anche se dovesse
fallire, prova che lei ha potuto tener viva la sua coscienza, anche dopo essere
stato inserito come una rotella in un meccanismo tecnico e adoperato in esso
con successo. E serbando viva la sua coscienza ha mostrato che questo è
possibile, e che dev’essere possibile anche per noi.
Un esempio della grande
ripercussione che può avere un atto di noncollaborazione, compiuto anche da una
sola persona, ce lo offre il racconto che lo stesso filosofo Anders fa di un
insegnante elementare americano, James Council. Nelle scuole dello Stato di
Nuova York si svolgono esercitazioni antiatomiche, come addestrare i fanciulli
a tenere le mani sopra la testa per proteggersi dalla nube radioattiva e dai
calcinacci, addestrarli a rifugiarsi rapidamente nelle cantine o nella soffitte
degli edifici scolastici. Quando Council ricevette l’ordine di queste
esercitazioni, rifiutò di prendervi parte. Disse che quegli esercizi non
avevano altro scopo che di abituare i ragazzi all’ “inevitabilità della guerra
atomica”, alla “probabilità de in attacco improvviso”, al “carattere diabolico
del nemico”, le frasi fatte di certa
propaganda bellicistica. E che i rifugi non sarebbero stati in grado de
proteggere nessuno. La sua coscienza gli impediva di collaborare ad una cosa
falsa e tendenziosa. La autorità scolastiche, sorprese e indignate, lo
licenziarono. Un altro insegnante dichiarò che non avrebbe partecipato alle
esercitazioni. Si ebbe una reazione a catena. Associazioni di genitori,
insegnanti e allievi, invitarono i due insegnante a parlare davanti a loro.
Altri gruppi offrirono il loro appoggio. Il caso ha raggiunto la Corte Suprema
dello Stato di Nuova York, C’è stato un grande dibattito tra giudice e
avvocati. Se la Corte Suprema è potuta diventare una tribuna dove la realtà
dell’era atomica e l’assurdità della campagna per i rifugi sono state esposte e
discusse apertamente, il merito va a quell’insegnante che ha compiuto il primo
passo. Anche se la battaglia non è ancora vinta, è stato conquistato un terreno
di lotta. L’associazione dei genitori di Nuova York, che rappresenta 300.000
persone, ha deciso di chiedere una discussione pubblica sul problema, che li
interessa profondamente.(3)
Capitolo sesto
L’obbiezione di coscienza e
impegni civili
Siamo cosi giunti davanti ad una delle tecniche più note della
nonviolenza., l’obbiezione di coscienza. In un senso largo essa significa la
stessa cosa che noncollaborazione, poiché essa è un atto che viene compiuto in
quanto la coscienza obbietta, cioè fa opposizione. E ogni noncollaborazione
seria è non per capriccio, ma per un motivo di coscienza. Tuttavia il
significato comune è ristretto alla disobbedienza che vien fatta alla legge che
impone di portare armi, de preparare o prepararsi alla guerra e di eseguirla
nelle varie sue forme. Qualche volta si è presentata nella forma del rifiuto di
giurare, seguendo l’insegnamento evangelico di non unire alla semplice
enunciazione del si o del no, altre parole, che farebbero supporre che altre
volte ci sia lecito mentire: “Non giurate affatto… Sia il vostro parlare: Sí,
sí; no, no; il soprappiù di questo vien dal maligno”.
L’obbiezione di coscienza verso il servizio militare nella storia
non solo di secoli, ma di millenni, si fonda su due tipo di ragioni. Il primo
tipo è di non riconoscere a nessuno e nemmeno allo Statoli diritto di
costringere un uomo ad agire contro la propria coscienza. Il secondo tipo è di
porre come superiore al potere dello