Peppe Sini
La nonviolenza
contro
la guerra
(Alcuni
interventi. Giugno - luglio 1999)
Stampato in proprio nel marzo 2000, presso il “Centro di ricerca per la
pace”
s.da S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo – tel. e fax 0761.353532
Indice
E adesso costruire la pace.......... 4
Progetto per costituire un centro di documentazione................ 5
Alcune proposte di riflessione... 8
Per la scelta della nonviolenza 19
Schema per una riflessione sull’azione diretta
nonviolenta. 24
La situazione mondiale attuale e la nonviolenza 34
Dimensioni della nonviolenza 42
Alcune sintetiche definizioni della nonviolenza e della
pace... 44
Breve risposta alla domanda: cosa è la nonviolenza? 49
Alcune risposte alle principali obiezioni.... 50
Aspetti psicologici dell’impegno nonviolento. 57
Perché il segreto è incompatibile con la nonviolenza 63
Assumersi la responsabilità 64
Alcuni appunti sull’addestramento alla nonviolenza 68
Alcuni appunti sul concetto di pace.............. 71
Una lettera aperta a tutte le
persone impegnate per la pace
Poteva il movimento per la
pace essere più efficace nel contrastare la guerra? Sì.
Cosa ci è mancato? La
limpidezza di posizioni e la preparazione all’uso delle tecniche di lotta
nonviolente.
Carissimi
amici,
nella speranza che la guerra
stia volgendo al termine, e mentre dobbiamo continuare a manifestare contro la
scellerata continuazione sia dei bombardamenti sia della “pulizia etnica”, e
mentre dobbiamo prepararci agli impegni ulteriori contro la guerra, i suoi
apparati ed i suoi presupposti (ed a tal fine occorrerà una rinnovata
iniziativa per il disarmo; per lo scioglimento della Nato; contro il razzismo e
in difesa dei diritti umani ovunque), occorre altresì che riflettiamo sui
limiti della nostra iniziativa in questi mesi.
Potevamo come pacifisti fermare la guerra? Sì
Poteva il nostro movimento per
la pace essere più efficace nel contrastare la guerra? A nostro parere, sì. La
mobilitazione generosa in tutta Italia di centinaia di migliaia di persone, la
tenacia nell’opporsi alla guerra e nel chiedere il rispetto della Costituzione
italiana e del diritto internazionale che questa guerra proibiscono, la
capacità di argomentare con chiarezza ed efficacia le ragioni della pace
proprio coniugandole con le ragioni della solidarietà, dell’opposizione al
razzismo e della difesa dei diritti umani, e l’aver tenuto costantemente unite
l’opposizione alla guerra con l’aiuto concreto alle vittime della guerra, delle
deportazioni, della repressione nei Balcani, sono tutti elementi che hanno
caratterizzato e qualificato il movimento per la pace nel nostro paese
rendendolo un autentico rappresentante del popolo italiano nel momento in cui
il nostro governo tradiva la legge fondamentale e si rendeva complice di un
orribile cumulo di crimini, di un’orribile serie di stragi.
Una particolare circostanza
che aumentava la nostra responsabilità
Ed il nostro movimento per la
pace poteva essere più efficace nel contrastare la guerra anche in virtù di una
particolare circostanza tattica: che la gran parte dei bombardamenti stragisti
sulla Jugoslavia sono partiti dalle basi Nato dislocate in territorio italiano.
Questo aumentava la nostra responsabilità, la nostra angoscia, ma anche le
nostre possibilità di intervento efficace contro la guerra.
Perché non siamo riusciti a fermare la guerra?
La domanda che ora ci poniamo
è: perché non siamo riusciti ad essere più efficaci contro la guerra? Cosa ci è
mancato? Non ci è mancata la possibilità di agire: l’abbiamo avuta. Non ci è
mancata la cognizione del ruolo peculiare dell’Italia, ridotta a gigantesca portaerei
di bombardieri stragisti: lo abbiamo saputo fin dall’inizio. Non ci è mancata
neppure la volontà di opporci intransigentemente alla guerra: ripetiamo, a
centinaia di migliaia lo abbiamo saputo, lo abbiamo detto, abbiamo cercato di
farlo.
È mancata la scelta corale e
persuasa della nonviolenza
Quello che ci è mancato è
stata l’adozione del punto di vista giusto: il punto di vista della nonviolenza
e quindi la scelta della lotta nonviolenta; e conseguentemente l’adozione delle
tecniche di lotta giuste: le tecniche dell’azione diretta nonviolenta; punto di
vista e tecniche che richiedevano un serio ed onesto dibattito di tutto il
movimento su questa grande sconosciuta: la nonviolenza, l’accoglimento
collettivo e persuaso di essa, e una seria e rigorosa formazione alla
nonviolenza. Questo è mancato.
Una posizione limpida contro
la violenza
È mancata una posizione
limpida nel giudizio sulla violenza: anche nel movimento che si oppone alla
guerra molti hanno idee confuse e posizioni ambigue su questo decisivo punto.
Sulle bandiere delle
manifestazioni hanno campeggiato perlopiù volti di eroici combattenti per la
giustizia, ma certo non per la pace. Per dirla in termini schematici, i
manifestanti facevano riferimento più a Guevara che a Gandhi. Orbene, il riferimento
a Guevara è sicuramente di grande valore nella storia della lotta di
liberazione, per affermare l’uguaglianza, per contrastare l’oppressione
imperialista e colonialista; ma in un movimento di lotta contro la guerra e per
la pace sarebbe bene che si facesse riferimento a figure più coerenti con
l’obiettivo per cui ci si sta impegnando.
Molti, invece, hanno avuto un
atteggiamento ambiguo: proprio mentre criticavano la Nato per aver condotto una
guerra spacciandola per “giusta” (e nessuna guerra lo è), riproducevano lo
stesso schema argomentativo definendo “giusta” la violenza a seconda di chi ne
fa uso (e nessuna violenza lo è; naturalmente fermo restando il principio
giuridico che ad ogni aggredito va riconosciuto il diritto di legittima
difesa).
È mancata una conoscenza
seria ed onesta della nonviolenza
Questo limite di confusione e
di ambiguità è dipeso dalla purtroppo ancora scarsa conoscenza e presenza nel
nostro paese, nella nostra riflessione, nel nostro dibattito, nella nostra
comune formazione morale e civile (e quindi politica), di quella straordinaria
tradizione di lotta e di pensiero che è la nonviolenza.
Purtroppo anche molti,
moltissimi pacifisti, hanno della nonviolenza un’immagine del tutto falsa: la
confondono con la viltà, con la passività, con la mera predicazione retorica, o
al più con la vocazione al martirio come scelta individualistica ed
ininfluente, o con l’astrattezza di chi pretende di collocarsi al di sopra
della mischia ed invece se ne trova al di sotto, e così via: riproducendo così,
senza rendersene conto, gli stessi stereotipi e le stesse mistificazioni che
contro la nonviolenza sono usati dagli oppressori, dai militaristi, dagli
idolatri della violenza.
La nonviolenza è lotta, la più rigorosa
Ed invece la nonviolenza è
lotta, è la più rigorosa forma di lotta, quella che va alla radice, quella che
pratica la coerenza tra i fini ed i mezzi, quella che nel corso stesso della
lotta contro la violenza istituisce un’umanità fraterna e di eguali.
Ma nonostante nel nostro paese
siano vissuti uomini come Aldo Capitini e Danilo Dolci, Lorenzo Milani ed
Ernesto Balducci, in Italia la nonviolenza è ancora largamente sconosciuta,
anche tra coloro che pur se ne riempiono la bocca a sproposito.
Era possibile opporci efficacemente: usando le tecniche della nonviolenza
La conoscenza della
nonviolenza, e l’uso delle tecniche della nonviolenza, sarebbero state
straordinariamente efficaci in questo terribile frangente.
Un esempio per tutti: era
possibile bloccare tutti i decolli da tutte le basi Nato in Italia
semplicemente lanciando mongolfiere di carta nello spazio aereo sovrastante e
circostante le piste di decollo. Questa azione diretta nonviolenta, realizzata
da un piccolo gruppo di poche persone, bloccò i decolli per alcune ore ad
Aviano in aprile. Se fosse stata fatta propria dall’intero movimento pacifista
e realizzata a livello di massa dinanzi a tutte le basi Nato in Italia giorno
dopo giorno avrebbe potuto avere un ruolo rilevante, ed avrebbe dimostrato come
la nonviolenza possa intervenire efficacemente nel conflitto ed essere
concretamente più forte del più forte apparato militare del mondo.
Per oltre due mesi abbiamo
proposto a tutti gli interlocutori possibili di far propria questa iniziativa
rigorosamente nonviolenta e dimostrativamente efficace, ma solo in pochi hanno
aderito, solo pochissimi l’hanno realizzata o hanno tentato di realizzarla.
Purtroppo quasi tutte le
grandi organizzazioni e le più ampie reti di affinità presenti nel movimento
non hanno colto questa occasione, preferendo perlopiù iniziative meramente
simboliche (quando non semplicemente propagandistiche) e largamente inefficaci,
ed inefficaci anche perché sovente non limpide. Non limpide perché da una parte
si è preferito mantenere rapporti ambigui (anche per convergenti interessi) con
il governo responsabile della guerra e le principali forze politiche che lo
compongono; da un’altra si è privilegiata una presenza prevalentemente
autopromozionale nel movimento; da un’altra parte ancora si è restati chiusi su
posizioni nichiliste che quanto più si ammantavano di retorica
ultrarivoluzionaria assolutamente dereistica tanto più erano totalmente
subalterne ed effettualmente autoreferenziali.
Perché è andata così? È mancata la formazione alla nonviolenza
Perché è
andata così, e il movimento per la pace non è stato sufficientemente efficace,
sebbene abbia comunque svolto un’azione generosa che ha ottenuto dei risultati
non disprezzabili (si pensi alla decisiva influenza della marcia Perugia-Assisi
nel forzare il Parlamento italiano alla richiesta di sospensione dei
bombardamenti)?
A noi sembra di poter dire che
è andata così perché è mancata la formazione alla nonviolenza: occorreva aver
cominciato tutti da anni a fare dibattiti sulla nonviolenza, ad esaminarne,
approfondirne ed introiettarne criticamente valori, metodi, dimensioni; ed
occorreva aver cominciato tutti da anni a fare training di addestramento
alle tecniche della nonviolenza. Quei purtroppo ristretti settori del movimento
che queste esperienze di dibattito e di formazione avevano condotto, e che
hanno proposto all’intero movimento di fare un salto di qualità in questa
direzione, si sono trovati di fatto isolati: sovente rispettati per il loro
rigore e addotti ad esempio, ma quasi sempre inascoltati nelle loro proposte di
intervento concreto, di impegno comune.
Per non concludere
Speriamo che la guerra stia
per concludersi: ma dopo questa altre guerre verranno se non sapremo lottare
per prevenirle. Ed è quindi una necessità per il nostro movimento cominciare
subito una permanente attività di studio e discussione della nonviolenza, una
permanente attività di formazione alla nonviolenza, di vero e proprio
addestramento all’uso delle tecniche della nonviolenza ed alla comprensione dei
valori della nonviolenza.
Non abbiamo tempo da perdere.
I bombardieri decollano ancora, le industrie armiere producono ancora, i poteri
stragisti persistono ancora. La voce strozzata della pace, o della coscienza,
ci chiede un impegno ancora più profondo, ancora più persuaso: ci chiede di far
crescere la nonviolenza come unica coerente alternativa alla guerra e
all’oppressione.
Che ne pensate?
Saremo grati a tutti coloro
che vorranno farci sapere la loro opinione su queste appena accennate,
frettolose e provvisorie riflessioni. La discussione è aperta. Frattanto
facciamo tutti tutto quel che possiamo per ottenere la cessazione della guerra.
Un abbraccio,
Viterbo, martedì 8 giugno 1999
Forse la guerra sta veramente
terminando.
E adesso ci aspetta l’arduo
compito di costruire la pace.
Per questo compito occorrerà
ancora l’impegno del movimento pacifista e solidale, e la nostra azione dovrà
essere sicuramente più intensa ed efficace di quella che siamo riusciti a
svolgere in questi mesi di orrore.
Occorrerà un impegno assai
più forte per aiutare tutte le vittime della guerra; occorrerà un
impegno assai più forte per contribuire alla decontaminazione ed alla
ricostruzione sia dell’ambiente e delle strutture abitative, produttive, civili
devastati dalla guerra; sia degli animi e dei tessuti interpersonali, sociali,
culturali, della convivenza devastati dalla violenza e dall’odio.
E occorrerà un impegno
fortissimo per affrontare e superare i limiti, gli errori e le ambiguità che il
nostro movimento ha mostrato in questi mesi: per rendere la nostra azione più
limpida, e quindi più efficace; per spostare tutta l’area che si è opposta
alla guerra su posizioni di costruzione della pace; per riuscire a proporre
la nonviolenza come decisivo asse teorico-pratico su cui si gioca il senso,
la ragione, la stessa possibilità di esistenza, prima ancora che di successo,
del nostro movimento.
Ed occorrerà proporre subito
occasioni di riflessione e di formazione alla nonviolenza, alle tecniche ed ai
valori della nonviolenza; e proporre subito nitide azioni dirette nonviolente e
grandi campagne democratiche di massa per il disarmo e contro il militarismo,
contro gli apparati e le logiche della guerra, per contrastare l’industria
bellica ed il traffico di armi, contro il razzismo e per la democrazia, per i
diritti umani che si difendono solo rispettandoli integralmente, sempre ed
ovunque.
E pensiamo che occorra costruire
subito anche una iniziativa internazionale nonviolenta per l’abolizione della
Nato.
C’è molto da fare per tutte le
donne e tutti gli uomini di volontà buona.
Viterbo, giovedì 10 giugno
1999
Progetto per costituire un
centro di documentazione e di intervento pacifista, in cinque semplici punti,
per donne e uomini di volontà buona, di spirito critico e di tenace concetto
1. Strumenti necessari
-
carta e penne per scrivere;
-
un tavolo e delle sedie;
-
un personal computer o almeno una macchina da scrivere;
-
un elenco telefonico;
-
se possibile telefono, fax, internet;
-
un dizionario della lingua italiana e se possibile alcuni
dizionari bilingui italiano-principali lingue (almeno le più diffuse);
-
Agenda del giornalista (utile come
indirizzario di mass-media e giornalisti);
-
Codice penale, di procedura penale, civile, di procedura
civile (servono sempre);
-
rapporti annuali sui diritti umani di Amnesty
International;
-
un annuario giornalistico di informazione generale, come
ad esempio Il libro dei fatti, edito dall’Adn-kronos;
-
se possibile un registratore, per poter registrare
dibattiti e conferenze, realizzare interviste, etc.;
-
se possibile una radio per poter avere informazioni dai
notiziari radiofonici;
-
se possibile una fotocopiatrice (da usare con sobrietà).
2. Alcuni libri
particolarmente utili
-
Primo Levi, Opere, Einaudi, Torino (due volumi);
-
Virginia Woolf, Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano;
-
Ernesto Balducci, Lodovico Grassi, La pace. Realismo di
un’utopia, Principato, Milano;
-
Gene Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, Edizioni
Gruppo Abele, Torino (tre volumi);
-
Alberto L’Abate (a cura di), Addestramento alla
nonviolenza, Satyagraha, Torino;
-
Mohandas Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza,
Einaudi, Torino;
-
Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria;
-
Charles Walker, Manuale per l’azione diretta nonviolenta,
Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia;
-
Francesco Gesualdi, Manuale per un consumo responsabile,
Feltrinelli, Milano;
-
la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo;
-
la Costituzione della Repubblica Italiana;
-
Worldwatch Institute, State of the world, fondamentale
rapporto annuale; ed anche il più agile Vital Signs;
-
una enciclopedia;
-
Centro di ricerca per la pace, Uomini di pace,
fotostilato in proprio, Viterbo (non è un vero e proprio libro, ma una semplice
serie di schede biobibliografiche su donne e uomini del Novecento che hanno
contribuito alla cultura della pace; è utile per un primo orientamento; è disponibile
gratuitamente);
-
Centro di ricerca per la pace, Progetto per un corso di
formazione sui diritti umani, la legalità, la solidarietà, la pace e la
nonviolenza, il servizio sociale e la specifica attività da svolgere nel corso
del servizio civile, Viterbo (è un progetto di corso di formazione per
obiettori di coscienza in servizio civile, ma può essere utilizzato da chiunque
per organizzare attività formative sui temi indicati; è disponibile
gratuitamente);
-
Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino (a
cura di), Dizionario di politica, Tea, Milano;
-
Franco Demarchi, Aldo Ellena (a cura di), Dizionario di
sociologia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo;
-
Luciano Gallino, Dizionario di sociologia, Tea, Milano.
3. Alcune riviste
indispensabili
-
“Avvenimenti”, settimanale;
- “Le monde diplomatique”, mensile;
-
“Azione nonviolenta”, mensile;
-
“Nigrizia”, mensile.
4. Alcune cose da fare
-
periodica programmazione dell’attività da svolgere e
rendiconti periodici sull’attività svolta ed in corso;
-
dare primaria importanza alla formazione e soprattutto
all’autoformazione: con incontri di studio, di discussione, di training
nonviolento; con conferenze invitando relatori significativi; etc.;
-
tutte le riunioni devono essere convocate con sufficiente
anticipo indicando nell’avviso di convocazione il luogo, il giorno, l’orario e
l’ordine del giorno; tutte le riunioni devono avere un ordine del giorno che
indichi tutti gli argomenti in discussione; tutte le riunioni devono avere
delle conclusioni precise ed operative; di tutte le riunioni va steso un
verbale sommario, che va conservato e deve essere consultabile;
-
occorre democrazia e trasparenza nel lavoro di un gruppo
pacifista; se non vi è democrazia e trasparenza, è preferibile rinunciare ad
impegnarsi per la pace;
-
non dimenticare mai che la cosa decisiva è sempre la
comunicazione, e che per comunicare in modo efficace (cioè libero, rispettoso
dell’altro, chiaro e preciso nei contenuti ed istitutivo di relazioni non
oppressive) occorre impegno e modestia;
-
non dimenticare mai che la lotta contro l’ingiustizia,
per la pace e i diritti umani, è senza fine: occorre quindi non solo rigore
morale e intellettuale, non solo capacità di condivisione e senso di
responsabilità, ma anche ironia e pazienza;
-
noi riteniamo che per impegnarsi coerentemente e
concretamente per la pace occorre fare la scelta della nonviolenza, e che per
fare questa scelta occorre innanzitutto impegnarsi per conoscere la
nonviolenza: smascherando e ripudiando gli stereotipi e le caricature di essa
(stereotipi e caricature assai diffusi anche tra coloro che di nonviolenza
straparlano senza averne una idea adeguata) ed impegnandosi invece a studiarla
seriamente. Come piccolo contributo per avviare una riflessione sulla
nonviolenza proponiamo qui ancora una volta la carta programmatica del
Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini: “Il movimento nonviolento
lavora per l’esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore
della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il
superamento dell’apparato di potere che trae alimento dallo spirito di
violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una
comunità mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in
armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d’azione del movimento
nonviolento sono:
1. l’opposizione
integrale alla guerra;
2. la
lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l’oppressione politica
ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le
discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla
religione;
3. lo
sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la
creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile
gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la
salvaguardia dei valori di cultura e dell’ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un’altra delle forme di violenza dell’uomo. Il movimento
opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell’uccisione e
della lesione fisica, dell’odio e della menzogna, dell’impedimento del dialogo
e della libertà di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta
nonviolenta sono: l’esempio, l’educazione, la persuasione, la propaganda, la
protesta, lo sciopero, la non-collaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza
civile, la formazione di organi di governo paralleli”.
5. Alcune cose da non fare
-
non cominciare con i proclami; cominciare invece con la
discussione aperta, il lavoro comune, un atteggiamento modesto: per scrivere i
documenti programmatici o le dichiarazioni universali ci sarà sempre tempo;
-
non pretendere di occuparsi di tutto; occorre invece
darsi obiettivi chiari, limitati, verificabili;
-
contrastare la logica dell’assalto alla diligenza dei
soldi pubblici: non centrare la propria attività sulla richiesta di sostegno
istituzionale e sulla presentazione di progetti agli enti pubblici; puntare
invece sulle proprie capacità e risorse: essere autonomi dal punto di vista
delle risorse è l’unica garanzia per essere autonomi nella capacità di giudizio
e limpidi nei comportamenti;
-
non voler crescere in quantità di adesioni, ma
preoccuparsi soprattutto di approfondire la riflessione e di costruire
l’affinità, valorizzando lo stare insieme per costruire la pace a partire dalle
relazioni umane, dalla pratica della democrazia, dalla crescita della fiducia,
dall’uso delle tecniche della nonviolenza e del metodo del consenso;
-
non essere settari, anzi proporsi frequenti occasioni di
confronto e discussione con persone e gruppi esterni al proprio movimento e su
diverse posizioni culturali e politiche;
-
non gettarsi allo sbaraglio: quando si organizza
un’iniziativa pubblica essa deve essere preparata in tutti i dettagli, tutti
devono avere una informazione precisa, base indispensabile per una adesione
convinta e consapevole; nessuno dei partecipanti deve essere messo o trovarsi
in difficoltà;
-
non aver paura di non avere una risposta per tutto, è
invece assai utile un atteggiamento di ascolto e accoglienza di opinioni
diverse, e di discussione costante; spesso le persone vengono allontanate
dall’impegno proprio dalla sicumera e dal dogmatismo di chi pensa di avere già
le soluzioni di problemi sovente complessi; è molto più utile porre
correttamente i problemi in tutta la loro complessità e secondo i diversi punti
di vista e discuterne apertamente, piuttosto che dare risposte preconfezionate.
Viterbo, giovedì 17 giugno 1999
Alcune proposte di
riflessione: le tre verità di Hiroshima di Ernesto Balducci, dieci ipotesi per
la nonviolenza di Giulio Girardi, un ritratto di Aldo Capitini di Walter Binni
Premessa
Nell’intento di mettere a
disposizione del movimento pacifista materiali e riferimenti utili affinché le
persone impegnate per la pace conoscano la nonviolenza e ne discutano e ne
facciano propri i valori e le tecniche, proponiamo ai nostri interlocutori la
lettura di tre brevi testi:
a) uno
stralcio di un intervento di Ernesto Balducci, pronunciato nel 1981, che in tre
formule sintetiche lumeggia la situazione presente e la necessità di un impegno
intransigente e coerente contro la guerra;
b) un
sunto di un articolato ragionamento di Giulio Girardi sulla nonviolenza come
alternativa;
c) il
discorso tenuto da Walter Binni alle esequie di Aldo Capitini: ci è sembrato
utile proporre questo testo per presentare la figura del più grande promotore
della nonviolenza in Italia.
Abbiamo ovviamente aggiunto
una postilla bibliografica per un primo approfondimento.
1. Le tre verità di Hiroshima
di Ernesto Balducci
Nel 1981 aprendo un celebre
convegno di “Testimonianze” sul tema Se vuoi la pace, prepara la pace,
Ernesto Balducci (uno dei più lucidi e limpidi costruttori di pace di questo
secolo) pronunciò un forte discorso. Esso fu pubblicato in “Testimonianze”
241-243 (gennaio-marzo 1982), volume monografico contenente gli atti del
convegno; e ripreso come introduzione del bel libro di Ernesto Balducci e
Lodovico Grassi, La pace. Realismo di un’utopia, Principato, Milano
1983. Riproduciamo qui il passaggio sulle “tre verità di Hiroshima”.
“La prima verità contenuta in
quel messaggio è che il genere umano ha un destino unico di vita o di morte.
Sul momento fu una verità intuitiva, di natura etica, ma poi, crollata
l’immagine eurocentrica della storia, essa si è dispiegata in evidenze di tipo
induttivo la cui esposizione più recente e più organica è quella del Rapporto
Brandt. L’unità del genere umano è ormai una verità economica. Le
interdipendenze che stringono il Nord e il Sud del pianeta, attentamente
esaminate, svelano che non è il Sud a dipendere dal Nord ma è il Nord che
dipende dal Sud. Innanzitutto per il fatto che la sua economia dello spreco è
resa possibile dalla metodica rapina a cui il Sud è sottoposto e poi, più
specificamente, perché esiste un nesso causale tra la politica degli armamenti
e il persistere, anzi l’aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano
ancora nella nostra memoria i 50 milioni di morti dell’ultima guerra, ma
cominciano anche a pesarci i morti che la fame sta facendo: 50 milioni, per
l’appunto, nel solo anno 1979. E più comincia a pesare il fatto, sempre meglio
conosciuto, che la morte per fame non è un prodotto fatale dell’avarizia della
natura o dell’ignavia degli uomini, ma il prodotto della struttura economica
internazionale che riversa un’immensa quota dei profitti nell’industria delle
armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto anno 1979 e cioè 10 volte di più del
necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora si sa. Adamo ed Eva ora
sanno di essere nudi. Gli uomini e le donne che, fosse pure soltanto come
elettori, tengono in piedi questa struttura di violenza, non hanno più la
coscienza tranquilla.
La seconda verità di Hiroshima
è che ormai l’imperativo morale della pace, ritenuta da sempre come un
ideale necessario anche se irrealizzabile, è arrivato a coincidere con
l’istinto di conservazione, il medesimo istinto che veniva indicato come
radice inestirpabile dell’aggressività distruttiva. Fino ad oggi è stato un
punto fermo che la sfera della morale e quella dell’istinto erano tra loro
separate, conciliabili solo mediante un’ardua disciplina e solo entro certi
limiti: fuori di quei limiti accadeva la guerra, che la coscienza morale si
limitava a deprecare come un malum necessarium. Ma le prospettive
attuali della guerra tecnologica sono tali che la voce dell’istinto di
conservazione (di cui la paura è un sintomo non ignobile) e la voce della
coscienza sono diventate una sola voce. Non era mai capitato. Anche per questi
nuovi rapporti fra etica e biologia, la storia sta cambiando di qualità.
La terza verità di Hiroshima è
che la guerra è uscita per sempre dalla sfera della razionalità. Non che
la guerra sia mai stata considerata, salvo in rari casi di sadismo culturale,
un fatto secondo ragione, ma sempre le culture dominanti l’hanno ritenuta
quanto meno come una extrema ratio, e cioè come uno strumento limite
della ragione. E difatti, nelle nostre ricostruzioni storiografiche, il
progresso dei popoli si avvera attraverso le guerre. Per una specie di
eterogenesi dei fini – per usare il linguaggio di Benedetto Croce -
l’“accadimento” funesto generava l’“avvenimento” fausto. Ma ora, nell’ipotesi
atomica, l’accadimento non genererebbe nessun avvenimento. O meglio,
l’avvenimento morirebbe per olocausto nel grembo materno dell’accadimento.”
2. Dieci ipotesi per la
nonviolenza di Giulio Girardi
In un intervento a un convegno
tenutosi a Molfetta nel 1988, Giulio Girardi (teologo e filosofo della liberazione,
impegnato da decenni nella solidarietà, per la liberazione dei popoli e i
diritti umani) formula ed analizza dieci ipotesi, seguite da una conclusione
(citiamo da Giulio Girardi, La nonviolenza è un’alternativa?, in AA.VV.,
Un nome che cambia: la nonviolenza nella società civile, La Meridiana,
Molfetta 1989, alle pp. 9-20).Riproduciamo qui le dieci ipotesi.
Prima ipotesi. L’antitesi
violenza-nonviolenza non oppone soltanto due impostazioni metodologiche e
strategiche, ma due prospettive globali, due progetti fondamentali di società.
Seconda ipotesi. Il conflitto
violenza-nonviolenza, diritto della forza-forza del diritto, è il conflitto
fondamentale della storia, quello nel quale essa definisce il suo senso.
Terza ipotesi. La violenza più
micidiale del mondo contemporaneo è quella cristallizzata nelle strutture
economiche e politiche della società e del mondo: sia quelle del capitalismo
sia quelle del socialismo realizzato.
Quarta ipotesi. L’antagonismo
tra i popoli oppressi del Terzo Mondo e gli imperi che li dominano è oggi la
forma fondamentale del conflitto violenza-nonviolenza nel mondo occidentale.
Quinta ipotesi. L’alternativa
nonviolenta, così intesa, è radicalmente rivoluzionaria.
Sesta ipotesi. La cultura
della nonviolenza e della pace non dev’essere sviluppata in antitesi alla
cultura della liberazione, ma deve stabilire con questa un intreccio dialettico
e critico.
Settima ipotesi. L’aspetto più
radicale del dominio della violenza nel mondo è la sua penetrazione occulta
nella coscienza e nell’inconscio collettivo. La violenza rimarrà invincibile
fino a quando non sarà sconfitta nelle coscienze, e prima di tutto nelle
coscienze del mondo ricco.
Ottava ipotesi. Uno dei fronti
decisivi sui quali la violenza ha conseguito la sua vittoria nel mondo è quello
religioso.
Nona ipotesi. Il perno di una
strategia rivoluzionaria nonviolenta è la formazione dei nuovi soggetti del
cambiamento: che passa attraverso la trasformazione della coscienza degli
oppressi di tutto il mondo ed esige un vasto movimento di educazione popolare
liberatrice.
Decima ipotesi. L’educazione
popolare liberatrice è oggi, per i credenti, un itinerario privilegiato per
riscoprire l’ispirazione originaria sovversiva e nonviolenta del messaggio di
Gesù, per reinvestire la forza del Vangelo e della tradizione popolare
cristiana dalla parte degli oppressi, cioè dalla parte dell’alternativa
nonviolenta, della giustizia, della solidarietà, e dell’amore universale.
Nella conclusione Girardi
sottolinea che “il messaggio nonviolento non si propone solo come
un’alternativa nella storia dell’umanità, ma anche nella vicenda di ognuno”.
3. Un ritratto di Aldo
Capitini di Walter Binni
Quelle che seguono sono le
parole di commiato pronunciate da Walter Binni (antifascista, costituente,
studioso tra i massimi della nostra letteratura, uno dei nostri maestri) al
funerale di Aldo Capitini, a Perugia, il 21 ottobre 1968. Il testo, già apparso
nel fascicolo speciale di “Azione Nonviolenta” del novembre-dicembre 1968, lo
riprendiamo da Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977,
dove si trova con il titolo Un vero rivoluzionario alle pagine 497-500.
“Queste inadeguate parole che
io pronuncio a nome degli amici più antichi e più recenti che Aldo Capitini
ebbe ed ha, per la sua eccezionale disposizione verso gli altri, vorrebbero più
che essere un saluto estremo e un motivato omaggio alla sua presenza nella
nostra storia privata e generale, costituire solo un appoggio, per quanto esile
e sproporzionato, ad una tensione di concentrazione di tutti quanti lo
conobbero e lo amarono: tutti qui materialmente o idealmente raccolti in un
intimo silenzio profondo che queste parole vorrebbero non spezzare ma
accentuare, portandoci tutti a unirci a lui, nella nostra stessa intera unione
con lui e in lui, unione cui egli ci ha sollecitato e ci sollecita con la sua
vita, con le sue opere, con le sue possenti e geniali intuizioni.
Certo in questo “nobile e
virile silenzio” suggerito, come egli diceva, dalla morte di ogni essere umano,
come potremmo facilmente bruciare il momento struggente del dolore, della
lacerazione profonda provocata in noi dalla sua scomparsa? In noi che
appassionatamente sentiamo e soffriamo la assenza di quella irripetibile vitale
presenza, con i suoi connotati concreti per sempre sottratti al nostro sguardo
affettuoso, al nostro abbraccio fraterno, al nostro incontro, fonte per noi e
per lui di ineffabile gioia, di accrescimento continuo del nostro meglio e dei
nostri affetti più alti. Quel volto scavato, energico, supremamente cordiale, quella
fronte alta ed augusta, quelle mani pronte alla stretta leale e confortatrice,
quegli occhi profondi, severi, capaci di sondare fulminei l’intimo dei nostri
cuori ed intuire le nostre pene e le nostre inquietudini, quel sorriso fraterno
e luminoso, quel gestire sobrio e composto, ma così carico di intima forza di
persuasione, quella voce dal timbro chiaro e denso, scandito e posseduto fino
alle sue minime vibrazioni.
Tutto ciò che era suo,
inconfondibilmente e sensibilmente suo, ora ci attrae e ci turba quanto più
sappiamo che è per sempre scomparso con il suo corpo morto ed inanime, che non
si offrirà mai più ai nostri incontri, al nostro affetto, nella sua casa, o in
questi luoghi da lui e da noi tanto amati, su questi colli perugini,
malinconici e sereni, in cui infinite volte lo incontrammo e che ora ci
sembrano improvvisamente privati della loro bellezza intensa se da loro è
cancellata per sempre la luce umana della sua figura e della sua parola.
Ed ognuno di noi, certo, in
questo momento, è come sopraffatto dall’onda dei ricordi più minuti e perciò
struggenti, quanto più remoti risorgono dalla nostra memoria commossa in quei
particolari fuggevoli e minimi, che proprio dalla poesia del caduco, del
sensibile, dell’irripetibile, traggono la loro forza emotiva più sconvolgente e
ci spingerebbero a rievocare, a recuperare quel particolare luogo di incontro,
quella stanzetta della torre campanaria in cui un giorno - quel giorno
lontano - parlammo per la prima volta con lui, o quella piazzetta cittadina -quella
piazzetta - in cui improvvisamente ci venne incontro con la gioia dell’incontro
inatteso, o quel colle coronato di pini in cui insieme ci recammo con altri
amici.
E ognuno di noi ripensa certo
ora alla propria vicenda o al segno profondo lasciato dall’incontro con
Capitini, fino a dover riconoscere - il caso di quanti furono giovani in anni
lontani - che essa sarebbe per noi incomprensibile e non ricostruibile come
essa si è svolta, senza l’intervento di lui, senza la sua parola illuminante,
senza i problemi che lui ci aiutò ad impostare e a chiarire, spesso
contribuendo a decisive svolte nella nostra formazione e nella nostra vita
intellettuale, morale, politica.
Ma appunto proprio da questo,
dalla considerazione dell’immenso debito contratto con lui, dalla nostra
gratitudine e riconoscenza per quanto, con generosità e disponibilità
inesauribile, egli ci ha dato, veniamo riportati -al di là del nostro dolore
che sappiamo inesauribile e pronto a risorgere ogni volta che ci colpirà
un’immagine, un’eco, una labile traccia della sua per sempre scomparsa
consistenza concreta- a quel momento ulteriore della nostra unione con lui, in
occasione della sua morte, che soprattutto dalle sue parole e dalle sue opere
abbiamo appreso a considerare come l’apertura del “muro del pianto”, della buia
barriera della morte.
Perché qualunque siano
attualmente le nostre diverse prospettive ideologiche, esistenziali, religiose
o non religiose (e così, coerentemente, pratiche e politiche), una cosa abbiamo
tutti, credo, da lui imparata: la scontentezza profonda della realtà a tutti i
suoi livelli, la certezza dei suoi limiti e dei suoi errori profondi, la
volontà di trasformarla, di aprirla, di liberarla.
È qui che il ricordo e il
dolore si tramutano in una tensione che ci unisce con Aldo nella sua più vera
presenza attuale, nella sua non caduca presenza in noi e nella storia, e ci
riempie di un sentimento e di una volontà quale egli ci chiede e ci domanda con
tutta la sua vita e la sua opera più persuasa di combattente per una verità non
immobile e ferma, ma profonda ed attiva, concretata in quella prassi
conseguente di cui egli sosteneva proprio in questi ultimi giorni, parlando con
me, l’assoluto primato. Il morto, il crocifisso nella realtà, come egli diceva,
suggerisce infatti insieme e il senso della nostra limitatezza individuale in
una realtà di per sé ostile e crudele (quante volte abbiamo insieme ripetuto i
versi di Montale con il loro circuito chiuso: la vita è più vana che crudele,
più crudele che vana!) e la nostra possibilità o almeno il nostro dovere di
tentare di spezzare, di aprire quella limitatezza, di trasformare la realtà,
dalla società ingiusta e feroce alla natura indifferente alla sorte dei singoli
e al loro dolore. Lì è il punto in cui convergono tutte le folte componenti del
pensiero originalissimo di Capitini: il tu e il tu-tutti, il potere dal basso e
di tutti, la nonviolenza, l’apertura e l’aggiunta religiosa. Lì convergono in
una profonda spinta rinnovatrice le idee, le intuizioni (tese da una forza
espressiva che tocca spesso la poesia), gli atteggiamenti pratici di Capitini.
Non accettare nessuna
ingiustizia e nessuna sopraffazione politica e sociale, non accettare la legge
egoistica del puro utile, non accettare la realtà naturale grezza e sorda, e
opporre a tutto ciò una volontà persuasa del valore dell’uomo e delle sue forze
solidali e arricchite dalla “compresenza” attiva dei vivi e dei morti, tutte
immesse a forzare ed aprire i limiti della realtà verso una società e una
realtà resa liberata e fraterna anzitutto dall’amore e dalla rinuncia alla
soppressione fisica dell’avversario e del dissenziente, sempre persuadibile e
recuperabile nel suo meglio, mai cancellabile con la violenza.
Di fronte a questo sforzo
consapevole ed ai modi stessi della sua attuazione e della sua configurazione
precisa alcuni di noi possono essere anche dissenzienti o diversamente disposti
e operanti, ma nessuno che abbia compreso l’enorme portata della lezione di
Capitini può sfuggire a questo nodo centrale del suo pensiero, nessuno può
esimersi di dare ad esso adesione o risposta, tanto esso è stringente,
perentorio, come perentoria è insieme la lezione di intransigenza morale e
intellettuale di Capitini, la sua netta distinzione di valore e disvalore, la
severità del suo stesso amore, pur così illimitatamente aperto e persuaso del
valore implicito in ogni essere umano.
Proprio per questo amore
aperto e severo, questa nostra unione in lui e con lui -in presenza della sua
morte- non può lasciarci così come siamo di fronte alle cose e di fronte a noi
stessi, non può non tradursi in un impegno di suprema lealtà, sincerità,
volontà di trasformazione.
Capitini fu un vero
rivoluzionario nel senso più profondo di questa grande parola: lo fu, sin dalla
sua strenua opposizione al fascismo, di fronte ad ogni negazione della libertà
e della democrazia (e ad ogni inganno esercitato nel nome formale ed astratto
di queste parole), lo fu di fronte ad ogni violenza sopraffattrice, in sede
politica e religiosa, così come di fronte ad ogni tipo di ordine e autorità
dogmatica ed ingiusta (qualunque essa sia), lo fu persino, ripeto, di fronte
alla stessa realtà e al suo ordine di violenza e di crudeltà. Questo non
dobbiamo dimenticare, facendo di lui un sognatore ingenuo ed innocuo, e
sfuggendo così alle nostre stesse responsabilità più intere e rifugiandoci nel
nostro cerchio individualistico o nelle nostre abitudini e convenzioni non
soggette ad una continua critica e volontà rinnovatrice.
Forse non a tutti noi si
aprirà il regno luminoso della realtà liberata e fraterna nei modi precisi in
cui Capitini la concepiva e la promuoveva, ma ad esso dobbiamo pur tendere con
appassionata energia.
Solo così il nostro compianto
per la tua scomparsa, carissimo, fraterno, indimenticabile amico, diviene
concreto ringraziamento e la risposta alla tua voce più profonda: solo così non
ti lasceremo ombra fra le ombre o spoglia inerte e consumata negli oscuri
silenzi della tomba, e proseguiremo insieme, severamente rasserenati - come tu
ci hai voluto - nel nostro colloquio con te, con il tuo tu-tutti, attuandolo
nel nostro faticoso e fraterno impegno di uomini fra gli uomini, come tu ci hai
chiesto e come tu ci hai indicato con il tuo altissimo esempio”.
Postilla. Alcune indicazioni
per approfondire[1]
ERNESTO BALDUCCI - Profilo
biografico: Ernesto Balducci è nato a Santa Fiora (in provincia di
Grosseto) nel 1922, ed è deceduto a seguito di un incidente stradale nel 1992.
Sacerdote, insegnante, scrittore, organizzatore culturale, promotore di
numerose iniziative di pace e di solidarietà. Fondatore della rivista
“Testimonianze” nel 1958 e delle Edizioni Cultura della Pace (ECP) nel 1986.
Oltre che infaticabile attivista per la pace e i diritti, è stato un pensatore
di grande vigore ed originalità, le cui riflessioni ed analisi sono decisive
per un’etica della mondialità all’altezza dei drammatici problemi dell’ora
presente. Opere di Ernesto Balducci: segnaliamo particolarmente alcuni
libri dell’ultimo periodo: Il terzo millennio (Bompiani); La pace.
Realismo di un’utopia (Principato), in collaborazione con Lodovico Grassi; Pensieri
di pace (Cittadella); L’uomo planetario (Camunia, poi ECP); La
terra del tramonto (ECP); Montezuma scopre l’Europa (ECP). Si vedano
anche l’intervista autobiografica Il cerchio che si chiude (Marietti);
la raccolta postuma di scritti autobiografici Il sogno di una cosa
(ECP); il manuale di storia della filosofia, Storia del pensiero umano
(Cremonese), ed il corso di educazione civica Cittadini del mondo
(Principato), in collaborazione con Pierluigi Onorato. Opere su Ernesto
Balducci: cfr. i due fondamentali volumi monografici di “Testimonianze” a
lui dedicati: Ernesto Balducci, “Testimonianze” nn. 347-349, 1992; ed Ernesto
Balducci e la lunga marcia dei diritti umani, “Testimonianze” nn. 373-374,
1995. Un’ottima rassegna bibliografica preceduta da una precisa introduzione
biografica è il libro di Andrea Cecconi, Ernesto Balducci: cinquant’anni di
attività, Libreria Chiari, Firenze 1996. Indirizzi utili: Fondazione
Ernesto Balducci, via Badia dei Roccettini 11, S. Domenico di Fiesole (FI).
WALTER BINNI - Profilo
biografico: Walter Binni è nato a Perugia nel 1913, ha studiato
alla Normale di Pisa, antifascista, impegnato nella Resistenza, poi deputato
alla Costituente. Docente universitario, tra i massimi studiosi della
letteratura italiana. È scomparso sul finire del novembre 1997. Opere di
Walter Binni: nella sua vastissima produzione, tutta di grande valore,
segnaliamo particolarmente gli studi leopardiani: fondamentali La nuova
poetica leopardiana, e La protesta di Leopardi, editi da Sansoni; ed
il giustamente celebre saggio metodologico Poetica, critica e storia
letteraria, edito da Laterza. Come è noto sono classici i suoi studi sulla
poetica del decadentismo, il preromanticismo italiano, Ariosto, Michelangelo
scrittore, Metastasio, Parini, Goldoni, Alfieri, Monti, Foscolo, Carducci, De
Sanctis.
ALDO CAPITINI - Profilo
biografico: Aldo Capitini è nato a Perugia nel 1899, antifascista e
perseguitato, docente universitario, infaticabile promotore di iniziative per
la nonviolenza e la pace. È morto a Perugia nel 1968. È stato il più grande
pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo Capitini:
la miglior antologia degli scritti è (a cura di Giovanni Cacioppo e vari
collaboratori), Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977;
recentemente è stato ripubblicato il saggio Le tecniche della nonviolenza,
Linea d’ombra, Milano 1989; una raccolta di scritti autobiografici, Opposizione
e liberazione, Linea d’ombra, Milano 1991; e gli scritti sul Liberalsocialismo,
Edizioni e/o, Roma 1996. Presso la redazione di “Azione nonviolenta” sono
disponibili e possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di Capitini non
più reperibili in libreria (tra cui i fondamentali Elementi di un’esperienza
religiosa, 1937, e Il potere di tutti, 1969). Opere su Aldo
Capitini: oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il
messaggio di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda: Giacomo
Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Fabrizio Truini, Aldo
Capitini, ECP, S. Domenico di Fiesole 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia
del nuovo di Aldo Capitini. Tra religione ed etica laica, Clueb, Bologna
1991. È utile anche la lettura dei due libri seguenti: AA. VV., Marxismo e
nonviolenza, Lanterna, Genova 1977, e AA. VV., Nonviolenza e marxismo,
Libreria Feltrinelli, Milano 1981. Indirizzi utili: la rivista mensile
del Movimento Nonviolento è “Azione Nonviolenta”, via Spagna 8, 37123 Verona.
DANILO DOLCI - Profilo
biografico: Danilo Dolci è nato a Sesana (Trieste) nel 1924, arrestato a
Genova nel ‘43 dai nazifascisti riesce a fuggire; nel ‘50 partecipa
all’esperienza di Nomadelfia a Fossoli; dal ‘52 si trasferisce nella Sicilia
occidentale (Trappeto, Partinico) in cui promuove indimenticabili lotte
nonviolente contro la mafia e il sottosviluppo, per i diritti, il lavoro e la
dignità. Subisce persecuzioni e processi. Sociologo, educatore, è tra le figure
di massimo rilievo della nonviolenza nel mondo. È scomparso sul finire del
1997. Opere di Danilo Dolci: una antologia degli scritti di intervento e
di analisi è Esperienze e riflessioni, Laterza, Bari 1974; tra i libri
di poesia: Creatura di creature, Feltrinelli, Milano 1979; tra i libri
di riflessione più recenti: Dal trasmettere al comunicare, Sonda, Torino
1988; La struttura maieutica e l’evolverci, La Nuova Italia, Firenze
1966. Opere su Danilo Dolci: Giuseppe Fontanelli, Dolci, La Nuova
Italia, Firenze 1984; Antonino Mangano, Danilo Dolci educatore, ECP, S.
Domenico di Fiesole 1992. Indirizzi utili: Centro Studi e Iniziative,
largo Scalia 5, 90047 Partinico (PA).
MOHANDAS GANDHI - Profilo
biografico: è il fondatore della nonviolenza. Nato a Portbandar in India
nel 1869, studi legali a Londra, avvocato, nel 1893 in Sud Africa, qui divenne
il leader della lotta contro la discriminazione degli immigrati indiani
ed elaborò le tecniche della nonviolenza. Nel 1915 tornò in India e divenne uno
dei leader del Partito del Congresso che si batteva per la liberazione
dal colonialismo britannico. Guidò grandi lotte politiche e sociali affinando
sempre più la teoria-prassi nonviolenta e sviluppando precise proposte di
organizzazione economica e sociale in direzione solidale ed egualitaria. Fu
assassinato nel 1948. Sono tanti i meriti ed è tale la grandezza di quest’uomo
che una volta di più occorre ricordare che non va mitizzato, e che quindi non
vanno occultati limiti, contraddizioni, ed alcuni aspetti negativi -che pure vi
sono- della sua figura, della sua riflessione, della sua opera. Opere di
Gandhi: essendo Gandhi un organizzatore, un giornalista, un politico, un
avvocato, un uomo d’azione, oltre che una natura profondamente religiosa, i
suoi scritti devono sempre essere contestualizzati per non fraintenderli;
Gandhi considerava la sua riflessione in continuo sviluppo, e alla sua
autobiografia diede significativamente il titolo Storia dei miei esperimenti
con la verità. In italiano l’antologia migliore è Teoria e pratica della
nonviolenza, Einaudi; si vedano anche: Villaggio e autonomia, LEF;
l’autobiografia tradotta col titolo La mia vita per la libertà, Newton
Compton; Civiltà occidentale e rinascita dell’India, Movimento
Nonviolento; La cura della natura, LEF. Altri volumi sono stati
pubblicati da Comunità: la nota e discutibile raccolta di frammenti Antiche
come le montagne; da Sellerio: Tempio di verità; da Newton Compton: Il
mio credo, il mio pensiero, e La voce della verità. Altri volumi
ancora sono stati pubblicati dagli stessi e da altri editori. I materiali della
drammatica polemica tra Gandhi, Martin Buber e Judah L. Magnes sono stati
pubblicati sotto il titolo complessivo Devono gli ebrei farsi massacrare?,
in “Micromega” n. 2 del 1991. Opere su Gandhi: tra le biografie cfr. B.
R. Nanda, Gandhi il mahatma, Mondadori; e il recente accurato lavoro di
Judith M. Brown, Gandhi, Il Mulino. Tra gli studi cfr. Johan Galtung, Gandhi
oggi, Edizioni Gruppo Abele; Icilio Vecchiotti, Che cosa ha veramente
detto Gandhi, Ubaldini; ed i volumi di Gianni Sofri: Gandhi e Tolstoj,
Il Mulino (in collaborazione con Pier Cesare Bori); Gandhi in Italia, Il
Mulino; Gandhi e l’India, Giunti. Una importante testimonianza è quella
di Vinoba, Gandhi, la via del maestro, Paoline. Per la bibliografia cfr.
anche Gabriele Rossi (a cura di), Mahatma Gandhi; materiali esistenti nelle
biblioteche di Bologna, Comune di Bologna. Altri libri utili disponibili in
italiano sono quelli di Lanza del Vasto, William L. Shirer, Ignatius Jesudasan,
George Woodcock, Giorgio Borsa, Enrica Collotti Pischel, Louis Fischer.
Un’agile introduzione è quella di Ernesto Balducci, Gandhi, ECP.
GIULIO GIRARDI - Profilo
biografico: nato al Cairo nel 1926, filosofo e teologo della liberazione,
durante il Concilio partecipò alla stesura dello schema XIII; membro del
Tribunale permanente dei popoli, particolarmente impegnato nella solidarietà
con i popoli dell’America Latina. Opere di Giulio Girardi: presso la
Cittadella sono usciti: Marxismo e cristianesimo, Credenti e non
credenti per un mondo nuovo, Cristianesimo, liberazione umana, lotta di
classe, Educare: per quale società?, Il capitalismo contro la
speranza, Cristiani per il socialismo: perché?; presso Borla sono
usciti: Sandinismo, marxismo, cristianesimo: la confluenza, (a cura di) Le
rose non sono borghesi, La tunica lacerata, Fede cristiana e
materialismo storico, Dalla dipendenza alla pratica della libertà,
Il popolo prende la parola (con J. M. Vigil), La Conquista dell’America,
Gli esclusi costruiranno la nuova storia?, Cuba dopo il crollo del
comunismo; presso le Edizioni Associate: Rivoluzione popolare e
occupazione del tempio; presso le ECP: Il tempio condanna il vangelo.
Opere su Giulio Girardi: non conosciamo monografie in volume su Giulio
Girardi, ma la sua riflessione è da decenni un punto di riferimento nell’ambito
della teologia della liberazione e dei movimenti cristiani di base.
JEAN-MARIE MULLER - Profilo
biografico: è nato nel 1939 a Vesoul in Francia, docente, ricercatore, è
tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente,
oltre che attivo militante nonviolento e fondatore del MAN (Mouvement pour une
Alternative Non-violente). Opere di Jean-Marie Muller: Strategia
della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza,
Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento
Nonviolento, Torino 1980; Metodi e momenti dell’azione nonviolenta,
Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Simone Weil. L’esigenza della
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994. Opere su Jean-Marie
Muller: non conosciamo monografie italiane su Muller, ovviamente di lui si
parla nei libri concernenti la nonviolenza. Si veda inoltre il volume del MAN
(Mouvement pour une Alternative Non-violente), Una nonviolenza politica,
Movimento Nonviolento, Perugia 1977.
GIULIANO PONTARA - Profilo
biografico: nato a Cles (Trento) nel 1932, vive e lavora in Svezia dal
1953, docente di filosofia all’Università di Stoccolma, è impegnato nella peace
research e nei movimenti nonviolenti. Opere di Giuliano Pontara: Se
il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino, Bologna 1974; Il satyagraha,
Movimento Nonviolento, Perugia 1983; Filosofia pratica, Il Saggiatore,
Milano 1988; Antigone o Creonte. Etica e politica nell’era atomica,
Editori Riuniti, Roma 1990; Etica e generazioni future, Laterza,
Roma-Bari 1995; La personalità nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1996; Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1996; Breviario per un’etica quotidiana, Pratiche, Milano
1998. Ha curato (premettendovi un importante saggio introduttivo) l’antologia
di scritti di Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi,
Torino (nel 1996 ne è apparsa una nuova edizione in una collana economica). Opere
su Giuliano Pontara: non conosciamo monografie in volume su Pontara; si
vedano però i volumi che raccolgono gli atti di incontri e dibattiti cui anche
Pontara ha preso parte: AA. VV., Marxismo e nonviolenza, Lanterna,
Genova 1977; AA. VV., Nonviolenza e marxismo, Libreria Feltrinelli,
Varese 1981. Indirizzi utili: “Azione Nonviolenta”, via Spagna 8, 37123
Verona; Edizioni Gruppo Abele, via Giolitti 21, 20123 Torino; UNIP, Università
per la pace, via Tartarotti 9, 38068 Rovereto (TN), tel. 0464/424288, fax
0464/424299, e-mail: iupip@inf.unitn.it
GENE SHARP - Profilo
biografico: è nato nell’Ohio (USA) nel 1928. Ha insegnato in diverse
università e dirige istituti e programmi di ricerca per le alternative
nonviolente nei conflitti e nella difesa. Opere di Gene Sharp: Politica
dell’azione nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985-1997;
quest’opera in tre volumi è un testo di riferimento fondamentale per chiunque
operi in situazioni di conflitto e intenda adottare le tecniche della nonviolenza
o promuovere la teoria-prassi nonviolenta. Di Sharp in italiano è disponibile
anche Verso un’Europa inconquistabile, Edizioni Gruppo Abele, Torino
1989. Opere su Gene Sharp: non conosciamo monografie in volume; alla sua
opera principale fanno riferimento molti autori che si occupano di peace
research.
Viterbo, sabato 19 giugno 1999
Alcuni ambiti di impegno
politico in cui è necessaria la scelta della nonviolenza come unica
teoria-prassi coerente con i fini perseguiti
1. Tre premesse
1.1. Necessità della coerenza tra mezzi e fini
Sosteniamo la tesi che coloro
che si impegnano contro l’ingiustizia e l’oppressione, per i diritti e la
dignità umana, devono necessariamente scegliere delle forme di lotta (quindi
dei metodi, delle strategie, delle teorie-prassi) che siano limpide e
rigorosamente coerenti con gli obiettivi che si propongono.
1.2. La nonviolenza come unica forma di lotta ammissibile per chi vuole impegnarsi per la verità, la giustizia, la dignità umana
Per questo riteniamo che la
teoria-prassi della nonviolenza sia l’unica forma di lotta ammissibile per chi
vuole impegnarsi per la verità, la giustizia, la dignità umana; l’unica forma
di lotta (usiamo questa espressione, nonviolenza come “forma di lotta”, per
economia di discorso, mentre sarebbe più preciso parlare di quattro distinte ma
compresenti dimensioni della nonviolenza: a) una scelta etico-politica, b) un
insieme di tecniche, c) una strategia di lotta, d) un progetto politico e sociale)
che sia coerente con i fini propugnati sia dal punto di vista morale (per
quanto attiene, quindi, ai valori ed ai comportamenti), sia dal punto di vista
logico (per quanto riguarda il rigore intellettuale, la chiarezza di
ragionamento), sia dal punto di vista politico (con riferimento alla modalità
relazionale che si istituisce ed al modello di società che si prefigura,
all’esempio che si dà e quindi alla “pedagogia implicita” che ogni azione
pubblica comporta).
1.3. Il ripudio assoluto della menzogna, della violenza, dell’ambiguità
Viceversa, riteniamo che chi
vuole impegnarsi per la verità, la giustizia e la dignità umana, non possa fare
uso né della menzogna né della violenza, poiché sia l’una che l’altra
riproducono oppressione, negano dignità ad altri esseri umani, e sono quindi
incompatibili con i fini che si perseguono.
Riteniamo che su questo non si
possa essere ambigui: una menzogna è una menzogna, un crimine è un crimine, una
violenza è una violenza; esse vanno rifiutate, condannate e contrastate in
quanto tali.
Essere ambigui sulla menzogna
e sulla violenza significa farsene complici. Chi pensa che la menzogna e la
violenza possano essere strumenti di lotta politica ha già rinunciato a lottare
per la dignità umana hic et nunc.
2. Sette ambiti di impegno politico in cui è necessaria la scelta della nonviolenza
2.1. Pace
L’impegno di costruzione della
pace, ma già anche solo l’impegno di opposizione alla guerra, richieda la
scelta della nonviolenza. Poiché l’unica posizione che può energicamente e
senza ambiguità contrapporsi alla guerra è quella che la ripudia in senso
assoluto.
Se infatti si accetta
l’argomento che possa esservi una “violenza buona” o una “guerra giusta”, ne
consegue che la discussione si sposta dalla guerra alle ragioni di essa, e che
il giudizio sulla guerra muta a seconda delle ragioni che la motivano: in
questo modo si perde di vista la cosa fondamentale: che la guerra è
uccisione di esseri umani, e che all’uccisione di esseri umani bisogna
opporsi sempre.
Quindi opporsi alla guerra richiede la scelta di una posizione rigorosa di opposizione all’uccisione di esseri umani; richiede la scelta della nonviolenza.
A questo si aggiunga che la
costruzione della pace, che è cosa più ampia ed impegnativa della semplice opposizione
alla guerra, richiede altresì il ripudio di ogni oppressione e di ogni
violenza, quindi a maggior ragione richiede la scelta della nonviolenza come
unico metodo di lotta ammissibile.
2.2. Democrazia
Chi è impegnato per la
democrazia (intendendo con tale termine un modo di regolare la convivenza
civile che cerchi di ridurre al minimo le ingiustizie e le sofferenze, che
valorizzi la capacità di tutti di contribuire alla discussione ed alle
decisioni sulle cose che riguardano tutti, che sappia gestire i necessari
conflitti e correggere gli inevitabili errori, che insomma tenga insieme e
armonizzi le cosiddette “libertà negative” e le cosiddette “libertà positive”
in una logica di corresponsabilità e di condivisione), ebbene, chi è impegnato
per la democrazia deve ricordare quella massima secondo cui la democrazia è
l’arte di contare le teste invece di romperle: e quindi deve accettare di
usare tecniche di discussione e di presa delle decisioni che rispettino e
valorizzino le diversità, che rifiutino la manipolazione ma facciano leva sulla
consapevolezza, sulla conoscenza, sulla razionalità; deve rinunciare alla
pretesa di detenere una verità assoluta e di imporla con la forza; deve
accettare l’esistenza di diversi punti di vista e di situazioni conflittuali;
deve rifiutare la logica dell’annientamento dell’altro. Ne consegue che
l’impegno per la democrazia, per quanto difficile esso possa essere, e per
quante difficoltà essa democrazia possa comportare, richiede la scelta di una
condotta che nella sua forma più ampia e coerente è quella nonviolenta.
2.3. Diritti umani
Non dovrebbe essere necessario
spenderci molte parole: la difesa e la promozione dei diritti umani richiedono
a chi si impegna a tal fine di non violare a sua volta i diritti umani altrui.
È quindi evidente che l’impegno per i diritti umani è tale, ed è credibile,
solo se è svolto con metodi coerenti con il fine prefisso.
Purtroppo sovente la
violazione dei diritti umani da parte di qualcuno è presa a pretesto da parte
di qualcun altro per muovere guerra o comunque per fare azioni violente.
Ebbene, occorre essere chiari: un crimine non ne giustifica un altro. Una
violazione dei diritti umani non ne autorizza altre.
Fermo restando il diritto alla legittima difesa da parte di chi subisce aggressioni, chi vuole intervenire in solidarietà con la vittima ha il dovere di intervenire in modo nonviolento. L’ingerenza umanitaria è certo un dovere, ma deve essere appunto umanitaria e non disumana; deve esercitarsi in modo efficace e coerente, quindi non deve raddoppiare la violenza e la sofferenza. La difesa dei diritti umani può essere esercitata solo con la nonviolenza.
Non ci dovrebbe essere bisogno
di aggiungerlo, ma è bene essere chiari fino in fondo: dinanzi alla violenza,
dinanzi alla violazione dei diritti umani, si ha il dovere di agire, si deve
intervenire; essere indifferenti equivale ad essere complici degli oppressori.
La nonviolenza è il contrario della viltà: essa nega la complicità
all’oppressore ed interviene in aiuto della vittima, ma il suo intervento è
rigorosamente finalizzato a salvare la vittima ed a contrastare la violenza.
Dal punto di vista della nonviolenza, tanto la viltà di chi assiste inerte al
sopruso, quanto la violenza di chi aumenta la sofferenza invece di contrastarla
e ridurla, sono ambedue atteggiamenti inaccettabili (ed una analisi logica
rigorosa conferma questo giudizio, sia dal punto di vista dell’etica dei
princìpi che dal punto di vista dell’etica dei risultati).
Un giurista in riferimento
alla vicenda della guerra dei mesi scorsi ha visualizzato la situazione con la
seguente metafora: se vedo una persona che ne aggredisce un’altra ho certo il
dovere di intervenire per fermare l’aggressore ed aiutare la vittima, ma se il
mio intervento consiste nello scagliare una bomba che ambedue li uccide, questo
intervento fallisce l’obiettivo e provoca un danno superiore a quello che si
voleva impedire.
2.4. Liberazione
Nella tradizione dei movimenti
di liberazione degli oppressi spesso si è fatto uso della violenza: quasi tutte
le rivoluzioni storiche con cui gli oppressi si sono ribellati contro
situazioni di intollerabile oppressione sono state rivoluzioni violente.
Su quelle esperienze è
possibile e necessario dare un giudizio e trarre delle conseguenze, con
particolar riferimento agli effetti dell’uso della violenza. Spesso a
rivoluzioni liberatrici sono seguiti regimi oppressivi. Spesso l’affermazione
astratta di degnissimi ideali ha promosso o avallato concreti crimini, e
finanche orrori immani. Un atteggiamento ambiguo nei confronti della violenza
ha riprodotto violenza. Ed occorre invece affermare tutta la propria
solidarietà con gli oppressi in lotta per la dignità propria e di tutti;
occorre lottare contro l’oppressione; ma occorre essere consapevoli che, in
quanto è possibile una forma di lotta migliore, la lotta nonviolenta, è
necessario scegliere questa forma di lotta; ed occorre quindi opporsi alla
violenza.
Se anche nel breve periodo la
violenza può sembrare coerente con la lotta di liberazione, e se in circostanze
precisamente circoscritte essa può essere considerata una necessaria forma di
legittima difesa, nel lungo periodo essa è sempre deleteria, e mai può essere
il fondamento di una civile convivenza. Stando così le cose, chi lotta per la
liberazione deve scegliere la nonviolenza per ragioni tanto di fatto, quanto di
principio.
2.5. Dignità umana
L’uso della violenza è
compatibile con la dignità umana? In quanto l’uso della violenza consiste
nell’imporre coercitivamente la propria volontà ad altri, evidentemente no. In
quanto la violenza consiste nel sopprimere o anche solo nel far del male, nello
spaventare, nell’umiliare, nel ridurre alla sottomissione altri esseri umani,
evidentemente no.
Orbene, chi si impegna in
favore della dignità umana, affinché essa non sia calpestata, non può eludere
l’obbligo di usare forme di lotta coerenti con lo scopo che persegue. Ne
discende che un movimento o una persona che lotti per la dignità umana deve
attenersi rigorosamente alla nonviolenza come unica forma di lotta compatibile
con il fine della dignità umana.
2.6. Biosfera
È ormai sempre più diffusa la
consapevolezza che le risorse sono limitate e quindi possono esaurirsi, che
l’ambiente naturale è minacciato di distruzione, che la biosfera (la sottile
pellicola del pianeta in cui è possibile la vita, e quindi anche la vita umana)
sta subendo una progressiva contaminazione, devastazione, riduzione, in un
processo che porta all’annichilimento. Da questa consapevolezza discende la
necessità di un impegno per la difesa della biosfera come necessità
fondamentale perché vi sia vita e quindi anche civiltà umana. Ed a tale impegno
molti movimenti e molte persone sono dediti, ed occorrerà riuscire ad ottenere
che l’interesse comune dell’umanità intera ad un modo vivibile divenga
principio ispiratore delle scelte politiche ed economiche su scala planetaria.
Chi si impegna per la difesa
della biosfera ovviamente deve assumere condotte coerenti: deve opporsi alla
devastazione e allo spreco, e deve operare scelte di giustizia, anche nella
propria quotidiana condotta. Questo implica far proprio e praticare un punto di
vista radicalmente alternativo rispetto a quello dominante: il punto di vista
di una vita sobria e solidale, punto di vista che trova pieno sviluppo nella
scelta della nonviolenza come principio etico-politico, come progetto politico
e sociale, come antropologia e weltanschauung.
2.7. Generazioni future
Porsi il problema dei diritti
delle generazioni future impone di farsi carico dei diritti di esseri umani che
oggi non sono presenti al mondo, e che esisteranno in un mondo nel quale noi
avremo cessato di esistere.
È evidente che si tratta di
una questione di notevole complessità (su cui cfr. il bel libro di Giuliano
Pontara, Etica e generazioni future, Laterza, Roma-Bari), ma alcune
implicazioni basilari sono evidenti: in primo luogo che nel prendere decisioni
che possono avere un impatto rilevante sul futuro occorre scegliere secondo il
“principio responsabilità”; ad esempio nel prendere decisioni che avranno
effetti a lungo termine o che non siamo in grado di prevedere adeguatamente,
occorre usare quel criterio che Hans Jonas ha definito con la formula “si deve
prestare più ascolto alla profezia di sventura che non a quella di salvezza”:
ovvero, tener conto dell’esito peggiore tra quelli che l’azione può provocare,
ed in base a quel peggior esito possibile decidere se fare o non fare una
azione; detto in altri termini, in dubio contra projectum: ovvero, se vi
è anche una minima possibilità che la nostra scelta odierna possa produrre
effetti negativi, occorre rinunciare a quella scelta ed assumerne un’altra che
garantisca, per quanto è nella nostra capacità di previsione, di non provocare
danni, ed al limite meglio è non fare che fare.
Come è evidente, si tratta di
uno schema di analisi e di un modus operandi tipicamente nonviolento.
3. Quattro argomenti per la scelta della nonviolenza
3.1. La comunicazione
Tutto il nostro agire è sempre
anche comunicazione, quindi nell’analizzare ogni nostra azione dobbiamo sempre
tenere conto della relazione che si istituisce e del messaggio che si
trasmette. Da questo punto di vista è evidente che la menzogna è sempre
inammissibile, poiché il suo scopo è appunto far fallire la comunicazione,
ovvero essa lede radicalmente il fine primario dell’attività comunicativa, nega
dignità umana all’interlocutore, mira ad umiliarlo e defraudarlo. Ed è evidente
che anche la violenza è sempre inammissibile, essendo essa una forma di
comunicazione che instaura una relazione in cui al soggetto ricevente viene
negata piena dignità.
Come si vede, dal punto di
vista della teoria della comunicazione (e dell’interpretazione) la nonviolenza
(che implica altresì la non-menzogna) è una scelta necessaria.
3.2. L’educazione e l’esempio
Ogni azione politica è sempre
anche azione educativa: essa interpella sempre le coscienze altrui e le convoca
ad un giudizio e ad un agire. Un’azione politica violenta (quale che sia la sua
finalità dichiarata) educa sempre e necessariamente alla violenza, propaganda
la violenza, propaga la violenza.
Quindi in quanto ogni azione
politica è educativa, è necessario che essa sia sempre rigorosamente
nonviolenta, se non vuole risolversi di fatto in una promozione di oppressione
e negazione di umana dignità.
A questo si aggiunga che la
prima e decisiva forma di educazione, da cui tutte le altre discendono, è
l’esempio. L’esempio è la cosa che conta di più in assoluto in ogni tipo di
interazione educativa, e poiché abbiamo rilevato che ogni forma di agire
politico è anche un’interazione educativa, ne consegue che la cosa che più
conta in ogni azione politica è l’esempio che essa offre.
Non c’è bisogno di aggiungere
quanto deleterio sia l’esempio della menzogna, della violenza, della negazione
dell’altrui dignità. Ci limitiamo a concludere che solo l’azione nonviolenta
costituisce intrinsecamente, e quindi fornisce sempre, un esempio di lotta per
la dignità umana limpido e persuasivo.
3.3. L’etica della responsabilità
Nell’analizzare un’azione per
stabilire se essa sia buona o cattiva, e quindi se sia giusto o errato
eseguirla, è possibile utilizzare diversi criteri di valutazione;
schematizzando utilizzeremo qui la classica bipartizione della riflessione
morale in “etiche dei princìpi” ed “etiche dei risultati”.
Le etiche dei princìpi sono
quelle che valutano l’azione sulla base dei princìpi che la motivano: questo
criterio ha alcuni aspetti vantaggiosi, ma può avere conseguenze terribili:
infatti viene sintetizzato con il motto latino Fiat justitia, pereat mundus:
che potremmo tradurre all’incirca così: “sia fatta la giustizia, e vada pure in
malora in mondo”. È evidente che se si manda in malora il mondo non si è fatta
la giustizia ma una catastrofe. Quindi le etiche dei princìpi in quanto tali
non sono sufficienti a garantire l’azione giusta.
Le etiche dei risultati sono
quelle che valutano l’azione sulla base dei risultati che essa ottiene: anche
questo criterio ha alcuni aspetti vantaggiosi, ma anch’esso può avere
conseguenze terribili: infatti viene sintetizzato nel motto “Il fine giustifica
i mezzi”, e noi sappiamo che invece non solo il fine non giustifica i mezzi, ma
che i mezzi pregiudicano il fine. Sulla base dell’etica dei risultati si sono
commessi non meno orrori che sulla base dell’etica dei princìpi.
È quindi evidente che anche le
più illustri teorie morali non sono sufficienti a garantire una guida sicura
per l’azione giusta; e la discussione contemporanea in materia di etiche
pubbliche è particolarmente accesa, articolata e complessa; anche sintesi
recenti - come Una teoria della giustizia (edito da Feltrinelli, Milano)
di John Rawls, per fare solo un esempio molto noto - evidenziano la necessità
di un atteggiamento assai cauto ed implicano nuovi problemi e contraddizioni.
In questo quadro si tratterà
allora di attenersi a pochi semplici criteri che, senza la pretesa di risolvere
tutti i problemi, ci aiutino almeno a non commettere dei crimini nella nostra
azione pubblica.
In primo luogo si tratta di
riconoscere a tutti gli esseri umani gli stessi diritti fondamentali; in
secondo luogo si tratta di riconoscere il diritto alla diversità; in terzo
luogo si tratta di rinunciare a quelle azioni che possono avere effetti
distruttivi; in quarto luogo si tratta di fare solo quelle azioni che si
oppongono alla violenza, che riducono la violenza, che non riproducono la
violenza; in quinto luogo si tratta di avere sempre una visione globale dei
problemi ed un approccio dinamico e contestuale; in sesto luogo si tratta di
avere sempre presente la possibilità di sbagliarci, ovvero usare la
consapevolezza della nostra fallibilità come un fondamentale strumento
euristico e di autocontrollo: questo implica un atteggiamento aperto, non
dogmatico, sperimentale ed autocritico.
Se dovessimo usare una formula
sintetica, chiameremmo questo insieme di criteri una “etica della
responsabilità”; e preciseremmo questa formula (variamente usata da autori
diversi con assai diversi significati e conseguenze) facendo soprattutto
riferimento alle elaborazioni filosofiche di Hans Jonas (l’autore del libro
intitolato appunto Il principio responsabilità, Einaudi, Torino) e di
Emmanuel Lévinas; a cui aggiungeremmo almeno le riflessioni di Virginia Woolf
(in particolare Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano) e Günther Anders; e
le riflessioni e la testimonianza grandissime di Primo Levi (soprattutto I
sommersi e i salvati, ma si leggano tutte le Opere in due volumi
presso Einaudi, Torino).
3.4. La proposta leopardiana
Abbiamo sempre pensato che La
ginestra, l’ultima grande poesia di Giacomo Leopardi, sia anche uno
straordinario manifesto politico. E la proposta politica che Leopardi formula
nella Ginestra la sintetizziamo così: proprio perché l’uomo, ogni uomo,
è un essere intrinsecamente esposto per sua costituzione biologica al dolore,
alla malattia, al decadimento, alla morte, è assurdo che a queste forme di
dolore se ne aggiungano altre frutto dell’oppressione storica che uomini
esercitano su altri uomini. Proprio perché l’uomo, ogni uomo, è una creatura
infelice, occorre che viga tra gli uomini solidarietà. Proprio perché ognuno è
radicalmente infelice, occorre che tutti gli uomini facciano causa comune e si
stringano in un’azione solidale di aiuto reciproco.
4. Una postilla bibliografica integrativa
a) sulla
nonviolenza: per avere un quadro sintetico della sua complessità e
problematicità cfr. l’ottima antologia di scritti di Mohandas Gandhi, Teoria
e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino; una monografia sistematica è
quella di Gene Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, Edizioni Gruppo
Abele, Torino. Una bibliografia di base è nel nostro opuscolo Guida pratica
all’azione diretta nonviolenta delle mongolfiere per la pace.
b) sulla
pace: naturalmente Ernesto Balducci, Lodovico Grassi (a cura di), La pace.
Realismo di un’utopia, Principato, Milano.
c) sulla
democrazia: cfr. gli eccellenti studi di Norberto Bobbio, ed i lavori classici
di Hans Kelsen e di Giovanni Sartori.
d) sui
diritti umani: Daniele Archibugi, David Beetham, Diritti umani e democrazia
cosmopolitica, Feltrinelli, Milano; i rapporti annuali di Amnesty
International; la bella bibliografia ragionata a cura di Matteo Soccio su
“Azione nonviolenta” n. 12 del dicembre 1998, fascicolo monografico sui diritti
umani.
e) sull’ambiente,
i consumi, le scelte di giustizia: cfr. i rapporti annuali del Worldwatch
Institute, e le ottime pubblicazioni del Centro Nuovo Modello di Sviluppo (in
sigla: CNMS) di Vecchiano (PI).
f) sul
principio responsabilità: ovviamente cfr. Jonas e Lévinas (per un primo
orientamento bibliografico cfr. le schede relative nel nostro lavoro Uomini
di pace); un libro interessante sulla riflessione morale contemporanea è
quello di AA. VV., Etiche della mondialità, Cittadella, Assisi.
g) Tutte
le opere di Leopardi sono state ripubblicate in edizione ultraeconomica in due
spessi volumi della Newton Compton. Su Leopardi si legga almeno La nuova
poetica leopardiana e La protesta di Leopardi di Walter Binni, editi
da Sansoni. Segnaliamo anche lo stupendo saggio di Franco Fortini, Una voce:
comunismo, nell’edizione in opuscolo da noi curata.
Viterbo, domenica 20 giugno
1999
Quattro cose da fare per il
movimento pacifista, oggi
1. Non dimenticare le vittime
-
aiutare tutte le persone ancora in vita;
-
rendere nuovamente vivibile e convivibile l’area
devastata dalla guerra;
-
non mettere tra parentesi ciò che è accaduto;
-
impedire che accada di nuovo.
2. Ottenere che siano
processati e condannati i responsabili della guerra
-
ripristinare la legalità nelle relazioni internazionali;
-
per quanto riguarda l’Italia ripristinare anche la
legalità costituzionale ed ottenere la condanna di coloro che l’hanno violata;
-
far prevalere il diritto sul terrorismo, la civiltà sulla
barbarie.
3. Lavorare per il disarmo
-
smantellamento dell’industria bellica e riconversione
degli impianti a produzioni civili;
-
lotta contro il traffico di armi sia legale che illegale;
-
lotta contro i poteri criminali;
-
opposizione al militarismo e drastica e progressiva
riduzione delle spese militari;
-
promozione della Difesa Popolare Nonviolenta e
progressiva smilitarizzazione della politica della difesa;
-
denuncia della incostituzionalità del cosiddetto “nuovo
modello di difesa” e richiesta che il Parlamento faccia valere le sue
prerogative di organo legislativo in materia, per contrastare efficacemente la
palese deriva antidemocratica ed incostituzionale dell’apparato militare
italiano e delle logiche cui esso oggi ispira la sua azione;
-
una campagna nonviolenta internazionale per l’abolizione
della Nato.
4. Scegliere la nonviolenza
-
promuovere la conoscenza, lo studio, la discussione e
l’uso delle tecniche e dei valori della nonviolenza;
-
scegliere la nonviolenza come elemento identitario,
fondamento etico-politico ed asse strategico dell’impegno per la pace, la
democrazia, i diritti umani.
Viterbo, lunedì 21 giugno 1999
Premessa: necessità di una scelta, la nonviolenza
Crediamo che il movimento per
la pace, se vuol essere non solo un soggetto sociale che si oppone alla guerra
quando essa si scatena, ma anche un soggetto politico e culturale che
costruisce la pace con azione politica coerente, concreta e incessante, debba
necessariamente fare la scelta della nonviolenza, ovvero di aprire e ispirare
la propria riflessione e la propria iniziativa alla teoria-prassi della
nonviolenza, teoria-prassi che nella storia del dibattito morale e dell’azione
politico-sociale del nostro secolo è uno dei maggiori contributi all’impegno di
liberazione umana, di affermazione della dignità umana.
Crediamo che sia necessario
che si esca dagli equivoci, dalle confusioni, dalle immagini stereotipate e
caricaturali della nonviolenza; crediamo che sia necessario che il movimento
per la pace cessi di essere subalterno anche in questo ambito. Che si disponga
a conoscere la nonviolenza per quello che essa è, e la smetta di subire la
definizione mistificata e farsesca che della nonviolenza danno i signori della
guerra e coloro che, consapevolmente o meno, cercano di scimmiottarli.
1. Parte prima: alcune ipotesi di definizione
Proponiamo qui, ancora una
volta, alcune ipotesi di definizione affinché di esse si possa discutere con
rigore concettuale, morale e politico.
1.1. La nonviolenza non è un’ideologia di ricambio
Intendiamo dire che la
nonviolenza non è una ideologia da sostituire ad altre ideologie. Al contrario:
ciascuna delle persone che si sentono impegnate per la pace, la giustizia
sociale, la dignità umana, mantenga ed approfondisca le sue opinioni politiche,
o filosofiche, o religiose, o morali. La nonviolenza, per dirla con Capitini, è
una “aggiunta”, una proposta di approfondimento, di rigorizzazione
intellettuale e morale, di rendere più coerente dal punto di vista logico e
morale la propria riflessione e la propria azione. Si può essere liberali e
nonviolenti, socialdemocratici e nonviolenti, comunisti e nonviolenti;
razionalisti e nonviolenti, idealisti e nonviolenti, materialisti e
nonviolenti; cristiani e nonviolenti, musulmani e nonviolenti, buddhisti e
nonviolenti; atei e nonviolenti; utilitaristi e nonviolenti, contrattualisti e
nonviolenti; e così via: tutte le opzioni etiche, filosofiche, politiche e
religiose, che siano sinceramente ed autenticamente ispirate alla dignità umana
e alla promozione dei diritti umani, sono pienamente compatibili con la
teoria-prassi della nonviolenza. La nonviolenza non è una proposta ideologica
concorrenziale, bensì una proposta teorico-pratica di analisi critica e di
azione concreta che può sposarsi con varie tradizioni culturali e che rispetta
e valorizza le diversità. La nonviolenza non chiede abiure, ma approfondimento.
1.2. La nonviolenza è uno sforzo di illimpidimento nel nostro ragionare
Intendiamo dire che la
nonviolenza ci chiede non una fede, ma un impegno critico; la nonviolenza è
l’impegno ad essere rigorosi nel nostro ragionamento, a prefiggerci la coerenza
logica ed operativa tra ciò che vogliamo e ciò che facciamo, tra ciò che
pensiamo e ciò e che diciamo, tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. La
nonviolenza è un appello alla ragione. Ed in quanto appello alla ragione è un
appello al riconoscimento della nostra ragione che implica il riconoscimento
della ragione altrui, e delle ragioni altrui. La scelta della nonviolenza è la
scelta di sottoporre ad un’analisi critica rigorosa le nostre opinioni, le
nostre ragioni, le nostre scelte, le nostre azioni, la nostra situazione, le
nostre relazioni con gli altri. Quando diciamo illimpidimento intendiamo dire
che questo appello al rigore logico è anche un appello al rigore morale: fare
luce sui nostri ragionamenti, sui nostri fini e sui nostri mezzi, sulle nostre
motivazioni e sulle nostre conclusioni, implica anche sottoporre il nostro
sapere, il nostro giudizio e il nostro agire ad un esame rigoroso e non
fazioso: è un esercizio a metterci in discussione ed a sottoporci a un
giudizio; è un esercizio utile per accorgerci dei nostri errori, dei nostri
limiti, della complessità dei problemi, del groviglio delle motivazioni, della
difficoltà di stabilire quale sia l’azione giusta. E per fare qualche esempio:
è logicamente sostenibile lottare contro la guerra senza lottare contro la
violenza? È logicamente sostenibile affermare la dignità umana se non la si
rispetta nel rapporto concreto con le persone che abbiamo intorno o di fronte?
È logicamente sostenibile lottare per l’uguaglianza ed usare o avallare metodi
che implicano gerarchia, privilegi, oppressione? La nonviolenza ci convoca ad
essere onesti con noi stessi. Ha scritto una volta Tolstoj una riflessione che
suona all’incirca così: “Non crederò mai alla buona fede rivoluzionaria di chi
si fa vuotare il vaso da notte da qualcun altro”. La nonviolenza è quella
teoria-prassi che ci chiede di essere limpidi nei nostri ragionamenti.
1.3. La nonviolenza è una proposta di instaurare la coerenza tra ciò che diciamo si debba fare e ciò che concretamente facciamo
Siamo credibili quando diciamo
di contrapporci all’ingiustizia, se poi nel nostro agire riproduciamo
ingiustizia? I nostri proclami di solidarietà, di uguaglianza, di liberazione,
sono credibili se la nostra condotta stessa li smentisce? La nostra lotta per
la pace, la democrazia, la giustizia, i diritti umani, la liberazione dei
popoli e delle persone, la salvaguardia dell’ambiente, può essere efficace se
non permea la nostra concreta azione nella vita quotidiana, se non informa la
nostra azione politica anche ai livelli del dibattito, dell’organizzazione, del
concreto immediato suo svolgersi? La nonviolenza ci invita a vivere come
vorremmo vivere; ci invita ad agire come crediamo che sia giusto agire. Ci
chiede di contrastare l’ingiustizia cominciando da noi stessi, rompendo la
nostra complicità con l’ingiustizia. Chiediamo anche agli altri di fare
qualcosa contro l’ingiustizia e la violenza, ma solo dopo aver cominciato noi
stessi.
1.4. La nonviolenza è la scoperta dell’altro nel suo esserci e nel suo essere irriducibile a noi, nel suo essere e restare diverso, nel suo diritto di essere altro
Dovrebbe essere ormai chiaro
per tutti che l’uguaglianza tra gli esseri umani si fonda sulla loro diversità,
e che lottare per l’uguaglianza implica lottare per il rispetto delle diversità:
si riconosce piena uguaglianza ad ogni essere umano solo quando si riconosce ad
ogni essere umano la sua unicità, la sua irriducibile diversità da ogni altro.
Questo implica assumere i diritti umani come base di ogni azione per la
giustizia sociale; questo implica la consapevolezza che per promuovere
l’uguaglianza occorre offrire ad ognuno ciò di cui lui, proprio lui, ha
bisogno. La convivenza e la solidarietà si fondono reciprocamente: i diritti e
l’uguaglianza non esistono in astratto, esistono nella concreta azione solidale
che rispetta ed aiuta, che riconosce e sostiene; vi è una dialettica tra
uguaglianza e diversità, se uno dei due termini è negato anche l’altro si
impoverisce e si trasforma nella caricatura di se stesso (o peggio ancora,
diventa occasione di rinnovata oppressione).
1.5. La nonviolenza è la scelta di praticare qui e adesso ciò per cui diciamo di batterci, di prefigurare qui e adesso il modello di relazioni sociali e di società che riteniamo meriti di essere costruito
Chi si sente impegnato per la
pace, la democrazia, la giustizia sociale, la dignità umana, la difesa della
biosfera, deve agire in modo da realizzare questi valori nella sua stessa
azione. Deve quindi rinunciare, per una necessità di carattere logico, ovvero
per una esigenza di rigore intellettuale (e quindi altresì morale, e quindi
politico), ad usare la violenza (incompatibile con la scelta della pace), ad
agire in modo autoritario o subdolo (incompatibile con la democrazia), a
perseguire privilegi (incompatibili con la giustizia sociale), ad opprimere,
sfruttare o umiliare altri (incompatibilità con il rispetto della dignità di
ogni essere umano), a danneggiare, contaminare, distruggere l’ambiente, ed a
sottrarre, sperperare, esaurire risorse (incompatibilità con la difesa della
biosfera e con i diritti delle generazioni future).
1.6. Una proposta di sintesi nella “carta” del Movimento Nonviolento
Riproduciamo qui di seguito
ancora una volta la “carta” del movimento nonviolento fondato da Aldo Capitini,
un documento che ci sembra contenga una utile sintesi di alcuni elementi
caratterizzanti la scelta della nonviolenza.
“Il movimento nonviolento
lavora per l’esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore
della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il
superamento dell’apparato di potere che trae alimento dallo spirito di
violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una
comunità mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in
armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d’azione del movimento
nonviolento sono: 1. l’opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo
sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l’oppressione politica ed ogni
forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni
legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3.
lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la
creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile
gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la
salvaguardia dei valori di cultura e dell’ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione
sono un’altra delle forme di violenza dell’uomo. Il movimento opera con il solo
metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell’uccisione e della lesione
fisica, dell’odio e della menzogna, dell’impedimento del dialogo e della
libertà di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta
nonviolenta sono: l’esempio, l’educazione, la persuasione, la propaganda, la
protesta, lo sciopero, la non-collaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza
civile, la formazione di organi di governo paralleli”.
2. Parte seconda: quattro princìpi caratterizzanti della nonviolenza
In sintesi, caratterizzeremmo
la scelta teorico-pratica della nonviolenza secondo i seguenti quattro
principi.
2.1. Il principio della ragione
La nonviolenza è la scelta, nel
nostro agire politico e sociale, della ragione come criterio fondativo del
nostro giudicare e del nostro operare; scegliere la ragione implica anche
riconoscere la ragione degli altri, e quindi la democrazia come metodo
deliberativo, il rispetto e la promozione dei diritti umani come fondamento
della civile convivenza.
2.2. Il principio della lotta
La nonviolenza è la scelta,
nel nostro agire politico e sociale, della lotta come dovere morale di rottura
della complicità con la menzogna e l’ingiustizia; scegliere la lotta significa
assumere un ruolo attivo e responsabile, passare dalla mera scelta
intellettuale all’azione pratica, quindi dal piano conoscitivo al piano morale
e politico.
2.3. Il principio della responsabilità
La nonviolenza è la scelta,
nel nostro agire politico e sociale, della responsabilità, nel duplice senso:
di rispondere all’appello dell’altro, senza pretendere di assimilarlo o
annullarlo; di essere responsabili nei confronti degli altri e del mondo. Ha
scritto don Milani nella sua indimenticabile Lettera ai giudici: “Un
delitto come quello di Hiroshima ha richiesto qualche migliaio di
corresponsabili diretti: politici, scienziati, tecnici, operai, aviatori.
Ognuno di essi ha tacitato la propria coscienza fingendo a se stesso che quella
cifra andasse a denominatore. Un rimorso ridotto a millesimi non toglie il
sonno all’uomo d’oggi. E così siamo giunti a quest’assurdo che l’uomo delle
caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva. L’aviere
dell’era atomica riempie il serbatoio dell’apparecchio che poco dopo
disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente. A dar retta ai teorici
dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di
ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque
quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C’è un modo solo per
uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani
che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma
la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né
davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico
responsabile di tutto”.
2.4. Il principio della comunicazione
La nonviolenza è la scelta,
nel nostro agire politico e sociale, della comunicazione come riconoscimento
della comune umanità anche con le persone con cui siamo in contrasto. La lotta
nonviolenta si fonda sulla comunicazione, la comunicazione è riconoscimento di
umanità, appello all’umanità, prova di umanità. La nonviolenza è quindi lotta
come amore; la nonviolenza è primato della comunicazione, costruzione di ponti
anche nel cuore del conflitto; in quanto lotta contro l’ingiustizia, nel suo
stesso lottare la nonviolenza costruisce giustizia. Senza comunicazione non è
possibile lotta nonviolenta.
3. Parte terza: per completezza di ragionamento
Proponiamo qui, in forma assai
schematica, alcune riflessioni ulteriori con l’intento di argomentare
innanzitutto contro la violenza, in secondo luogo in favore della nonviolenza,
infine conclusivamente perorando tale scelta da parte del movimento per la
pace.
3.1. Per la critica radicale della violenza
Riproduciamo qui un paragrafo
(“Contro la violenza: sette argomenti più uno”), ripreso da un nostro
precedente lavoro. Elenchiamo alcune ragioni essenziali per cui occorre
essere rigidamente contro la violenza. Citiamo da Giuliano Pontara, voce Nonviolenza,
in AA.VV., Dizionario di politica, Tea, Torino 1992:
1. il
primo argomento “mette in risalto il processo di escalation storica
della violenza. Secondo questo argomento, l’uso della violenza [...] ha sempre
portato a nuove e più vaste forme di violenza in una spirale che ha condotto
alle due ultime guerre mondiali e che rischia oggi di finire nella distruzione
dell’intero genere umano”;
2. il
secondo argomento “mette in risalto le tendenze disumanizzanti e brutalizzanti
connesse con la violenza” per cui chi ne fa uso diventa progressivamente sempre
più insensibile alle sofferenze ed al sacrificio di vite che provoca;
3. il
terzo argomento “concerne il depauperamento del fine cui l’impiego di essa può
condurre [...]. I mezzi violenti corrompono il fine, anche quello più buono”;
4. il
quarto argomento “sottolinea come la violenza organizzata favorisca l’emergere
e l’insediamento in posti sempre più importanti della società, di individui e
gruppi autoritari [...]. L’impiego della violenza organizzata conduce prima o
poi sempre al militarismo”;
5. il
quinto argomento “mette in evidenza il processo per cui le istituzioni
necessariamente chiuse, gerarchiche, autoritarie, connesse con l’uso
organizzato della violenza, tendono a diventare componenti stabili e integrali
del movimento o della società che ricorre ad essa [...]. “La scienza della
guerra porta alla dittatura” (Gandhi)”. A questi argomenti da parte nostra ne
vorremmo aggiungere altri due:
6. un
argomento, per così dire, di tipo epistemologico: siamo contro la violenza
perché siamo fallibili, possiamo sbagliarci nei nostri giudizi e nelle nostre decisioni,
e quindi è preferibile non esercitare violenza per imporre fini che potremmo
successivamente scoprire essere sbagliati;
7. soprattutto
siamo contro la violenza perché il male fatto è irreversibile (al riguardo
Primo Levi ha scritto pagine indimenticabili soprattutto nel suo ultimo libro I
sommersi e i salvati). Agli argomenti contro la violenza Pontara aggiunge
opportunamente un ultimo decisivo ragionamento: “I fautori della dottrina
nonviolenta sono coscienti che ogni condanna della violenza come strumento di
lotta politica rischia di diventare un esercizio di sterile moralismo se non è
accompagnata da una seria proposta di istituzioni e mezzi di lotta alternativi.
Di qui la loro proposta dell’alternativa satyagraha o della lotta
nonviolenta positiva, in base alla duplice tesi a) della sua
praticabilità anche a livello di massa e in situazioni conflittuali acute, e b)
della sua efficacia come strumento di lotta” per la realizzazione di una
società fondata sulla dignità della persona, il benessere di tutti, la
salvaguardia dell’ambiente.
3.2. Motivi tattici, strategici, teorici ed esistenziali della scelta della nonviolenza
La lotta nonviolenta umanizza
il conflitto; la lotta nonviolenta riduce ipso facto la violenza
(rispetto ad altre forme di lotta contro l’oppressione essa non raddoppia la
violenza, ma se non altro la dimezza); la lotta nonviolenta è appello alla
ragione; è esempio educativo; essa mobilita tutti, può essere praticata da
tutti, è “il potere di tutti”; la lotta nonviolenta è limpida e coerente nei
suoi fini e nei suoi mezzi; la lotta nonviolenta non abbrutisce chi la pratica;
la lotta nonviolenta comunque riduce le sofferenze e migliora il mondo; la
lotta nonviolenta è un’alternativa necessaria.
3.3. Una conclusione necessitata
Quel che precede può valere
per tutti i movimenti sociali impegnati per la dignità umana, per la giustizia,
per la liberazione; a maggior ragione deve valere specificamente per il
movimento per la pace.
4. Un’appendice: per approfondire
Il testo che precede non
costituisce certo una descrizione adeguata della nonviolenza, non avevamo
questo intento; lo scopo di questo scritto è semplicemente di motivare alla
conoscenza della nonviolenza. Allo scopo di una prima conoscenza,
sufficientemente orientativa, formuliamo di seguito alcune proposte di lettura.
4.1. Una guida pratica
Rinviamo in primo luogo, e ci
si perdoni l’ineleganza, alla nostra Guida pratica all’azione diretta
nonviolenta delle mongolfiere per la pace, Viterbo 1999 (testo che mettiamo
gratuitamente a disposizione di chiunque ne faccia richiesta).
4.2. Alcuni testi classici
In secondo luogo segnaliamo
alcuni testi classici della nonviolenza come a) Mohandas Gandhi, Teoria e
pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino (la miglior antologia gandhiana
disponibile in italiano); b) Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita,
Manduria (la miglior antologia di scritti capitiniani); c) don Lorenzo Milani, L’obbedienza
non è più una virtù, disponibile in varie edizioni: da quella fondamentale
della LEF, Firenze; ma ve ne sono anche del Movimento Nonviolento, Perugia; e
di Stampa Alternativa, Viterbo; d) Alberto L’Abate (a cura di), Addestramento
alla nonviolenza, Satyagraha, Torino; e) Gene Sharp, Politica
dell’azione nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino.
4.3. Una serie di schede biobibliografiche
In terzo luogo rinviamo
altresì alla nostra serie di schede biobibliografiche Uomini di pace,
Viterbo 1997-1999 (anche questo testo mettiamo gratuitamente a disposizione di
chiunque ne faccia richiesta); tra gli autori su cui vorremmo particolarmente
richiamare l’attenzione segnaliamo Günther Anders, Hans Jonas, Primo Levi,
Emmanuel Lévinas, Marcos, Vandana Shiva, Simone Weil, Virginia Woolf.
4.4. Una rivista
In quarto luogo, e
conclusivamente, rinviamo alla rivista mensile fondata da Aldo Capitini,
“Azione nonviolenta”, via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 045/8009803, fax
045/8009212; e-mail: azionenonviolenta@sis.it
Viterbo, domenica 4 luglio
1999
Uno dei compiti principali di
un movimento per la pace deve essere il disarmo. Per questo obiettivo occorre
lavorare, ed occorre darsi obiettivi verificabili ed ottenere risultati
concreti. Qui proponiamo alcuni obiettivi.
1. Ottenere
una cospicua riduzione delle spese militari nel bilancio dello stato italiano;
2. Iniziare
una campagna di massa, di informazione, sensibilizzazione, denuncia e lotta con
azioni dirette nonviolente contro la produzione di armi e per la riconversione
ad usi civili dell’industria armiera;
3. Organizzare
una campagna internazionale contro il traffico d’armi, sia quello legale che
quello illegale, e particolarmente sia contro le complicità istituzionali ed
imprenditoriali con tale mercato della morte, sia contro i poteri criminali che
ne sono i grandi gestori e beneficiari;
4. Sottrarre
la politica della difesa all’apparato militare, facendo della difesa popolare
nonviolenta (valorizzando il suo riconoscimento legislativo nella legge 230/98)
una grande occasione per promuovere una campagna che coinvolga anche gli enti
locali per democratizzare la politica della difesa;
5. Contrastare
il cosiddetto “nuovo modello di difesa” denunciandone l’incostituzionalità ed
impegnando il Parlamento a legiferare in materia nel rispetto della legalità
costituzionale;
6. Promuovere
una campagna internazionale nonviolenza per l’abolizione della Nato.
Su questi obiettivi non è utile costruire nuove strutture che poi vivacchino di proclami ininfluenti o di schermaglie intestine per la rivendicazione della paternità di questa o quella iniziativa e proposta (o peggio: rosicchino appalti e consulenze, o accaparrino qualche finanziamento o funzionariato o collocazione accademica), né inventare nuove sigle sempre più pletoriche e roboanti; si tratta invece di costruire campagne politiche di massa, democratiche, nonviolente, limpide, educative; senza secondi fini, senza ambiguità e confusioni, senza carriere o baratti. Campagne che abbiano obiettivi precisi, tempi certi, modalità rigorose.
Ovviamente un impegno concreto
per il disarmo su obiettivi verificabili e puntando a risultati sia pur
limitati ma concreti, pone altresì rilevanti questioni: politiche, strategiche,
concettuali. Ad esempio in materia di relazioni internazionali e di diritto
internazionale (ed al riguardo ci pare che l’elaborazione del professor
Papisca, tra altri, fornisca alcuni strumenti di riflessione e discussione
assai interessanti); ma anche in materia di scelte etico-politiche sia
personali che collettive: la solidarietà internazionale ed una sua pratica
concreta e coerente; la scelta del punto di vista degli oppressi come criterio
epistemologico; la scelta assiologica e metodologica della nonviolenza;
l’impegno per la legalità e la lotta contro i poteri criminali come grande
priorità planetaria nell’epoca della globalizzazione per inverare democrazia e
diritti umani. Et coetera.
Viterbo, lunedì 5 luglio 1999
Premessa
Questa breve presentazione
dell’azione diretta nonviolenta intende offrire di essa un quadro certamente
assai schematico ma speriamo sufficientemente orientativo.
1. Parte prima: cosa è l’azione diretta nonviolenta
1.1. Una semplice definizione:
-
azione: ovvero intervento attivo in situazione di
conflitto;
-
diretta: ovvero assunzione personale di responsabilità,
rifiuto della delega e rifiuto del comodo alibi della propria estraneità, della
propria incompetenza;
-
nonviolenta: ovvero che ripudia la violenza e che punta a
ridurre e tendenzialmente abolire la violenza, l’ingiustizia, l’alienazione.
1.2. Alcune caratteristiche della lotta nonviolenta:
-
negare il consenso all’ingiustizia;
-
coerenza tra mezzi e fini;
-
forza della verità;
-
lotta come amore.
1.3. Alcune esperienze di lotta nonviolenta:
-
le campagne gandhiane;
-
le iniziative di Danilo Dolci;
-
l’azione di Martin Luther King;
-
la lotta di Solidarnosc.
1.4. Metodi di lotta nonviolenta:
-
l’esempio;
-
l’educazione;
-
la persuasione;
-
lo sciopero;
-
la non-collaborazione;
-
il boicottaggio;
-
la disobbedienza civile.
1.5. Cosa si richiede a chi voglia usare la nonviolenza come strumento di lotta:
-
disponibilità a soffrire anziché a far soffrire;
-
rispetto dell’altro e di ogni essere umano;
-
rinuncia agli alibi, assunzione di responsabilità;
-
pazienza e ironia;
-
capacità di ascolto delle ragioni altrui e di
relativizzare il proprio punto di vista;
-
tenere sempre aperta la comunicazione;
-
disciplina e rigore intellettuale e morale.
2. Parte seconda: piano per la realizzazione di un’azione diretta nonviolenta
2.1. La preparazione
2.1.1. Lo studio preliminare:
-
lo studio della situazione;
-
la definizione precisa di obiettivi chiari e
realisticamente perseguibili.
2.1.2. L’organizzazione preliminare:
-
la discussione con il metodo del consenso;
-
la consapevolezza e la responsabilità;
-
costruire l’affinità tra i partecipanti all’azione.
2.1.3. Il programma preliminare:
-
il programma costruttivo;
-
i fini sovraordinati;
-
la scelta delle tecniche e la loro progressione;
-
il ventaglio degli esiti possibili e la realistica
valutazione di ognuno di essi.
2.1.4. Il negoziato come obiettivo costante:
-
mettere sempre in rilievo le cose condivise;
-
puntare sempre ad un accordo;
-
dare sempre alla controparte una via d’uscita;
-
garantire sempre la limpidezza dei propri comportamenti;
-
non minacciare mai la distruzione dell’avversario.
2.1.5. L’addestramento:
-
sapere cosa si fa, perché e come;
-
la fiducia reciproca;
-
conoscenza delle tecniche di lotta;
-
la disciplina collettiva;
-
la comunicazione;
-
le tecniche di addestramento (giochi di fiducia, giochi
di ruolo, studio di casi, addestramento alla comunicazione, addestramento alla
presa rapida di decisioni, addestramento ai processi decisionali consensuali;
addestramento all’ascolto attivo, addestramento al controllo delle emozioni in
situazioni conflittuali, addestramento alla ricerca di soluzioni creative in
situazioni conflittuali, contraddittorie e confuse, etc.);
-
la creatività e la responsabilità.
2.1.6. Ulteriori questioni organizzative e logistiche:
-
importanza fondamentale delle procedure democratiche:
metodo del consenso, gruppi di affinità, partecipazione di tutti alla
discussione e alle decisioni, sperimentazione della rotazione negli impegni,
costruzione di rapporti di lealtà e fiducia;
-
la direzione del movimento: uso di portavoce e loro
agevole sostituibilità;
-
i gruppi di sostegno: loro definizione, loro compiti,
possibili evoluzioni;
-
la sensibilizzazione delle persone variamente coinvolte
ed i rapporti con i mezzi d’informazione;
-
studio della situazione dal punto di vista legale;
-
preparazione e garanzia di una costante assistenza
(legale, medica, etc.) ai partecipanti all’azione;
-
previsione della reazione altrui, della possibile
violenza altrui, delle possibili rappresaglie altrui, e definizione precisa
della condotta nonviolenta da seguire;
-
previsione degli sviluppi dell’azione e controllo di
essi;
-
definizione di princìpi rigidi da cui nessuno dei
partecipanti all’azione può derogare;
-
previsione degli scenari in presenza dei quali l’azione
deve essere interrotta.
2.1.7. La definizione del piano di lavoro e la sua flessibilità:
-
obiettivi realistici;
-
progressione dell’iniziativa;
-
consapevolezza della compresenza di più obiettivi:
formazione, educazione, dimostrazione della rottura della complicità, etc.;
fino agli obiettivi più precisi e specifici (anch’essi con vari livelli);
-
la cosa decisiva: mantenere l’iniziativa strategica, non
essere subalterni.
2.2. L’azione
-
informazione preliminare a tutti;
-
proposta preliminare alla controparte;
-
inizio e svolgimento dell’azione;
-
tenere sempre aperta la comunicazione;
-
non essere ipocriti, confusi o comunque equivocabili;
-
saper affrontare le provocazioni, la violenza altrui, le
rappresaglie (debolezza dell’azione diretta nonviolenta dinanzi alle
provocazioni: fare di questa debolezza una forza; saper dare una risposta
nonviolenta alla eventuale violenza altrui; preventivare le rappresaglie e
depotenziarne così l’efficacia);
-
proseguire la discussione anche nel corso dell’azione;
-
saper negoziare;
-
saper affrontare il prolungarsi della lotta;
-
saper concludere la lotta.
2.3. La valutazione
2.3.1. Criteri della valutazione:
-
risultati concreti;
-
valore educativo;
-
limitazione delle sofferenze;
-
sensibilizzazione e coinvolgimento di altri.
2.3.2. La valutazione come occasione di riflessione e di approfondimento.
2.3.3. La valutazione come occasione di democrazia e responsabilità.
2.3.4. La valutazione come preparazione a lotte ulteriori.
3. Parte terza: alcuni altri temi di riflessione e di studio
-
complessità e fallibilismo;
-
comunicazione ed interazione;
-
democrazia e dignità umana;
-
il principio responsabilità.
4. Parte quarta: alcune schede integrative
4.1. Dalla Guida pratica all’azione diretta nonviolenta delle mongolfiere per la pace
4.1.1. L’azione diretta nonviolenta: una sintesi in nove punti
Per una prima informazione una
utile sintesi è offerta dal fondamentale lavoro di Gene Sharp, Politica
dell’azione nonviolenta, vol. I, alle pp. 132-133, che qui riassumiamo: “È
opinione comune che l’azione nonviolenta possa portare alla vittoria solo in
tempi molto lunghi, più lunghi di quelli necessari alla lotta violenta. Ciò può
essere vero in alcuni casi, ma non è necessariamente sempre così [...].
Esaminando e correggendo i pregiudizi nei confronti dell’azione nonviolenta
siamo spesso in grado di farne risaltare con più evidenza le caratteristiche
positive:
1. [...]
questo metodo non ha niente a che vedere con la passività, la sottomissione e
la codardia; queste devono essere prima rifiutate e vinte, proprio come in
un’azione violenta.
2. L’azione
nonviolenta non deve essere messa sullo stesso piano della persuasione verbale
o puramente psicologica [...]; è una sanzione e un metodo di lotta che comporta
l’uso del potere sociale, economico e politico e il confronto delle forze in
conflitto.
3. L’azione
nonviolenta non si basa sul presupposto che l’uomo sia fondamentalmente
“buono”, ma riconosce le potenzialità umane sia al “bene” che al “male” [...].
4. Coloro
che praticano l’azione nonviolenta non sono necessariamente pacifisti o santi;
l’azione nonviolenta è stata praticata il più delle volte e con successo da
gente “qualsiasi”.
5. Il
successo di un’azione nonviolenta non richiede necessariamente (sebbene possa
esserne facilitato) basi e princìpi comuni o un alto grado di comunanza di
interessi e di vicinanza psicologica tra i gruppi in lotta [...].
6. L’azione
nonviolenta è un fenomeno occidentale almeno quanto orientale [...].
7. L’azione
nonviolenta non si basa sul presupposto che l’avversario si astenga dall’uso
della violenza contro i nonviolenti, ma prevede di dover operare, se
necessario, contro la violenza.
8. Non
c’è nulla nell’azione nonviolenta per prevenire che venga usata tanto per cause
“buone” quanto per cause “cattive”, sebbene le conseguenze sociali in
quest’ultimo caso siano molto diverse da quelle provocate dalla violenza
impiegata per lo stesso scopo.
9. L’azione
nonviolenta non serve solo nei conflitti interni a sistemi democratici, ma è
stata largamente praticata contro regimi dittatoriali, occupazioni straniere e
anche contro sistemi totalitari”.
4.1.2. Le tecniche della nonviolenza
Il più ampio repertorio di
tecniche della nonviolenza è costituito dal secondo volume della fondamentale
opera di Gene Sharp, Politica dell’azione nonviolenta: 2. le tecniche,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986. Sharp descrive 198 tecniche di azione
nonviolenta. L’elenco proposto da Sharp è organizzato nel modo seguente: 1.
tecniche di protesta e persuasione nonviolenta, comprendenti
dichiarazioni formali, forme di comunicazione rivolte a un pubblico più vasto,
rimostranze di gruppo, azioni pubbliche simboliche, pressioni su singoli individui,
spettacoli e musica, cortei, onoranze ai morti, riunioni pubbliche, abbandoni e
rinunce. 2. Tecniche di non-collaborazione sociale, comprendenti
ostracismo nei confronti delle persone, non-collaborazione con eventi,
consuetudini ed istituzioni sociali, ritiro dal sistema sociale. 3. Tecniche di
non-collaborazione economica, comprendenti a) i boicottaggi economici:
azioni da parte dei consumatori, azioni da parte di lavoratori e produttori,
azioni da parte di mediatori, azioni da parte di proprietari e negozianti,
azioni di natura finanziaria, azioni da parte di governi; b) gli scioperi, tra
cui gli scioperi simbolici, scioperi dell’agricoltura, scioperi di gruppi
particolari, scioperi normali dell’industria, scioperi limitati, scioperi di
più industrie, combinazioni di scioperi e blocchi economici (tra cui l’hartal,
ed il blocco economico). 4. Tecniche di non-collaborazione politica,
comprendenti rifiuto dell’autorità, non-collaborazione di cittadini col
governo, alternative dei cittadini all’obbedienza, azioni da parte di personale
governativo, azioni governative interne, azioni governative internazionali. 5.
Tecniche di intervento nonviolento, comprendenti intervento psicologico,
intervento fisico, intervento sociale, intervento economico, intervento politico.
Un bel libro sulle tecniche della nonviolenza è ancora quello classico di Aldo
Capitini, Le tecniche della nonviolenza, di recente ristampato da Linea
d’Ombra Edizioni, Milano.
4.1.3. L’addestramento alla nonviolenza
Citiamo da Aldo Capitini (Le
tecniche della nonviolenza, p. 127): “Una parte del metodo nonviolento, tra
la teoria e la pratica, spetta all’addestramento alla nonviolenza. Le ragioni
principali per cui è necessaria questa parte sono queste: A) l’attuazione della
nonviolenza non è di una macchina, ma di un individuo, che è un insieme fisico,
psichico e spirituale; B) la lotta nonviolenta è senza armi, quindi c’è maggior
rilievo per i modi usati, per le qualità del carattere che si mostra; C) una
campagna nonviolenta è di solito lunga, e perciò è utile un addestramento a
reggerla, a non cedere nemmeno per un istante; D) la lotta nonviolenta porta
spesso sofferenze e sacrifici: bisogna già sapere che cosa sono, bisogna che il
subconscio non se li trovi addosso improvvisamente con tutto il loro peso; E)
le campagne nonviolente sono spesso condotte da pochi, pochissimi, talora da
una persona soltanto; bisogna che uno si sia addestrato a sentirsi in
minoranza, e talora addirittura solo, e perfino staccato dalla famiglia”.
4.1.4. Alcune schede da L’Abate (a cura di), Addestramento alla nonviolenza
Sull’addestramento alla
nonviolenza in italiano c’è un buon manuale, a cura di Alberto L’Abate, Addestramento
alla nonviolenza, Satyagraha Editrice, Torino 1985; il libro ha per
sottotitolo “introduzione teorico-pratica ai metodi”, ed in effetti affianca ad
alcuni saggi analitici anche una serie di esercizi pratici e due utili
appendici, una sul teatro politico di strada, ed una di brevi schede su vari
aspetti della nonviolenza.
Riportiamo qui in sintesi alcune
schede dal libro curato da L’Abate.
I quattro princìpi
fondamentali dell’azione diretta nonviolenta: 1. definite i vostri obiettivi;
2. comportatevi con onestà ed ascoltate bene; 3. amate i vostri avversari; 4.
date agli avversari una via d’uscita.
Sei mosse strategiche
dell’azione nonviolenta: indagate; negoziate; educate; manifestate; resistete;
siate pazienti.
Quattro suggerimenti pratici:
siate creativi; preparate i vostri partecipanti; comunicate; controllate gli
eventi.
Presupposti validi della
nonviolenza: 1. i mezzi devono essere adeguati ai fini; 2. rispettare tutte le
forme di vita; 3. trasformare le opposizioni piuttosto che annientarle; 4.
ricorrere a creatività, spirito, amore; 5. mirare a cambiamenti incisivi.
Risposta nonviolenta alla violenza
personale: 1. formulate con chiarezza i vostri obiettivi; 2. non lasciatevi
intimorire; 3. non intimorite; 4. non abbiate timore di affermare ciò che è
ovvio; 5. non comportatevi da vittime; 6. cercate di tirar fuori la parte
migliore della personalità del vostro avversario; 7. non bloccatevi al cospetto
della violenza fisica; 8. continuate a parlare e ad ascoltare. La comunicazione
è il fulcro della nonviolenza.
Indicazioni procedurali per la
discussione e l’azione nonviolenta: 1. nella discussione praticate il giro
degli interventi; 2. condividete le abilità e praticate la rotazione delle
responsabilità; 3. valorizzate i sentimenti; 4. lavorate insieme in modo
cooperativo; 5. incontratevi anche separatamente; 6. incontratevi in piccoli
gruppi; 7. usate il metodo del consenso nel prendere le decisioni.
4.1.5. Piano di lavoro per una campagna di lotta nonviolenta
Preliminarmente: chi vuole
partecipare ad una campagna di lotta nonviolenta deve essere disposto a
condividere rigorosamente gli obiettivi, i metodi e la disciplina collettiva,
che devono quindi essere preliminarmente discussi fin nei minimi dettagli
affinché sia chiaro a tutti per cosa ci si impegna e come: una lotta
nonviolenta ha delle regole rigorose e richiede ai partecipanti un impegno serio,
una adeguata preparazione, convinzione e condivisione, coerenza e disciplina,
capacità critica e creativa, rispetto per gli altri. 1. conoscere:
informarsi; raccogliere documentazione; studiare. 2. definire gli obiettivi:
obiettivi finali ed intermedi; tempi dell’iniziativa; risorse finanziarie ed
umane; organizzazione e compiti; interlocutori da coinvolgere; strumenti di
verifica periodica e di eventuale ridefinizione degli obiettivi 3. iniziative e
loro gradualità: rendere note le proprie richieste/proposte; notificarle agli
interlocutori specifici; diffondere l’informazione alla società in generale;
protestare contro l’ingiustizia; agire contro l’ingiustizia; mantenere sempre
aperta la comunicazione.
4.1.6. Il Manuale per l’azione diretta nonviolenta di Walker
Uno strumento di lavoro a
nostro avviso insuperato è il breve testo di Charles C. Walker, Manuale per
l’azione diretta nonviolenta, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia
1982. Ne riportiamo il sommario: 1. Preparazione. 2. Lancio di un programma
costruttivo. 3. Aspetti generali del metodo. 4. L’addestramento. 5. Il piano
dell’azione. 6. I preparativi dell’azione. 7. Studio della situazione legale.
8. Messa a punto di una disciplina collettiva. 9. Sviluppo di una campagna di
propaganda. 10. Raduno dei partecipanti. 11. Inizio dell’azione. 12. Come
fronteggiare le rappresaglie. 13. Mantenere la vitalità del movimento. 14. I
dirigenti. 15. Quando la lotta si prolunga.
4.2. Dal lavoro di training nonviolento svolto presso il csoa “Valle Faul” di Viterbo
Alcuni appunti sulla
comunicazione, il discorso, la scrittura. In questi appunti si riassume il
contenuto di alcune conversazioni preliminari ad esercitazioni effettuate
nell’ambito dei training nonviolenti svoltisi nel CSOA “Valle Faul” di Viterbo
nel mese di settembre 1998
4.2.1. Cosa richiede il processo comunicativo
Il processo della
comunicazione richiede: un emittente (esempio: la persona che parla); un
ricevente (esempio: la persona che ascolta); uno strumento o veicolo (esempio:
la voce); un codice (condiviso dall’emittente e dal ricevente; esempio: la
lingua italiana); un messaggio. Un messaggio ha sempre due aspetti: il
contenuto; la relazione. Ogni atto comunicativo istituisce un sistema
relazionale.
4.2.2. Come si prepara un discorso
Nella retorica classica
(ovvero la tecnica di fare dei discorsi convincenti come fu sviluppata nelle
culture greca e romana) si distinguono cinque fasi: inventio (la creazione del
discorso, l’argomento); dispositio (l’organizzazione efficace del discorso, la
sua architettura); elocutio (l’abbellimento del discorso); memoria (ricordare
il discorso); actio (la recitazione del discorso: tono della voce, gesti,
etc.).
4.2.3. Come si scrive
Si scrive per farsi capire;
dire sempre e solo la verità; parole semplici; frasi brevi e chiare;
ragionamenti coerenti; organizzare le frasi; correggere sempre, cercare
l’espressione migliore, la più chiara. Come si fa un comunicato-stampa: Titolo:
breve (una o due righe); Testo: da dieci a venti righe, frasi brevi, parole semplici;
Firma; Luogo e data. Come si fa un articolo giornalistico di cronaca: Titolo:
breve e colorito (una riga).; Occhiello (sopra il titolo; oppure: sottotitolo):
più lungo del titolo ma sempre breve e su una sola riga, in corpo tipografico
più piccolo, ha la funzione di spiegare meglio il contenuto dell’articolo;
Articolo: solitamente ha una lunghezza predeterminata (quando è di poche righe
si chiama trafiletto); in esso nel descrivere un fatto bisogna ricordarsi di
dire: chi, cosa, dove, quando, come e perché. Le frasi devono essere
brevi, le parole semplici.
4.2.4. alcune idee pratiche
per parlare con qualcuno con la volontà e con qualche speranza di riuscire a
farsi capire; emerse dai giochi di ruolo svoltisi domenica 19 e lunedì 20
luglio 1998 presso il CSOA “Valle Faul”:
1. Dire
sempre e solo la verità.
2. Dire
in modo affermativo (esempi: io so; io sono sicuro; io credo;
io sono convinto) solo le cose di cui si è sicuri e convinti; dire in
modo dubitativo (esempi: forse; è probabile; di questo non sono
sicuro) le cose di cui non si ha certezza; ogni volta che è possibile
farlo, è opportuno usare espressioni affermative e negative precise e
sintetiche (esempio: sì; no).
3. Parlare
lentamente.
4. Scegliere
con calma e attenzione le parole; usare solo parole di cui si conosce
precisamente il significato.
5. Usare
frasi brevi e precise.
6. Parlare
ad alta voce e scandendo bene le parole.
7. Parlare
in italiano ed evitando le parole difficili.
8. Ricordare
sempre che si parla ad altri esseri umani.
9. Ricordare
sempre che si parla per farsi capire.
10.
Evitare espressioni confuse, volgari o che possano essere
offensive o incomprensibili per qualcuno.
11.
Respirare con calma e controllare il tono della voce.
12.
Quando occorre riflettere, non essere frettolosi;
eventualmente comunicare all’interlocutore che si sta riflettendo (esempi: su
questo argomento ci sto pensando; su questo argomento ci sto ragionando
sopra) o si ha bisogno di tempo per pensare (esempi: su questo argomento
dovrei pensarci; avrei bisogno di un po’ di tempo per pensarci).
13.
Quando si è emozionati, respirare profondamente e
rilassarsi.
14.
Quando non si capisce cosa ha detto l’interlocutore,
chiedere che ripeta o si spieghi meglio (esempi: mi dispiace ma non ho
capito cosa ha detto: per favore lo ripeta; mi dispiace ma non ho capito
cosa intende dire, si spieghi meglio).
15.
Quando si ha l’impressione di essersi espressi male, in
modo confuso o sbagliato, oppure si ha l’impressione che l’interlocutore non
abbia capito bene, occorre ripetere e spiegare cosa si intendeva dire (esempi: evidentemente
mi sono espresso male, adesso mi spiego meglio; forse mi sono espresso
male, adesso lo dico in modo più chiaro, più preciso; forse c’è qualche
confusione, è opportuno che mi spieghi meglio; forse non sono riuscito a
farmi capire, adesso ci provo di nuovo, in modo più accurato; forse non
si è sentito bene quello che ho detto, adesso lo ripeto a voce più alta e con
parole più semplici).
4.2.5. Libri particolarmente utili
a) Strumenti
di lavoro: un buon dizionario della lingua italiana; una grammatica
della lingua italiana; Umberto Eco, Come si fa una tesi di laurea,
Bompiani, Milano;
b) Letture
particolarmente consigliate: Scuola di Barbana, Lettera
a una professoressa, LEF, Firenze; Raymond Queneau, Esercizi di stile,
Einaudi, Torino; Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi,
Torino; Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, varie
edizioni; Platone, Fedro, varie edizioni.
4.3. Dodici sguardi sulla nonviolenza
4.3.1. Rompere la complicità.
Alla base della nonviolenza vi
è la consapevolezza che il potere ingiusto ed oppressivo si regge anche sulla
complicità delle vittime e degli indifferenti: la nonviolenza è in primo luogo
un appello a rompere la complicità con l’ingiustizia, a toglierle il consenso,
ad uscire dalla passività, a prendersi la propria responsabilità, a lottare per
la verità e la giustizia.
4.3.2. La nonviolenza è lotta.
È lotta contro la violenza,
contro l’ingiustizia, contro la menzogna. È lotta perché ogni essere umano sia
riconosciuto nella sua dignità; è lotta contro ogni forma di sopraffazione; è
lotta di liberazione per l’uguaglianza di tutti nel rispetto e nella
valorizzazione della diversità di ognuno. È la forma di lotta più profonda,
quella che va più alla radice delle questioni che affronta. È lotta contro il
potere violento, cui si oppone nel modo più completo, rifiutando la sua
violenza e rifiutando di riprodurre violenza. Afferma la coerenza tra i mezzi
ed i fini, tra i metodi e gli obiettivi. Tra la lotta e il suo risultato c’è lo
stesso rapporto che c’è tra il seme e la pianta. Chi lotta per la liberazione
di tutti, deve usare metodi coerenti. Chi lotta per l’uguaglianza deve usare
metodi che tutti possano usare. Chi lotta per la verità e la giustizia deve
lottare nel rispetto della verità e della giustizia. È lotta contro il male,
non contro le persone. È lotta per difendere e liberare, per salvare e per
convincere, e non per umiliare o annientare altre persone. È lotta fatta da
esseri umani che non dimenticano di essere tali. Che non si abbrutiscono, che
non vogliono fare del male, bensì contrastare il male. È lotta per l’umanità.
La nonviolenza è il contrario della viltà. È il rifiuto di subire
l’ingiustizia; è il rifiuto di ogni ingiustizia, sia di quella contro di me,
sia di quelle contro altri. La nonviolenza è lotta. È lotta per la verità, è
lotta per la giustizia, è lotta di liberazione e di solidarietà, è lotta contro
ogni oppressione.
4.3.3. Otto brevi caratterizzazioni della nonviolenza.
La nonviolenza è forte: può
opporsi efficacemente alla forza delle armi; può sfidare coerentemente i più
grandi poteri del mondo. La nonviolenza è umile: non richiede attitudini
eccezionali, pose monumentali, proclami retorici; non richiede ingenti risorse
fisiche o finanziarie; richiede limpidezza di condotta ed assunzione di
responsabilità. La nonviolenza è concreta: interviene realmente nel conflitto;
porta la pace e la giustizia nel suo stesso porsi; si oppone ugualmente alla
vigliaccheria ed alla violenza; educa alla dignità umana. La nonviolenza è
coerente: è l’unico modo coerente di lottare contro la violenza; è l’unico modo
coerente di affermare la dignità di ogni essere umano; è l’unico modo coerente
per ridurre l’ingiustizia e il dolore nel mondo. La nonviolenza è il potere di
tutti: poiché tutti possono lottare con la nonviolenza, poiché la nonviolenza
fa appello a tutti, poiché la nonviolenza rispetta la dignità di tutti e di
ciascuno. La nonviolenza è adesione alla verità, è forza della verità: da
Gandhi a Capitini gli amici della nonviolenza sanno che essa è incompatibile
con la menzogna, con i sotterfugi, con gli intrighi e le doppiezze: la
nonviolenza è l’amore per la verità che irrompe nell’agire politico e sociale,
è il principio responsabilità (il rispondere al volto dell’altro che muto e
sofferente ti interroga - Lévinas -, il farsi carico del mondo e dell’umanità -
Jonas -) che si rende operare autentico; è la critica della ragion pratica che
si fa movimento di solidarietà e di liberazione. La nonviolenza è lotta come
amore: lotta integrale contro l’ingiustizia e la menzogna, lotta integrale per
la comunicazione e la dignità, lotta integrale contro la violenza; lotta
integrale per i diritti umani, lotta integrale per un’umanità di eguali, liberi
e fraterni. La nonviolenza è utopia concreta, principio speranza, ortopedia del
camminare eretti: abbiamo usato queste tre formule del filosofo Ernst Bloch per
significare che la nonviolenza è concreta azione e concreto progetto politico e
sociale di dignità umana e difesa della biosfera; che la nonviolenza è
inveramento della speranza in una lotta coerente e che nel suo stesso farsi è
liberante; che la nonviolenza è affermazione ed istituzione del diritto e dei
diritti, legalità e democrazia in cammino.
4.3.4. Quattro regole di condotta per l’azione diretta nonviolenta
I. A un’iniziativa nonviolenta
possono partecipare solo le persone che accettano incondizionatamente di
attenersi alle regole della nonviolenza. II. Tutti i partecipanti devono saper
comunicare parlando con chiarezza, con tranquillità, con rispetto per tutti, e
senza mai offendere nessuno. III. Tutti i partecipanti devono conoscere
perfettamente senso, fini, modalità e conseguenze dell’azione diretta
nonviolenta; devono averne piena conoscenza, e devono esserne completamente
convinti, in particolare sottolineiamo la necessità di essere pienamente
informati consapevoli delle conseguenze cui ogni singolo partecipante può andare
incontro, conseguenze che vanno accettate pacificamente e onestamente, ed alle
quali nessuno deve cercare di sottrarsi. IV. Tutti devono rispettare i seguenti
princìpi della nonviolenza: a) non fare del male a nessuno (se una sola persona
dice o fa delle stupidaggini, o una sola persona si fa male, l’azione diretta
nonviolenta è irrimediabilmente e totalmente fallita, e deve essere
immediatamente sospesa); b) spiegare a tutti (amici, autorità, interlocutori,
interpositori, eventuali oppositori) cosa si intende fare, e che l’azione
diretta nonviolenta non è rivolta contro qualcuno, ma contro la violenza; c)
dire sempre e solo la verità; d) fare solo le cose decise prima insieme con il
metodo del consenso ed annunciate pubblicamente (cioè a tutti note e da tutti
condivise); nessuno deve prendere iniziative personali di nessun genere; la
nonviolenza richiede lealtà e disciplina; e) assumersi la responsabilità delle
proprie azioni e quindi subire anche le conseguenze che ne derivano; f)
mantenere una condotta nonviolenta anche di fronte all’eventuale violenza
altrui. Chi non accetta queste regole non può partecipare all’azione diretta
nonviolenta, poiché sarebbe di pericolo per sé, per gli altri e per la riuscita
dell’iniziativa che deve essere, appunto, rigorosamente nonviolenta. Per poter
partecipare ad un’azione diretta nonviolenta è necessario aver partecipato
prima alla discussione ed all’organizzazione che ha portato alla sua decisione
e realizzazione, ed è altresì assolutamente indispensabile aver partecipato ad
un training di addestramento alla nonviolenza.
4.3.5. Una definizione fondamentale: la “carta” del Movimento Nonviolento
Una definizione breve e
precisa degli obiettivi e dei metodi di chi si impegna con e per la nonviolenza
è nella carta ideologico-programmatica del Movimento Nonviolento fondato
da Aldo Capitini: “Il movimento nonviolento lavora per l’esclusione della
violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello
locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell’apparato di
potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento
persegue lo scopo della creazione di una comunità mondiale senza classi che
promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali
direttrici d’azione del movimento nonviolento sono: I. l’opposizione integrale
alla guerra; II. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie
sociali, l’oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e
di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione; III. lo sviluppo della vita associata
nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia
dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere,
inteso come servizio comunitario; IV. la salvaguardia dei valori di cultura e
dell’ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il
futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un’altra delle forme di
violenza dell’uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che
implica il rifiuto dell’uccisione e della lesione fisica, dell’odio e della
menzogna, dell’impedimento del dialogo e della libertà di informazione e di
critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l’esempio,
l’educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
non-collaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di
organi di governo paralleli”.
4.3.6. Necessità dell’addestramento alla nonviolenza.
La nonviolenza non è né un
atteggiamento spontaneo, né un banale “volersi bene”; bensì: a) una meditata
scelta etico-politica di trasformazione delle relazioni personali e sociali, b)
un insieme di tecniche di lotta rigorose ed assai elaborate, c) una strategia
di lotta profondamente caratterizzata, d) un progetto di relazioni umane e
politiche radicalmente alternativo a quelle dominanti. Quindi la nonviolenza non
è affatto “spontanea”, va conosciuta e coltivata. Nessuno si sorprende se un
soldato deve addestrarsi, nessuno si sorprende se un medico deve studiare:
ebbene, la nonviolenza richiede un addestramento e uno studio non inferiori ma
superiori a quelli richiesti al soldato ed al medico. Senza studio non è
possibile comprendere la nonviolenza; senza addestramento non è possibile
condurre l’azione nonviolenta. Proprio perché la nonviolenza è una proposta
politica di lotta di liberazione che nel suo stesso farsi inveri la dignità
umana di ognuno e di tutti, essa richiede un impegno di conoscenza, di
preparazione, di discussione, di consapevolezza e di capacità critica e
autocritica assolutamente superiore a quello richiesto in altre forme di
organizzazione, in altri ambiti di studio, in altre proposte di azione.
4.3.7. I diritti umani, presi sul serio.
Scegliamo la nonviolenza
perché essa è l’unica teoria-prassi dell’azione politica e sociale collettiva
che si prefigge nel suo stesso svolgersi il rispetto dei diritti umani di
tutti, non solo di coloro che partecipano all’azione, ma anche di coloro che la
subiscono. La nonviolenza non rinvia la realizzazione dei diritti umani ad un
futuro successivo alla conclusione della lotta, essa realizza i diritti umani
nel corso stesso della lotta. La nonviolenza non nega umanità agli avversari
con cui lotta, essa riconosce l’umanità degli avversari con cui lotta. La
nonviolenza è lotta intransigente per affermare la dignità umana di tutti e per
affermarla subito. Essa è nei suoi metodi e nel suo svolgersi coerente con i
suoi fini: poiché il fine è la dignità umana e la liberazione dall’oppressione,
la lotta nonviolenta nel suo stesso svolgimento deve realizzare la dignità di
tutti e prefigurare la liberazione di tutti. Per questo diciamo che la
nonviolenza è lotta come amore.
4.3.8. La liberazione umana, subito.
Inoltre scegliamo la
nonviolenza perché essa è l’unica teoria-prassi dell’azione politica e sociale
collettiva che realizza nel suo stesso farsi una forma autentica di democrazia
diretta, rapporti egualitari e non gerarchici, che prefigura già nella sua
organizzazione relazioni umane e sociali liberate e liberanti; perché consente
la partecipazione di tutti ed abolisce rapporti di potere e di oppressione. Per
questo essa adotta il metodo del consenso, per questo essa non è solo una forma
di lotta ma anche una occasione di costruzione di rapporti umani solidali; per
questo nella nonviolenza si richiede una piena limpidezza di comportamenti e
una forte lealtà nei confronti di tutti, di sottoporre tutto alla discussione
comune, e di scegliere sempre e solo gli obiettivi e le forme di lotta che
tutti i partecipanti condividono.
4.3.9. La nonviolenza è gestione del conflitto.
La nonviolenza è gestione del
conflitto, la cui esistenza essa riconosce e valorizza. La nonviolenza non è
una visioni idilliaca ed illusoria, quindi narcotizzante, dei rapporti sociali;
ma la consapevolezza della conflittualità degli ideali e degli interessi, delle
situazioni esistenziali e delle relazioni sociali, dei rapporti economici e
politici, degli assetti culturali e ideologici. Essa si propone di intervenire
nel conflitto e di farlo umanizzando il conflitto, valorizzandone la dimensione
morale e conoscitiva, gestendolo in modo da renderlo fecondo di rapporti umani
più giusti, lottando incessantemente contro la violenza, contro l’ingiustizia,
contro l’inganno. Si può essere nonviolenti solo nel conflitto, si può essere
nonviolenti solo se si lotta per la giustizia. Gli indifferenti, coloro che
chiudono gli occhi, chi se ne sta chiuso in casa sua, non è nonviolento. La
nonviolenza è lotta integrale e intransigente contro l’ingiustizia. La
nonviolenza è il contrario della viltà, il contrario dell’egoismo, il contrario
della passività, il contrario del motto fascista “me ne frego”. La nonviolenza
è quella specifica forma di gestione del conflitto che ripudia la violenza e si
propone come fine precipuo di combatterla e di abolirla.
4.3.10. La nonviolenza è ripudio assoluto della violenza.
La nonviolenza è opposizione
assoluta alla violenza: non ammette complicità, meschinità o sotterfugi. La
nonviolenza smaschera e ripudia i sofismi sulla “violenza buona”, sulla “guerra
giusta”, e simili infamie: la nonviolenza si oppone sempre e comunque alla
guerra e alla violenza. Ovviamente gli amici della nonviolenza riconoscono agli
oppressi il diritto di legittima difesa; ovviamente gli amici della nonviolenza
hanno la capacità di ricostruire i rapporti di causa ed effetto che producono
l’oppressione e la violenza, e si battono in primo luogo contro le cause e le
condizioni strutturali che producono ingiustizia, sopraffazione, sofferenza,
violenza. Lo stesso Gandhi era esplicito nel dichiarare che di fronte alla
violenza la cosa peggiore è la viltà, e che se non si ha la forza di resistere
con la nonviolenza, gli oppressi hanno il dovere di resistere comunque; ma
aggiungeva che la nonviolenza è incomparabilmente più forte e migliore della
resistenza violenta, e che occorre avere la forza di scegliere sempre e
comunque la nonviolenza. Noi riteniamo che vi siano argomentazioni ineludibili
che ci convincono a ripudiare la violenza come metodo di lotta; argomenti che
ci persuadono quindi ad ammettere solo la nonviolenza come metodo di lotta.
4.3.11. Per la critica della violenza.
Elenchiamo alcune ragioni
essenziali per cui occorre essere rigidamente contro la violenza. Citiamo da
Giuliano Pontara, voce Nonviolenza, in AA.VV., Dizionario di politica,
Tea, Torino 1992: I. il primo argomento “mette in risalto il processo di escalation
storica della violenza. Secondo questo argomento, l’uso della violenza [...] ha
sempre portato a nuove e più vaste forme di violenza in una spirale che ha
condotto alle due ultime guerre mondiali e che rischia oggi di finire nella
distruzione dell’intero genere umano”; II. il secondo argomento “mette in
risalto le tendenze disumanizzanti e brutalizzanti connesse con la violenza”
per cui chi ne fa uso diventa progressivamente sempre più insensibile alle
sofferenze ed al sacrificio di vite che provoca; III. il terzo argomento
“concerne il depauperamento del fine cui l’impiego di essa può condurre [...].
I mezzi violenti corrompono il fine, anche quello più buono”; IV. il quarto
argomento “sottolinea come la violenza organizzata favorisca l’emergere e l’insediamento
in posti sempre più importanti della società, di individui e gruppi autoritari
[...]. L’impiego della violenza organizzata conduce prima o poi sempre al
militarismo”; V. il quinto argomento “mette in evidenza il processo per cui le
istituzioni necessariamente chiuse, gerarchiche, autoritarie, connesse con
l’uso organizzato della violenza, tendono a diventare componenti stabili e
integrali del movimento o della società che ricorre ad essa [...]. “La scienza
della guerra porta alla dittatura” (Gandhi)”. A questi argomenti da parte
nostra ne vorremmo aggiungere altri due: VI. un argomento, per così dire, di
tipo epistemologico: siamo contro la violenza perché siamo fallibili, possiamo
sbagliarci nei nostri giudizi e nelle nostre decisioni, e quindi è preferibile
non esercitare violenza per imporre fini che potremmo successivamente scoprire
essere sbagliati; VII. soprattutto siamo contro la violenza perché il male
fatto è irreversibile (al riguardo Primo Levi ha scritto pagine indimenticabili
soprattutto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati). Agli argomenti
contro la violenza Pontara aggiunge opportunamente un ultimo decisivo
ragionamento: “I fautori della dottrina nonviolenta sono coscienti che ogni
condanna della violenza come strumento di lotta politica rischia di diventare
un esercizio di sterile moralismo se non è accompagnata da una seria proposta
di istituzioni e mezzi di lotta alternativi. Di qui la loro proposta
dell’alternativa satyagraha o della lotta nonviolenta positiva, in base
alla duplice tesi a) della sua praticabilità anche a livello di massa e
in situazioni conflittuali acute, e b) della sua efficacia come
strumento di lotta” per la realizzazione di una società fondata sulla dignità
della persona, il benessere di tutti, la salvaguardia dell’ambiente.
4.3.12. Perché ci diciamo “amici della nonviolenza” e non “nonviolenti”.
Ci diciamo “amici della
nonviolenza” e non “nonviolenti” perché, come spiegava Aldo Capitini, dobbiamo
essere modesti e realistici: la nonviolenza è un ideale cui tendere, un ideale
assai impegnativo, una pratica da verificare giorno per giorno nella vita
quotidiana, nei rapporti interpersonali come nelle grandi lotte necessarie; e
solo nella verifica quotidiana per un verso, e nel momento più aspro della
lotta, per l’altro, si evidenzia la nostra capacità di attenerci ad essa, di
esserne creativamente gli artefici; quindi evitiamo di sembrare sbruffoni, e
consideriamoci per quello che siamo: donne e uomini in ricerca, per un’umanità
di liberi ed eguali, appunto: amici della nonviolenza.
5. Parte quinta: per approfondire
5.1. Pubblicazioni introduttive e monografiche
Tra le pubblicazioni in volume
segnaliamo particolarmente Charles C. Walker, Manuale per l’azione diretta
nonviolenta, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia (un opuscolo di
poche decine di pagine, utilissimo); Alberto L’Abate (a cura di), Addestramento
alla nonviolenza, Satyagraha, Torino; Aldo Capitini, Le tecniche della
nonviolenza, Libreria Feltrinelli, poi Linea d’ombra, Milano; Gene Sharp, Politica
dell’azione nonviolenta, 3 volumi, Edizioni Gruppo Abele, Torino; Christian
Mellon, Jacques Semelin, La non-violence, P.U.F., Paris. In opuscolo
segnaliamo la nostra Guida pratica all’azione diretta nonviolenta delle
mongolfiere per la pace, Centro di ricerca per la pace, Viterbo.
5.2. Alcuni autori fondamentali
5.2.1. Mohandas Gandhi.
Profilo biografico: è il
fondatore della nonviolenza. Nato a Portbandar in India nel 1869, studi legali
a Londra, avvocato, nel 1893 in Sud Africa, qui divenne il leader della
lotta contro la discriminazione degli immigrati indiani ed elaborò le tecniche
della nonviolenza. Nel 1915 tornò in India e divenne uno dei leader del
Partito del Congresso che si batteva per la liberazione dal colonialismo
britannico. Guidò grandi lotte politiche e sociali affinando sempre più la
teoria-prassi nonviolenta e sviluppando precise proposte di organizzazione
economica e sociale in direzione solidale ed egualitaria. Fu assassinato nel
1948. Sono tanti i meriti ed è tale la grandezza di quest’uomo che una volta di
più occorre ricordare che non va mitizzato, e che quindi non vanno occultati
limiti, contraddizioni, ed alcuni aspetti negativi -che pure vi sono- della sua
figura, della sua riflessione, della sua opera. Opere di Gandhi: essendo Gandhi
un organizzatore, un giornalista, un politico, un avvocato, un uomo d’azione,
oltre che una natura profondamente religiosa, i suoi scritti devono sempre
essere contestualizzati per non fraintenderli; Gandhi considerava la sua
riflessione in continuo sviluppo, e alla sua autobiografia diede
significativamente il titolo Storia dei miei esperimenti con la verità.
In italiano l’antologia migliore è Teoria e pratica della nonviolenza,
Einaudi; si vedano anche: Villaggio e autonomia, LEF; l’autobiografia
tradotta col titolo La mia vita per la libertà, Newton Compton; Civiltà
occidentale e rinascita dell’India, Movimento Nonviolento; La cura della
natura, LEF. Altri volumi sono stati pubblicati da Comunità: la nota e
discutibile raccolta di frammenti Antiche come le montagne; da Sellerio:
Tempio di verità; da Newton Compton: Il mio credo, il mio pensiero,
e La voce della verità. Altri volumi ancora sono stati pubblicati dagli
stessi e da altri editori. I materiali della drammatica polemica tra Gandhi, Martin
Buber e Judah L. Magnes sono stati pubblicati sotto il titolo complessivo Devono
gli ebrei farsi massacrare?, in “Micromega” n. 2 del 1991. Opere su Gandhi:
tra le biografie cfr. B. R. Nanda, Gandhi il mahatma, Mondadori; e il
recente accurato lavoro di Judith M. Brown, Gandhi, Il Mulino. Tra gli
studi cfr. Johan Galtung, Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele; Icilio
Vecchiotti, Che cosa ha veramente detto Gandhi, Ubaldini; ed i volumi di
Gianni Sofri: Gandhi e Tolstoj, Il Mulino (in collaborazione con Pier
Cesare Bori); Gandhi in Italia, Il Mulino; Gandhi e l’India,
Giunti. Una importante testimonianza è quella di Vinoba, Gandhi, la via del
maestro, Paoline. Per la bibliografia cfr. anche Gabriele Rossi (a cura
di), Mahatma Gandhi; materiali esistenti nelle biblioteche di Bologna,
Comune di Bologna. Altri libri utili disponibili in italiano sono quelli di
Lanza del Vasto, William L. Shirer, Ignatius Jesudasan, George Woodcock,
Giorgio Borsa, Enrica Collotti Pischel, Louis Fischer. Un’agile introduzione è
quella di Ernesto Balducci, Gandhi, ECP.
5.2.2. Aldo Capitini.
Profilo biografico: Aldo
Capitini è nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato, docente
universitario, infaticabile promotore di iniziative per la nonviolenza e la
pace. È morto a Perugia nel 1968. È stato il più grande pensatore ed operatore
della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo Capitini: la miglior antologia degli
scritti è (a cura di Giovanni Cacioppo e vari collaboratori), Il messaggio
di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977; recentemente è stato ripubblicato
il saggio Le tecniche della nonviolenza, Linea d’ombra, Milano 1989; una
raccolta di scritti autobiografici, Opposizione e liberazione, Linea
d’ombra, Milano 1991; e gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o,
Roma 1996. Presso la redazione di “Azione nonviolenta” sono disponibili e
possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di Capitini non più reperibili
in libreria (tra cui i fondamentali Elementi di un’esperienza religiosa,
1937, e Il potere di tutti, 1969). Opere su Aldo Capitini: oltre alle
introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il messaggio di Aldo
Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda: Giacomo Zanga, Aldo
Capitini, Bresci, Torino 1988; Fabrizio Truini, Aldo Capitini, ECP,
S. Domenico di Fiesole 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo
Capitini. Tra religione ed etica laica, Clueb, Bologna 1991. È utile anche
la lettura dei due libri seguenti: AA. VV., Marxismo e nonviolenza,
Lanterna, Genova 1977, e AA. VV., Nonviolenza e marxismo, Libreria
Feltrinelli, Milano 1981. Indirizzi utili: la rivista mensile del Movimento
Nonviolento è “Azione Nonviolenta”, via Spagna 8, 37123 Verona.
5.2.3. Danilo Dolci.
Profilo biografico:
Danilo Dolci è nato a Sesana (Trieste) nel 1924, arrestato a Genova nel ‘43 dai
nazifascisti riesce a fuggire; nel ‘50 partecipa all’esperienza di Nomadelfia a
Fossoli; dal ‘52 si trasferisce nella Sicilia occidentale (Trappeto, Partinico)
in cui promuove indimenticabili lotte nonviolente contro la mafia e il
sottosviluppo, per i diritti, il lavoro e la dignità. Subisce persecuzioni e
processi. Sociologo, educatore, è tra le figure di massimo rilievo della
nonviolenza nel mondo. È scomparso sul finire del 1997. Opere di Danilo Dolci:
una antologia degli scritti di intervento e di analisi è Esperienze e
riflessioni, Laterza, Bari 1974; tra i libri di poesia: Creatura di
creature, Feltrinelli, Milano 1979; tra i libri di riflessione più recenti:
Dal trasmettere al comunicare, Sonda, Torino 1988; La struttura
maieutica e l’evolverci, La Nuova Italia, Firenze 1966. Opere su Danilo
Dolci: Giuseppe Fontanelli, Dolci, La Nuova Italia, Firenze 1984;
Antonino Mangano, Danilo Dolci educatore, ECP, S. Domenico di Fiesole
1992. Indirizzi utili: Centro Studi e Iniziative, largo Scalia 5, 90047
Partinico (PA).
5.2.4. Martin Luther King.
Profilo biografico: nato
ad Atlanta in Georgia nel 1929, laureatosi all’Università di Boston nel 1954
con una tesi sul teologo Paul Tillich, lo stesso anno si stabilisce, come
pastore battista, a Montgomery nell’Alabama. Dal 1955 (il primo dicembre accade
la vicenda di Rosa Parks) guida la lotta nonviolenta contro la discriminazione
razziale, intervenendo in varie parti degli USA. Premio Nobel per la Pace nel 1964,
più volte oggetto di attentati e repressione, muore assassinato nel 1968. Opere
di Martin Luther King: tra i testi più noti: La forza di amare, SEI,
Torino 1994 (edizione italiana curata da Ernesto Balducci); Lettera dal
carcere di Birmingham - Pellegrinaggio alla nonviolenza, Movimento
Nonviolento, Verona 1993; L’“altro” Martin Luther King (antologia a cura
di Paolo Naso), Claudiana, Torino 1993. Opere su Martin Luther King: Arnulf
Zitelmann, Non mi piegherete. Vita di Martin Luther King, Feltrinelli, Milano
1996. Esistono altri testi in italiano (ad esempio Hubert Gerbeau, Martin
Luther King, Cittadella, Assisi 1973), ma quelli a nostra conoscenza sono
di scarso valore: sarebbe invece assai necessario uno studio critico
approfondito della figura, della riflessione e dell’azione di Martin Luther
King (anche contestualizzandole e confrontandole con altre contemporanee
personalità, riflessioni ed esperienze di resistenza antirazzista in America).
Una buona introduzione sintetica è in “Azione nonviolenta” dell’aprile 1998
(alle pp. 3-9), con una buona bibliografia essenziale.
5.2.5. Lanza del Vasto.
Profilo biografico:
Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto è nato nel 1901 a San Vito dei Normanni da
madre belga e padre siciliano, studi a Parigi e Pisa. Viaggia e medita. Nel
1937 incontra Gandhi nel suo ashram. Tornato in Europa fonda la
“Comunità dell’Arca”, un ordine religioso e un’esperienza comunitaria
nonviolenta, artigianale, rurale, ecumenica. Partecipa a numerose iniziative
per la pace e la giustizia. È morto in Spagna nel 1981. Opere di Lanza del
Vasto: Pellegrinaggio alle sorgenti, Vinoba o il nuovo pellegrinaggio,
Che cos’è la nonviolenza, tutti presso Jaca Book (che ha pubblicato
anhce altri libri di Lanza del Vasto); Princìpi e precetti del ritorno all’evidenza,
Gribaudi, Torino 1988; Lezioni di vita, Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze 1980. Opere su Lanza del Vasto: non conosciamo monografie in volume su
Lanza del Vasto; un testo utile scritto da uomini e donne che partecipano
dell’esperienza della “Comunità dell’Arca” è: Proposte per una società
nonviolenta, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1982.
Viterbo, martedì 6 luglio 1999
La situazione mondiale attuale
e la necessità della scelta della nonviolenza
“Contro
la falsa armonia del mondo ottenuta buttando via le vittime”
(Aldo Capitini)
1. Guardiamoci intorno
I quattro quinti dell’umanità
vivono una vita di enormi sofferenze; le guerre, la fame, lo sfruttamento, l’oppressione
e l’ingiustizia strutturale tengono in condizioni disumane la maggior parte
dell’umanità; la biosfera (ovvero quella sottile pellicola del nostro pianeta
in cui soltanto esiste vita vegetale, animale ed umana) è messa a rischio da un
modello di sviluppo criminale; ingenti risorse che potrebbero offrire benessere
a molti, vengono invece rapinate, sperperate, distrutte da pochi; è crescente
l’inquinamento dell’ambiente e la distruzione di risorse non rinnovabili; le
nuove tecnologie (particolarmente quelle informatiche e quelle biologiche)
contengono grandi potenzialità ma implicano enormi rischi e richiedono per la
loro gestione un di più di democrazia, di razionalità, di responsabilità; si
pone il problema di quale pianeta stiamo predisponendo per le generazioni
future; pace, democrazia e diritti umani mai come oggi costituiscono una triade
di esigenze irrefutabili e irrinviabili.
2. Dieci ferite della contemporaneità
Un recente volume che analizza
alcune figure e correnti della riflessione morale contemporanea (AA. VV., Etiche
della mondialità, Cittadella, Assisi 1996) propone questa descrizione
schematica della situazione presente:
“Le ferite più laceranti della contemporaneità possono essere ricapitolate nel quadro seguente, articolato in dieci punti:
1. l’invadenza
e gli effetti sconvolgenti di un ordine economico mondiale che, per assicurare
l’opulenza ad una minoranza dell’umanità, produce per tutti gli altri la fame,
il sottosviluppo, la disoccupazione, la degradazione del lavoro;
2. la
crisi ecologica, con intollerabili danni alla biosfera ed alle condizioni per
la sopravvivenza delle diverse forme di vita sulla terra;
3. la
crisi demografica, con la crescente sproporzione tra popolazione e risorse
disponibili;
4. l’acuirsi
delle tensioni etniche e religiose, delle discriminazioni di casta e di sesso,
nonché la traduzione irresponsabile del principio dell’autodeterminazione dei
popoli;
5. la
crisi delle relazioni interumane di solidarietà e l’esclusione di intere fasce
della società;
6. il
ricorso alla guerra come risoluzione delle controversie internazionali;
7. l’esistenza
di regimi dittatoriali ed il ripetersi della violazione dei diritti umani in
molti stati;
8. l’espandersi
delle organizzazioni criminali transnazionali e del mercato mondiale delle
droghe;
9. il
monopolio occidentale del sistema informativo-comunicativo e l’omologazione
delle culture sotto il liberismo assoluto dell’Occidente;
10.
la difficoltà di indirizzare al bene comune dell’umanità
le dinamiche e gli esiti della ricerca scientifica e della tecnologia.”
Si potrebbe dire diversamente,
di alcune cose si potrebbe discutere, ma il quadro complessivo è all’incirca
questo.
Vari studiosi e vari
rappresentanti di movimenti che lottano per la dignità umana, concordano nel denunciare
la situazione presente come intollerabile; cfr. ad esempio le analisi proposte
dalla prestigiosa rivista “Le Monde diplomatique”, o le analisi del
subcomandante Marcos portavoce dell’esperienza zapatista in Chiapas. Come si
può accettare questa situazione?
3. Che fare?
Si pone il problema di opporsi
a tanta violenza, a tanto dolore, a tanta ingiustizia, a tanta follia.
Ed occorre quindi elaborare e
praticare delle adeguate etiche planetarie; dei comportamenti concreti capaci
di contrastare la catastrofica deriva presente; una azione politica coerente ed
efficace; progetti, dinamiche, istituzioni all’altezza delle necessità. Come
fare?
Noi crediamo che per la lotta
che occorre condurre alcuni strumenti operativi importanti li offra la
teoria-prassi della nonviolenza.
4. La proposta della nonviolenza come teoria-pratica di liberazione
La nonviolenza è una possibile
risposta a questo urgente problema: alla violenza crescente si può, si deve,
opporre la nonviolenza.
Ma detto questo è stato detto
ancora ben poco: cosa è la nonviolenza?
In prima approssimazione
potremmo dire che la nonviolenza è una teoria-pratica di liberazione, ovvero
una proposta di azione finalizzata all’affermazione concreta e immediata della
dignità umana; una proposta pratica, ma che implica dei giudizi di valore, e
quindi una teoria: un punto di vista che concerne questioni morali, politiche,
gnoseologiche (cioè relative alla teoria della conoscenza), antropologiche
(ovvero una visione dell’uomo e della cultura). Ma essenzialmente a nostro
avviso la nonviolenza è lotta contro la violenza, lotta contro l’ingiustizia,
lotta che afferma la responsabilità di ognuno per il bene di tutti, lotta che
nel suo stesso farsi istituisce democrazia, diritti umani, difesa della
biosfera.
5. La nonviolenza come cosa complessa
La nonviolenza è una
teoria-prassi sperimentale ed in continuo sviluppo creativo, dalle molteplici
dimensioni ed interpretazioni, quindi da studiare rigorosamente.
La nonviolenza non è una cosa
semplice. Lo stesso termine si presta a diverse interpretazioni; i suoi ambiti
applicativi sono molto diversificati, coloro che alla nonviolenza si sono
accostati o che di strumenti, tecniche, riflessioni di essa hanno fatto uso, ne
hanno dato interpretazioni molto diverse.
Lo stesso Gandhi, che ne è il
vero e proprio fondatore, ne ha dato definizioni diverse ed ha elaborato un
concetto di essa sperimentale, contestuale, dinamico, critico. Sperimentale
perché la nonviolenza non è un dogma ma un concreto operare in quanto tale
costantemente ri-discutibile; contestuale, perché è solo nel vivo del
conflitto, solo nella concretezza della lotta contro l’ingiustizia, che la
nonviolenza in quanto prassi si dà, si misura e si definisce; dinamico, perché
appunto la nonviolenza non è un che di statico, di ipostatizzato, di
prefissato, di preconfezionato, ma si realizza nel processo della lotta, nel
vivo del conflitto, nel cuore della storia e della società, ed agisce come
parte in causa, come elemento contraddittorio e propulsivo, come rottura del disordine
costituito e come progetto di trasformazione; critico, perché la nonviolenza
non è uno stato di quiete, di appagamento, la fine di alcunché, ma un costante
rovello, un’incessante verifica, una lotta interminabile, e quindi anche una
serrata critica ed autocritica.
La nonviolenza non è una
ideologia o una filosofia politica e sociale in più; ma non è neppure un mero
repertorio di strumenti e di tecniche; essa si propone come una teoria-prassi
compatibile con altre teorie morali e politiche, ma ha una sua autonomia e
coerenza che ne fa una cosa complessa, inconclusa, in sviluppo, ma insieme una
cosa non confondibile, non sussumibile, non addomesticabile.
6. Dimensioni ed interpretazioni della nonviolenza
Dimensioni: vedremo che la
nonviolenza ha diverse dimensioni, una di esse è quella della scelta
etico-politica, e quindi della condotta personale e collettiva nella vita
quotidiana come nei conflitti politici, sociali e culturali; una seconda
dimensione è quella delle tecniche di lotta e delle forme di gestione delle
relazioni e dei conflitti; una terza dimensione è quella della nonviolenza come
strategia di lotta contro le ingiustizie; una quarta dimensione è quella del
progetto politico, economico e sociale che la scelta nonviolenta implica se le
sue premesse vengono svolte fino alle ultime conseguenze.
Interpretazioni: si potrebbe
dire che vi sono tante interpretazioni della nonviolenza quanti sono coloro che
la hanno adottata e che su di essa hanno riflettuto.
Per quanto ci concerne, noi
qui proponiamo un approccio non dogmatico, ma sperimentale ed aperto, concreto
e contestuale; pertanto questo stesso scritto non è un formulario tuttologico,
o un ricettario onnivalente, ma la proposta e la descrizione -certo
intenzionata, certo non neutrale- di una serie di tesi su cui comunque la
discussione e la riflessione restano aperte.
7. Cosa è la nonviolenza: questioni terminologiche preliminari
7.1. Il termine
Il termine “nonviolenza” è la
traduzione italiana del concetto coniato da Gandhi per definire la sua proposta
ed azione di lotta; Gandhi utilizza due termini: ahimsa (che potremmo
tradurre come “non violenza”, o anche “contrario della violenza”, “opposizione
alla violenza”; e satyagraha, che potremmo tradurre come “forza della
verità”, “attaccamento, adesione alla verità”. Il termine italiano nonviolenza
li traduce entrambi unificandoli; la sua peculiare forma grafica (scrivere cioè
“nonviolenza” tutto attaccato e non separando “non” e “violenza”) è stata proposta
da Aldo Capitini, il maggior pensatore e promotore della nonviolenza in Italia,
per sottolineare la positività ed originalità del concetto.
Il termine “nonviolenza” è
quindi recente, risale a Gandhi ed è del tutto novecentesco.
7.2. Il concetto
Ci si è posti spesso il
problema se sia recente anche il concetto cui il termine si riferisce. Come è
noto una diffusa antologia di scritti gandhiani edita per le cure dell’Unesco
si intitola Antiche come le montagne, e fa riferimento ad una celebre
frase gandhiana in cui la nonviolenza è definita appunto “antica come le
montagne”.
Ahinoi, qui contesteremo
questa autorevole opinione, ed en passant contesteremo anche la fattura
di questo celebre libro come di molte altre antologie gandhiane. E cominciamo
da questa seconda opposizione: spesso si pubblicano raccolte di scritti
gandhiani riducendo i suoi ragionamenti in “pillole”, in frasi celebri astratte
dal contesto. Ma Gandhi non è stato uno scrittore sistematico, un accademico,
un trattatista, bensì un militante; e la sua scrittura è quasi esclusivamente
giornalistica ed epistolare, sempre mirata alla concreta lotta da condurre in
quel preciso momento ed in quella precisa situazione; e stando così le cose non
è infrequente che Gandhi torni autocriticamente sulle sue precedenti opinioni
per modificarle; così come è assolutamente ovvio che in momenti e situazioni
diverse egli si esprima in modo diverso e vi siano quindi testi gandhiani che
estrapolati dal contesto e posti l’uno di fronte all’altro possono sostenere
due tesi perfettamente opposte. Da ciò deduciamo la necessità di evitare la
pubblicazione di “pillole” gandhiane, per quanto brillanti ed acuminate possano
essere singole frasi ridotte ad aforismi, e proponiamo invece che si pubblichi
(e quindi si legga) Gandhi in edizioni che diano conto del contesto in cui i
singoli testi proposti alla riflessione concretamente si inseriscono (da questo
punto di vista non si loderà mai abbastanza per il suo rigore e la sua lealtà
la fondamentale antologia di scritti gandhiani curata da Giuliano Pontara per
Einaudi: Mohandas Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi,
Torino).
Detto questo, passiamo alla
questione cruciale: il concetto di nonviolenza è antico o recente? Noi
propendiamo per la seguente risposta: il concetto di nonviolenza è recente, e
risale a Gandhi; la prassi della nonviolenza è invece effettivamente antica ed
ha molte manifestazioni nel corso della storia dell’umanità.
7.3. La prassi
Vi sono nel passato
innumerevoli episodi di riflessione e prassi nonviolente, ma in essi raramente
la nonviolenza si presenta come un concetto autonomo e fondativo dell’azione;
più spesso è implicato da motivazioni o da finalità che restano altre.
Facciamo alcuni esempi: sono
sicuramente altissime figure di nonviolenti alcuni fondatori e rappresentanti
di religioni: ma in queste personalità, nella loro predicazione, nelle loro
esperienze, non era centrale l’idea di un’azione riformatrice
etico-politico-sociale nonviolenta; centrale è una posizione e proposta
religiosa e trascendente.
Orbene, si potrebbe obiettare
che anche in Gandhi la prospettiva religiosa è centrale; ciò è vero, ma è non
meno vero che la proposta della nonviolenza non si configura come parte
speciale di un progetto religioso da assumere tout court, ma come
teoria-prassi dotata di una sua autonomia e di una sua capacità persuasiva
anche rispetto a persone che non ne condividono i fondamenti religiosi. Ed in
effetti è possibile aderire alla teoria-prassi nonviolenta senza aderire ad una
posizione religiosa.
Ancora: nel corso della storia
molti movimenti sociali hanno fatto uso di tecniche di lotta nonviolente; hanno
proposto e praticato programmi sociali e politici nonviolenti; hanno adottato
etiche personali e collettive nonviolente; basti pensare a tante esperienze del
cristianesimo (il cui ruolo storico nell’abbattimento del sistema schiavistico
antico e dell’ideologia ad esso inerente è indiscutibile), con punte
rilevantissime -un solo esempio: Francesco d’Assisi-; dell’umanesimo -anche qui
un solo esempio: l’irenismo erasmiano-; dell’illuminismo; del socialismo in
molte delle sue concrete vicende di pensiero e di lotta; delle tradizioni che
oggi definiremmo “ecologiste” -includendo in esse anche culture tradizionali
comunitarie distrutte dalla furia colonialista-. Tuttavia una compiuta
(ancorché aperta e felicemente inconcludibile) teorizzazione della nonviolenza
ed una pratica politico-sociale centrata su di essa è un fatto del nostro
secolo.
Poi, naturalmente, in alcune
delle figure più rilevanti della nonviolenza contemporanea ed autocosciente la
radice della riflessione, della scelta e dell’impegno può benissimo essere
religiosa, così è in Gandhi, così in Lanza del Vasto, così in Martin Luther
King, così anche -in modo a lui peculiare- in Aldo Capitini (che pure
interagisce con l’antifascismo politico e la tradizione otto-novecentesca
azionista, mazziniana ma anche liberal-socialista come è noto); ma molte delle
persone che hanno aderito ai movimenti di lotta da essi suscitati potevano
benissimo non condividere quella radice e pur sentirsi completamente presi da
quelle proposte analitiche ed operative, di riflessione e di lotta, ed aderirvi
quindi toto corde muovendo da una prospettiva integralmente laica.
Fondamentalmente laica ci pare
di poter considerare la proposta di Danilo Dolci, o quella ecofemminista di
Vandana Shiva, o l’elaborazione di Gene Sharp, o di Johan Galtung, o di
Giuliano Pontara. Ed un rappresentante illustre della nonviolenza come Jean
Marie Muller ha pertinentemente argomentato nel senso del riconoscimento
dell’autonomia teorica della nonviolenza e della possibilità di un’adesione ad
essa indipendentemente dall’eventuale credo religioso personale; ed
analogamente ha argomentato, in una più ampia riflessione sull’uomo
“planetario” che deve fronteggiare qui e adesso sfide globali terribili e
cruciali e costruire una cultura della pace che a tutti chiede un peculiare
contributo, uno straordinario sacerdote cattolico come Ernesto Balducci.
Insomma, la prassi nonviolenta
è un fenomeno che ha una lunga tradizione storica; la concettualizzazione della
nonviolenza come teoria-prassi specifica risale a Gandhi ed è quindi fenomeno
relativamente recente; la terminologia precisamente corrispondente è gandhiana,
e la sua più adeguata traduzione e peculiare trascrizione italiana è merito
particolare di Aldo Capitini.
8. Cosa è la nonviolenza: alcune definizioni classiche
Venendo alla definizione di
cosa la nonviolenza sia, preliminarmente ripetiamo che di essa sono state date
definizioni molteplici non solo a seconda dei diversi protagonisti che ne hanno
fatto uso e dei diversi autori che ne hanno scritto, ma anche dalla stessa
persona, militante e/o studioso, in fasi e contesti diversi della sua
riflessione e del suo agire.
Qui proponiamo una nostra
definizione sintetica ed aperta: la teoria-prassi della nonviolenza si basa
sull’amore-forza della verità, è lotta contro la violenza condotta in modo
rigoroso e radicale, praticando la coerenza tra mezzi e fini; la nonviolenza si
caratterizza per un atteggiamento sperimentale e non dogmatico, di apertura e
comprensione; la nonviolenza è agire nelle situazioni di conflitto, è
resistenza concreta e intransigente contro l’oppressione, è progetto sociale di
eguaglianza e di liberazione testimoniato e costruito nell’azione diretta.
Di seguito indichiamo alcuni
testi di riferimento presso cui è possibile trovare alcune definizioni
classiche di essa date dai più grandi studiosi e militanti della nonviolenza.
8.1. Alcune definizioni di Gandhi
Segnaliamo qui come
riferimento la bella antologia di scritti di Mohandas Gandhi, Teoria e
pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1973 e successive edizioni.
8.2. Alcune definizioni di Aldo Capitini
Segnaliamo qui come
riferimento la bella antologia di scritti di Aldo Capitini, Il messaggio di
Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977.
8.3. Una sintesi di Giuliano Pontara
Di Giuliano Pontara segnaliamo
qui (oltre ai vari suoi volumi -di cui i più recenti sono La personalità
nonviolenta e Guerra, disobbedienza civile, nonviolenza, ambedue
presso le Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996-, ed alla notevole introduzione a
Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino)
particolarmente le brevi voci Gandhismo e Nonviolenza in Norberto
Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino (a cura di), Dizionario di
politica, Utet, Torino, poi in edizione economica Tea, Milano.
8.4. Una sintesi di Jean Marie Muller
Segnaliamo qui l’opera di Jean
Marie Muller, Strategia della nonviolenza, Marsilio, Padova 1975. Di
essa diamo il sommario: Prefazione, di Matteo Soccio. Introduzione.
Dall’esigenza morale all’azione nonviolenta. Amore, costrizione e violenza.
Princìpi e fondamenti della disobbedienza civile. Il programma costruttivo. Un
dinamismo rivoluzionario. L’importanza dell’organizzazione. I diversi momenti e
i diversi metodi dell’azione diretta nonviolenta. La violenza è l’arma dei
ricchi. L’azione violenta isola la rivoluzione. La riconciliazione della
rivoluzione e della ragione. L’azione nonviolenta di fronte alla repressione.
Il rischio della violenza. Bibliografia sulla nonviolenza, a cura di Matteo
Soccio.
8.5. Una sintesi di Gene Sharp
Segnaliamo qui l’opera
fondamentale di Gene Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1985-1997, tre volumi. Di essa diamo una sintesi del
sommario: Volume primo: potere e lotta. Introduzione di Matteo Soccio.
Prefazione di Gene Sharp. Capitolo primo. La natura e il controllo del potere
politico. Capitolo secondo. La base strutturale per il controllo dei
governanti. Capitolo terzo. L’azione nonviolenta: una forma attiva di lotta.
Volume secondo: le tecniche. Nota dell’editore. Introduzione di Gene Sharp.
Capitolo quarto. Le tecniche di protesta e persuasione nonviolenta. Capitolo quinto.
Le tecniche di noncollaborazione sociale. Capitolo sesto. Le tecniche di
noncollaborazione economica. 1. I boicottaggi economici. Capitolo settimo. Le
tecniche di non-collaborazine economica. 2. Gli scioperi. Capitolo ottavo. Le
tecniche di noncollaborazione politica. Capitolo nono. Le tecniche di
intervento nonviolento. Conclusione. Appendice. Le forme di azione nonviolenta
in Italia dal 1945 ad oggi di Matteo Soccio. Elenco delle tecniche. Volume
terzo: la dinamica. Prefazione all’edizione italiana di Giovanni Salio.
Introduzione di Gene Sharp. Capitolo decimo. Le basi dell’azione nonviolenta.
Capitolo undicesimo. La sfida scatena la repressione. Capitolo dodicesimo.
Solidarietà e disciplina per combattere la repressione. Capitolo tredicesimo.
il jujitsu politico. Capitolo quattordicesimo. Tre strade per ottenere il
successo. Capitolo quindicesimo. La redistribuzione del potere. Conclusione.
Appendice. Sommario dei fattori che determinano l’effetto delle lotte
nonviolente.
8.6. Una sintesi di Christian Mellon e Jacques Semelin
Segnaliamo qui il volumetto di
Christian Mellon e Jacques Semelin, La non-violence, P.U.F., Paris 1994.
Di esso diamo il sommario: introduzione. Capitolo I. Alla ricerca di una
definizione: 1. Una nozione ambigua; 2. Definire la violenza; 3. Definire la
nonviolenza; 4. Altri chiarimenti concettuali. Capitolo II. La violenza
rifiutata: 1. L’approccio pragmatico; 2. Il riferimento alle tradizioni
religiose; 3. La logica di un’etica politica. Capitolo III. Princìpi e metodi
dell’azione nonviolenta: 1. Modalità di elaborazione e di espressione pubblica;
2. Modalità di pressione e di contrasto. Capitolo IV. Le dinamiche della lotta
senza armi: 1. La dinamica collettiva; 2. La dinamica simbolica. Capitolo V. Di
fronte alla repressione e allo sterminio: 1. Di fronte alla repressione; 2. Di
fronte allo sterminio. Capitolo VI. Di fronte alla guerra: 1. Strategie civili
di difesa e di dissuasione; 2. A nuovo contesto, nuove ricerche. Conclusione.
Allegato. Alcuni esempi storici. Bibliografia.
8.7. Dodici sguardi sulla nonviolenza
Ci permettiamo di riprodurre
qui alcune nostre proposte di definizione, già più volte diffuse all’interno di
altri documenti, scusandoci per la ripetizione.
8.7.1. Rompere la complicità.
Alla base della nonviolenza vi
è la consapevolezza che il potere ingiusto ed oppressivo si regge anche sulla
complicità delle vittime e degli indifferenti: la nonviolenza è in primo luogo
un appello a rompere la complicità con l’ingiustizia, a toglierle il consenso,
ad uscire dalla passività, a prendersi la propria responsabilità, a lottare per
la verità e la giustizia.
8.7.2. La nonviolenza è lotta.
È lotta contro la violenza,
contro l’ingiustizia, contro la menzogna. È lotta perché ogni essere umano sia
riconosciuto nella sua dignità; è lotta contro ogni forma di sopraffazione; è
lotta di liberazione per l’uguaglianza di tutti nel rispetto e nella
valorizzazione della diversità di ognuno. È la forma di lotta più profonda,
quella che va più alla radice delle questioni che affronta. È lotta contro il
potere violento, cui si oppone nel modo più completo, rifiutando la sua
violenza e rifiutando di riprodurre violenza. Afferma la coerenza tra i mezzi
ed i fini, tra i metodi e gli obiettivi. Tra la lotta e il suo risultato c’è lo
stesso rapporto che c’è tra il seme e la pianta. Chi lotta per la liberazione
di tutti, deve usare metodi coerenti. Chi lotta per l’uguaglianza deve usare
metodi che tutti possano usare. Chi lotta per la verità e la giustizia deve
lottare nel rispetto della verità e della giustizia. È lotta contro il male,
non contro le persone. È lotta per difendere e liberare, per salvare e per
convincere, e non per umiliare o annientare altre persone. È lotta fatta da
esseri umani che non dimenticano di essere tali. Che non si abbrutiscono, che
non vogliono fare del male, bensì contrastare il male. È lotta per l’umanità.
La nonviolenza è il contrario della viltà. È il rifiuto di subire
l’ingiustizia; è il rifiuto di ogni ingiustizia, sia di quella contro di me,
sia di quelle contro altri. La nonviolenza è lotta. È lotta per la verità, è
lotta per la giustizia, è lotta di liberazione e di solidarietà, è lotta contro
ogni oppressione.
8.7.3. Otto brevi caratterizzazioni della nonviolenza.
La nonviolenza è forte: può opporsi efficacemente alla forza delle armi; può sfidare coerentemente i più grandi poteri del mondo. La nonviolenza è umile: non richiede attitudini eccezionali, pose monumentali, proclami retorici; non richiede ingenti risorse fisiche o finanziarie; richiede limpidezza di condotta ed assunzione di responsabilità. La nonviolenza è concreta: interviene realmente nel conflitto; porta la pace e la giustizia nel suo stesso porsi; si oppone ugualmente alla vigliaccheria ed alla violenza; educa alla dignità umana. La nonviolenza è coerente: è l’unico modo coerente di lottare contro la violenza; è l’unico modo coerente di affermare la dignità di ogni essere umano; è l’unico modo coerente per ridurre l’ingiustizia e il dolore nel mondo. La nonviolenza è il potere di tutti: poiché tutti possono lottare con la nonviolenza, poiché la nonviolenza fa appello a tutti, poiché la nonviolenza rispetta la dignità di tutti e di ciascuno. La nonviolenza è adesione alla verità, è forza della verità: da Gandhi a Capitini gli amici della nonviolenza sanno che essa è incompatibile con la menzogna, con i sotterfugi, con gli intrighi e le doppiezze: la nonviolenza è l’amore per la verità che irrompe nell’agire politico e sociale, è il principio responsabilità (il rispondere al volto dell’altro che muto e sofferente ti interroga -Lévinas-, il farsi carico del mondo e dell’umanità -Jonas-) che si rende operare autentico; è la critica della ragion pratica che si fa movimento di solidarietà e di liberazione. La nonviolenza è lotta come amore: lotta integrale contro l’ingiustizia e la menzogna, lotta integrale per la comunicazione e la dignità, lotta integrale contro la violenza; lotta integrale per i diritti umani, lotta integrale per un’umanità di eguali, liberi e fraterni. La nonviolenza è utopia concreta, principio speranza, ortopedia del camminare eretti: abbiamo usato queste tre formule del filosofo Ernst Bloch per significare che la nonviolenza è concreta azione e concreto progetto politico e sociale di dignità umana e difesa della biosfera; che la nonviolenza è inveramento della speranza in una lotta coerente e che nel suo stesso farsi è liberante; che la nonviolenza è affermazione ed istituzione del diritto e dei diritti, legalità e democrazia in cammino.
8.7.4. Quattro regole di condotta per l’azione diretta nonviolenta
1. A
un’iniziativa nonviolenta possono partecipare solo le persone che accettano
incondizionatamente di attenersi alle regole della nonviolenza.
2. Tutti
i partecipanti devono saper comunicare parlando con chiarezza, con
tranquillità, con rispetto per tutti, e senza mai offendere nessuno.
3. Tutti
i partecipanti devono conoscere perfettamente senso, fini, modalità e
conseguenze dell’azione diretta nonviolenta; devono averne piena conoscenza, e
devono esserne completamente convinti, in particolare sottolineiamo la
necessità di essere pienamente informati consapevoli delle conseguenze cui ogni
singolo partecipante può andare incontro, conseguenze che vanno accettate
pacificamente e onestamente, ed alle quali nessuno deve cercare di sottrarsi.
4. Tutti
devono rispettare i seguenti princìpi della nonviolenza: a) non fare del male a
nessuno (se una sola persona dice o fa delle stupidaggini, o una sola persona
si fa male, l’azione diretta nonviolenta è irrimediabilmente e totalmente
fallita, e deve essere immediatamente sospesa); b) spiegare a tutti (amici,
autorità, interlocutori, interpositori, eventuali oppositori) cosa si intende
fare, e che l’azione diretta nonviolenta non è rivolta contro qualcuno, ma
contro la violenza; c) dire sempre e solo la verità; d) fare solo le cose
decise prima insieme con il metodo del consenso ed annunciate pubblicamente
(cioè a tutti note e da tutti condivise); nessuno deve prendere iniziative
personali di nessun genere; la nonviolenza richiede lealtà e disciplina; e)
assumersi la responsabilità delle proprie azioni e quindi subire anche le
conseguenze che ne derivano; f) mantenere una condotta nonviolenta anche di
fronte all’eventuale violenza altrui. Chi non accetta queste regole non può
partecipare all’azione diretta nonviolenta, poiché sarebbe di pericolo per sé,
per gli altri e per la riuscita dell’iniziativa che deve essere, appunto,
rigorosamente nonviolenta. Per poter partecipare ad un’azione diretta
nonviolenta è necessario aver partecipato prima alla discussione ed
all’organizzazione che ha portato alla sua decisione e realizzazione, ed è
altresì assolutamente indispensabile aver partecipato ad un training di
addestramento alla nonviolenza.
8.7.5. Una definizione fondamentale: la “carta” del Movimento Nonviolento.
Una definizione breve e
precisa degli obiettivi e dei metodi di chi si impegna con e per la nonviolenza
è nella carta ideologico-programmatica del Movimento Nonviolento fondato
da Aldo Capitini: “Il movimento nonviolento lavora per l’esclusione della
violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello
locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell’apparato di
potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento
persegue lo scopo della creazione di una comunità mondiale senza classi che
promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le
fondamentali direttrici d’azione del movimento nonviolento sono: I.
l’opposizione integrale alla guerra; II. la lotta contro lo sfruttamento
economico e le ingiustizie sociali, l’oppressione politica ed ogni forma di
autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla
razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; III. lo sviluppo
della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di
organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da
parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; IV. la
salvaguardia dei valori di cultura e dell’ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un’altra delle forme di violenza dell’uomo. Il movimento
opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell’uccisione e
della lesione fisica, dell’odio e della menzogna, dell’impedimento del dialogo
e della libertà di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta
nonviolenta sono: l’esempio, l’educazione, la persuasione, la propaganda, la
protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza
civile, la formazione di organi di governo paralleli”.
8.7.6. Necessità dell’addestramento alla nonviolenza.
La nonviolenza non è né un
atteggiamento spontaneo, né un banale “volersi bene”; bensì: a) una meditata
scelta etico-politica di trasformazione delle relazioni personali e sociali, b)
un insieme di tecniche di lotta rigorose ed assai elaborate, c) una strategia
di lotta profondamente caratterizzata, d) un progetto di relazioni umane e
politiche radicalmente alternativo a quelle dominanti. Quindi la nonviolenza
non è affatto “spontanea”, va conosciuta e coltivata. Nessuno si sorprende se
un soldato deve addestrarsi, nessuno si sorprende se un medico deve studiare:
ebbene, la nonviolenza richiede un addestramento e uno studio non inferiori ma
superiori a quelli richiesti al soldato ed al medico. Senza studio non è
possibile comprendere la nonviolenza; senza addestramento non è possibile
condurre l’azione nonviolenta. Proprio perché la nonviolenza è una proposta
politica di lotta di liberazione che nel suo stesso farsi inveri la dignità
umana di ognuno e di tutti, essa richiede un impegno di conoscenza, di
preparazione, di discussione, di consapevolezza e di capacità critica e
autocritica assolutamente superiore a quello richiesto in altre forme di
organizzazione, in altri ambiti di studio, in altre proposte di azione.
8.7.7. I diritti umani, presi sul serio.
Scegliamo la nonviolenza
perché essa è l’unica teoria-prassi dell’azione politica e sociale collettiva
che si prefigge nel suo stesso svolgersi il rispetto dei diritti umani di
tutti, non solo di coloro che partecipano all’azione, ma anche di coloro che la
subiscono. La nonviolenza non rinvia la realizzazione dei diritti umani ad un futuro
successivo alla conclusione della lotta, essa realizza i diritti umani nel
corso stesso della lotta. La nonviolenza non nega umanità agli avversari con
cui lotta, essa riconosce l’umanità degli avversari con cui lotta. La
nonviolenza è lotta intransigente per affermare la dignità umana di tutti e per
affermarla subito. Essa è nei suoi metodi e nel suo svolgersi coerente con i
suoi fini: poiché il fine è la dignità umana e la liberazione dall’oppressione,
la lotta nonviolenta nel suo stesso svolgimento deve realizzare la dignità di
tutti e prefigurare la liberazione di tutti. Per questo diciamo che la
nonviolenza è lotta come amore.
8.7.8. La liberazione umana, subito.
Inoltre scegliamo la
nonviolenza perché essa è l’unica teoria-prassi dell’azione politica e sociale
collettiva che realizza nel suo stesso farsi una forma autentica di democrazia
diretta, rapporti egualitari e non gerarchici, che prefigura già nella sua
organizzazione relazioni umane e sociali liberate e liberanti; perché consente
la partecipazione di tutti ed abolisce rapporti di potere e di oppressione. Per
questo essa adotta il metodo del consenso, per questo essa non è solo una forma
di lotta ma anche una occasione di costruzione di rapporti umani solidali; per
questo nella nonviolenza si richiede una piena limpidezza di comportamenti e
una forte lealtà nei confronti di tutti, di sottoporre tutto alla discussione
comune, e di scegliere sempre e solo gli obiettivi e le forme di lotta che
tutti i partecipanti condividono.
8.7.9. La nonviolenza è gestione del conflitto.
La nonviolenza è gestione del
conflitto, la cui esistenza essa riconosce e valorizza. La nonviolenza non è
una visioni idilliaca ed illusoria, quindi narcotizzante, dei rapporti sociali;
ma la consapevolezza della conflittualità degli ideali e degli interessi, delle
situazioni esistenziali e delle relazioni sociali, dei rapporti economici e
politici, degli assetti culturali e ideologici. Essa si propone di intervenire
nel conflitto e di farlo umanizzando il conflitto, valorizzandone la dimensione
morale e conoscitiva, gestendolo in modo da renderlo fecondo di rapporti umani
più giusti, lottando incessantemente contro la violenza, contro l’ingiustizia,
contro l’inganno. Si può essere nonviolenti solo nel conflitto, si può essere nonviolenti
solo se si lotta per la giustizia. Gli indifferenti, coloro che chiudono gli
occhi, chi se ne sta chiuso in casa sua, non è nonviolento. La nonviolenza è
lotta integrale e intransigente contro l’ingiustizia. La nonviolenza è il
contrario della viltà, il contrario dell’egoismo, il contrario della passività,
il contrario del motto fascista “me ne frego”. La nonviolenza è quella
specifica forma di gestione del conflitto che ripudia la violenza e si propone
come fine precipuo di combatterla e di abolirla.
8.7.10. La nonviolenza è ripudio assoluto della violenza.
La nonviolenza è opposizione
assoluta alla violenza: non ammette complicità, meschinità o sotterfugi. La
nonviolenza smaschera e ripudia i sofismi sulla “violenza buona”, sulla “guerra
giusta”, e simili infamie: la nonviolenza si oppone sempre e comunque alla
guerra e alla violenza. Ovviamente gli amici della nonviolenza riconoscono agli
oppressi il diritto di legittima difesa; ovviamente gli amici della nonviolenza
hanno la capacità di ricostruire i rapporti di causa ed effetto che producono
l’oppressione e la violenza, e si battono in primo luogo contro le cause e le
condizioni strutturali che producono ingiustizia, sopraffazione, sofferenza,
violenza. Lo stesso Gandhi era esplicito nel dichiarare che di fronte alla
violenza la cosa peggiore è la viltà, e che se non si ha la forza di resistere
con la nonviolenza, gli oppressi hanno il dovere di resistere comunque; ma
aggiungeva che la nonviolenza è incomparabilmente più forte e migliore della resistenza
violenta, e che occorre avere la forza di scegliere sempre e comunque la
nonviolenza. Noi riteniamo che vi siano argomentazioni ineludibili che ci
convincono a ripudiare la violenza come metodo di lotta; argomenti che ci
persuadono quindi ad ammettere solo la nonviolenza come metodo di lotta.
8.7.11. Per la critica della violenza.
Elenchiamo alcune ragioni
essenziali per cui occorre essere rigidamente contro la violenza. Citiamo da
Giuliano Pontara, voce Nonviolenza, in AA.VV., Dizionario di politica,
Tea, Torino 1992: I. il primo argomento “mette in risalto il processo di escalation
storica della violenza. Secondo questo argomento, l’uso della violenza [...] ha
sempre portato a nuove e più vaste forme di violenza in una spirale che ha
condotto alle due ultime guerre mondiali e che rischia oggi di finire nella
distruzione dell’intero genere umano”; II. il secondo argomento “mette in
risalto le tendenze disumanizzanti e brutalizzanti connesse con la violenza”
per cui chi ne fa uso diventa progressivamente sempre più insensibile alle
sofferenze ed al sacrificio di vite che provoca; III. il terzo argomento
“concerne il depauperamento del fine cui l’impiego di essa può condurre [...].
I mezzi violenti corrompono il fine, anche quello più buono”; IV. il quarto
argomento “sottolinea come la violenza organizzata favorisca l’emergere e
l’insediamento in posti sempre più importanti della società, di individui e
gruppi autoritari [...]. L’impiego della violenza organizzata conduce prima o
poi sempre al militarismo”; V. il quinto argomento “mette in evidenza il
processo per cui le istituzioni necessariamente chiuse, gerarchiche,
autoritarie, connesse con l’uso organizzato della violenza, tendono a diventare
componenti stabili e integrali del movimento o della società che ricorre ad
essa [...]. “La scienza della guerra porta alla dittatura” (Gandhi)”. A questi
argomenti da parte nostra ne vorremmo aggiungere altri due: VI. un argomento,
per così dire, di tipo epistemologico: siamo contro la violenza perché siamo fallibili,
possiamo sbagliarci nei nostri giudizi e nelle nostre decisioni, e quindi è
preferibile non esercitare violenza per imporre fini che potremmo
successivamente scoprire essere sbagliati; VII. soprattutto siamo contro la
violenza perché il male fatto è irreversibile (al riguardo Primo Levi ha
scritto pagine indimenticabili soprattutto nel suo ultimo libro I sommersi e
i salvati). Agli argomenti contro la violenza Pontara aggiunge
opportunamente un ultimo decisivo ragionamento: “I fautori della dottrina
nonviolenta sono coscienti che ogni condanna della violenza come strumento di
lotta politica rischia di diventare un esercizio di sterile moralismo se non è
accompagnata da una seria proposta di istituzioni e mezzi di lotta alternativi.
Di qui la loro proposta dell’alternativa satyagraha o della lotta
nonviolenta positiva, in base alla duplice tesi a) della sua
praticabilità anche a livello di massa e in situazioni conflittuali acute, e b)
della sua efficacia come strumento di lotta” per la realizzazione di una
società fondata sulla dignità della persona, il benessere di tutti, la
salvaguardia dell’ambiente.
8.7.12. Perché ci diciamo “amici della nonviolenza” e non “nonviolenti”.
Ci diciamo “amici della
nonviolenza” e non “nonviolenti” perché, come spiegava Aldo Capitini, dobbiamo
essere modesti e realistici: la nonviolenza è un ideale cui tendere, un ideale
assai impegnativo, una pratica da verificare giorno per giorno nella vita
quotidiana, nei rapporti interpersonali come nelle grandi lotte necessarie; e
solo nella verifica quotidiana per un verso, e nel momento più aspro della
lotta, per l’altro, si evidenzia la nostra capacità di attenerci ad essa, di
esserne creativamente gli artefici; quindi evitiamo di sembrare sbruffoni, e
consideriamoci per quello che siamo: donne e uomini in ricerca, per un’umanità
di liberi ed eguali, appunto: amici della nonviolenza.
9. Perché riteniamo necessaria la scelta della nonviolenza
Scopo di questo scritto è
propugnare la tesi che per fronteggiare la situazione planetaria attuale sia
necessario adottare la nonviolenza come teoria e come prassi per elaborare e
realizzare modifiche strutturali ad un “ordine internazionale” iniquo e
distruttivo ed a forme di organizzazione, di produzione e riproduzione sociale
assolutamente ingiuste ed alienate.
Crediamo che solo la
nonviolenza costituisca una teoria-prassi che logicamente e coerentemente possa
contrapporsi sistematicamente ed efficacemente alla violenza dominante, possa
costituire una metodologia di lotta adeguata, possa indicare e prefigurare un
modello di relazioni personali e sociali desiderabili e sostenibili.
Proponiamo la scelta della
nonviolenza a quanti sono impegnati per la pace, la democrazia, i diritti
umani, la difesa della biosfera, in quanto essa è coerente e compatibile con i
loro obiettivi.
Sottolineiamo che formuliamo
la proposta della nonviolenza come esigenza di verità e di concretezza; di
intervento attivo e immediato; di azione coerente e rigorosa; di assunzione
personale e collettiva di responsabilità; di rifiuto della complicità, della
viltà, dell’indifferenza.
Rimarchiamo che la proposta di
dedicarsi allo studio e di far uso della teoria-prassi della nonviolenza non
vuol essere sostitutiva di altri approcci e di altre teorie: crediamo che essa
sia compatibile con un impegno religioso come con un impegno laico; che essa
sia compatibile con varie tradizioni filosofiche, di filosofia morale, di
filosofia del diritto e di filosofia politica; che essa sia giovevole ed
arricchente per movimenti di liberazione e di solidarietà che si richiamano sia
a tradizioni religiose, sia a tradizioni politiche ordinate a fini di giustizia
e libertà, di eguaglianza e dignità umana, di emancipazione degli oppressi, di
difesa e promozione dei diritti sociali, civili, politici, umani; e
particolarmente alle tradizioni liberali, democratiche, socialiste e
libertarie.
10. Un poscritto forse opportuno
Poiché sovente si affibbia a
chi propone la scelta della nonviolenza la qualifica di acchiappanuvole o
peggio, forse non sarà inutile evidenziare qui che la struttura pacifista
militante che firma queste considerazioni ha attraversato gli ultimi tre
decenni impegnata in concrete e prolungate -e talvolta decisamente non facili-
iniziative ambientaliste; di lotta contro le istituzioni totali e di
solidarietà concreta con persone vittima di oppressione ed emarginazione; di
impegno per la pace, il disarmo e contro il militarismo; contro il razzismo; di
solidarietà internazionale con i popoli oppressi e per i diritti umani; contro
la mafia e il regime della corruzione.
Viterbo, venerdì 9 luglio 1999
Dimensioni della nonviolenza: uno schema di analisi
0. Premessa
Molti equivoci sulla
nonviolenza discendono dal fatto che con questo solo termine si intendono cose
molto diverse; proveremo qui a proporre una tematizzazione sulle dimensioni
della nonviolenza, ovvero sui vari aspetti che tale concetto implica.
0.1. Una proposta di individuazione di quattro dimensioni della nonviolenza
La nonviolenza, secondo la
nostra tematizzazione, è:
a) una opzione o posizione
etico-politica;
b) un insieme di tecniche di
lotta politica e sociale;
c) una strategia di azione
trasformatrice;
d) un progetto di società.
Ovviamente a rigor di termini
è possibile parlare di nonviolenza anche in riferimento ad una sola di queste
dimensioni, ma di fatto ciò può dar luogo ad equivoci profondi; vediamone
alcuni.
0.2. Due esempi di equivoci
Ad esempio è possibile che le
tecniche della nonviolenza siano usate da chi nonviolento non è: in questo caso
le tecniche della nonviolenza possono essere utilizzate per scopi che nulla
hanno a che vedere con la nonviolenza, e quindi chi le usa non può proclamarsi
nonviolento solo perché strumentalmente si avvale di tecniche particolarmente
valorizzate dalla tradizione nonviolenta. Del resto, la nonviolenza non è un
sistema chiuso, e non ha né pretende il monopolio di tecniche di lotta che in
gran parte ha scoperto riprendendole da precedenti e variegate esperienze: ad
esempio, lo sciopero è certamente una tecnica di lotta nonviolenta, ma
ovviamente essa non è esclusiva della nonviolenza. Segnaliamo en passant che
è comunque preferibile che anche movimenti sociali e soggetti politici non
nonviolenti, utilizzino comunque, sia pur solo strumentalmente, le tecniche
della nonviolenza anziché forme di lotta violente: l’uso delle tecniche della
nonviolenza comunque riduce la violenza ed umanizza il conflitto.
Un altro esempio: è possibile
che il progetto di società propugnato dalla nonviolenza sia condiviso da altre
tradizioni di pensiero politico e sociale, in particolare dalle tradizioni che
si richiamano al filone socialista e libertario nella tradizione del movimento
dei lavoratori, o al filone comunistico delle tradizioni dei popoli oppressi
che si richiamano a forme sociali ritenute originarie della loro cultura; ma la
convergenza rispetto agli obiettivi finali ed al modello di società proposto
non implica necessariamente identità per quanto attiene alla strategia, alla
tattica, alle forme organizzative, al programma operativo: molto spesso
movimenti ordinati alla liberazione dell’umanità hanno fatto uso di mezzi che
contraddicevano flagrantemente quel fine, e fin troppo frequentemente essi
hanno fatto un uso della violenza che di fatto li ha resi subalterni e talora
omologhi ai poteri oppressivi contro cui lottavano in nome di un’umanità di
liberi ed eguali. Cosicché è evidente che la condivisione del medesimo progetto
di società non è sufficiente a qualificare come nonviolenta tout court un’organizzazione
o un’iniziativa politica che ad esso miri.
0.3. Ipotesi da discutere
Cercheremo adesso di
caratterizzare ciascuna delle dimensioni della nonviolenza sopra indicate. Ovviamente
la proposta di tematizzazione che formuliamo è meramente orientativa, e le
argomentazioni, specificazioni, articolazioni e referenze che rubrichiamo sotto
l’una o l’altra delle dimensioni proposte possono agevolmente e proficuamente
essere altrove trasferite. Al lettore chiediamo di tener conto del carattere
proprio, ovvero della finalità specifica di questo scritto: che è di formulare
alcune ipotesi da sottoporre a discussione.
1. La nonviolenza come teoria-prassi etico-politica per la dignità umana e la difesa della biosfera
1.1. coerenza tra mezzi e fini;
1.2. il principio responsabilità;
1.3. l’umanizzazione della lotta;
1.4. la compresenza dell’altro;
1.5. il rispetto per la vita;
1.6. per un’umanità di eguali.
2. La nonviolenza come metodologia di lotta e di gestione dei rapporti e dei conflitti
2.1. le tecniche della nonviolenza;
2.2. processi decisionali e modelli organizzativi;
2.3. comunicazione ed interazione;
2.4. l’azione diretta nonviolenta;
2.5. l’addestramento alla nonviolenza.
3. La nonviolenza come strategia di trasformazione e di lotta contro l’ingiustizia
3.1. negare il consenso all’ingiustizia;
3.2. un approccio processuale (dinamico, trasformativo) e relazionale;
3.3. il programma costruttivo ed i fini sovraordinati;
3.4. la partecipazione di tutti e la condivisione;
3.5. realizzazione degli obiettivi ed inveramento dei princìpi nel corso stesso della lotta.
4. La nonviolenza come progetto politico, economico, sociale
4.1. nonviolenza e politica, la politica della nonviolenza;
4.2. la proposta economica della nonviolenza;
4.3. il progetto di una società nonviolenta;
4.4. un’ipotesi antropologica.
5. Una postilla
Il presente schema costituisce
semplicemente l’ossatura e per così dire il sommario di un alquanto più ampio
testo cui stiamo tuttora lavorando (e le cui dimensioni sono già piuttosto
obese), che pensiamo di poter pubblicare entro i prossimi mesi.
Viterbo, sabato 10 luglio 1999
Alcune sintetiche definizioni della nonviolenza e della pace in Capitini, Dolci, Galtung e Pontara
Premessa
I testi che seguono vengono
proposti come materiali di riflessione; a noi sembra che essi siano non banali,
e che possano dar luogo ad utili discussioni, a rilevanti approfondimenti. È
chiaro che riportare brevissimi estratti, o tabelle per forza di cose
semplificatrici, non rende giustizia agli autori citati, la cui riflessione è
ben più complessa, dialettica, critica. E tuttavia ci sembra che talora si
possano usare con profitto anche simili strumenti per la riflessione personale,
per la discussione comune.
Gli autori che abbiamo
saccheggiato sono alcune delle personalità più illustri della teoria-prassi
nonviolenta, studiosi e militanti di grande valore la cui azione e le cui opere
sarebbe bene studiare estesamente ed approfonditamente; i lacerti che seguono
valgano anche come invito alle fonti, a volerne sapere di più. Chi non ne
avesse già conoscenza e desiderasse qualche minima informazione ulteriore sulle
persone di seguito citate può utilizzare le voci ad personam della
nostra serie di schede biobibliografiche Uomini di pace.
1. Aldo Capitini: l’agire nonviolento
1.1. Una definizione della nonviolenza
Apriamo il suo libro Religione
aperta, uscito in prima edizione nel 1955, ma che noi abbiamo letto e di
seguito citiamo dalla seconda edizione riveduta e corretta, Neri Pozza Editore,
Vicenza 1964; ogni capitolo del volume si apre con un breve sommario, il
capitolo nono è dedicato alla nonviolenza, il testo di quel sommario (a pagina
141) riproponiamo qui come un’utile ed autorevole definizione sintetica di
essa.
“La nonviolenza non è cosa
negativa, come parrebbe dal nome, ma è attenzione e affetto per ogni singolo
essere proprio nel suo esser lui e non un altro, per la sua esistenza, libertà,
sviluppo. La nonviolenza non può accettare la realtà come si realizza ora,
attraverso potenza e violenza e distruzione dei singoli, e perciò non è per la
conservazione, ma per la trasformazione; ed è attivissima, interviene in mille
modi, facendo come le bestie piccole che si moltiplicano in tanti e tanti
figli. Nella società la nonviolenza suscita solidarietà viva e dal basso. Anche
verso gli esseri non umani la nonviolenza ha un grande valore, appunto come
ampliamento di amore e di collaborazione. Non bisogna impantanarsi nei casi e
nelle ipotesi in cui sia lecita o no la violenza; anzitutto c’è una minaccia di
violenza che investirebbe tutti, la guerra, ed è contro di essa che bisogna
scegliere l’atteggiamento più religioso; e poi nei casi individuali è da tener
presente che la nonviolenza è creazione, è un valore, e che può essere sempre
svolta meglio. La nonviolenza ha diritto al suo posto in mezzo alle
rivoluzioni, e aggiunge princìpi preziosi nell’educazione”.
1.2. La forza preziosa dei piccoli gruppi
Dal volume Il potere di
tutti, La Nuova Italia, Firenze 1969, riprendiamo alcuni stralci
dell’ultimo scritto lì stampato, La forza preziosa dei piccoli gruppi,
ultima delle sue “Lettere di religione”, pubblicata postuma nell’ottobre 1968
(Capitini è scomparso il 19 ottobre di quell’anno).
Il testo esordisce mettendo in
evidenza l’importanza dei gruppi di contestazione, ma subito segnala alcuni
gravi limiti di essi (l’attenzione è verso gli avversari con cui lottare,
invece che alla solidarietà con le persone con cui e per cui operare; manca una
coscienza precisa dei perni guasti del sistema da mutare, dei fini e del
rinnovamento da instaurare; c’è spesso la tendenza a misconoscere e urtare ‘i
più; non danno la garanzia, con il loro modo di agire e di trattare gli altri,
che, se avessero il potere, questo sarebbe di tutti).
Detto questo, Capitini
prosegue caratterizzando l’azione dei gruppi nonviolenti: “la nostra
contestazione del sistema è generale, per le ragioni che sempre diciamo:
1. non
vogliamo che ci sia un sistema che agisca con la violenza fisica sulle persone
di origine vicina o lontana;
2. non
vogliamo che ci sia un sistema che mantenga (con la violenza) l’inferiorità
della povertà di tanti esseri umani;
3. non
vogliamo che si possa ‘manipolare’ l’opinione degli altri, diffondere cose
false o tendenziose, o privare alcuni esseri della libertà di informazione e di
critica;
4. non
vogliamo che si amministri e governi ciò che è pubblico senza la costante
possibilità del controllo di tutti dal basso.
Ma noi sviluppiamo questa
contestazione in un modo nostro, diverso dai gruppi violenti, perché:
1. il
nostro animo e il nostro metodo non è contro le persone, ma contro certi fatti,
certe strutture, certi modi di agire, che possono essere sostituiti da altri.
Noi facciamo appello continuamente alla possibilità di miglioramento in futuro
degli esseri, e perciò il nostro contrasto è con un certo determinato agire e
non con tutta la persona. La garanzia che perciò possiamo dare a tutti non è
tanto di difendere ad oltranza le loro cose, quanto di difendere i valori di
tutti, qualche cosa che è reale o potenziale, oggi o domani, in tutti gli
esseri (noi saremo sempre per la promozione in tutti della libertà, dello sviluppo,
dell’uguaglianza, della nonviolenza, ecc.);
2. per
noi è molto importante il rapporto con le persone, che può essere di
solidarietà in certe campagne nonviolente, e può essere indipendente da queste;
sempre siamo interessati alle persone e agli altri esseri, al tu, al dialogo,
alle assemblee. Noi sappiamo che c’è sempre da praticare e perfezionare questo
rapporto, ad ogni livello e occasione della nostra vita;
3. per
noi i beni sono, più o meno esplicitamente, di tutti, aperti alla fruizione
pubblica. Deve diventare assurdo che ci sia un escluso, un mancante, un misero,
mantenendo diversi livelli sociali e una limitazione di possibilità per alcuni;
4. le
frontiere vanno superate, e la parola ‘straniero’ è da considerare come
appartenente al passato. [...]”.
2. Danilo Dolci: “La pace si identifica con l’azione rivoluzionaria nonviolenta”
Riprendiamo qui un intervento
di Danilo Dolci del 1968, Cosa è pace?, ripubblicato in Esperienze e
riflessioni, Laterza, Bari 1974, alle pagine 225-241, da cui trascriviamo
gli stralci che seguono.
“Non è vero che tutti vogliamo
la pace. Bisogna avere il chiaro coraggio di individuare chi organizza e chi
alimenta la preparazione delle guerre per sopraffare coloro che vuole
sfruttare; di scoprire dove passa il fronte fra il parassitismo di ogni genere
e chi è impedito nel suo sviluppo da emorragie di ogni genere, tra la violenza
di chi difende il proprio parassitismo e la coraggiosa energia di chi difende
la vita; veder chiaro quando e dove questo fronte passa attraverso noi stessi.
[...]
Essere rivoluzionari
Ogni comportamento
-individuale, di gruppo, di massa- che tende sostanzialmente a mantener la
situazione come è, o ad ammettere il cambiamento se lentissimo, di fatto non è
impegno di pace. I prepotenti, quando non possono sopraffare gli altri
prepotenti per sostituirsi a questi, cercano di accordarsi tra loro:
naturalmente in danno ai deboli. Non è questa la pace, anche quando non spara
la lupara o il cannone. [...] Personalmente, sono persuaso che la pace si identifica
con l’azione rivoluzionaria nonviolenta. [...]
Non vendersi
I prepotenti, gli sfruttatori,
i veri fuorilegge, difficilmente possono resistere nelle loro posizioni se non
sono sostenuti e difesi da chi si vende loro. [...]
Pace è un modo diverso di
esistere
[...] La pace che amiamo e
dobbiamo realizzare non è dunque tranquillità, quiete, assenza di sensibilità,
evitare i conflitti necessari, assenza di impegno, paura del nuovo, ma capacità
di rinnovarsi, costruire, lottare e vincere in modo nuovo: è salute, pienezza
di vita (anche se nell’impegno ci si lascia la pelle), modo diverso di
esistere”.
3. Johan Galtung: regole e forme della lotta nonviolenta
3.1. Le regole gandhiane del conflitto
Dal libro di Johan Galtung, Gandhi
oggi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987, riportiamo questa scheda su Le
regole del comportamento conflittuale secondo Gandhi (lì alle pp. 120-121,
e commentata dettagliatamente -e criticamente- nelle pagine successive).
1. I fini e il conflitto
Regola 1.1. Nei conflitti
agisci
-
Agisci subito
-
Agisci qui
-
Agisci per il tuo gruppo
-
Agisci per identificazione
-
Agisci per convinzione
Regola 1.2. Delimita bene il
conflitto
-
Definisci i tuoi fini chiaramente
-
Cerca di capire i fini del tuo avversario
-
Metti in evidenza i fini comuni e compatibili
-
Descrivi i fatti rilevanti del conflitto in modo
obiettivo
Regola 1.3. Adotta un
approccio positivo al conflitto
-
Dai al conflitto un’accentuazione positiva
-
Considera il conflitto come occasione per incontrare
l’avversario
-
Considera il conflitto come occasione per trasformare la
società
-
Considera il conflitto come occasione per trasformare te
stesso
2. La lotta conflittuale
Regola 2.1. Agisci in modo
nonviolento nei conflitti
-
Non offendere o ferire con azioni
-
Non offendere o ferire con parole
-
Non offendere o ferire con pensieri
-
Non danneggiare le proprietà dell’avversario
-
Preferisci la violenza alla codardia
-
Fai del bene anche a chi fa il male
Regola 2.2. Agisci in maniera
conforme al fine
-
Includi sempre un elemento costruttivo
-
Usa forme di lotta che ne rivelino il fine
-
Agisci apertamente, non segretamente
-
Dirigi la lotta verso l’obiettivo corretto
Regola 2.3. Non collaborare
con il male
-
Non collaborare con una struttura malvagia
-
Non collaborare con un ruolo sociale ingiusto
-
Non collaborare con un’azione malvagia
-
Non collaborare con quelli che collaborano con il male
Regola 2.4. Sii disposto a
sacrificarti
-
Non fuggire davanti alle punizioni
-
Sii disposto a morire se necessario
Regola 2.5. Non polarizzare il
conflitto
-
Distingui tra antagonismo e antagonista
-
Distingui tra persona e ruolo sociale
-
mantieni il contatto
-
Immedesimati nella posizione del tuo avversario
-
Sii flessibile nel delimitare le parti in causa e le loro
posizioni
Regola 2.6. Non provocare
escalation nel conflitto
-
Rimani il più leale possibile
-
Non provocare e non lasciarti provocare
-
Non umiliare e non farti umiliare
-
Non ampliare i termini del conflitto
-
Usa le forme di condotta più miti possibili durante il
conflitto
3. La risoluzione del
conflitto
Regola 3.1. Risolvi i
conflitti
-
Non continuare la lotta conflittuale per sempre
-
Cerca sempre di negoziare con l’avversario
-
Cerca di ottenere trasformazioni sociali positive
-
Cerca di trasformare gli esseri umani ((te stesso;
l’avversario)
Regola 3.2. Insisti sulle cose
essenziali, non su quelle marginali
-
Non barattare le cose essenziali
-
Sii disposto ai compromessi per le cose non essenziali
Regola 3.3. Consìderati
fallibile
-
Ricordati che puoi essere nel torto
-
Ammetti apertamente i tuoi errori
-
La coerenza nel tempo non è molto importante
Regola 3.4. Sii generoso nei
confronti dell’avversario
-
Non sfruttare la debolezza dell’avversario
-
Non giudicare l’avversario più severamente di te stesso
-
Abbi fiducia nel tuo avversario
Regola 3.5. Conversione, non
coercizione
-
Cerca sempre soluzioni che siano accettabili (per te
stesso; per l’avversario)
-
Non forzare mai l’avversario
-
Converti l’avversario in un sostenitore della causa.
3.2. Quindici forme della lotta nonviolenta
Anche il testo seguente è
estratto da Gandhi oggi, cit., e particolarmente dalla p. 135, nel
capitolo Gandhi uomo d’azione, che si apre con un paragrafo su Il
satyagraha in pratica: le forme, che elenca ed analizza “le forme
(distinte dalle norme) del satyagraha come venne intrapreso da Gandhi”.
Laddove ci è parso necessario abbiamo integrato la mera elencazione di p. 135
con alcune minime informazioni ulteriori ricavate dalla descrizione che di ogni
singola forma di lotta nonviolenta Galtung svolge nelle pagine 135-148.
1. Negoziato;
2. Arbitrato;
3. Agitazione, dimostrazione,
ultimatum;
4. Hartal (un’estesa
dimostrazione, che confina con lo sciopero generale, in un’area precisa -ad
esempio una città- ma per un breve lasso di tempo); [segnaliamo anche due altre
definizioni di hartal: a) quella data da Aldo Capitini, in Le tecniche della
nonviolenza, Libreria Feltrinelli, Milano 1967, p. 109: “Lo sciopero
diventa hartal (usato spesso da Gandhi, ma anche a Budapest nel 1956), quando
non soltanto viene abbandonata la fabbrica, ma anche le strade, i luoghi di
ritrovo, e gli scioperanti restano nelle proprie case (importante per Gandhi
anche perché così sono eliminati gli incidenti e in casa avviene meditazione e
purificazione)”; b) quella data da Jean Marie Muller, in Strategia della
nonviolenza, Marsilio, Padova 1975, p. 84: “Un hartal è un giorno di
sciopero generale durante il quale viene chiesto a tutta la popolazione di
disertare i luoghi di lavoro, le strade e i luoghi pubblici e di restare a casa
[...]”].
5. Sciopero e sciopero
generale;
6. Picchettaggio;
7. Boicottaggio economico;
8. Boicottaggio sociale;
9. Dharna (è un’antica forma
indiana di dimostrazione e significa semplicemente che una singola persona o un
gruppo di persone si siedono da qualche parte, annunciando che non si
muoveranno finché le loro lamentele non abbiano trovato risposta e le loro
rivendicazioni non siano state accolte);
10. Hizral (la parola è araba
e significa emigrazione di massa dall’area controllata dall’antagonista);
11. Digiuno;
12. Boicottaggio delle tasse;
13. Non-collaborazione;
14. Disobbedienza civile:
14.1. Disobbedienza civile
difensiva;
14.2. Disobbedienza civile
offensiva;
15. Governo parallelo.
Galtung analizza criticamente
ognuna di queste forme di lotta satyagraha, ed evidenzia anche come una
campagna di lotta nonviolenta può consistere di un insieme di esse, ma solitamente
essa le adotta progressivamente, passando dalle forme di lotta più lievi a
quelle più energiche.
4. Giuliano Pontara: cosa è il
satyagraha
Di Giuliano Pontara, uno dei
maggiori studiosi e militanti italiani della nonviolenza, sunteggiamo qui alcuni
passaggi essenziali della voce Gandhismo da lui scritta per il Dizionario
di politica curato da Bobbio, Matteucci e Pasquino, Utet, Torino, poi Tea,
Milano. Nello stesso volume Pontara ha steso altresì le voci Nonviolenza,
Ricerca scientifica sulla pace, Utilitarismo. Segnaliamo che
Pontara è il curatore della fondamentale antologia di scritti di Gandhi, Teoria
e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino, cui ha premesso una vasta ed
approfondita introduzione.
La voce di dizionario di cui
qui citeremo e riassumeremo alcuni punti essenziali esordisce ricordando che
Gandhi insistette sempre nell’affermare che “non esiste qualcosa come il
gandhismo”, così rimarcando il carattere aperto e sperimentale delle sue
concezioni etiche, sociali e politiche, ed il suo rifiuto di ogni forma di
settarismo che si richiamasse al suo nome (come è noto, non altrimenti Marx
affermava di non essere marxista). Gandhi non scrisse alcun trattato
sistematico sulla sua concezione della nonviolenza, la sua opera letteraria è fondamentalmente
costituita di migliaia di articoli giornalistici, lettere, appelli, sempre
stesi con un fine immediato ed interlocutori specifici; del resto la sua
autobiografia conferma questo carattere sperimentale della sua riflessione ed
azione, recando fin nel titolo esplicitamente l’espressione esplicativa di Storia
dei miei esperimenti con la verità. Ovviamente dal complesso dell’opera
gandhiana, palesemente asistematica (e Pontara sottolinea una somiglianza in
questo con l’opera gramsciana), è possibile ricavare alcuni elementi teorici
originali, persistenti e coerenti che grosso modo possiamo considerare
particolarmente caratteristici dell’elaborazione teorica e della proposta
pratica gandhiana. Pontara sottolinea particolarmente “a) la critica all’industrialismo
in quanto tale, e non soltanto alla variante capitalistica di esso; b) la
concezione di uno “stato nonviolento”; c) le idee sull’educazione fondata sulla
partecipazione al lavoro produttivo, soprattutto a quello manuale; d) la sua
filosofia dei conflitti di gruppo; e) la sua concezione dei rapporti tra etica
e politica; f) la sua dottrina del satyagraha come modalità del tutto
particolare della lotta politica”.
La parte più perspicua del
testo è ovviamente la caratterizzazione della specifica modalità di lotta
nonviolenta che Gandhi definisce satyagraha, “termine coniato da Gandhi
che significa, all’incirca, modalità di lotta caratterizzata dalla fermezza
nella verità. Siffatta modalità di lotta è definita da sei princìpi
fondamentali. In tutta brevità essi sono i seguenti.
1. In una
situazione conflittuale non si debbono porre obiettivi incompatibili con la
concezione etica che soggiace alla dottrina nonviolenta: “È impossibile
praticare il satyagraha al servizio di una causa ingiusta”.
2. In una
situazione conflittuale si deve impostare sin dall’inizio la lotta in modo tale
da non minacciare l’avversario nei suoi interessi vitali (la vita, l’integrità
fisica e psichica), scegliendo tecniche di lotta deliberatamente volte a
minimizzare le sofferenze che il conflitto può comportare per la parte
avversaria.
3. In una
situazione conflittuale bisogna essere disposti a sobbarcarsi di sacrifici che
possono essere anche assai notevoli [...].
4. Il
quarto principio del satyagraha prescrive di attenersi in ogni fase del
conflitto alla massima obiettività e imparzialità, di appellarsi alla ragione
cercando di comprendere i motivi e gli argomenti della parte avversaria, di non
operare nella clandestinità.
5. Un
requisito fondamentale del satyagraha è quello di un impegno continuo e
costante in un programma costruttivo fondato in parte sulla individuazione di
fini sovraordinati, ossia tali che la loro realizzazione è nell’interesse delle
parti in conflitto ed è possibile soltanto mercé una certa collaborazione tra
di esse. Ciò serve a creare quel minimo di comunicazione senza la quale una
lotta di tipo satyagraha non è possibile [...].
6. Un
ultimo principio fondamentale della lotta satyagraha è quello che Gandhi
chiamava “la legge di progressione dei mezzi”: si può ricorrere a forme più
radicali di lotta nonviolenta soltanto dopo che quelle più blande si sono
mostrate chiaramente inefficaci.
Gandhi riteneva che i suoi
“esperimenti” di lotta satyagraha in Sud Africa e in India avessero dimostrato
la validità delle tre seguenti ipotesi: a) che con una dovuta preparazione e
organizzazione è possibile portare delle vaste masse a praticare forme di lotta
che soddisfano in misura notevole i requisiti del satyagraha; b) che il metodo
satyagraha costituisce una concreta ed efficace alternativa alla violenza
armata nella lotta per delle cause giuste; c) che il satyagraha tende a
bloccare, in forza di fattori morali, psicologici e politici, la reazione
violenta dell’oppositore, a condurre a soluzioni accettate e costruttive dei
conflitti, e di conseguenza ad una riduzione massima della violenza nel mondo”.
Viterbo, lunedì 12 luglio 1999
La nonviolenza è la scelta
intellettuale, morale e politica di compiere solo quelle azioni su cui si possa
fondare una società giusta in cui sia riconosciuta la dignità di ogni essere
umano.
Questo implica il ripudio
della menzogna: poiché sulla menzogna, che è scelta di confondere ed indurre
gli altri all’errore, è impossibile fondare una società giusta e degna.
Implica il ripudio della
violenza: poiché sulla violenza, che è l’atto di negare dignità e pienezza di
umanità a chi la subisce, è impossibile fondare una società giusta e degna.
Implica il ripudio del
privilegio: poiché il privilegio, scaturente dal fatto che ad altri qualcosa è
stato sottratto affinché potesse darsi una gerarchia di poteri e condizioni, è
incompatibile col riconoscimento della comune fondamentale dignità di ogni
essere umano.
La nonviolenza è quindi
l’uscita dallo stato di irresponsabilità.
È l’uscita dalla solitudine,
dal solipsismo, dall’egoismo: il riconoscimento che comune è il dolore, e
quindi occorre un impegno comune contro il dolore. Ed in primo luogo contro
quel dolore che essendo prodotto dagli uomini è compito degli uomini abolire:
la violenza, l’oppressione dell’uomo sull’uomo.
È rispondere al muto appello
del volto dell’altro che ci si disvela nella sua radicale sofferenza e nella
sua irriducibile alterità.
È sentirsi ognuno responsabile
di tutto.
Pertanto la nonviolenza non è
quieto vivere o compiacenza: al contrario, la nonviolenza denuncia
l’ingiustizia, suscita il conflitto, combatte senza requie la violenza e la
menzogna, è lotta intransigente e inesauribile.
Inoltre la nonviolenza non è
affatto masochismo, piacere di soffrire, gratificazione nell’essere vittima: al
contrario, la nonviolenza è il rifiuto di essere vittima. La nonviolenza è
lotta contro gli oppressori e contro la viltà; è lotta perché le vittime
cessino di essere tali. È lotta come amore, è volontà di felicità condivisa.
La nonviolenza non è una fede:
essa non chiede giuramenti, non ha dogmi, non vuole né riti né vittime. Essa è
eminentemente ragione, comunicazione, umanità; quindi apertura, critica,
ricerca.
Riassumendo, la nonviolenza è
quella condotta che istituisce la civile convivenza: contrastando l’ingiustizia
e non riproducendola; è quella condotta che non nega valore all’umanità:
riconoscendola, difendendola e promuovendola in ogni essere umano; è quella
condotta che non contraddice se stessa: affermando la coerenza tra mezzi e
fini, la continuità tra rigore logico e rigore morale, ripudiando e combattendo
la violenza e la menzogna.
Viterbo, martedì 13 luglio
1999
Alcune risposte alle
principali obiezioni che più frequentemente vengono rivolte a chi propone la
scelta della nonviolenza come metodologia di lotta
La proposta della nonviolenza
come metodologia di lotta ha un impatto così forte già solo a livello
psicologico che i propugnatori della lotta politica e sociale senza esclusione
della violenza hanno spesso una reazione di chiusura difensiva consistente non
nel considerare se e quanto essi le tecniche della nonviolenza già adottino
(poiché così è nella gran parte dei conflitti) e se essa non sia preferibile
come istitutiva di relazioni umane e sociali, bensì nel cercare immediatamente
dei casi-limite atti a falsificare (in senso epistemologico) la congruità e
l’efficacia della proposta gandhiana.
Poiché questo avviene
frequentemente anche nell’area impegnata per la pace, per la democrazia, per i
diritti umani e per la difesa della biosfera, aree di impegno politico e
sociale in cui sono generosamente impegnate anche molte persone che mantengono
sulla violenza un atteggiamento ambiguo (si badi bene: dal nostro punto di
vista è ambiguo l’atteggiamento di chi ammette l’uso delle armi, l’esistenza
degli eserciti, ritiene lecite le guerre, et similia: come è noto tale
ambiguità è condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione planetaria
ed è inscritta negli ordinamenti giuridici di tutti i paesi e gli stati del
mondo), ci è sembrato opportuno mettere per iscritto alcune considerazioni in
merito e svolgere alcuni schemi argomentativi, cercando di sistematizzare
alcune riflessioni che abbiamo spesso esposto in occasione di dibattiti su
questo tema.
1. Le tecniche della nonviolenza sono usate spontaneamente nei conflitti
1.1. Nelle discussioni e nel prendere decisioni
Nella discussione e nei
processi decisionali tutte le volte che non si giunge alle mani si è preferito
usare forme democratiche di persuasione e di deliberazione.
Certo, la proposta nonviolenta
chiede di fare un passo ulteriore: la scelta del metodo deliberativo del
consenso, che cerca di estendere ulteriormente la prassi democratica nei
processi decisionali; ma il principio è il medesimo: per dirlo con la bella
formula di Guido Calogero: contare le teste, anziché spaccarle.
1.2. Nelle lotte sociali
Le forme di lotta più consuete
nelle lotte sociali sono altrettante tecniche che la nonviolenza ha fatto
proprie e sistematizzato: lo sciopero, il boicottaggio, la manifestazione di
protesta, e così via.
Certo, la proposta nonviolenta
chiede di fare un passo ulteriore: la noncollaborazione, la disobbedienza
civile, l’azione diretta nonviolenta, ovvero le forme di lotta nonviolente più
limpide e più radicali implicano un impegno personale che può essere anche
molto pesante da sostenere; ma il principio è il medesimo: opporsi
all’ingiustizia, ed all’ingiustizia ci si oppone tanto più concretamente ed
efficacemente quanto più lo si fa con onestà, lealtà, radicalità.
2. Scegliere di soffrire anziché far soffrire
Molti si mostrano sovente
spaventati dinanzi all’assioma gandhiano per cui nella lotta nonviolenta
occorre essere disposti a soffrire piuttosto che a far soffrire. Ma questo è il
nostro comune comportamento quotidiano in quasi tutte le nostre relazioni
sociali e scelte personali.
La disponibilità al sacrificio
personale è alla base di moltissimi nostri comportamenti sociali; e spesso si
assumono sacrifici onerosi per scopi di scarso valore o per soddisfare bisogni
assolutamente alienati. Vediamo qualche esempio: la disponibilità al sacrificio
da parte del tifoso sportivo per la sua squadra (che peraltro è oggettivamente
del tutto inutile); la disponibilità al sacrificio di chi si sottopone a
ristrettezze per risparmiare soldi per comprare un’automobile come
status-symbol (subendo così il più feroce e stupido dei condizionamenti
pubblicitari); la disponibilità al sacrificio nel legame d’amore (che è invece
già cosa nobile anche se può dar luogo a comportamenti inadeguati e fin
patologici). In generale il differire il piacere in vista di obiettivi più
intensi e/o più alti, più lontani nel tempo, è caratteristico della nostra
comune condotta: vedi i casi dello studio, dell’allenamento, dell’esercizio,
dell’ascesi, etc. Ugualmente frequente è la disponibilità al sacrificio della
propria libertà a vantaggio del rispetto degli altri e quindi della comune
convivenza (non c’è bisogno di chiamare in causa i concetti di altruismo e di
egoismo, basti pensare alle semplici regole condominiali); analoga la disponibilità
al sacrificio nella famiglia da parte dei genitori a vantaggio dei figli.
Insomma, la disponibilità a sacrificarsi non è affatto cosa rara, ma
comportamento il più frequente.
Certo, la proposta nonviolenta
chiede di fare un passo ulteriore: di applicare la disponibilità a sacrificarsi
proprio nel conflitto, ovvero laddove si scatena la nostra aggressività e più
predisposti siamo a fare del male ad altri. E chiede anche di imparare a
lottare cercando di ridurre al minimo la violenza senza pretendere che l’avversario
segua la nostra stessa condotta. Ci chiede di preferire la nostra sofferenza
alla sofferenza altrui, di preferire subirla anziché infliggerla. Non è facile,
ed implica una contraddizione. Ma ad essere intrinsecamente contraddittoria è
la situazione del conflitto, eppure il conflitto è necessario; così come è
evidente che l’aggressività esiste, e quindi non va repressa ma incanalata e
resa costruttiva. La scelta di lottare con le tecniche della nonviolenza è il
contrario della viltà; la scelta di lottare con le tecniche della nonviolenza,
e quindi la consapevole decisione di esser disposti a subire sofferenze
piuttosto che a provocarne richiede certamente un grande coraggio. Ma non è
forse vero che proprio il coraggio è la virtù morale più apprezzata nel
conflitto?
3. Sulla questione dei casi estremi
Sovente chi si oppone alla
nonviolenza pone il problema della sua praticablità in casi estremi, ovvero di
lotta contro avversari particolarmente efferati. È una questione importante e
complessa, che va affrontata in modo preciso ed articolato, cercando di far
luce su diversi aspetti.
3.1. Sulla questione dei casi estremi posta come sofisma
Dinanzi a chi fa questione di
casi estremi con l’intento di negare sempre e comunque la validità della
nonviolenza, va innanzitutto rilevato che appunto in quanto estremi, questi
casi raramente si danno, e possono pertanto essere considerati a tutti gli
effetti come ecezionali. E quindi poiché una regola di condotta non si fonda
sulle eccezioni ma sulla sua efficacia nelle situazioni più frequenti, da
questo punto di vista si può agevolmente dimostrare che la condotta nonviolenta
sarebbe una scelta corretta anche se essa fosse inane o errata in situazioni
estreme. Cosicché in linea di principio è solitamente preferibile evitare di
impantanarsi in discussioni teoriche speciose su casi estremi ed eroici, ma si
inizi intanto, e si esorti, a praticare la nonviolenza nei casi più frequenti
di conflitto: ci si incammini sulla via della nonviolenza, dopo il primo passo
tutto man mano si chiarirà nella pratica, nell’esperienza e nella riflessione
sull’esperienza che si conduce.
3.2. La nonviolenza come forma di gestione del conflitto comunque preferibile alla violenza
Tuttavia poiché la nonviolenza
non è la semplice buona creanza o il semplice civile condursi, ma è appunto
intervento di lotta in situazioni di conflitto, il problema può essere
legittimamente posto e non deve essere eluso.
Argomenteremo qui di seguito
in primo luogo perché la nonviolenza sia una forma di gestione del conflitto
comunque sempre preferibile all’uso della violenza.
In un conflitto l’uso della
nonviolenza è migliore dell’uso della violenza poiché l’uso della prima (anche
da una sola delle parti in lotta) riducendo complessivamente la seconda, con
ciò riduce altresì la sofferenza complessiva che il conflitto comporta e quindi
anche l’ingiustizia e la sofferenza preesistenti che il conflitto hanno
provocato.
La nonviolenza è migliore
della violenza perché tutti i suoi effetti interiori ed esterni sono preferibili:
la nonviolenza facilita l’autostima, la comprensione, la solidarietà, la pace,
la democrazia, la promozione dei diritti e della dignità umana; la violenza
facilita l’interiore incertezza, l’incomprensione, l’esclusione, lo stato di
inimicizia, di minaccia, di dolore e di paura, l’autoritarismo e la
repressione, la riduzione e la negazione dei diritti e della dignità umana.
La nonviolenza è adesione alla
verità, quindi esclude l’uso della menzogna, dell’inganno, della mistificazione
e della dissimulazione; la violenza fa uso dell’inganno, dei sotterfugi, della
frode; è evidente che chi in un conflitto fa uso della frode, è capace di
ingannare gli altri anche quando il conflitto sarà finito: chi usa la menzogna
non è affidabile mai.
La nonviolenza rispetta
l’umanità di tutti, anche degli avversari, e punta ad agire secondo regole
sulle quali sia possibile fondare una civile convivenza; le regole della lotta
violenta sono intrinsecamente tali che su di esse non è possibile fondare una
civile convivenza, esse non rispettano l’umanità altrui.
3.3. La nonviolenza è lotta
Tutti i grandi animatori e
studiosi di lotte nonviolente mettono in chiaro che la nonviolenza è
innanzitutto lotta. Essa si oppone all’ingiustizia e alla passività che
favorisce l’ingiustizia; essa si oppone alla viltà che è complicità con gli
oppressori.
Nella sua lotta contro
l’ingiustizia e per l’umanità la nonviolenza si pone sempre l’obiettivo di
ridurre la violenza al minimo possibile.
La nonviolenza non è mai
equidistante tra oppressori ed oppressi, essa si schiera con gli oppressi, essa
li incita alla lotta, essa li esorta a ribellarsi contro l’ingiustizia. Tutti i
grandi protagonisti di lotte nonviolente hanno chiarito la loro solidarietà con
gli oppressi in lotta, ma hanno altresì posto agli oppressi la necessità di
orientare la loro lotta in direzione dell’illimpidimento, della coerenza, del
rigore morale ed intellettuale, insomma della scelta della nonviolenza.
Tuttavia, anche in mancanza di questa scelta da parte degli oppressi in lotta,
gli amici della nonviolenza sono al loro fianco nella lotta contro
l’oppressione.
3.4. Come reagire alla violenza personale
Anche qui, partiamo dalla
realtà. Ad eccezione dei film di Charles Bronson, nella nostra stessa società,
pur così violenta, è condotta abituale e condivisa che alla violenza personale
non si debba replicare con la legge del taglione: “occhio per occhio, dente per
dente”; si è ragionevolmente preferito delegare istituzioni specializzate
all’ordine pubblico ed all’amministrazione della giustizia, cosicché
abitualmente se si subisce un torto o un danno rilevanti si reagisce con una
denuncia, e non a coltellate.
È evidente che intervenendo
specificamente nel conflitto sociale e politico occorre essere coscienti che la
possibilità che il nostro oppositore usi violenza è reale, e quindi è
ineludibile il problema di riuscire a controllarla e ridurla a misura che non
possa farci del male oltre una certa soglia che riteniamo accettabile per
affermare le nostre ragioni.
Tale problema è più frequente
di quanto non si creda: l’attivista per i diritti umani sa che il regime
autoritario lo perseguiterà con ogni mezzo praticabile; il giornalista che
denuncia efficacemente la mafia sa che rischia di essere assassinato; il
militante politico e sindacale sa che esistono i picchiatori ed i killer al
soldo degli sfruttatori e degli oppressori; il pubblico amministratore onesto
sa quanto pericolosa sia la lotta contro corrotti e criminali negli enti
pubblici; e così via. Ma in tutti i casi citati è evidente che l’esigenza che
si pone a chi lotta contro l’oppressione e il crimine non è quella di alzare il
livello dell’impiego della violenza nello scontro, ma il suo esatto contrario,
ovvero come contrastare e ridurre tale impiego della violenza, proprio per
poter condurre nel modo più energico ed efficace la lotta e per poter rendere
la stessa più ampiamente condivisa e praticata.
La scelta della nonviolenza
anche di fronte alla violenza personale ha solide ragioni non solo di ordine
teorico (filosofiche, morali, di teoria del diritto e della politica) ma anche
di ordine pratico (strategiche e tattiche, concrete). Certo, questa scelta non
è affatto facile.
3.5. Il giudizio sulla violenza
La nonviolenza si contrappone
alla violenza. Ma è cosciente che al conflitto è inerente l’uso della forza, e
che essa è più frequentemente coercitiva che non persuasiva. Da questo punto di
vista è evidente che l’obiettivo della nonviolenza è non la negazione del
conflitto, ma la riduzione al minimo della violenza.
La nonviolenza si contrappone
radicalmente alla violenza, ovvero si pone l’obiettivo concreto di contrastarla
alla radice; questo implica uno sforzo di analisi capace di risalire alla
violenza originaria, alla condizione di ingiustizia strutturale, che determina
il conflitto e le violenze successive.
La nonviolenza giudica e
contrasta la violenza concretamente, senza fermarsi alle apparenze, sapendo che
molto spesso la violenza peggiore è quella incancrenita, cronicizzata,
organizzata, sistematizzata, che si presenta come normalità, come “ordine
costituito”. Pertanto nel suo ripudio assoluto della violenza essa è sempre
decisa alla lotta.
La nonviolenza sa di essere
proponibile solo se dimostra di essere più coerente logicamente e più efficace
praticamente nel contrastare l’ingiustizia delle forme di lotta violente. Per
questo essa non è mai astensione, ma impegno di lotta il più intenso e tenace e
creativo e costante e severo (anche con se stessi); la nonviolenza non è la
scappatoia del debole, ma la resistenza del forte.
3.6. La nonviolenza è ripudio assoluto dell’uccisione di esseri umani
Sulla ammissibilità o meno
dell’uccisione come è noto è tuttora in corso un macabro dibattito giuridico e
filosofico, mentre tantissimi esseri umani continuano ad essere assassinati.
Molti stati fortunatamente si vanno orientando verso l’abolizione della pena di
morte, la cui intrinseca disumanità è così palese che non dovrebbe esserci
bisogno di parlarne; tuttavia pressoché tutti gli stati mantengono un esercito
e prevedono la possibilità di eseguire guerre; è evidente che la guerra
consiste specificamente nel minacciare ed eseguire omicidi, peraltro senza
neppure il simulacro di un processo, ed a livello di massa. Il nostro punto di
vista è che l’uccisione di esseri umani è sempre inammissibile; vale per noi il
principio assoluto del “non uccidere”; per motivi di coerenza logica, e per
motivi di coerenza morale. Questa nostra opinione prescinde da istanze
religiose e da istanze ideologiche particolari, la affermiamo come un
convincimento radicale di carattere intellettuale ed etico: il riconoscimento
della dignità di ogni essere umano implica necessariamente il suo diritto a
vivere.
3.7. Nonviolenza e Resistenza
Alla frequente domanda di
quale sia il giudizio della nonviolenza sulla Resistenza antifascista, la
risposta è semplice: il sostenitore della nonviolenza è dalla parte di chi si
batte per ridurre la violenza, contro l’ingiustizia, per difendere la dignità
umana; è quindi sempre dalla parte della resistenza; anzi: la nonviolenza è
innanzitutto e sempre appello alla resistenza contro l’oppressione. Il
sostenitore della nonviolenza è quindi sostenitore della Resistenza.
A questo si aggiunga che gran
parte della Resistenza contro il nazifascismo è stata disarmata e nonviolenta:
limitandoci all’esempio italiano, si considerino i grandi scioperi nelle
fabbriche; tutta la rete di sostegno ai partigiani, agli antifascisti, ai
perseguitati; l’esperienza stessa dell’antifascismo e della lotta partigiana è
stata innanzitutto una grande vicenda politica e morale ancor prima che
militare.
Ciò è ovvio al punto che nelle
stesse esperienze di resistenza armata, e fin nelle stesse esperienze dei
movimenti di liberazione che praticano la guerra di guerriglia, costantemente
si marca la necessità della prevalenza del momento politico su quello militare,
e di come lo scopo della lotta non è il proseguimento della violenza e
dell’oppressione, ma la cessazione delle stragi e delle violenze, e che a
differenza degli eserciti in cui si combatte per il soldo e/o per l’autorità,
nelle loro esperienze si combatte per un ideale di giustizia e libertà, ideale
alla cui realizzazione la pratica della solidarietà e la conquista della pace
sono ritenute coessenziali.
3.8. La nonviolenza dinanzi al nazismo
Sovente si ripete che la lotta
gandhiana sarebbe stata impossibile se come avversario invece dell’impero
britannico avesse avuto il nazismo. Questo argomento sottovaluta enormemente la
violenza dell’imperialismo inglese e dell’oppressione coloniale. Ma è opportuno
non eludere la domanda che esso comporta: è possibile usare la nonviolenza
contro il nazismo? E quale sarebbe la condotta nonviolenta da adottare?
Questo tema costituisce certo
un caso estremo, ed è particolarmente arduo da esaminare.
Muoviamo da alcuni dati certi:
a) come è noto Gandhi sostenne in alcuni suoi scritti che le vittime del
nazismo dovevano resistere non-violentemente, disposti a lasciarsi massacrare
fino a sciogliere il cuore dei loro aguzzini e comunque mantenendo fino in
fondo la propria integrità morale; le posizioni gandhiane diedero luogo ad una
serrata discussione (complicata dal fatto che in quegli scritti Gandhi parlava
anche della questione palestinese sostenendo la tesi che la Palestina
appartenesse agli arabi), discussione cui presero parte anche illustri
intellettuali come Martin Buber e Judah L. Magnes, ed i cui materiali sono
stati parzialmente pubblicati sul n. 2/1991 della rivista “Micromega”; una
efficace messa a punto della questione, cui rinviamo, è nel capitolo Gandhi,
il sionismo e la persecuzione degli ebrei, in Giuliano Pontara, Guerre,
disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996;
ovviamente si veda anche Mohandas Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza,
Einaudi, Torino (particolarmente la parte su “La resistenza nonviolenta al
nazismo”, alle pp. 242-273); b) vi sono state esperienze concrete ed efficaci
di Resistenza nonviolenta e di massa al nazismo (cfr. Pontara, op. cit.;
Gene Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele,
Torino; gli opusocli di Jeremy Bennet, La Resistenza contro l’occupazione
tedesca in Danimarca, e di Magne Skodvin, Resistenza nonviolenta in
Norvegia sotto l’occupazione tedesca, entrambi nei Quaderni di “Azione
nonviolenta”; altri esempi sono citati nella cronologia in Christian Mellon,
Jacques Semelin, La non-violence, P.U.F., Paris 1994); c) persino
nell’orrore assoluto dei lager vi è stata una Resistenza attraverso esperienze
di solidarietà e mantenimento della dignità umana di cui testimoniano le opere
di Primo Levi e di altri sopravvissuti; d) un crimine come la “soluzione
finale” richiese una complicità di massa enorme (cfr. al riguardo almeno le
grandi ricerche di Raul Hilberg e di Léon Poliakov).
Proviamo a ricavarne alcune
riflessioni (che aggiungiamo a quelle relative a questo punto svolte da Pontara
nel testo citato, cui rinviamo): se un regime totalitario come quello
hitleriano per poter realizzare i suoi mostruosi crimini ebbe bisogno di una
gigantesca complicità di massa, ne consegue che esso era vulnerabile ad una
lotta fondata sulla noncollaborazione di massa, ed una lotta di questo tipo non
poteva che essere nonviolenta; se in alcune fasi persino un regime come quello
hitleriano fu costretto da una protesta morale della società civile a recedere
dall’esecuzione di alcuni suoi efferati crimini (il programma di sterminio dei
sofferenti psichici e dei portatori di handicap fu interrotto a seguito delle
proteste di rilevanti settori dell’opinione pubblica), ne consegue che anche in
una società totalitaria è possibile esercitare un’opposizione nonviolenta di
massa concreta ed efficace; infine, se vi sono stati uomini che hanno avuto
l’eroismo di resistere quando tutto sembrava renderlo impossibile, allora
resistere è un dovere necessario, e se così è, allora si deve resistere nel
modo più coerente, più integro, più limpido che sia possibile: nel modo che non
può essere vinto della violenza perché alla violenza tutto si contrappone e in
nulla cede.
Ordunque, noi proporremmo qui
le seguenti conclusioni del tutto provvisorie e naturalmente discutibili:
-
dinanzi al formarsi, all’imporsi e all’agire di un potere
oppressivo, ed a maggior ragione dinanzi a un potere totalitario, occorre
lottare subito, rompere subito le complicità, opporsi subito nel modo più
intransigente;
-
occorre la lotta di massa, che in quanto tale non può e
non deve essere armata e clandestina, ma la più ampia, esplicita e risoluta
possibile;
-
una volta che il potere dittatoriale si sia insediato,
occorre persistere nel cercare di conseguire la non-collaborazione di massa;
-
rispetto all’attività di Resistenza armata contro un
regime dittatoriale che sta eseguendo stragi o genocidi, occorre sostenere
quella Resistenza anche se non si condivide la scelta delle armi e
personalmente ci si astiene dal loro uso, sulla base della consapevolezza che
essa Resistenza riduce la violenza e salva delle vite.
4. Chi aderisce alla nonviolenza può collaborare con strutture e persone che non condividono la scelta nonviolenta?
Sì, ponendo alcuni punti fermi
e poi facendo un’analisi caso per caso. Sicuramente chi aderisce alla
nonviolenza non può cooperare con chi opprime. La collaborazione tra
nonviolenti e non-nonviolenti (usiamo questo infelice neologismo per
evidenziare che non si tratta di violenti tout court ma di persone che
ritengono che la violenza possa essere una risorsa o uno strumento utilizzabile
in determinate situazioni per fini ritenuti apprezzabili) in un movimento di
lotta contro l’ingiustizia (ad esempio: contro la guerra) può essere persino
ovvia, ma insieme essa va precisamente delimitata, deve essere accompagnata da
un impegno da parte degli amici della nonviolenza a chiarificare le implicazioni
e le conseguenze della lotta che si conduce ed a proporre la scelta di metodi
che siano rigorosamente coerenti con i fini della lotta stessa (nell’esempio
proposto: la pace).
5. Occorre essere nonviolenti per utilizzare/praticare la nonviolenza?
No. In primo luogo perché non
è possibile essere nonviolenti tout court, la nonviolenza è una condotta
ideale cui tendere, ognuno di noi ha i suoi limiti e le sue debolezze. In
secondo luogo perché solo nel conflitto è possibile adottare in senso pieno la
nonviolenza, pertanto finché non ci si trova nella lotta non si sa se si è
capaci di aderire alla nonviolenza o meno, e del resto ogni occasione di lotta
pone problemi diversi, richiede soluzioni creative, può dar luogo ad esiti
inattesi; quindi un atteggiamento modesto e vigile, critico ed autocritico, è
decisamente opportuno. In terzo luogo perché la forza e la grandezza della
nonviolenza è proprio nella sua utilizzabilità/praticabilità da parte di tutti:
in questo senso essa è “il potere di tutti”, in quanto è sia appello a tutti,
sia strumento da tutti utilizzabile, sia proposta di protagonismo di tutti, sia
infine sentimento di solidarietà con l’umanità intera.
6. Allora chiunque può utilizzare la nonviolenza?
Sì, come possibilità: in
quanto chiunque può farne uso; ma in concreto per farlo effettivamente deve
compiere un percorso di riflessione, di coscientizzazione, di preparazione,
tutt’altro che facile. Ex abrupto, senza preparazione, non è possibile
usare la nonviolenza. Per usare la nonviolenza occorre l’addestramento alla
nonviolenza.
Ad esempio: una campagna di
lotta nonviolenta richiede una preparazione della campagna attentissima e
rigorosamente pianificata; ed una preparazione dei partecipanti di gran lunga
più impegnativa dell’allenamento sportivo, dell’addestramento militare, della
psicoterapia relazionale, dello studio scientifico di varie branche dello
scibile.
Anche una semplice e puntuale
azione diretta nonviolenta richiede non solo una grande preparazione, ma una
disciplina ed un impegno assai rigorosi.
Ci permettiamo di riportare
qui da un nostro scritto precedente, a titolo di esempio, uno schema di regole
di condotta cui attenersi nella realizzazione di un’azione diretta nonviolenta.
Quattro regole di condotta per
l’azione diretta nonviolenta: I. A un’iniziativa nonviolenta possono
partecipare solo le persone che accettano incondizionatamente di attenersi alle
regole della nonviolenza. II. Tutti i partecipanti devono saper comunicare
parlando con chiarezza, con tranquillità, con rispetto per tutti, e senza mai
offendere nessuno. III. Tutti i partecipanti devono conoscere perfettamente
senso, fini, modalità e conseguenze dell’azione diretta nonviolenta; devono
averne piena conoscenza, e devono esserne completamente convinti, in
particolare sottolineiamo la necessità di essere pienamente informati
consapevoli delle conseguenze cui ogni singolo partecipante può andare
incontro, conseguenze che vanno accettate pacificamente e onestamente, ed alle
quali nessuno deve cercare di sottrarsi. IV. Tutti devono rispettare i seguenti
princìpi della nonviolenza: a) non fare del male a nessuno (se una sola persona
dice o fa delle stupidaggini, o una sola persona si fa male, l’azione diretta
nonviolenta è irrimediabilmente e totalmente fallita, e deve essere immediatamente
sospesa); b) spiegare a tutti (amici, autorità, interlocutori, interpositori,
eventuali oppositori) cosa si intende fare, e che l’azione diretta nonviolenta
non è rivolta contro qualcuno, ma contro la violenza; c) dire sempre e solo la
verità; d) fare solo le cose decise prima insieme con il metodo del consenso ed
annunciate pubblicamente (cioè a tutti note e da tutti condivise); nessuno deve
prendere iniziative personali di nessun genere; la nonviolenza richiede lealtà
e disciplina; e) assumersi la responsabilità delle proprie azioni e quindi
subire anche le conseguenze che ne derivano; f) mantenere una condotta
nonviolenta anche di fronte all’eventuale violenza altrui. Chi non accetta
queste regole non può partecipare all’azione diretta nonviolenta, poiché
sarebbe di pericolo per sé, per gli altri e per la riuscita dell’iniziativa che
deve essere, appunto, rigorosamente nonviolenta. Per poter partecipare ad
un’azione diretta nonviolenta è necessario aver partecipato prima alla
discussione ed all’organizzazione che ha portato alla sua decisione e
realizzazione, ed è altresì assolutamente indispensabile aver partecipato ad un
training di addestramento alla nonviolenza.
7. Amici della nonviolenza, e non nonviolenti
Un argomento sovente usato
dagli oppositori della nonviolenza è quello ad personam: per questo,
conoscendo i nostri limiti e la grandezza della nonviolenza, sarà sempre bene,
come consigliava Capitini, che coloro che propongono la nonviolenza si
presentino non presuntuosamente come “nonviolenti”, come se se ne ritenessero
delirantemente la compiuta incarnazione, bensì come semplici amici della
nonviolenza, ovvero come persone che si sono messe in cammino lungo la via
della teoria-prassi nonviolenta.
8. Una polemica ineludibile
Un sofisma, che riteniamo
particolarmente subdolo (il sofisma, beninteso, non le persone che lo hanno
proposto), è emerso in alcuni settori del movimento pacifista italiano in
questi mesi. Il sofisma è il seguente: contro l’ingiustizia (in questo caso: la
guerra) non conta tanto la scelta tra violenza e nonviolenza, quanto la scelta
della disobbedienza civile. Chi propugna questo argomento è in errore, poiché
in questa logica si manifesta una subalternità totale al potere e alla
violenza; per un verso, la disobbedienza civile, se non è legata alla
prospettiva della resistenza nonviolenta (come strategia e come progetto),
postula l’accettazione di fatto del potere ingiusto come forzosa conseguenza
della propria incapacità a costruire e costituire un’alternativa; per l’altro
lo sminuire la rilevanza assiologica ed operativa dell’alternativa
violenza/nonviolenza implica una ambiguità di giudizio sulla violenza che è
inaccettabile sempre, ma particolarmente in un movimento che vuole e deve
essere contro la guerra e per la pace; è infatti evidente che il sofisma della
“guerra giusta” si può contrastare correttamente solo se si ripudia
integralmente l’ideologia della “violenza buona”; è altresì evidente che per
costruire la pace non è sufficiente opporsi alla guerra, occorre altresì
difendere e promuovere i diritti umani, di cui l’esercizio della violenza, e la
sua approvazione, costituisce la negazione assoluta.
Non a caso poi nella
circostanza concreta di questi mesi la disobbedienza civile non è stata
praticata, ed anzi con questa etichetta si è scandalosamente preteso di
rivestire comportamenti che non sono di disobbedienza civile, ma di mera
provocazione, di compromissione, di minaccia ed esecuzione di atti di violenza
idiota e corruttrice.
Decisiva quindi è invece
proprio la scelta della nonviolenza; e nel caso particolare dell’opposizione
alla guerra, a maggior ragione: peraltro solo una posizione rigorosamente
nonviolenta poteva contestare radicalmente la guerra sterminista della Nato
senza essere complice della guerra razzista di Milosevic. E non a caso da anni
i movimenti di solidarietà pacifisti e nonviolenti, e solo essi, avevano
concretamente costantemente sostenuto l’esperienza nonviolenta di resistenza e
riconciliazione in Kosovo.
Su questo punto della
crucialità della scelta nonviolenta non solo per la credibilità, ma
propriamente per la necessaria coerenza e concreta efficacia del movimento
pacifista, abbiamo ritenuto di dover insistere con la massima chiarezza ed
energia, proprio perché anche voci autorevoli della cultura pacifista hanno
purtroppo avuto un atteggiamento ambiguo in merito.
9. Una definizione sintetica per concludere
La nonviolenza è una scelta e
un metodo di lotta contro la violenza, la menzogna e l’ingiustizia. Essa si
realizza nel conflitto e si contrappone tanto alla viltà quanto alla violenza.
Essa si fonda sulla convinzione che ognuno è responsabile di tutto, che il
potere oppressivo si regge fondamentalmente sulla complicità e che quindi occorre
rompere quella complicità. La nonviolenza richiede a chi la adotta la
disponibilità a soffrire anziché a far soffrire; un atteggiamento limpido e
coerente in termini logici e morali (di ragionamento e di comportamento);
coerenza tra mezzi e fini; l’obiettivo di ridurre la violenza al minimo;
esemplarità di comportamenti che abbiano valore educativo; agire concretamente
ed assumersi la responsabilità piena delle proprie azioni e delle loro
conseguenze. La nonviolenza non è statica e dogmatica, ma critica e creativa,
dialettica e sperimentale. La nonviolenza è un appello alla lotta: una lotta
che è eminentemente comunicazione ed amore. Non è possibile scegliere la
nonviolenza senza amore per l’umanità.
10. Due piccoli corollari
10.1. L’approccio alla nonviolenza qui proposto
Come è evidente l’approccio
alla nonviolenza che qui abbiamo proposto è di carattere meramente critico; la
abbiamo analizzata da un punto di vista logico, etico e politico, e
prescindendo da un retroterra religioso e metafisico, da una ontologia
fondativa.
È noto che molti militanti e
pensatori della nonviolenza hanno una visione del mondo ed una motivazione
profondamente religiosa; per fare alcuni esempi: sia Gandhi, sia Lanza del
Vasto, sia Capitini, sia King, sono in primo luogo personalità religiose: per
loro la nonviolenza è la conseguenza di una primaria, fondamentale scelta
religiosa.
Ugualmente è noto che alcune
grandi religioni recano il ripudio della violenza, e la scelta della
nonviolenza, come uno dei loro tratti o attributi caratteristici: ad esempio il
buddhismo e il cristianesimo.
Nella nostra esposizione
abbiamo preferito argomentare su un piano meramente immanentistico,
prescindendo dal riferimento ai convincimenti religiosi.
10.2. nonviolenza e riflessione filosofica
Di grande interesse sarebbe un
confronto tra la teoria-prassi nonviolenta ed alcune tradizioni ed esperienze
della riflessione filosofica classica e contemporanea: qui vi abbiamo
rinunciato, sebbene sia evidente che alcune scelte terminologiche ed alcuni
schemi argomentativi rinviavano implicitamente volta a volta a referenti
pressoché obbligati.
A mo’ di semplice elencazione,
e per così dire come segnalazione di un debito e come atto di gratitudine,
vorremmo qui indicare almeno la Critica della ragion pratica di Immanuel
Kant tra i classici, e tra i pensatori contemporanei la grande importanza che
hanno avuto per la nostra riflessione sulla scelta nonviolenta i seguenti
autori (che citiamo un po’ alla rinfusa in ordine alfabetico): Günther Anders,
Hannah Arendt, Ernesto Balducci, Franco Basaglia, Ernst Bloch, Norberto Bobbio,
Elias Canetti, Enrique Dussel, Hans Jonas, Primo Levi, Herbert Marcuse,
Giuliano Pontara, Vandana Shiva, Simone Weil, Virginia Woolf.
11. Una postilla necessaria
In questo scritto abbiamo analizzato
soprattutto una dimensione della nonviolenza: la nonviolenza come metodo di
lotta, che Gandhi designa con il termine satyagraha (che traduciamo
appunto come nonviolenza, ma che potremmo tradurre letteralmente come “forza
della verità”, “adesione alla verità”); segnaliamo che la nonviolenza ha anche
altre dimensioni non meno importanti: essa è altresì una scelta etico-politica;
una strategia; un progetto di società; una visione dell’uomo.
12. Per approfondire: un percorso in sette letture
Invece di riportare qui per
l’ennesima volta una bibliografia generale, preferiamo indicare un percorso
davvero minimo che qualunque lettore può percorrere personalmente in pochi
giorni. Indichiamo sette testi da leggere in sette serate o poco più (in
pratica si tratta dell’equivalente cronometrico di sette serate di
intrattenimento televisivo, e di una ragionevole ed anzi splendida alternativa
al torpore e all’abbrutimento).
1. Su
Gandhi proponiamo di leggere almeno l’introduzione di Giuliano Pontara a
Mohandas Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino, e
l’ampio indice del libro.
2. Per
accostarsi a Aldo Capitini entrando subito nel vivo e nella ricchezza della sua
riflessione, e nella peculiarità del suo linguaggio, proponiamo di leggere Religione
aperta, Neri Pozza, Vicenza 1964, seconda edizione riveduta e corretta; si
cominci dalla lettura dei sommarietti che aprono ogni capitolo. Dopo questo
libro chi volesse proseguire passi al suo classico manualetto Le tecniche
della nonviolenza, Libreria Feltrinelli, Milano 1967 (di recente ristampato
da Linea d’ombra, Milano); poi all’eccellente antologia degli scritti, Il
messaggio di Aldo Capitini, lacaita, Manduria 1977.
3. Di
Emmanuel Lévinas l’agile libro-intervista Éthique et infini, in edizione
economica nella collana “Le livre de poche”; è stata pubblicata anche una
traduzione italiana.
4. Il
saggio di Simone Weil su L’Iliade poema della forza, è in Simone Weil, La
Grecia e le intuizioni precristiane, Rusconi, Milano 1974.
5. di
Franz Kafka si può leggere qualunque cosa a colpo sicuro; basterà (ed insieme
motiverà a voler leggere anche tutto il resto dell’opera del praghese).
6. Marcos,
La quarta guerra mondiale è cominciata, Il manifesto, Roma 1997.
7. Primo
Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino (ma anche di Primo Levi
occorre leggere tutte le opere, ora raccolte in due volumi presso Einaudi).
Viterbo, mercoledì 14 luglio
1999
1. Premessa
Rispetto ad altre forme di
impegno culturale, politico o sociale, la scelta della nonviolenza ha, secondo
la nostra interpretazione, alcune caratteristiche peculiari:
a) si
fonda sulla ragione e non sull’entusiasmo: naturalmente valorizza le emozioni
ma sempre ricondotte ad un impegno critico;
b) implica
una limpida rigorizzazione del ragionamento e della condotta: richiede una
severa coerenza intellettuale e morale, e quindi necessariamente anche una
grande capacità di ascolto ed una incondizionata disponibilità ad apprendere;
c) non
offre garanzie né consolazioni: né certezze di vittoria o di salvezza, né
autorità ed automatismi che fungano da cinture di sicurezza; tuttavia, facendo
appello a un forte sentimento di integrità personale intimamente connesso al
più vasto slancio di solidarietà e di riconoscimento della comune umanità,
consente di gestire le ansie e relativizzare gli scacchi in una più profonda ed
insieme più ampia prospettiva di impegno orientato al bene comune ed
all’affermazione della propria dignità (bene comune e dignità personale intesi
come un inscindibile insieme);
d) propone
un impegno di lotta che non terminerà che con la morte: ma questa lotta (contro
l’ingiustizia, contro la violenza, contro la menzogna; e quindi: contro la
sofferenza, contro il male, contro la morte stessa) è ineludibile, ed è
coessenziale alla nostra vita di senzienti e pensanti;
e) impone
quindi una dialettica tra coscienza e mondo esterno (naturale e culturale)
particolarmente impegnativa: ad ogni passo chiede di assumere responsabilità,
di giudicare, e quindi di agire; ad ogni passo ci impone un difficile confronto
tra libertà e regole, tra creatività e necessità, tra dovere morale e
condizioni (e codificazioni) date.
In breve, la scelta della
nonviolenza richiede studio, preparazione, addestramento, disponibilità a
soffrire, saldezza nel perseverare in ciò che è giusto ad una analisi onesta, e
saldezza nel perseverare in una condotta costantemente benevola, leale e
responsabile anche di fronte a condotte scorrette, inique e violente da parte
di altri. Infine richiede altresì una ridiscussione costante della propria
condotta ed una continua reinterpretazione e reinvenzione di regole, orizzonti,
abitudini, percorsi di ricerca; rileggendo incessantemente la propria esperienza
così come faceva Gandhi che non casualmente intitolò la sua autobiografia
“storia dei miei esperimenti con la verità”.
2. Una sintetica definizione preliminare
2.1. Nonviolenza come un insieme di valori morali
Per nonviolenza intenderemo
qui un insieme di valori morali, di tecniche di lotta e di proposte politiche
organizzate in una coerente, seppur aperta e sperimentale, teoria-prassi.
2.2. Distinzione tra nonviolenza ed assenza di violenza
Definiamo tale teoria-prassi
col termine di nonviolenza, ed usiamo tale grafia per distinguerla dalla mera
assenza di violenza (la quale assenza di violenza è peraltro concettualmente
una nozione assai ambigua e sfuggente, e praticamente una condotta
semplicemente impossibile) ed indicarne invece la natura positiva e l’impegno
attivo; col quale termine di nonviolenza traduciamo due distinti termini
gandhiani: ahimsa (che potremmo tradurre liberamente come ripudio della
violenza, opposizione alla violenza; che designa la nonviolenza dal punto di
vista concettuale, come valore morale e come oggetto logico-ontologico); e
satyagraha (che potremmo tradurre liberamente come forza della verità o anche
adesione alla verità; che designa la nonviolenza dal punto di vista operativo e
metodologico, come campo di condotte empiriche, di tecniche pratiche, di
orientamenti strategici; ma anche come inveramento effettuale di una scelta
morale che per esser tale non può restare inoperante nel mero ambito teoretico
ma richiede di essere realizzata ed autenticata in un impegno personale
immediato, politicamente ed esistenzialmente qualificato).
2.3. Fondamenti della nonviolenza
La nonviolenza così definita
si fonda su un ragionamento, una scelta e una condotta improntati a
responsabilità, verità, amore, apertura all’umanità.
2.4. Principi caratterizzanti la nonviolenza
La nonviolenza così definita
si caratterizza per alcuni precisi princìpi: rifiuto di uccidere e di provocare
lesioni fisiche; rifiuto della menzogna; rifiuto di commettere ingiustizia, di
subire ingiustizia, di collaborare con l’ingiustizia; coerenza tra mezzi e
fini; esemplarità della condotta e coscienza del costante riflesso educativo
dei nostri atti; compiere solo quelle azioni su cui si possa fondare la civile
convivenza.
2.5. La nonviolenza conflittuale
La nonviolenza così definita
si realizza nel conflitto (e non nella quiete); nella comunicazione (e non
nella solitudine); nella trasformazione (né nella conservazione, né nella
distruzione); i tre termini indicati: conflitto, comunicazione, trasformazione,
costituiscono per la nonviolenza una necessaria unità.
3. Scelte morali e coesione psicologica
Poiché la nonviolenza è
eminentemente opposizione all’ingiustizia, chi la sceglie sa di impegnarsi in
una lotta consapevole e quindi intransigente, meditata e quindi assai
impegnativa sotto molti profili.
Occorre dunque che chi
abbraccia l’impegno nonviolento sia cosciente che ciò implica che dovrà
sostenere il peso psicologico di una scelta di lotta che può esporre a molti
rischi, a condizioni di solitudine e di incomprensione; che impone la rinuncia
a vari privilegi, e implica la possibilità di trovarsi in condizioni di
difficoltà.
Occorre quindi avere la
capacità di una adeguata elaborazione dei sentimenti a queste situazioni
esistenziali e sociali connessi; la capacità di una adeguata gestione
dell'ansia; la capacità di efficacemente esercitare il controllo e
l’incanalamento costruttivo dell’aggressività; un atteggiamento non represso e
non repressivo.
È ragionevole che prima ancora
di impegnarsi nella lotta nonviolenta si sia riflettuto su tutto ciò e si sia
realisticamente valutata la propria disponibilità e capacità a tutto ciò.
4. La nonviolenza in quanto comunicazione
La nonviolenza è eminentemente
comunicazione; questo implica:
a) il riconoscimento
dell’altro, il puntare sulla sua umanità;
b) interpretare la lotta come
disvelamento, cooperazione, atto di amore al bene e all’umanità;
c) antiautoritarismo ed
antidogmatismo, ovvero atteggiamento critico ed autocritico, contestazione
radicale del “principio d’autorità” (anche verso se stessi).
5. La scelta nonviolenta nel vivo del conflitto
La nonviolenza si realizza
esclusivamente nel conflitto, essa valorizza il conflitto e dove occorre lo
suscita. La nonviolenza non è passività, fuga, quieto vivere; essa è azione,
impegno, responsabilità di fronte alle sfide e agli appelli che la realtà pone.
L’amico della nonviolenza porta nel conflitto convincimenti profondi, obiettivi
ponderati, capacità operative concrete. Questo implica:
a) vivere
positivamente la scelta del conflitto;
b) la
consapevolezza che l’azione nonviolenta è sempre anche educazione (ed
autoeducazione),
c) la
capacità di ridefinire i problemi;
d) la
capacità di far evolvere le situazioni e i conflitti;
e) la
capacità di ascolto e cooperazione anche con l’avversario rispetto a fini
sovraordinati che entrambe le parti condividono o apprezzano;
f) la
capacità di contestualizzazione di princìpi, analisi, scelte.
Con particolar riferimento a se stessi, tutto questo implica inoltre:
g) rifiuto
della subalternità e del vittimismo;
h) essere
consapevoli della propria forza che è inerente alla propria integrità (ovvero
alla propria onestà intellettuale e morale);
i) capacità di mantenere costantemente l’iniziativa.
Con particolar riferimento
alla controparte tutto quanto precede implica altresì:
j) non
minacciarne l’annientamento in quanto essere umano;
k) offrirgli
sempre una soluzione onorevole del conflitto.
Con particolar riferimento al
rapporto tra antagonisti nel conflitto:
l) percepirlo
e presentarlo anche come occasione di incontro;
m) costantemente
mirare ad umanizzare la relazione attraverso un forte impegno comunicativo e
propositivo;
n) percepire
e presentare il rapporto non in termini di esclusione e di annullamento
dell’altro, ma di compresenza e di impegno comunque comune, evidenziando che un
conflitto è sempre anche un atto cooperativo, e che le sue dinamiche sono
congiuntamente costruite dalle parti;
o) puntare
con la propria azione alla più ampia corresponsabilizzazione possibile;
p) saper
sempre distinguere l’oggetto contro cui si combatte dalla persona o le persone
con cui si combatte, e prefiggersi costantemente un rapporto costruttivo con la
parte avversa, riconoscendone le ragioni, offrendo proposte di onesto e valido
compromesso, non schiacciandola mai in situazioni insostenibili e senza
alternative;
q) mirare
costantemente a ridurre la violenza, a ricercare terreni di intesa, a costruire
rapporti di fiducia.
6. Valori e comportamenti nonviolenti
a) La
noncollaborazione con l’ingiustizia: che della proposta nonviolenta è la chiave
di volta, infatti l’idea centrale della nonviolenza come forma di lotta contro
l’ingiustizia è che il potere ingiusto per realizzare il suo dominio ha bisogno
della complicità o almeno della passività delle sue vittime; il primo passo
della presa di coscienza e della lotta nonviolenta è appunto la rottura della
complicità, la cessazione della passività dinanzi all’ingiustizia.
b) La
nonuccisione e il rifiuto di provocare lesioni fisiche agli avversari: tale
scelta ha spesso anche l’effetto di ridurre la violenza dell’avversario, e
comunque costituisce già essa sola una rilevante umanizzazione del conflitto e
riduce consistentemente la violenza complessiva indicando concretamente altresì
una diversa e più civile gestione del conflitto.
c) La
nonmenzogna: essa è ugualmente fondamentale, ed implica altresì il rifiuto del
segreto, della sorpresa, del sotterfugio; è eminentemente democratica, rinforza
la nostra autorevolezza morale, favorisce la costruzione della fiducia (e
incidentalmente ci mette al riparo dai provocatori).
d) La
coerenza tra mezzi e fini: ribaltando la massima secondo cui il fine giustifica
i mezzi, la nonviolenza afferma che i mezzi violenti corrompono anche i fini
migliori; è di grande efficacia la similitudine gandhiana per cui tra mezzi e
fini intercorre lo stesso rapporto che tra il seme e la pianta.
e) Il
principio responsabilità: ognuno deve sentirsi responsabile di tutto; ognuno
deve avere a cuore le sorti di tutti; ognuno deve sentire la solidarietà con
l’umanità intera; ognuno deve agire in modo che la sua condotta e la logica che
la ispira possa essere ripetuta e riutilizzata in ogni circostanza analoga ed
essere sempre moralmente valida (e possa quindi, per così dire, essere
istitutiva di una legislazione universale, echeggiando la formula kantiana).
f) Ogni
azione è anche educazione: quindi ogni azione deve essere motivata, comprensibile,
coerente con il fine del riconoscimento e della promozione della dignità umana.
7. Dialettiche della nonviolenza
La nonviolenza come tanta parte della cultura contemporanea richiede la capacità di fronteggiare situazioni caratterizzate da indeterminazione, contraddizione, complessità; richiede quindi un atteggiamento critico e creativo.
In particolare a noi sembra
che l’adesione alla nonviolenza implichi altresì la capacità di sostenere
psicologicamente una scelta che ha caratteristiche esistenziali
fondamentalmente connotate da duplicità e dinamismo, e richiede pertanto un
notevole “spirito di finezza”, ovvero una duttilità ed un’attenzione, un
atteggiamento di apertura e di interpretazione, che è del tutto incompatibile
con atteggiamenti rozzi ed autoritari, prepotenti o servili, predicatòri e
dogmatici. La nonviolenza è rivoluzione aperta, e richiede una personalità
ironica e paziente, serena e tenace, combattiva ed antiautoritaria. Indichiamo
qui di seguito alcuni profili psicologici implicati dalla scelta dell’impegno
nonviolento:
a) rinnovamento,
ma anche ritrovamento;
b) rottura,
ma anche fedeltà;
c) apertura,
ma anche approfondimento;
d) ricerca,
ma anche saldezza;
e) responsabilità
come impegno personale nella dimensione collettiva;
f) dialettica
tra coscienza (come autonomia morale e responsabilità personale) e legge (come
regole sociali);
g) essere
ad un tempo dei persuasi (è la bella formula di Aldo Capitini) ed insieme dei
perplessi (è la non meno bella formula di Norberto Bobbio).
8. Un problema persistente: la violenza
Ovviamente la nonviolenza si
contrappone alla violenza, ribadirlo è fin tautologico.
Ma questo non risolve tutti i
problemi, poiché la violenza è comunque una realtà, ed il lottare contro di
essa implica evidentemente un certo grado di esercizio della forza, che intende
certo essere anche persuasiva, ma che nondimeno è altresì coercitiva. Inoltre
non è banale porre il problema che se il fine della nonviolenza è quello di
contrastare la violenza, ovvero di ridurla per quanto possibile, ciò implica
necessariamente non una sorta di astensione assoluta dall’azione, ma agire nel
modo più radicalmente contrario alla violenza, ovvero nel modo più efficace e
coerente possibile.
Qui si aprono numerosi
problemi degni di discussione, su cui ha spesso particolarmente insistito nelle
sue fini e rigorose analisi Giuliano Pontara, ma che nessuno dei grandi
protagonisti delle lotte nonviolente ha mai eluso, da Gandhi a Lanza del Vasto,
da Aldo Capitini a Martin Luther King, da Danilo Dolci a Lorenzo Milani, a
molti altri. Le impostazioni sono state molto varie, e le risposte anche. A
titolo d’esempio e per un primo accostamento rinviamo a Gandhi, Teoria e
pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino; e ad AA. VV., Violenza o
nonviolenza, Linea d’ombra, Milano.
9. Un’ipotesi etico-politica
9.1. Nonviolenza con un approccio di tipo essenzialista
Il nostro approccio alla
nonviolenza non è di tipo essenzialista, o metafisico; non implica un
fondamento religioso o ontologico. Il nostro, quello che qui proponiamo, è un
approccio meramente razionale. Naturalmente altri studiosi e soprattutto molti
attivisti della nonviolenza, hanno approcci diversi, in cui il riferimento
religioso o metafisico è assolutamente determinante. Il nostro apporccio è più
modesto e limitato; tuttavia proprio per questo esso presenta forse il
vantaggio di essere più agevolmente discutibile -ed eventualmente accoglibile-
in quanto non presuppone l’accettazione di questioni di principio talmente
cruciali, peculiari e impegnative per cui diviene impossibile addivenire ad un
accordo se si muove da diverse posizioni filosofiche, religiose, politiche,
esistenziali. Abbiamo la presunzione di ritenere che l’approccio da noi
proposto consente di discutere la nonviolenza a partire da posizioni anche
molto diverse e -ciò che più conta- mantenendole (ovviamente, con la
nonviolenza arricchendole ed eventualmente approfondendole qualora essa venisse
accolta ed integrata nel proprio sistema di idee generali); abbiamo la speranza
che l’approccio da noi proposto sia compatibile con diverse posizioni religiose
(ateismo compreso), con diverse posizioni politiche (nell’ampio campo che va
dal liberalismo al comunismo, dalle varie proposte democratiche, personaliste,
socialiste, fino all’anarchia), con diverse posizioni filosofiche e morali (gli
studi di Giuliano Pontara, in particolare, hanno apportato decisivi contributi
in questo ambito).
9.2. Due ipotesi di lavoro
Detto questo, vorremmo
tuttavia aggiungere due specificazioni ulteriori che in qualche misura
contribuiscono a fondare il nostro approccio, che proponiamo come ipotesi di
lavoro ma alle quali almeno noi siamo molto legati, e che sono le seguenti:
a) un’etica della felicità
sobria;
b) un fondamento gnoseologico
fallibilista.
9.2.1. Prima ipotesi: etica della felicità sobria
La prima, un’etica della
felicità sobria: è resa particolarmente necessaria dalla consapevolezza
ecologica; dall’esigenza di una giusta ripartizione delle risorse e dalla
cognizione della loro scarsità ed esauribilità; dall’impegno al riconoscimento
ed alla promozione dei diritti umani per tutti gli esseri umani. La scelta
della nonviolenza non è una scelta masochista, ma di liberazione; la sua
prospettiva è la felicità umana per quanto essa sia realizzabile nel quadro di
una condizione biologica caduca e peritura. La felicità possibile e
generalizzabile è una felicità sobria, e quindi saggia, rispettosa degli altri
e della biosfera, conviviale, accogliente, sollecita, sensibile.
9.2.2. Seconda ipotesi: fondamento gnoseologico fallibilista
Il secondo, un fondamento
gnoseologico fallibilista: che è indispensabile cuore della democrazia: la
coscienza della nostra fallibilità è l’assioma su cui fondiamo il nostro
atteggiamento razionale e ragonevole tanto in ambito teoretico quanto in ambito
pratico, nella logica, nella morale, nella politica; senza questa
consapevolezza non si dà democrazia, non si danno piene libertà, non si danno
uguaglianza e diversità. La pretesa di infallibilità è sempre antiscientifica,
immorale, antidemocratica, totalitaria; coercitiva e coatta sul piano della
psicologia come su quello del diritto, sul piano sociale come su quello
esistenziale; essa lede radicalmente lo sviluppo della cultura e la civile
convivenza, e denega la dignità personale. Poiché nelle aree culturali di
prevalente riferimento per le persone maggiormente impegnate per la pace e la
liberazione frequentissimamente dominano visioni del mondo chiuse, rigide, con
pretese onniresponsive, ci permettiamo di insistere energicamente su questo
punto: il nesso tra libertà e fallibilità, la necessità di un approccio
fallibilista (non ci dilunghiamo oltre rinviando piuttosto al brillante agile
libro di Dario Antiseri, Liberi perché fallibili che segnaliamo in
bibliografia).
10. Per l’approfondimento, una bibliografia essenziale
10.1. Per un percorso minimo
-
Giuliano Pontara, La personalità nonviolenta,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996 (particolarmente il capitolo secondo);
-
Dario Antiseri, Liberi perché fallibili,
Rubbettino, Soveria Mannelli 1995;
-
Alberto L’Abate (a cura di), Addestramento alla
nonviolenza, Satyagraha, Torino 1985.
10.2. Per un approfondimento più rigoroso
-
Gene Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, tre volumi,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985-1997;
-
Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, disponibile
in varie edizioni;
-
Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson,
Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1971;
-
Theodor W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino;
-
Giovanni Jervis, Manuale critico di psichiatria,
Feltrinelli, Milano, più volte ristampato;
-
Günther Anders, Tesi sull’età atomica, Centro di ricerca
per la pace, Viterbo 1991;
-
Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino
1993;
-
Franco Fortini, Una voce: comunismo, Centro di ricerca
per la pace, Viterbo 1990;
-
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, più
volte ristampato.
11. Appendice prima. Una caratterizzazione della personalità nonviolenta (da Giuliano Pontara)
Nel secondo capitolo che ha lo
stesso titolo dell’intero volume La personalità nonviolenta, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1996, Giuliano Pontara evidenzia dieci qualità di quella
che definisce la “personalità nonviolenta” (contrapposta alla “personalità
autoritaria”), qualità che così elenca e descrive:
1. Il
ripudio della violenza (su cui svolge un’analisi molto fine ed articolata che
qui non possiamo adeguatamente riassumere ma alla quale rinviamo anche perché è
assai caratteristica del modo di argomentare dell’autore);
2. La
capacità di identificare la violenza (ovvero di riconoscerla anche laddove si
presenti mascherata o cronicizzata; “la capacità di individuare la violenza a
tutti i livelli, da quello personale a quello istituzionale, da quello individuale
a quello strutturale, da quello internazionale a quello intergenerazionale.
Altrettanto importante è la capacità di individuarla in tutte le forme che essa
può assumere, e non soltanto in quelle più appariscenti della violenza
armata”);
3. La capacità
di empatia (ovvero di identificazione con gli altri e in primo luogo con quelli
che soffrono di più);
4. Il
rifiuto dell’autorità (“una persona nonviolenta ritiene che la responsabilità
per quello che fa non può essere addossata ad altri… fa dunque propria la
massima di don Milani: l’obbedienza, in quanto tale, non è una virtù”);
5. La
fiducia negli altri (che si contrappone alla logica militare: “Uno dei principi
fondamentali della nonviolenza prescrive di impostare la conduzione di un
conflitto in modo tale da fare appello ai lati migliori di coloro che ci si
trova di fronte come oppositori, usando tecniche di lotta volte ad ingenerare
in un numero sempre maggiore degli individui che costituiscono il gruppo
oppositore una crescente fiducia nei confronti del gruppo nonviolento. Si
tratta di un continuo tentativo di sostituire la spirale della sfiducia,
propria della logica della violenza, con la spirale della fiducia);
6. La
capacità di dialogare, ovvero la disposizione al dialogo (qui Pontara svolge una
efficace perorazione in favore del principio fallibilista, di cui riportiamo
ampi stralci: “Un assunto che soggiace alla disposizione al dialogo è
l’accettazione del principio del fallibilismo. Questo principio ci dice che
siamo tutti esseri mortali con poteri di conoscenza limitati onde nessuno può
mai dirsi sicuro che quello che in un certo momento crede essere vero, in
effetti sia tale: può benissimo darsi che sia falso. Il fallibilismo vale in
primo luogo nel campo della scienza. Ma vale ugualmente nel campo delle
credenze etiche. I nostri giudizi morali possono infatti essere distorti dai
nostri piccoli interessi egoistici, o fondati su ipotesi empiriche false o su
informazioni incomplete. Possono anche essere fondati su assunti di valore che
non abbiamo visitato criticamente o tali per cui se esaminati criticamente
saremmo stati disposti ad abbandonare. [...] Il fallibilismo in etica è
profondamente compatibile con l’avere delle profonde convinzioni morali [...].
Un individuo fornito di una personalità nonviolenta… non vorrà escludere a
priori la possibilità di aver lui torto e l’avversario ragione. Per questo egli
rifiuta metodi di conduzione dei conflitti che comportano la distruzione
dell’avversario [...]. Il fallibilismo abbraccia anche le credenze religiose ed
essere fallibilista in religione è pur sempre compatibile con l’avere una
profonda fede religiosa [...]. L’interiorizzazione del principio del
fallibilismo è dunque uno dei migliori vaccini contro tutte le forme di
fanatismo…; è altresì fondamentale per il buon funzionamento delle istituzioni
democratiche e costituisce un grande incentivo alla tolleranza [...]. Il
fallibilismo vale nei confronti di tutti i giudizi, anche quelli in cui si
articola il fallibilismo stesso: non possiamo escludere che la credenza stessa
per cui siamo tutti fallibili in effetti sia falsa. Ben poco però induce a
credere che tale essa sia. Il contrario del fallibilismo è il dogmatismo”);
7. La
mitezza (che ovviamente si armonizzi con le altre qualità indicate);
8. Il coraggio;
9. L’abnegazione;
10.
La pazienza.
12. Appendice seconda. Alcuni schemi da Pat Patfoort
Pat Patfoort, biologa e
antropologa, nel suo libro Costruire la nonviolenza, La Meridiana,
Molfetta 1992, offre alcuni schemi che di seguito riportiamo con qualche minima
abbreviazione, semplificazione e modifica (ovviamente senza entrare qui in una
discussione di merito).
12.1. Scheda su atteggiamenti assunti nel conflitti: atteggiamento consueto o primitivo, ovvero violento (A); atteggiamento degno dell’uomo ovvero nonviolento (B):
1. A:
reazione viscerale, impulsiva, inconscia, spesso più diretta; B: reazione di
tutto l’essere umano, viscere, ma anche intelligenza, cuore, coscienza che
mirano a controllare le emozioni. Spesso più indiretta (lungo termine).
2. A:
superficiale; B: profondo.
3. A: dà
importanza ai valori esteriori; B: dà importanza ai valori interiori.
4. A:
sfiducia o fiducia cieca; B: fiducia, comprensione, rispetto dell’altro,
capacità di perdonare, amore verso il prossimo.
5. A:
diretto all’interesse individuale, interesse personale; B: diretto
all’interesse comune delle parti, solidarietà.
6. A:
norme; B: coscienza, senso critico, consapevolezza, senso di responsabilità,
creatività.
7. A:
ricette; B: soluzioni ad hoc.
8. A:
centralizzazione; B: decentralizzazione.
9. A. il
conflitto è un processo negativo (crea tensioni e stress, distruttivo per il
rapporto, il risultato è la cosa principale, si cerca la parte colpevole, si
rimane impantanati nel passato); B: il conflitto è un processo positivo (metodo
vissuto positivamente, costruttivo per il rapporto, il processo è importante
quanto il risultato, cercare di capire ciò che è successo, guardare al futuro).
10.
A: il tempo necessario prima sembra insufficiente, dopo
sembra eccessivo, si è inconsapevolmente dominati dal tempo; B: il tempo
necessario è affrontato con pazienza, vi è un controllo consapevole del tempo.
11.
A: abuso di potere, forme negative di potere; B: uso del
potere, forme positive di potere.
12.
A: forme esteriori di forza, mancanza di fiducia in se
stessi; B: forza interiore, fiducia in se stessi, umiltà.
13.
A: mancanza di comunicazione o comunicazione poco chiara,
pregiudizi; B: comunicazione chiara.
14.
A: critica negativa, distruttiva; B: affermazione
positiva più comunicazione concernente le difficoltà del rapporto (critica
costruttiva).
15.
A: migliore/peggiore; B: differente.
12.2. Scheda su alcuni concetti aventi contenuti differenti nelle relazioni umane consuete (A), e nelle relazioni umane ispirate alla nonviolenza (B):
-
autocontrollo: A. soppressione delle emozioni; B.
espressione razionale delle emozioni in modo diverso;
-
autorità: A. prendere, domandare; B. ricevere;
-
comprensione: A. accordo; B. accettazione,
consapevolezza;
-
concessione: A. ci si avverte come perdenti, la parte
incolpata; B. accettazione;
-
pazienza: A. passiva, di attesa; B. attiva, costruttiva;
-
potere: A. dall’esterno; B. dall’interno;
-
spontaneità: A. immediata e frutto di reazione
emozionale; B. comunicazione aperta, non corrotta;
-
verità: A. fede cieca; B. fede consapevole, cosciente.
13. Appendice terza ed ultima. Alcuni stralci dall’introduzione di Liberi perché fallibili di Dario Antiseri
Riportiamo qui qualche brano
dall’introduzione (pp. 9-10) del libro di Dario Antiseri, Liberi perché
fallibili, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995. Ma consigliamo vivamente di
leggere tutto il libro (peraltro breve e brillante). Segnaliamo anche un
libretto di estratti popperiani curato sempre da Antiseri: Karl R. Popper, Come
controllare chi comanda, Ideazione, Roma 1996; e l’assai utile più ampia
antologia sempre per le cure di Antiseri, Karl R. Popper, Logica della ricerca
e società aperta, La Scuola, Brescia 1989.
“C’è un’infinità di cose che
noi non conosciamo; quello che conosciamo lo conosciamo tramite teorie
scientifiche smentibili e attraverso teorie filosofiche criticabili [...]. I
nostri progetti nascono e crescono nell’incertezza, e -a motivo delle
inevitabili conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali- possono
addirittura risolversi in esiti contrari alle intenzioni di chi ha progettato.
[...] Ora, però, siccome
vivere è risolvere problemi, diventa chiaro che, se noi vogliamo risolvere i
problemi, è necessario che gli altri siano liberi di proporre le loro
alternative, liberi di avanzare le loro critiche, liberi di portare
l’attenzione sugli esiti inattesi anche dei migliori progetti e di costruire
progetti alternativi; se vogliamo che i problemi vengano risolti è necessario
che gli altri -tutti gli altri- siano liberi di porre in azione le loro
conoscenze…
[...] Il politeismo delle
visioni del mondo e dei valori sta a base della società aperta.
Siamo, dunque, liberi.
Condannati ad essere liberi perché ontologicamente ignoranti.
La negazione della libertà,
per altro verso, ha sempre un fondamento gnoseologico: la presunzione fatale di
sapere, magari in modo assoluto e certo, quale sia il vero Dio; di conoscere i
fondamenti incontrovertibili dei valori ultimi; di possedere il criterio per
stabilire quale sia la società perfetta; di conoscere le leggi ineluttabili
della storia umana nella sua totalità; di sapere quali siano i bisogni
essenziali degli altri, la loro felicità.
La presunzione della nostra
ragione è la via della schiavitù. La consapevolezza della nostra ignoranza è la
base della nostra libertà. E liberi sono solo gli individui, giacché nel mondo
ci sono solo individui: solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo
l’individuo agisce. E le nostre azioni hanno effetti intenzionali ed esiti
inintenzionali. Non ci è possibile nascondere le nostre paure, le nostre
esitazioni e le nostre vigliaccherie più o meno grandi sotto la maschera di
“azioni” di enti collettivi come la classe, la nazione e il partito. Ad agire
sono soltanto gli individui. Responsabili siamo, dunque, solo noi”.
Viterbo, venerdì 16 luglio
1999
La nonviolenza ripudia l’uso del segreto, dell’inganno, del sotterfugio.
Quindi non è possibile aderire
alla nonviolenza o adottare tecniche nonviolente se non si accetta questo
principio; ed a maggior ragione non è possibile realizzare una campagna o
un’azione diretta nonviolenta se non si accetta questo principio.
Vi sono dei motivi
fondamentali per questo; vediamone alcuni a nostro avviso decisivi.
a) La
nonviolenza è democrazia integrale, condizione della democrazia è che tutti
siano messi in grado di sapere tutto ed attraverso la conoscenza siano quindi
messi in grado di giudicare e di agire liberamente; la menzogna e la segretezza
violano alla radice la democrazia.
b) La
nonviolenza è antiautoritaria, poiché essa si fonda non sul principio di autorità
(l’obbedienza cieca e incondizionata ad un potere esterno) ma sul principio di
libertà di critica e di responsabilità personale; il segreto implica sempre una
gerarchia, ed attribuisce a chi lo detiene un potere in danno degli altri;
inoltre le decisioni prese sulla base di informazioni occultate ad altri,
intrinsecamente impediscono agli altri la piena libertà di critica e quindi
tendono ad imporre comportamenti mistificati e dunque coatti.
c) La
nonviolenza è riconoscimento della dignità di ogni essere umano: ingannare un
uomo, anche semplicemente non facendogli sapere qualcosa che lo riguarda e che
è di effettiva importanza per lui, ed anche se questo uomo è proprio il nostro
avversario, quello con cui stiamo lottando, ebbene, ingannarlo con la menzogna
o col segreto implica disconoscerne ed umiliarne la dignità, il che viola alla
radice un convincimento fondativo della nonviolenza come concetto e come
metodo.
d) La
nonviolenza è comunicazione: il segreto disturba la comunicazione, la confonde
e falsifica e di fatto quindi la impedisce. Poiché nella lotta nonviolenta una
corretta comunicazione è assolutamente indispensabile, e ad essa occorre
dedicare la massima cura, e la possibilità che l’interazione comunicativa
fallisca è comunque elevatissima, la presenza del segreto lede alla radice e
quindi annulla la possibilità dell’azione nonviolenta.
e) La
nonviolenza richiede un’assoluta limpidezza morale: essa è quindi incompatibile
con tutto ciò che questa limpidezza impedisce. Il segreto implica sempre un
cono d’ombra, una diversità di trattamento tra persone che lo condividono o no,
un non poter dire tutto ciò che si sa, frequentemente impone tattiche di
mascheramento, ed in ogni caso un modo di presentare gli argomenti connessi che
in quanto omissivo è ipso facto menzognero ed in piccola o grande misura
comunque truffaldino. Il segreto è incompatibile col rigore morale.
f) La
scelta dell’azione nonviolenta è un atto di autonomia morale: chi fa questa
scelta non si aspetta dall’avversario una condotta analoga, non istituisce un
rapporto contrattuale, un do ut des; bensì garantisce della propria
condotta poiché liberamente la sceglie sulla base di un giudizio ponderato del
tutto autocentrato; il segreto offusca l’autonoma morale, esso implica un
relativismo di valori e di condotta che di fatto riduce alla subalternità: la
scelta del segreto infatti implica che una cosa (un convincimento, una
conoscenza, una decisione, un dato) si afferma o si nasconde a seconda di chi
si ha di fronte; è quindi il contrario esatto dell’autonomia morale.
g) Nella
lotta nonviolenta è fondamentale la lealtà: come specificazione della scelta di
fondo, ma anche per le sue ricadute pratiche contestuali, ovvero perché essa
implica la stima da parte degli altri soggetti coinvolti nel conflitto. Il
segreto impedisce una condotta leale, e distrugge la stima.
h) Nella
lotta nonviolenta è fondamentale costruire fiducia: lo stesso avversario deve
sapere con certezza che del lottatore nonviolento può fidarsi, che la sua
condotta sarà coerente con i suoi princìpi. Il segreto è invece inganno e
minaccia, distrugge la fiducia, vanifica il senso profondo dell’azione
nonviolenta.
Nella lotta nonviolenta quindi
la segretezza e la clandestinità sono bandite, così come è bandita la minaccia,
il ricatto, il trucco, la sorpresa; così come è ripudiata la condotta meschina,
il sottrarsi alla responsabilità delle proprie azioni e delle conseguenze delle
proprie azioni.
Si può decidere di aderire o
non aderire alla nonviolenza, ma chi sceglie di farlo deve sentirsi
rigorosamente impegnato a una condotta limpida e coerente.
Concludendo: il segreto è
incompatibile con la scelta della condotta nonviolenta perché esso è una forma
di menzogna e di inganno. Il segreto è negazione di valore all’altro: nel suo
bene maggiore, che è l’intelletto; nel cuore stesso della sua identità, che è
la capacità di accedere a verità. Sul segreto non si fonda una società libera,
mentre una qualità specifica della condotta nonviolenta è che ogni suo atto
deve poter essere istitutivo di una società libera. Il segreto in quanto tale
corrompe ed opprime, la nonviolenza in quanto tale libera e degnifica.
Viterbo, sabato 17 luglio 1999
Alcune riflessioni connesse alla meditazione della condotta e della dichiarazione di Gandhi nel processo del 18 marzo 1922 in cui fu condannato a sei anni di carcere
1. Parte argomentativa
Quando si promuove una
campagna, un’iniziativa, anche solo una denuncia, il militante nonviolento sa che
dovrà assumersi la responsabilità di tutto quello che ne conseguirà.
Non vale ai suoi occhi
l’argomento ritorsivo frequentemente e sovente assai capziosamente usato per
cui tutte o le più gravose conseguenze negative di un conflitto si pretende di
addossarle alla responsabilità degli oppressori, degli artefici, complici e
beneficiari dell’ingiustizia strutturale contro cui ci si leva, dei repressori,
o del singolo aderente all’appello o all’iniziativa che deflettesse dalla
condotta stabilita o comunque dalla migliore possibile (tutte responsabilità
che naturalmente esistono e che in qualche misura sono certamente compresenti);
né vale l’argomento specioso di una fantomatica responsabilità collettiva degli
inerti o delle organizzazioni o di categorie ontologizzate: la storia, la
nazione, la classe, il partito,l a massa, la folla… (argomento sovente usato
ipocritamente per deresponsabilizzare gli individui: quando invece ogni
decisione presa ed azione eseguita implica sempre che delle persone hanno
voluto ed hanno agito).
No, per il militante
nonviolento che promuove una protesta, una lotta, un’iniziativa, la
responsabilità è sempre personale, e lui la sente tutta, e la assume tutta; E
questo vale per ogni attivista nonviolento, ma vale anche -a nostro avviso- per
ogni persona consapevole che le proprie parole ed azioni non restano senza
conseguenze.
Per questo quando si promuove
una denuncia, un’iniziativa, una campagna di lotta, occorre essere molto
attenti nel cercare di prevederne e controllarne gli esiti per quanto
possibile, e molto chiari nel definire senso e fini dell’azione e nel chiedere
a chi volesse sostenerla di attenersi rigorosamente ed obbligatoriamente a
regole precise. Per questo l’azione nonviolenta è ad un tempo il “potere di
tutti” poiché di tutti riconosce i diritti e chiunque può comparteciparne, ma
anche la forma di lotta più difficile da condurre, quella che richiede a chi vi
aderisce il più arduo addestramento, la più accurata preparazione, ed una
condotta limpida, coerente, assai esigente, assai impegnativa.
Per questo occorre sapere che
anche avendo fatto tutto ciò che è in proprio potere per garantire che
l’iniziativa nonviolenta sia rigorosamente tale, comunque occorrerà assumersi
la responsabilità anche delle azioni disdicevoli e non condivise di chi si
mobiliterà o interverrà comunque nel conflitto suscitato a seguito della
denuncia, iniziativa, campagna promossa.
Questo implica anche che
occorre che il militante nonviolento sia disposto ad interrompere
immediatamente la propria azione appena essa scateni o possa offrire il
pretesto ad azioni violente da parte dei sostenitori delle sue tesi o denunce.
Ciò è decisivo nelle azioni dirette e nelle campagne nonviolente; ed è un punto
di grande debolezza (poiché manifesta quanto si sia in un certo senso indifesi
dinanzi all’azione dei provocatori), ma insieme un punto di forza, poiché
sapere che la sciocchezza o la violenza di uno può immediatamente,
irreversibilmente e completamente far cessare l’iniziativa, distruggere l’opera
e vanificare l’impegno di tutti, responsabilizza fortemente tutti i
partecipanti all’azione.
Tutto ciò potrebbe sembrare
paralizzante, ma così non è: infatti per il militante nonviolento la sua
responsabilità c’è anche nel caso di una condotta omissiva, anzi: astenersi
dalla lotta contro l’ingiustizia significa per lui essere complice con
l’ingiustizia, quindi la condotta di chi si sottrae alla denuncia e all’impegno
è ai suoi occhi sicuramente da giudicarsi in modo negativo, implica quindi
anch’essa una responsabilità su cui il giudizio non può che essere di condanna.
Riassumendo: dinanzi
all’ingiustizia il militante nonviolento si oppone, denuncia, agisce, promuove
la lotta, si assume la responsabilità delle azioni che compie e che suscita e
delle loro conseguenze; rifiuta di ingannarsi e di ingannare, non ritorce
contro altri la responsabilità che sente sua, è leale; paga le conseguenze del
suo agire senza cercare di sottrarsi alle sofferenze che ciò implica; tiene una
condotta che sa essere sempre educativa.
2. Parte illustrativa
Proponiamo alla riflessione la
condotta di Gandhi nel processo del 18 marzo 1922.
2.1. Premessa
Tornato in India (il 9 gennaio
1915, a quarantasei anni) dopo le grandi lotte nonviolente condotte in Sudafrica
(in cui aveva soggiornato pressoché costantemente dal 1893 al 1914), Gandhi
aveva assunto la leadership di rilevanti lotte sociali e del movimento
politico di emancipazione dell’India dal colonialismo britannico; il primo
febbraio del 1922 annuncia al viceré la promozione di una nuova campagna di
lotta nonviolenta; ma il 5 febbraio a Chauri Chaura una folla inferocita
trucidava orribilmente, facendoli bruciare vivi, oltre venti poliziotti; Gandhi
digiuna per cinque giorni e decide di rinunciare all’annunciata campagna di
lotta nonviolenta: questa condotta è caratteristica di Gandhi, che così come
alla violenza degli oppressori contrapponeva la lotta nonviolenta,
all’esplosione della violenza da parte di coloro che si battevano per obiettivi
considerabili analoghi ai suoi contrappose ripetutamente la sospensione delle
sue campagne di lotta. Il 10 marzo è arrestato per sedizione in relazione ad
alcuni articoli pubblicati nei mesi precedenti su “Young India”, per il suo
ruolo nel movimento di opposizione; il 18 marzo è processato e condannato a sei
anni di prigione (poi ridotti a due per ragioni di salute, e dopo una
operazione chirurgica verrà rilasciato nel 1924).
Il 18 marzo 1922 Gandhi
comparve in giudizio per aver pubblicato su “Young India”, il periodico di cui
era direttore, tre articoli tra il settembre 1921 e il febbraio 1922 intitolati
rispettivamente A proposito di lealtà, L’enigma e la sua soluzione,
Scuotere gli spiriti, per i quali venne imputato di “manifestare o
tentare di manifestare odio o disprezzo o suscitare o tentare di suscitare
disaffezione verso il governo di Sua Maestà, costituito per legge nell’India
britannica” ai sensi della sezione 124 A del Codice Penale indiano (che Gandhi
nella sua dichiarazione al processo definì “forse la principale fra le sezioni
politiche del Codice Penale indiano designate a sopprimere la libertà dei
cittadini”). Gandhi pronunciò una dichiarazione che esordiva accettando la
responsabilità per aver promosso la critica e l’opposizione alla dominazione britannica
in India, ed accettando anche la corresponsabilità dell’azione dell’intero
movimento di opposizione che aveva contribuito a suscitare, e finanche per i
crimini che erano stati commessi da altri che pure nella loro azione si
collocavano in netto contrasto con le sue posizioni rigorosamente nonviolente;
e per questo Gandhi chiedeva di essere condannato al massimo della pena. Ma
proseguiva confermando che riteneva giusta la propria condotta e che avrebbe
continuato la lotta, poiché non continuare la lotta avrebbe costituito una
cooperazione con il male.
2.2. Alcuni stralci della dichiarazione di Gandhi in tribunale
Qui citiamo il testo della
dichiarazione resa in tribunale il 18 marzo 1922, come pubblicato in Gandhi, La
voce della verità, Newton Compton, Roma 1991, pp. 20-24, volume a cui
rinviamo per la lettura del testo integrale.
“Prima di leggervi questa
dichiarazione mi piacerebbe affermare che sottoscrivo interamente le
osservazioni dell’eminente Primo Magistrato in riferimento alla mia umile
persona. Ritengo le affermazioni da lui rese estremamente eque verso di me,
perché è tutto verissimo e io non ho alcun desiderio di nascondere a questa
corte il fatto che predicare la disaffezione nei riguardi dell’attuale sistema
di governo sia divenuto quasi una passione per me; il Primo Magistrato è
pienamente nel giusto quando sostiene che io non abbia iniziato a predicare
tale disaffezione con la mia collaborazione a Young India, ma molto
prima, e nella dichiarazione di cui sto per dare lettura sarà mia dolorosa cura
ammettere davanti a questa corte che tale predicazione risale a un periodo
precedente a quello indicato dal Primo Magistrato. Per quanto penoso, è un
dovere a cui non mi sottraggo, avendo coscienza della responsabilità che poggia
sulle mie spalle, e voglio sottoscrivere tutta la colpa che l’eminente Primo
Magistrato ha voluto attribuirmi riguardo ai fatti di Bombay, ai fatti di
Madras e ai fatti di Chauri Chaura. Dopo aver riflettuto profondamente su
queste cose e averci dormito sopra parecchie notti, mi è impossibile
dissociarmi dai diabolici crimini di Chauri Chaura o dalle folli violenze di
Bombay. Il Magistrato ha affatto ragione nel dire che, come uomo di
responsabilità, uomo che ha potuto godere dei vantaggi di una buona educazione
e fare una discreta esperienza di questo mondo, avrei dovuto immaginare le
conseguenze di ciascuno dei miei atti. Le conoscevo. Sapevo di stare scherzando
col fuoco. Ma ho voluto correre il rischio e se venissi posto in libertà farei
ancora la stessa cosa. Stamattina ho capito che avrei mancato al mio dovere se
non avessi detto ciò che ho appena detto qui.
Volevo evitare la violenza. La
nonviolenza è il primo articolo della mia fede. È anche l’ultimo del mio credo.
Ma dovevo fare la mia scelta. O sottomettermi a un sistema che ritenevo
responsabile di irreparabili danni al mio paese, o correre il rischio della
furia impazzita della mia gente che sarebbe esplosa non appena avesse appresa
la verità dalle mie labbra. So che la mia gente in qualche circostanza si è
abbandonata alla follia. Me ne dolgo profondamente e sono qui proprio per
accettare non una leggera pena, ma la massima pena. Non chiedo misericordia.
Non mi appello ad alcuna attenuante. Sono qui, anzi, per chiedere e accettare
di buon grado la più alta pena che mi si possa infliggere per quello che,
secondo la legge, è un crimine deliberato, mentre a me pare il più alto dovere
di un cittadino. La sola strada a lei aperta, Giudice, è, come sto per
affermare nella mia dichiarazione, o di rassegnare le dimissioni o di
infliggermi la più severa delle condanne, se ritiene buoni per gli indiani il
sistema e la legge che lei contribuisce ad amministrare. Non è che mi aspetti
una simile conversione. Ma per quando avrò terminato di leggere la mia
dichiarazione, lei avrà potuto cogliere un barlume di ciò che si agita nel mio
petto, spingendomi a correre questo rischio del tutto folle per un uomo sano.
Dovrei forse spiegare al
pubblico indiano e al pubblico inglese, per placare soprattutto il quale si è
istituito questo processo, come mai, da devoto legale e collaboratore, sia
diventato un intransigente oppositore e noncollaboratore. Alla corte dovrei
anche spiegare perché mi sia dichiarato colpevole rispetto all’accusa di
promuovere la disaffezione verso il governo istituito per legge in India.
La mia vita pubblica iniziò
nel 1893 in Sudafrica in un periodo travagliato. Il mio primo contatto con
l’autorità britannica in quel paese non fu propriamente di carattere felice.
Scoprii che, come uomo e come indiano, non avevo diritti. Più correttamente
scoprii di non avere diritti come uomo perché indiano.
Ma non mi lasciai abbattere.
Pensai che riservare agli indiani un tale trattamento fosse solo un’escrescenza
da eliminare, in un sistema intrinsecamente e fondamentalmente buono. Detti al
governo il mio volontario e sincero apporto, criticandolo liberamente dove
ritenevo che mancasse, ma senza mai volerne la distruzione.
[A questo punto Gandhi elenca
le benemerenze acquisite ed i riconoscimenti ottenuti in Sudafrica e
successivamente in India]. In tutti questi sforzi al servizio del governo ero
animato dalla convinzione che attraverso di essi i miei connazionali potessero
guadagnarsi uno status di piena parità nell’Impero.
Il primo trauma fu costituito
dal Rowlatt Act, una legge concepita per derubare il popolo di ogni reale
libertà. Mi sentii chiamato a guidare un’intensa protesta contro di essa [...].
Nel congresso di Amritsar del 1919 lottai per la collaborazione e per il
funzionamento delle riforme di Montagu-Chelmsford [...].
Ma ogni mia speranza si
dissolse come fumo al vento [...]. Giunsi con riluttanza alla conclusione che
il vincolo britannico aveva reso l’India più indifesa di quanto non fosse stata
prima, sia politicamente che economicamente. [A questo punto Gandhi fa un quadro
delle drammatiche condizioni di miseria ed oppressione dell’India rurale e
della violenza della dominazione britannica, e ne conclude che
“l’amministrazione della legge, consciamente o inconsciamente, viene
prostituita a vantaggio dello sfruttatore”, anche se “gli inglesi e i loro
collaboratori indiani nell’amministrazione del paese non sanno di partecipare
al crimine che ho cercato di descrivere”; quindi conferma la sua disaffezione
rispetto al dominio britannico e attacca una legge che vorrebbe addirittura
imporre “affetto” per un sistema di dominazione iniquo e nocivo].
Credo di avere reso un
servizio tanto all’india che all’Inghilterra nell’indicare nella
noncollaborazione il modo per uscire dallo stato innaturale in cui entrambe si
ritrovano. Secondo me, la noncollaborazione al male è doverosa quanto la
collaborazione al bene. Ma nel passato, la noncollaborazione si è
deliberatamente espressa in forma di violenza contro gli autori del male. Io mi
sto sforzando, invece, di mostrare ai miei connazionali che la
noncollaborazione violenta semplicemente moltiplica il male e che, come
soltanto la violenza può sostenere il male, così il ritiro del sostegno al male
richiede una completa astensione dalla violenza. La nonviolenza implica una
volontaria accettazione della pena prevista per la noncollaborazione al male.
Sono qui, dunque, per chiedere ed accettare con gioia la più alta delle pene
che possono essermi inflitte per ciò che, secondo la legge, è un crimine
deliberato e che a me appare, invece, come il più alto dovere di un cittadino.
La sola strada che vi si apre, Giudice e consiglieri, è o rinunciare
all’incarico, e così dissociarvi dal male, se sentite che la legge che siete
chiamati ad amministrare è un male, e che in realtà io sono innocente, o infliggermi
la pena più severa, se siete convinti che il sistema e la legge che contribuite
ad amministrare siano buone per il popolo di questo paese, e che la mia
attività sia, di conseguenza, dannosa per il bene comune”.
3. Per approfondire
3.1. La bibliografia su Gandhi è sterminata.
3.1.1. Se dovessimo proporre un percorso minimo suggeriremmo due testi a nostro avviso di grandissimo interesse:
-
Mohandas Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza,
Einaudi, Torino, ora anche in edizione economica; questo libro si caratterizza
rispetto a molte altre raccolte di scritti gandhiani perché pur essendo
anch’esso organizzato per temi è tuttavia impegnato in una precisa
contestualizzazione dei testi (che non vengono forzosamente omogeneizzati ma
lasciati interagire nella dialettica interna delle varie e diverse posizioni
assunte da Gandhi sui medesimi temi in situazioni e momenti diversi) ed è
aperto da un’introduzione del curatore Giuliano Pontara di particolare valore.
-
“Tecnologie appropriate. Per dire… tra la gente”, n.
31-32, gennaio-giugno 1992, fascicolo monografico su Gandhi; questo
fascicolo curato da Luigi De Carlini è articolato in una introduzione, 25
schede didattiche e 3 appendici, ed è di grande utilità.
3.1.2. Ed. Newton Compton
Segnaliamo anche che
meritoriamente la Newton Compton ha pubblicato alcuni volumi gandhiani in
edizioni ultraeconomiche, tra cui cfr. particolarmente:
-
Mohandas Gandhi, La mia vita per la libertà, Newton
Compton, Roma 1973, poi 1988 e ristampe seguenti; traduzione italiana
dell’autobiografia di Gandhi, nell’originale intitolata assai più
perspicuamente: An autobiography or the Story of my experiments with truth
[Autobiografia, ovvero Storia dei miei esperimenti con la verità].
-
Idem, La voce della verità, Newton Compton, Roma 1991; il
libro è la traduzioni di The voice of Truth, Navajivan trust, Ahmedabad 1968;
la prima parte (pp. 11-63) riporta alcuni significativi discorsi e
dichiarazioni di Gandhi; la seconda parte (pp. 65-331) riporta i soliti brevi
estratti da interventi vari organizzati tematicamente e purtroppo
decontestualizzati (difetto comune a pressoché tutte le raccolte di scritti
gandhiani, tra cui anche la classica Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità,
Milano, più volte ristampata).
-
Idem, Il mio credo, il mio pensiero, Newton Compton, Roma
1992; il libro è la traduzione della nota e più volte ristampata antologia
indiana The mind of Mahatma Gandhi; è ancora una corposa raccolta di brevi
estratti organizzati tematicamente.
Ci permettiamo una postilla:
poiché Gandhi non è un pensatore sistematico ma contestuale, e la sua scrittura
come la sua azione è eminentemente politica, ovvero strettamente legata alla
lotta immediata ed alla situazione concreta in cui si inserisce e con cui
interagisce, la riduzione consumistica dei suoi scritti in forma di “pillole di
saggezza” (astratta e quindi inoperante) ovvero di “frasi celebri” (del tutto
asettiche e quindi rese generiche e svuotate di forza cogente) costituisce
un’operazione assai discutibile, un’operazione dagli evidenti, quand’anche non
pienamente consapevoli, riflessi ideologici e politici.
3.1.3. Ed. Il Mulino
Tra le biografie di Gandhi ne
segnaliamo una recente particolarmente accurata: Judith M. Brown, Gandhi.
Prigioniero della speranza, Il Mulino, Bologna 1995 (l’edizione originale
inglese è del 1989; l’autrice, nata in India, docente di storia all’Università
di Manchester, specialista di storia dell’India e già autrice di altri volumi
su Gandhi fin dai primi anni ‘70, ha un’eccellente conoscenza dell’argomento e
delle fonti ed un approccio di notevole rigore scientifico).
3.2. Ed. Tam tam libri
Anche sulla nonviolenza la
bibliografia è gigantesca; per un primo orientamento ci permettiamo di rinviare
al nostro opuscolo Nonviolenza, percorsi di lettura, Tam tam libri,
Mestre 1998.
3.3. Approfondimenti particolari
La questione della
responsabilità è uno dei temi filosofici, religiosi, morali e giuridici più
ardui. Al concetto di responsabilità attribuiamo qui due articolazioni (o linee
interpretative) fondamentali: a) il rispondere ad un appello, ad una chiamata,
quindi il collocarsi significativamente di fronte ad una alterità; b) la
responsabilità come farsi carico, come presa in carico.
3.3.1. Sulla responsabilità come “rispondere a” segnaliamo l’opera di Emmanuel Lévinas.
3.3.2. Sulla responsabilità come “rispondere di” segnaliamo l’opera di Hans Jonas.
3.3.3. In riferimento ad entrambe le dimensioni segnaliamo l’opera, pratica e teorica, di Franco Basaglia.
3.3.4. Su alcune terribili dinamiche in ambito religioso ed esistenziale
Su alcune terribili dinamiche
dell’appello e della risposta in ambito religioso ed esistenziale rinviamo al
classico scritto di Sören Kierkegaard, Timore e tremore; per un’altra
linea di lettura anch’essa classica e vibratile cfr. Thomas Mann, la tetralogia
di Giuseppe e i suoi fratelli; ovviamente ineludibile è l’opera di Franz
Kafka, dal Processo al Castello, a molti altri suoi testi sia
narrativi che di meditazione.
3.3.5. In ambito marxista
In ambito marxista tanto in
alcune opere di dimensione prevalentemente artistica, quanto in testi più
propriamente saggistici, così come in scritti di diretto intervento politico,
il tema della responsabilità e delle sue drammatiche e fin disumananti
dialettiche, contraddizioni ed aporie è stato indagato soprattutto con
riferimento al contrasto tra etica e politica, anche come riflesso di alcune scelte
tragiche e di alcune tragedie storiche del movimento operaio e delle esperienze
rivoluzionarie; per il primo tipo di testi cfr. almeno Bertolt Brecht, La
linea di condotta, e L’eccezione e la regola; Jean Paul Sartre, Le
mani sporche; per il secondo cfr. molti saggi di Franco Fortini (e almeno
quelli raccolti in Verifica dei poteri e Questioni di frontiera);
per il terzo tipo di testi alcune opere di Rosa Luxemburg, di Lev Trotskij,
della scuola di Francoforte. Ovviamente indispensabile è la lettura di Arcipelago
Gulag di Aleksándr Solzenicyn, che smaschera e demolisce tanti orribili
sofismi dando conto dell’abominevole intollerabile realtà (così come riteniamo
che tutta la letteratura concentrazionaria costituisca un riferimento
indispensabile per ogni riflessione etica).
3.3.6. Ricerche ed approfondimenti
Tre pensatori di notevole
autonomia teorica: una riflessione originale ha svolto Albert Camus; altra
riflessione peculiare quella di Simone Weil; altrettanto originale la ricerca e
la prospettiva di Elias Canetti. Ci sembra che tutti e tre apportino contributi
notevoli ad una analisi del tema proposto.
3.3.7. Responsabilità
Connesso al tema della
responsabilità c’è quello della testimonianza: vogliamo qui conclusivamente
rendere omaggio ancora una volta a Primo Levi, delle cui opere consigliamo a
tutti la lettura.
Viterbo, lunedì 19 luglio 1999
Parte prima: una riflessione preliminare
1. La necessità dell’addestramento alla nonviolenza
1.1. La nonviolenza come “potere di tutti”
La nonviolenza è il “potere di
tutti”: ovvero quella metodologia di lotta e quella proposta di valori che
hanno come fondamento il massimo di apertura agli altri, il massimo di
riconoscimento e promozione di umanità, la prospettiva democratica integrale:
fino al farsi carico nelle proprie scelte non solo dell’intera umanità
presente, ma anche di quella passata e di quella futura.
1.2. Due opportune specificazioni sulla responsabilità verso l’umanità futura e passata
Il tema della responsabilità
nei confronti delle generazioni future è ormai uno dei nodi cruciali della
riflessione etica contemporanea con particolar riferimento alla crisi ecologica
ed alle questioni bioetiche.
Il tema della responsabilità
verso le generazioni passate è compresente nelle tradizioni culturali fin più
arcaiche nella forma del culto dei morti, e sebbene sia stato forse meno
tematizzato in termini di oggetto di riflessione delle etiche pubbliche
contemporanee, esso è sentito fortissimamente da ogni essere umano in quanto si
riconosce parte di una comunità specifica -appunto l’umanità intera- e
corresponsabile di un progetto complessivo -appunto la civiltà umana, quale che
sia il modo in cui si intenda tale concetto-.
1.3. Una teoria-prassi che chiunque può adottare
La definizione della
nonviolenza come “potere di tutti” ha anche un altro decisivo significato: che
essa è una teoria-prassi che da tutti e da chiunque può essere adottata. Mentre
altre teorie e pratiche richiedono particolari qualità fisiche, intellettuali,
morali o culturali, la nonviolenza si caratterizza per poter essere praticata
da chiunque, che sia giovane o bambino, persona matura o anziana; che sia uomo
o donna; che sia forte o debole, in eccellente salute o affetto da grave
malattia. La nonviolenza è quella forma di lotta e quella proposta di azione
che rende possibile a tutti di partecipare pienamente ad essa, tanto nel
processo decisionale quanto nella realizzazione concreta.
1.4. La nonviolenza non è una parola magica
Ma il fatto che la nonviolenza
sia il “potere di tutti” non significa che chiunque può adottarla senz’altro.
Per utilizzare la nonviolenza occorre:
a) approfonditamente
conoscerla;
b) persuasamente
accoglierla;
c) addestrarsi
tenacemente ad essa;
d) personalmente
e costantemente ripensarla criticamente e creativamente.
Qui intendiamo sottolineare particolarmente la necessità dell’addestramento, per poter promuovere o partecipare ad un’azione diretta nonviolenta o a una campagna di lotta nonviolenta.
1.5. La nonviolenza come scelta necessitata
Dopo Auschwitz e dopo Hiroshima i movimenti di lotta che si
impegnano per la pace, la democrazia, i diritti umani, la difesa della
biosfera, devono acquisire la consapevolezza che solo i valori e le metodologie
della nonviolenza sono integralmente coerenti con i fini che essi perseguono;
non solo: che la scelta della nonviolenza è obbligata poiché quando esiste,
come attualmente esiste, la concreta possibilità dei potenti di distruggere
tutto, è necessario adottare tecniche e strategie di lotta che tengano il
conflitto al livello meno distruttivo possibile, e che garantiscano
all’avversario che non verrà fisicamente annientato, dissuadendolo così da
scelte apocalittiche.
Del resto non solo rispetto
alla controparte, ma anche rispetto a soggetti terzi, vi è per i movimenti di
lotta sopra citati la necessità di essere persuasivi ed educativi, ovvero di
comunicare correttamente i propri fini e la propria fedeltà ad essi, e la
miglior forma di comunicazione è la scelta di mezzi coerenti con i fini
perseguiti. È evidente che chi lotta per la giustizia, la solidarietà, la
liberazione umana, i diritti umani, per essere convincente deve nel corso
stesso della lotta dimostrare la sua fedeltà a quei valori, e quindi adottare
modalità organizzative e decisionali, strategie e tecniche, scelte operative e
concrete azioni, che siano rigorosamente coerenti. L’azione nonviolenta è la
sola forma di lotta per la dignità umana che questa coerenza tra mezzi e fini
assume come fondamento.
Parte seconda: una scaletta di lavoro
2. Alcuni concetti essenziali per l’addestramento alla nonviolenza
2.1. La conoscenza e la critica;
2.2. Responsabilità, persuasione, ascolto;
2.3. Solidarietà e condivisione;
2.4. La scelta della democrazia, la consapevolezza della fallibilità;
2.5. Alcuni princìpi fondamentali della nonviolenza
Alcuni princìpi fondamentali
della nonviolenza (noncollaborazione con l’ingiustizia; rifiuto dell’uccisione
e delle lesioni fisiche; rifiuto della menzogna; coerenza tra mezzi e fini;
umanizzazione del conflitto).
3. Sulle tecniche di addestramento
Cfr. il libro curato da
Alberto L’Abate, Addestramento alla nonviolenza, Satyagraha, Torino;
cfr. anche il libro di Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza,
Libreria Feltrinelli, Milano.
4. Tecniche decisionali nonviolente
4.1. Il metodo del consenso;
4.2. I gruppi di affinità ed il consiglio dei portavoce.
5. Sulle tecniche dell’azione nonviolenta
Cfr. il vasto repertorio
contenuto nei tre volumi di Gene Sharp, Politica dell’azione, nonviolenta,
Edizioni Gruppo Abele, Torino.
6. Strategia e tattica di una campagna nonviolenta
6.1. Studiare, denunciare, proporre, negoziare;
6.2. Preparare meticolosamente campagna e partecipanti;
6.3. Capacità di farsi ascoltare e di ascoltare: nonviolenza come comunicazione;
6.4. Programma costruttivo e fini sovraordinati;
6.5. Ricerca del compromesso e rifiuto di annientare l’avversario;
6.6. Mantenere l’iniziativa essendo leali e creativi.
Per una descrizione più
articolata cfr. il nostro Schema per una riflessione sull’azione diretta
nonviolenta, Viterbo 1999; e l’opuscolo di Charles C. Walker, Manuale
per l’azione diretta nonviolenta, Edizioni del Movimento Nonviolento,
Perugia 1982.
Parte terza: alcuni materiali per l’approfondimento
7. Su educazione alla pace, formazione degli obiettori, DPN
7.1. Alcuni testi sull’educazione alla pace
Ernesto Balducci, Lodovico
Grassi, La pace, realismo di un’utopia, Principato, Milano 1985; Paolo
Cardoni, Irene e Orbilius, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di
Fiesole 1992; Johan Galtung, Sulla educazione alla pace, Quaderni degli
insegnanti nonviolenti, Torino s.d.; IPRI (a cura di), Se vuoi la pace educa
alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Aldo Visalberghi (a cura
di), Scuola e cultura di pace, La Nuova Italia, Firenze 1985.
7.2. Un progetto di corso di formazione per obiettori di coscienza in servizio civile
il progetto di corso (Viterbo,
1998) si articola in sette cicli di lezioni ed esercitazioni: il primo ciclo è
su diritti umani, legalità, democrazia; il secondo ciclo è su pace,
solidarietà, nonviolenza; il terzo ciclo è sul servizio sociale; il
quarto ciclo è su temi cruciali dell’etica pubblica contemporanea; il
quinto ciclo è sulla formazione specifica al servizio civile; il sesto
ciclo è sulla conoscenza del territorio in cui l’ente opera; il settimo
ciclo è sull’oggetto specifico del servizio civile da svolgere da parte
dell’obiettore. La proposta è flessibile e concepita in modo da poter
essere agevolmente adattata alle peculiari esigenze di diversi enti. [...]
Formazione ai temi dei diritti
umani, della legalità, della democrazia e della pubblica amministrazione.
Ipotesi di lezioni: i diritti umani e la loro protezione giuridica
internazionale ed italiana; fini, funzioni ed organizzazione dell’ONU;
l’esperienza di Amnesty International; la legalità e la democrazia; la lotta
contro i poteri criminali; elementi di diritto pubblico, di diritto costituzionale,
di diritto amministrativo.
Formazione alla cultura della
pace, della solidarietà, della nonviolenza. Ipotesi di lezioni: la
dignità umana e la solidarietà: concetti ed esperienze; la guerra: concetto,
strutture, strumenti, implicazioni, conseguenze; potere militare e complesso
militare-industriale; armamenti, economia, politica; disarmo e riconversione
dell’industria bellica a scopi civili; le ingiustizie strutturali (economiche,
politiche, sociali, culturali); Nord-Sud, armi e fame; l’oppressione dei popoli
dal colonialismo alla globalizzazione; i pericoli per la biosfera; la pace nel
pensiero filosofico; la pace come esigenza fondamentale nel secolo di Auschwitz
e di Hiroshima; peace research ed educazione alla pace; strumenti ed
iniziative per costruire la pace; la solidarietà come fondamento della vita
sociale; il diritto all’uguaglianza e alla diversità; il razzismo ed altre
forme di oppressione fondate sulla discriminazione; cosa è la nonviolenza
(analisi concettuale); pensatori e militanti nonviolenti; esperienze storiche
di lotta nonviolenta; training nonviolento (esercitazione pratica).
Formazione al servizio social.
Ipotesi di lezioni: lineamenti di storia dell’assistenza sociale; la
normativa in vigore in materia di diritti sociali, alla salute, all’assistenza,
allo studio, ad un ambiente vivibile, ad una vita dignitosa; elementi di
servizio sociale; nozioni di base su compiti e funzioni dell’ente.
Formazione ai temi cruciali
dell’etica pubblica contemporanea. Ipotesi di lezioni: il
rapporto tra riflessione etica, pensiero politico e teorie giuridiche; il
principio responsabilità; le etiche planetarie (ed esame di analisi filosofiche
di questioni specifiche: pace, multiculturalità, rapporto nord/sud, biosfera,
responsabilità verso le generazioni future); i diritti umani: implicazioni
filosofiche; il pensiero della differenza sessuale; ecologia; profili etici e
giuridici della gestione dei mass-media e delle nuove tecnologie della
comunicazione; bioetica; questioni della scienza e della tecnica in rapporto
alla conservazione della civiltà umana e della biosfera ed al progresso morale
e civile dell’umanità; l’impegno contro la discriminazione del diverso e la
questione dell’“altro” sul piano teorico e pratico (con particolar riferimento
alla riflessione filosofica di Emmanuel Lévinas ed all’impegno contro il
razzismo e la discriminazione).
Formazione specifica al
servizio civile. Ipotesi di lezioni: studio della legislazione
vigente (e conoscenza particolare della legge 230/98); l’obiezione di coscienza
al militare; alternative alla difesa armata: la Difesa Popolare Nonviolenta; il
servizio civile; studio dei fondamenti giuridici e filosofici dell’obiezione di
coscienza; studio di esperienze pregresse di servizio civile; studio delle
esperienze condotte fin qui presso l’ente.
Conoscenza del territorio.
Ipotesi di lezioni: studio della realtà territoriale in cui si interviene:
ambiente, storia e cultura, società ed economia; studio dell’ambito di problemi
in cui si interviene; studio delle funzioni, dell’organizzazione e delle
attività dell’ente in cui si presta servizio.
Formazione all’oggetto
specifico del servizio civile da svolgere. Ipotesi di lezioni: a tal
fine ci si potrà avvalere di operatori e funzionari responsabili dell’ente
presso cui si presta servizio, ed anche di operatori e funzionari di servizi ed
istituzioni locali con competenze specifiche.
7.3. Alcuni testi sulla Difesa Popolare Nonviolenta (DPN)
Theodor Ebert, La difesa
popolare nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Nanni Salio (a
cura di), Difesa armata o difesa popolare nonviolenta?, Edizioni del
Movimento Nonviolento, Perugia 1983; Luca Moro, La DPN in Italia: origine e
sviluppi di un dibattito, Edizioni La Meridiana, Molfetta 1992; Camberra
Peacemakers, Un modello di difesa popolare nonviolenta, La Meridiana,
Molfetta 1987.
8. Ulteriori riferimenti
8.1. Testi di approfondimento
Rinviamo in primo luogo ai
materiali che abbiamo diffuso in questi ultimi mesi, e particolarmente ai
seguenti testi: Guida pratica all’azione diretta nonviolenta delle
mongolfiere per la pace, 6/5/1999 (particolarmente i punti 3, 9, 14); Alcuni
ambiti di impegno politico in cui è necessaria la scelta della nonviolenza…,
20/6/1999; Per la scelta della nonviolenza, 4/7/1999; Schema per una
riflessione sull’azione diretta nonviolenta, 6/7/1999 (particolarmente i
punti 1-3); La situazione mondiale attuale e la necessità della scelta della
nonviolenza, 9/7/1999; Dimensioni della nonviolenza: uno schema di
analisi, 10/7/1999; Alcune sintetiche definizioni della nonviolenza e
della pace in Capitini, Dolci, Galtung, Pontara, 12/7/1999 (particolarmente
i punti 3 e 4); Breve risposta alla domanda: cosa è la nonviolenza?,
13/7/1999; Aspetti psicologici dell'impegno nonviolento, 16/7/1999; Perché
il segreto è incompatibile con la nonviolenza, 17/7/1999. Gran parte di
questi testi riutilizzano materiale precedentemente elaborato ed utilizzato in
incontri di studio e di training, ed in iniziative pubbliche; ogni singolo
testo è stato steso in modo da essere immediatamente utilizzabile, e quindi è
in un certo senso in sé concluso, ma è opportuno evidenziare che si tratta di
testi che trattano aspetti specifici e dovrebbero integrarsi in una monografia
complessiva (questa duplice natura spiega per un verso le ripetizioni, per
l’altro le lacune).
8.2. Autori fondamentali
Tra gli autori fondamentali
segnaliamo almeno Aldo Capitini, Danilo Dolci, Johan Galtung, Mohandas Gandhi,
Martin Luther King, Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto, Jean Marie Muller,
Giuliano Pontara, Gene Sharp; per una prima conoscenza e per una bibliografia
essenziale relativa a ciascuno di essi rinviamo al nostro repertorio
bibliografico Uomini di pace, Viterbo 1997-1999.
Viterbo, giovedì 22 luglio
1999
1. Un concetto problematico
Il concetto di pace è assai
meno univoco di quanto intuitivamente possa sembrare. Paolo Cardoni, autore di
numerosi saggi sull’educazione alla pace, ha dedicato un ampio capitolo di un
suo libro [Irene e Orbilius. Il dibattito pedagogico sull’educazione alla
pace negli anni Ottanta, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di
Fiesole (FI) 1992] ad analizzare come le principali enciclopedie italiane e
straniere definiscano la pace, rilevando molteplici difficoltà.
Del resto uno studioso del
valore e della competenza di Norberto Bobbio, nella voce “pace” stesa per un
noto dizionario specialistico da lui stesso curato con vari collaboratori [Norberto
Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino (a cura di), Dizionario di
politica, Utet, Torino, ora in edizione economica Tea, Milano] evidenzia
tutta la complessità e la polivalenza del concetto, e quindi la difficoltà di
darne una definizione sintetica ed univoca.
2. Una proposta di caratterizzazione
Noi qui non daremo una nostra
definizione esaustiva di pace, limitandoci ad assumere i seguenti elementi come
caratterizzanti.
2.1. Per pace intendiamo una condizione opposta alla guerra
Riteniamo che così come la
guerra si caratterizza per l’uso della violenza, la pace debba caratterizzarsi
quantomeno per il ripudio dell’uso della violenza.
2.2. Un nesso tra pace e giustizia
Riteniamo che sia possibile
istituire coerentemente e plausibilmente un nesso tra pace e giustizia, tra
pace e benessere, mentre non sia possibile istituirlo tra guerra e giustizia,
tra guerra e benessere: riteniamo infatti che la guerra sia sempre causa di
ingiustizia e di sofferenza consistendo essa nella minaccia e nella soppressione
della vita di esseri umani.
2.3. Nessi tra pace democrazia e diritti umani
Aggiungeremo inoltre la
seguente premessa: che sebbene siano valori non coincidenti, ed anzi essi
possano talvolta sconfiggere tra loro, tuttavia è possibile istituire una coerenza
tra i valori, i metodi e gli obiettivi della pace, della democrazia, dei
diritti umani, della difesa della biosfera; mentre è del tutto evidente che la
guerra è del tutto inconciliabile con la democrazia, i diritti umani, la difesa
della biosfera.
2.4. La pace è condizione necessaria
Infine, considerata la
presenza sul pianeta sia di arsenali immensi di armi di sterminio di massa, sia
di poteri politici economici e militari sommamente iniqui e violenti, tali per
cui una guerra, quale che sia il suo inizio ed a dispetto di ogni illusione di
poterne controllare le dimensioni, potrebbe portare ad una escalation
che potrebbe dar luogo a conseguenze catastrofiche per l’intero genere umano,
concluderemo che la pace è condizione necessaria, seppure non sufficiente, per
la salvaguardia e lo svolgimento ulteriore della civiltà umana.
3. Alcune aggiunte che proponiamo alla riflessione
Alla caratterizzazione del
concetto di pace sopra accennata vorremmo aggiungere alcune ulteriori specificazioni,
che hanno evidenti e rilevanti implicazioni.
3.1. La pace non è una stasi ma un processo
In primo luogo a nostro avviso
la pace non è una stasi ma un processo, implica un agire costruttivo: il
riconoscimento della pace come valore necessariamente trapassa dal piano
concettuale a quello etico, la scelta della pace si trasmette inevitabilmente
dalla ragione giudicante alla ragion pratica. Non solo: in un mondo gremito di
palesi ingiustizie e violenze, la scelta della pace, ergo di essere
operatori di pace, non può essere acquiescenza ad un iniquo status quo,
bensì deve tradursi in conflitto, in iniziativa di denuncia ed opposizione alla
violenza e all’iniquità. Essa richiede infatti un impegno così contro
l’erompere di atti violenti, come contro le condizioni di violenza strutturali.
Poiché la pace va costruita e non attesa, promossa e non contemplata, la scelta
intellettuale della pace implica sul piano morale (e quindi sociale, politico)
un impegno di lotta sia contro la violenza in palese emersione e svolgimento,
sia contro la violenza consolidatasi in struttura, ovvero l’ingiustizia.
3.2. Rapporto tra pace e diritti umani
In secondo luogo indichiamo la
decisività del rapporto tra pace e diritti umani: la violazione dei diritti
umani essendo non solo promotrice di violenza, ma violenza essa stessa. Senza
protezione dei diritti umani la pace si riduce a mera sanzione, ovverosia
riconoscimento ed accettazione, dell’oppressione del più forte sul più debole.
3.3. Strategia di lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione
In terzo luogo, e
conseguentemente, la necessità di elaborare e praticare una strategia di lotta
contro l’ingiustizia e l’oppressione; strategia che non sia violenta, che
ripudi la violenza, che alla violenza si contrapponga frontalmente, concretamente,
efficacemente. Noi riteniamo che tale strategia di lotta sia la nonviolenza. Ne
deduciamo quindi un nesso tra pace e nonviolenza in cui la prima è valore e
obiettivo, la seconda è azione e metodo ad essa inerente, ordinata e coerente.
È evidente che le “aggiunte”
qui proposte ulteriormente dialettizzano (o se si preferisce: complicano o
complessificano, aprendo interne contraddizioni e dinamiche) il concetto di
pace, rendendolo ancor più problematico. È evidente altresì che una discussione
su di esse è non solo opportuna ma doverosa, e che in una tale discussione non
vigono princìpi d’autorità applicabili dogmaticamente, ma occorrono rigorose e
puntuali analisi di merito e di metodo, e una critica libera e onesta.
4. Alcune proposte di sintesi
4.1. la guerra è omicidio di massa
Una definizione della guerra
data da Gandhi: la guerra è omicidio di massa. Ci sembra che tale semplice
constatazione empirica sia sufficiente a chiarire la necessità assoluta di
opporsi alla guerra in quanto peggiore dei crimini possibili.
4.2. Pace come opposizione alla guerra
Riteniamo pertanto la pace,
come contrario della guerra e come opposizione ed alternativa alla guerra, un
dovere assoluto.
4.3. La condotta più autentica contro la guerra è la costruzione della pace
La condotta che più
coerentemente, concretamente, limpidamente, e quindi efficacemente, si
oppone alla guerra, ai suoi mezzi, alla sua logica, alle sue premesse, questa
condotta noi qualifichiamo come autentica costruzione della pace. In questo
specifico senso affermiamo essere la nonviolenza gandhiana, il satyagraha,
ampiamente coincidente con la costruzione della pace.
5. Alcuni percorsi per un approfondimento
5.1. Alcuni autori di riferimento
Ernesto Balducci
(particolarmente: Ernesto Balducci, Lodovico Grassi, La pace, realismo di
un’utopia, Principato, Milano 1985); Norberto Bobbio (e particolarmente: Il
problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna; Il terzo
assente, Sonda, Milano-Torino).
5.2. Sulla peace research
Cfr. particolarmente le opere
di Johan Galtung.
5.3. Sull’educazione alla pace
Per un avvio cfr. Aldo
Visalberghi (a cura di), Scuola e cultura di pace, La Nuova Italia,
Firenze 1985; ed anche IPRI (a cura di), Se vuoi la pace educa alla pace,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984.
5.4. Sulla nonviolenza
Autori di riferimento: Aldo
Capitini, Mohandas Gandhi, Jean Marie Muller, Giuliano Pontara; Gene Sharp.
Viterbo, venerdì 23 luglio
1999
Ho raccolto in questo quaderno
alcuni interventi scritti e diffusi tra il giugno e il luglio 1999, a ridosso
della guerra dei Balcani cui sciaguratamente anche l’Italia partecipò.
Vi sarà qualche ripetizione, e
molte cose si sarebbe potuto dirle meglio, e più d’una meriterebbe di essere
più approfonditamente discussa; ma venivo da un intenso impegno contro la
guerra e l’urgenza di dire e di cercar di invitare altre persone a riflettere e
discutere era tale in quei mesi che ne derivava un ritmo di scrittura assai
veloce: oltre alle altre iniziative pratiche scrivevo allora interventi tutti i
giorni ed anche più testi al giorno, che venivano diffusi subito via internet
(e devo ringraziare particolarmente per questo due amici preziosi, Mario Di
Marco e Sandro Ercoli, che mi hanno permesso di far circolare in rete opinioni
e materiale, e sono persone che stimo ovviamente anche per altri motivi: da
anni ed anni essi sono autentici costruttori di pace, e molte cose ho imparato
da loro, dal loro sapere come dalla loro condotta).
Come si vedrà, le mie
posizioni restarono minoritarie, e sconfitte.
Ma credo che quei testi
possano ancora essere utili, e li ripropongo oggi ad una meno concitata
lettura.
Ho lasciato i testi così
com’erano; ognuno reca la sua data, poiché il momento e il contesto contano; ho
naturalmente uniformato la grafica e numerato la sequenza dei testi.
Peppe Sini
Viterbo, mercoledì 8 marzo
2000
[1] Le schede che seguono sono tratte dalla serie di schede biobibliografiche Uomini di pace, Viterbo 1999.