La guerra preventiva: crimine supremo

 

di Noam Chomsky

11 Agosto 2003 - ZNet

La guerra preventiva: crimine supremo

Iraq: l'invasione che vivrà nell'infamia

 

Documento originale   Preventive War 'the Supreme Crime'

Traduzione di Sergio De Simone

Tre eventi di considerevole importanza e strettamente correlati hanno segnato il mese di settembre del 2002. Lo stato più potente nella storia annunciò la sua nuova Strategia per la sicurezza nazionale, in cui si afferma che manterrà permanentemente l'egemonia globale. Qualunque minaccia sarà bloccata con la forza, la dimensione in cui gli USA regnano supremi. Allo stesso tempo, i tamburi di guerra cominciarono a rullare per mobilitare la popolazione all'invasione dell'Iraq, e si aprì la campagna per le elezioni del congresso di medio termine, che avrebbero sancito se l'amministrazione sarebbe stata in grado di portare avanti il suo programma radicale in politica interna ed estera.

La nuova strategia imperiale, come fu subito denominata nel principale giornale dell'establishment, mostra gli USA quale potenza revisionista che gioca al raddoppio delle sue vincite momentanee per conquistare un ordine mondiale in cui conduca lo spettacolo, un mondo unipolare in cui nessuno stato o coalizione  possa mai metterla in discussione come leader, protettore e gendarme globale.1 Queste politiche sono ad altissimo rischio anche per gli stessi USA, metteva in guardia l'autore unendosi a tanti altri esponenti dell'elite politica internazionale.

Ciò che bisogna proteggere è la potenza USA e gli interessi che rappresentano, non il mondo, che si è opposto con vigore. Nel giro di pochi mesi degli studi hanno rivelato che la paura nei confronti degli Stati Uniti aveva raggiunto livelli notevoli, assieme alla sfiducia verso la leadership politica. Un sondaggio internazionale della Gallup di dicembre, a stento notato negli USA, riscontrò un supporto pressoché nullo per gli annunciati piani di Washington di una guerra contro l'Iraq dichiarata unilateralmente dall'America e dai suoi alleati, cioè la coalizione USA-GB.

Washington informò l'ONU che avrebbe potuto avere un ruolo di rilievo appoggiando i piani USA, o altrimenti sarebbe stata una compagnia di amene discussioni. Gli USA hanno il diritto sovrano ad intraprendere l'azione militare, disse Colin Powell, il moderato dell'amministrazione, al World Economic Forum, che pure si opponeva strenuamente ai piani di guerra di Washington: quando vogliamo fortemente una cosa, assumiamo la guida, disse loro, anche quando nessuno è disposto a seguirci.2

Bush e Blair sottolinearono il loro disprezzo per il diritto e le istituzioni internazionali al summit alle Azzorre alla vigilia dell'invasione. Emisero un ultimatum non contro l'Iraq, ma contro il Consiglio di sicurezza: capitolate o invaderemo senza il vostro insignificante sigillo di approvazione. E lo faremo che Saddam e la sua famiglia lascino il paese o no.3 Il principio cruciale è che gli USA devono davvero avere il controllo dell'Iraq.

Il presidente Bush dichiarò che gli USA hanno l'autorità sovrana di usare la forza per garantire la propria sicurezza nazionale, minacciata dall'Iraq con o senza Saddam, secondo la dottrina Bush. Washington sarà lieta di istituire una facciata araba, per prendere a prestito il termine degli inglesi durante i loro giorni di gloria, mentre la potenza USA si impianta stabilmente nel cuore della maggiore regione produttrice di petrolio al mondo. La democrazia formale va bene, ma solo del tipo sottomesso che si accetta nel cortile di Washington, per lo meno se la storia e la pratica attuale devono farci da guida.

La grandiosa strategia autorizza Washington alla guerra preventiva: preventiva e non di anticipo. Quale che possa essere la giustificazione di una guerra d'anticipo, essa non vale per la guerra preventiva, in particolare se questo concetto è interpretato come fanno i suoi entusiastici sostenitori di oggi: l'uso della forza militare per eliminare una minaccia inventata o immaginata, così che finanche il termine preventivo è un eufemismo. La guerra preventiva è, molto semplicemente, il crimine supremo condannato a Norimberga.

Ciò fu compreso da coloro che avevano a cuore il loro paese. Mentre gli USA invadevano l'Iraq, lo storico Arthur Schlesinger scrisse che l'eroica strategia di Bush richiama in misura allarmante quella del Giappone imperiale a Pearl Harbor, in un giorno che, come disse un passato presidente americano, sopravvive nell'infamia. Roosevelt aveva ragione, aggiunse, ma oggi sono gli americani che vivono nell'infamia. Non è una sorpresa che l'onda globale di simpatia che inondò gli USA dopo l'11 settembre ha lasciato il passo ad un'onda globale di odio per l'arroganza ed il militarismo americano e alla convinzione che Bush sia una minaccia alla pace maggiore di Saddan Hussein.4

Per la leadership politica, per lo più riciclata dai settori più reazionari dell'amministrazione Reagan-Bush, l'ondata globale di odio non è particolare problema. Vogliono essere temuti, non amati. Per Donald Rumsfeld è naturale citare le parole del gangster Al Capone: si ottiene di più con una parola gentile ed una pistola che con la parola gentile da sola. Comprendono quanto i loro critici nell'establishment che le loro azioni accrescono il rischio della proliferazione di armi di distruzione di massa e del terrorismo. Ma anche questo non è un grande problema. Molto più in alto nella scala delle priorità stanno gli obiettivi dell'instaurazione di una egemonia globale e dell'implementazione del loro programma interno: smantellare le conquiste di progresso che erano state vinte dalla lotta popolare nel corso del secolo passato ed istituzionalizzare cambi tanto radicali che disfarli non sia cosa facile.

Non è sufficiente che una potenza egemone dichiari una politica ufficiale. Deve imporla come nuova norma del diritto internazionale per via di un'azione esemplare. I commentatori più in vista potranno poi spiegare che il diritto è uno strumento flessibile e vivo, cosicché la nuova norma è ora disponibile come guida dell'azione. Si capisce che solo quelli che hanno i cannoni possono stabilire le norme e modificare il diritto internazionale.

L'obiettivo prescelto deve soddisfare svariate condizioni. Deve essere privo di difesa, abbastanza importante per valere lo sforzo, una minaccia pendente per la nostra sopravvivenza e il male assoluto. L'Iraq li soddisfaceva tutti. Le prime due condizioni sono ovvie. Per quanto concerne la terza, basta ripetere le orazioni di Bush, Blair e dei loro colleghi: il dittatore sta costruendo le armi più pericolose del mondo [allo scopo di] dominare, intimidire o attaccare; e le ha già usate su interi villaggi uccidendo migliaia dei suoi cittadini, o rendendoli ciechi o sfigurandoli. Se questo non è il male, allora il male non esiste.

L'eloquente denuncia del presidente Bush suona senz'altro vera. E quelli che contribuiscono al male non possono godere dell'impunità: tra di essi, colui che ha pronunciato queste nobili parole, i suoi alleati attuali e coloro che gli erano sodali negli anni in cui appoggiava l'incarnazione del male assoluto; e questo molto tempo dopo che Saddam aveva commesso quei terribili crimini e dopo la guerra con l'Iraq fatta in nome del dovere di aiutare gli esportatori USA, come spiegò l'amministrazione del primo Bush. È impressionante vedere quanto sia facile per i leaders politici, nell'enumerare i peggiori crimini del mostro, sopprimere le parole cruciali: "con il nostro aiuto, perché non ci interessano queste questioni". Il supporto si trasformò in denuncia non appena il loro amico commise il suo primo autentico crimine: disobbedire (o forse fraintendere) agli ordini invadendo il Kuwait. La punizione fu severa - per i suoi sudditi. Il tiranno sfuggì, completamente indenne, e fu ulteriormente rafforzato dal regime di sanzioni imposto successivamente dai suoi ex alleati.

Altresì facili da sopprimere sono le ragioni per cui Washington tornò a sostenere Saddam subito dopo la guerra del Golfo, quando schiacciò ribellioni che avrebbero potuto rovesciarlo. Il corrispondente per gli affari diplomatici del New York Times spiegò che il migliore di tutti i mondi per Washington sarebbe stato "una giunta irachena dal pugno di ferro senza Saddam Hussein, ma poiché quell'obiettivo sembrava irraggiungibile abbiamo dovuto accontentarci della seconda scelta. I ribelli hanno fallito perché Washington ed i suoi alleati condividevano l'opinione sorprendentemente unanime che, a prescindere dai peccati del leader iracheno, questi offriva all'occidente e alla regione una speranza maggiore di stabilità di coloro che soffrivano la sua repressione".5 Tutto questo viene soppresso nei commenti sulle fosse comuni delle vittime dei parossismi di terrore di Saddam, appoggiati dagli USA, che ora vengono offerti come giustificazione per la guerra su un piano morale.6 Era tutto già noto nel 1991, ma ignorato per ragioni di stato.

Si è dovuta sferzare una popolazione interna riluttante perché raggiungesse un giusto umore da febbre di guerra. Dagli inizi di settembre, si sono propalati macabri avvertimenti sulla terribile minaccia che Saddam costituiva per gli Stati Uniti e sui suoi legami con al-Qaeda, con chiare allusioni ad un suo coinvolgimento negli attacchi dell'11 settembre. Molte delle accuse lasciate pendere davanti agli occhi dei media non superavano il test della risata, ha commentato il redattore del Bollettino degli scienziati atomici, ma più erano ridicole più i media si dibattevano affinché lo sventolarle passasse per una prova di patriottismo.7

L'assalto propagandistico ha avuto il suo effetto. Nel giro di poche settimane, la maggioranza degli americani è arrivata a considerare Saddam Hussein come una minaccia imminente per gli USA. Improvvisamente quasi la metà credeva che l'Iraq fosse dietro il terrore dell'11 settembre. Il sostegno alla guerra era legato a queste convinzioni. La campagna propagandistica si dimostrò sufficiente a conferire all'amministrazione una stretta maggioranza nelle elezioni di mezzo termine, quando gli elettori lasciarono da parte le loro preoccupazioni immediate e accorsero in massa sotto l'ombrello del potere per la paura del nemico demoniaco.

Il brillante successo della democrazia pubblica fu svelato quando il presidente, sul ponte della portaerei Abraham Lincoln, offrì un finale potentemente reaganiano ad una guerra di sei settimane, il primo di maggio. Il riferimento è probabilmente all'orgogliosa dichiarazione di Reagan secondo cui l'America si ergeva alta dopo la conquista di Grenada, capitale del mondo della noce moscata nel 1983, impedendo così ai russi di usarla per bombardare gli USA. Il sosia di Reagan era libero di dichiarare - senza temere i commenti scettici - che aveva conseguito una vittoria nella guerra contro il terrore eliminando un alleato di al Qaeda.8 Non conta che non sia stata offerta nessuna prova credibile del supposto legame tra Saddam Husseim ed il suo acerrimo nemico Osama bin Laden e che l'accusa sia stata rigettata da osservatori competenti. Ugualmente, non ha valore la sola connessione nota tra la vittoria ed il terrorismo: l'invasione sembra essere stata un immenso passo indietro nella "guerra al terrorismo", avendo accresciuto enormemente l'arruolamento nelle file di al Qaeda, come ammette un ufficiale americano.9

Il Wall Street Journal ha riconosciuto che la stravaganza di Bush, accuratamente messa in scena sulla Abraham Lincoln, segna l'inizio della sua campagna per la rielezione del 2004, che la Casa Bianca spera sia costruita il più possibile attorno ai temi della sicurezza nazionale. La campagna elettorale mette l'accento sulla battaglia dell'Iraq, non la guerra, spiega il capo stratega repubblicano Karl Rove:10 la guerra deve continuare, anche solo per controllare la popolazione interna. Prima delle elezioni del 2002 aveva dato istruzioni agli attivisti del partito affinché evidenziassero le questioni di sicurezza, sviando l'attenzione dalle impopolari politiche interne. Tutto questo costituisce una seconda natura dei reaganiani riciclati che stanno ora al potere. È il modo in cui si erano mantenuti al potere durante il primo incarico, premendo continuamente sull'acceleratore del panico per sfuggire all'opposizione pubblica a quelle politiche che avevano reso Reagan il presidente più disprezzato, accanto a Nixon, dopo il 1992.

Nonostante i suoi successi, l'intensa campagna propagandistica ha lasciato il pubblico intatto da importanti punti di vista. Molti continuano a preferire l'ONU alla leadership degli USA nelle crisi internazionali, e per un fattore di 2 a 1 preferiscono che l'ONU, piuttosto che gli Stati Uniti, dirigano la ricostruzione in Iraq.11

Quando l'esercito occupante non riuscì a trovare armi di distruzioni di massa, la posizione dell'amministrazione si spostò dalla certezza assoluta che l'Iraq le possedesse alla posizione secondo cui le accuse erano giustificate dalla scoperta di materiale che poteva essere usato per costruirle.12 Si è suggerito così un affinamento del concetto della guerra preventiva, che autorizzava originariamente gli USA ad attaccare un paese che possedesse armi letali in quantità massicce. L'affinamento suggerisce invece che l'amministrazione agirà contro un regime che non ha più che l'intenzione e la capacità di sviluppare armi di distruzione di massa.13 Abbassare la soglia per il ricorso alla forza è la conseguenza più significativa del crollo della giustificazione ufficiale dell'invasione.

Forse il prodotto più spettacolare della macchina propagandistica è stato la lode della visione di Bush di una democrazia in Medio oriente nel bel mezzo della manifestazione di odio e disprezzo per la democrazia. Un esempio è dato dalla distinzione tra una Vecchia ed una Nuova Europa, la prima svillanita, la seconda osannata per il suo coraggio. Il criterio di distinzione era netto: la Vecchia Europa consisteva dei governi che avevano assunto la stessa posizione della vasta maggioranza della propria popolazione; gli eroi della Nuova Europa prendevano ordini da Crawford, nel Texas, ignorando una maggioranza ancora più ampia, in molti casi. I commentatori politici sbraitavano contro la Vecchia Europa disobbediente ed i suoi disturbi psichici, mentre il Congresso si riduceva alla bassa commedia.

All'estremità liberale dello spettro, Richard Holbrooks sottolineava la considerazione importantissima che la popolazione degli otto membri originari della Nuova Europa è maggiore di quella dei paesi della Vecchia Europa, ciò che dimostra come Francia e Germania siano isolate. Ed è così, a meno che non soccombiamo all'eresia della sinistra radicale secondo cui la popolazione dovrebbe avere un ruolo nella democrazia. Thomas Friedman sollecitò la rimozione della Francia dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza perchè si comportava come all'asilo e non partecipava volentieri ai giochi degli altri. Ne risulta che la popolazione della Nuova Europa dovrebbe stare ancora all'asilo nido, a giudicare dai sondaggi.14

La Turchia ha costituito un caso particolarmente istruttivo. Il governo ha resistito alle pesanti pressioni a mostrare le sue credenziali democratiche seguendo gli ordini e andando contro il 95% della sua popolazione. I commentatori erano infuriati per questa lezione di democrazia, a tal punto che alcuni scrissero dei crimini dei turchi contro i curdi negli anni 90, un argomento tabù in USA in precedenza per via del ruolo cruciale della Turchia per gli USA - benché ancora in maniera attentamente nascosta.

Il punto cruciale è stato espresso da Paul Wolfowitz, che ha condannato le forze militari turche per non aver giocato il forte ruolo leader che si aspetta da esse e per non essere intervenute ad impedire al governo di onorare un'opinione pubblica praticamente unanime. La Turchia avrebbe dovuto perciò alzarsi in piedi e dire: "abbiamo commesso un errore. Vediamo com'è possibile essere utili agli americani".15 La posizione di Wolfowitz è particolarmente rivelatrice perché questi è dipinto come la figura leader nella crociata per la democratizzazione del Medio Oriente.

La rabbia verso la Vecchia Europa ha radici molto più profonde del disprezzo per la democrazia. Gli USA hanno sempre guardato all'unificazione europea in maniera ambivalente. Nel suo messaggio "Year of Europe" di trent'anni fa, Henry Kissinger consigliò agli europei di mantenere le responsabilità regionali entro il contesto complessivo di un ordine gestito dagli Stati Uniti. L'Europa non deve seguire un suo corso indipendente, fondato sul suo cuore industriale e finanziario franco-tedesco. Le preoccupazioni ora si estendono anche all'Asia nordorientale, la regione più dinamica del mondo dal punto di vista economico, ricca di risorse e dotata di economia industriali avanzate, una regione potenzialmente integrata che potrebbe anche flirtare con l'idea di mettere in discussione il quadro dell'ordine generale decretato da Washington, che deve essere mantenuto permanentemente e difeso con la forza se necessario.


1 John Ikenberry, Foreign Affairs, Sept.-Oct. 2002. (torna al testo)

2 Wall Street Journal, Jan. 27, 2003. (torna al testo)

3 Michael Gordon, New York Times, March 18, 2003. (torna al testo)

4 Los Angeles Times, March 23, 2003. (torna al testo)

5 Thomas Friedman, NYT, June 7, 1991. Alan Cowell, NYT, April 11, 1991. (torna al testo)

6 Thomas Friedman, NYT, June 4, 2003. (torna al testo)

7 Linda Rothstein, editor, BAS July 2003. (torna al testo)

8 Elisabeth Bumiller, NYT, May 2, 2003; Transcript, same day. (torna al testo)

9 Jason Burke, London Sunday Observer, May 18, 2003. (torna al testo)

10 Jeanne Cummings and Greg Hite, WSJ, May 2, 2003. Francis Clines, NYT, Op-ed, May 10, 2003; Roves emphasis. (torna al testo)

11 Program on International Policy Attitudes (PIPA), U. of Maryland, April 18-22. (torna al testo)

12 Dana Milbank, Washington Post, June 1, 2003 (torna al testo)

13 Guy Dinmore and James Harding, Financial Times, May 3/4, 2003. (torna al testo)

14 Lee Michael Katz, National Journal, Feb. 8, 2003; Friedman, NYT, Feb. 9, 2003. (torna al testo)

15 Marc Lacey, NYT, May 7/8 2003. (torna al testo)

Fonte: ZMAG