II - Dignità, alterità, socialità
III - Perché devo rispettare gli altri?
e alla difesa popolare nonviolenta
per gli obiettori del Comune di Firenze
La nonviolenza
e la persona umana
Firenze, 24 gennaio 2000
«Se comprendiamo la persona
comprendiamo il dovere della
nonviolenza»
Relazione di Enrico Peyretti
dell'Ipri, Italian Peace Research
Institute, via Garibaldi 13, 10122 Torino
tel 011.53.28.24; fax 011.
51.58.000; e-mail: regis@arpnet.it;
www.arpnet.it/~regis
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Indice
I - Il valore inviolabile
1- Premesse
2- Valore e diritti della
persona
3- L'idea di persona
4- La crisi, le cose intollerabili,
l'impegno
5- Il paradosso del valore inviolabile
II - Dignità, alterità, socialità
6- Caratteri dell'impegno
7- Le
tre dimensioni della persona
8- L'azione e la violenza
III - Perché devo rispettare gli altri?
9- L'etica della
nonviolenza
10- La politica della nonviolenza
Appendice: La personalità nonviolenta
Letture consigliate:
Giuliano Pontara, La personalità nonviolenta,
Ed. Gruppo Abele, Torino 1996, L. 14.000
Paul Ricoeur, La persona,
Morcelliana, Brescia 1997, L. 12.000
1- PREMESSE
In un corso di
aggiornamento per insegnanti, ad Aosta, un gran professore di filosofia
morale, al termine della tavola rotonda, disse: «Ringrazio tutti i
relatori per avere rispettato i tempi, che è rispetto degli altri». Io nel
dibattito gli chiesi: «Perché bisogna rispettare gli altri? Non è lo
stesso ingannarli, abusarne? È solo un problema pratico, per evitare la
ritorsione e la condanna? O c'è una ragione sostanziale per cui devo
rispettare gli altri?». Non volle rispondermi.
Qui noi ci chiediamo:
perché non si deve fare violenza alle persone umane? C'è la regola
universale: Non uccidere. Ma perché non uccidere? O anche: Uccidere,
perché no?
Ascoltiamo questo testo di Nietzsche, del 1880-81: «Sembra
attualmente che sotto ogni genere di nomi falsi ed erronei, e soprattutto
in una grande mancanza di chiarezza, vengano fatti i primi tentativi da
parte di coloro che non si mantengono legati ai costumi e alle leggi
vigenti, per organizzarsi e per crearsi con ciò un diritto: essi che fino
ad oggi, tacciati di delinquenti, liberi pensatori, gente scostumata e
ribalda, vissero corrotti e corruttori, in balia della loro condizione
eslege e della cattiva coscienza. Nel suo insieme, si dovrebbe trovar
tutto questo giusto e buono, anche se rende pericoloso il secolo venturo e
mette ad ognuno il fucile in spalla». Testo profetico, eccoci col fucile
in spalla. Non auspicava il libero amore, ma il libero terrore. (Aurora,
164; ho già citato questo testo in Al di là del non uccidere, Servitium
1989, p. 101).
Ascoltiamo anche questo testo di Mencio (filosofo cinese
del 4° secolo a. C., 372-289 a.C.): «Tutti gli uomini hanno un animo
sensibile all'altrui sofferenza. (...) La ragione per cui affermo che
tutti gli uomini hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza è la
seguente: supponi che vi siano delle persone che all'improvviso vedono un
bimbo mentre sta per cadere in un pozzo. Ebbene, tutte proveranno in cuor
loro un senso di apprensione e di sgomento, di partecipazione e di
compassione. Questa reazione non dipende certo dall'esigenza di mantenere
buoni rapporti con i genitori del bambino, né dal desiderio di essere
elogiati da vicini ed amici, e neppure perché disturbino le grida del
bambino. Da tutto questo si può arguire che non sono uomini quanti sono
privi di un animo sensibile ai sentimenti della partecipazione e della
compassione, della vergogna e dell'indignazione, della deferenza e
dell'acquiescenza, e del senso di ciò che è giusto e di ciò che non è
giusto». (cfr. P.C. Bori, S. Marchignoli, Per un percorso etico tra
culture. Testi antichi di tradizione scritta, La Nuova Italia Scientifica,
Roma 1966, pp. 55-56).
Chi è, che cosa è questa persona umana che non
merita violenza? Che azione è la violenza sulla persona, che ci offende e
ci fa soffrire anche quando non ci tocca direttamente? Che cosa significa
che la persona è inviolabile? Se comprendiamo la persona comprendiamo il
dovere della nonviolenza.
2- VALORE E DIRITTI DELLA PERSONA
Oggi il valore della persona si
chiama "Diritti umani" (DH). C'è l'intuizione universale e perenne della
cosiddetta Regola d'oro (nella forma negativa: non fare agli altri quel
che non vorresti che facessero a te; nella forma positiva: fai agli altri
quel che desideri che essi facciano a te).
C'è la Dichiarazione dei DH
del 1948. I DH si sono evoluti da universali astratti, a particolari
concreti, fino ad universali concreti:
1) erano un dover-essere morale,
filosofico, un diritto morale; erano diritti "deboli";
2) sono
divenuti diritti costituzionali: le dichiarazioni del 1776 negli Usa, del
1789 in Francia, fino alla nostra Costituzione del 1948. Diritti "forti",
positivi, effettivi, ma solo entro quello stato, diritti del cittadino,
non "dell'uomo";
3) la Dichiarazione del 1948 raggiunge un livello
superiore: sono diritti del cittadino del mondo; ma è una fase ancora
incompiuta: occorre a) l'adesione di tutti gli stati e tutte le culture;
b) la garanzia di tutela effettiva.
Perché rispettare i diritti umani?
Quel è il loro fondamento?
Per Bobbio il problema non è fondarli (dato
che mutano nel tempo) ma difenderli. Eppure "fondarli" significa averne
una convinzione forte e difendibile per non offenderli noi e per
difenderli contro chi li viola e ne giustifica le violazioni.
Per
Francesco Compagnoni non è necessaria una giustificazione teorica, bastano
le tradizioni morali (regola d'oro). Tanti non sanno fondarli ma li
conoscono di conoscenza intuitiva (v. Mencio) e li difendono; Bobbio,
scettico sulla loro fondabilità teorica, ne è un grande difensore.
Ma
oggi c'è scetticismo e nichilismo morali (v. il testo di Nietzsche); la
violenza (che è offesa dei DH) viene giustificata persino per difendere
proprio i DH (vedi la guerra per il Kossovo).
Eppure sono una
conquista. Bobbio ha detto: il «riconoscimento generalizzato» dei DH è
«l'unico vero progresso che riesco a vedere nel '900» (intervista a La
Stampa, 30.12.99 e molte altre volte).
Ma è proprio vero che sono un
progresso acquisito? Sì, per un verso (dichiarazioni, costituzioni,
ideologia democratica, etica delle religioni,..); no per un altro: David
Riffe scrive: Clinton fa una guerra per i DH, ma con la Cina «ha dato
apertamente la priorità all'economia piuttosto che ai DH»; i movimenti di
difesa dei DH, più che premere sui governi devono riuscire a convincere
l'opinione pubblica dei paesi democratici, che non è veramente disposta a
pagare i costi di una piena difesa e attuazione dappertutto dei DH (The
New York Times Magazine, riportato in Internazionale 14.1.2000).
3- L'IDEA DI PERSONA
Il termine e il concetto di persona è il più
adatto a dire il soggetto dei DH (così Paul Ricoeur, La persona,
Morcelliana, Brescia 1997, p. 26-27).
Facciamo una ministoria della
parola persona: significava inizialmente la maschera teatrale; poi
l'individuo con un ruolo nel mondo, datogli dal destino (personaggio della
tragedia greca); quindi il soggetto di diritti (a differenza dello schiavo
e delle cose). Un grande impulso al concetto è venuto dalla teologia
cristiana della Trinità divina: ogni persona divina sussiste, in perfetta
unità ma senza confusione con le altre persone, chiamate nella tradizione
Padre, Figlio, Spirito santo. Il Padre è vita, essere, il Figlio è Parola,
espressione, lo Spirito santo è amore e unità tra i due. Dunque l'uno,
l'altro, la loro unità e distinzione. Un'immagine di ciò è nella nostra
stessa personalità (identità - espressione - amore) e nella coppia umana
realizzata, o in un'altra buona relazione sociale: l'uno, l'altra, la loro
unità; identità, differenza, unità. Sono queste le tre dimensioni della
persona umana. È il rapporto con altre persone che rivela la persona.
4- LA CRISI, LE COSE INTOLLERABILI, L'IMPEGNO
Il concetto di persona
deriva da un atteggiamento preso nella vita, che orienta la riflessione,
la ricerca di nuovi concetti. (cfr Ricoeur, op. cit. p. 28-33). Gli
elementi di questo atteggiamento che fa pensare la persona sono: le crisi;
le cose intollerabili; l'impegno.
1- Le grandi crisi del '900 che hanno
sconvolto degli "ordini stabiliti" hanno fatto chiedere: qual è il mio
posto nell'universo? Chi sono i miei amici? Chi i miei avversari? Che cosa
è bene e cosa è male?
2- Insieme a questa domande sconvolgenti sorge
una evidenza: ci sono delle cose intollerabili, p. es. lasciar cadere nel
pozzo quel bambino di Mencio, guardarlo con indifferenza, o addirittura
gettarvelo per qualche utilità, o così per nulla; oppure, nella immensa
crisi del 1945, il nazismo come massima pretesa di stabilire e imporre con
violenza l'ineguaglianza persino biologica tra gli esseri umani,
super-uomini e sotto-uomini, popoli signori e popoli schiavi. Da quella
intollerabilità nacquero la Dichiarazione dei DH, la nostra Costituzione,
come impegni-antidoti.
3- Se c'è qualcosa che non posso tollerare ecco
che questo mi impegna ad agire: l'impegno è un criterio col quale si
individua la persona. Le cose non si impegnano da sole, possono "essere
impegnate al monte di pietà", ma non gli nasce dentro l'impegno autonomo;
se le interpelli non rispondono, come noi invece rispondiamo all'appello
anche muto del bimbo in pericolo sul bordo del pozzo. La persona sente in
sé stessa l'impegno, si impegna, si dà in pegno, non si appartiene più, ha
una dimensione che gli oggetti non hanno, tutti chiusi e limitati in sé
stessi. L'appello altrui ci costituisce persone responsabili (tenute a
rispondere, in grado di rispondere). La persona che sente in sé stessa
l'impegno, l'obbligo non contrattato, si identifica in una causa che la
trascende. La persona trascende, supera se stessa: «l'homme dépasse
l'homme» (questo pensiero di Pascal era citato spesso da Balducci).
La
persona irresponsabile, che non risponde all'appello, che non si impegna,
non cessa di essere persona, ma è come congelata, ibernata, non svolge la
sua natura e dignità, rimane al di sotto di se stessa.
Nella crisi c'è
un orientamento: dedicarsi contro un male intollerabile, anche a rischio,
e per una ragione degna nella quale si identifica il senso e il valore
della esistenza della persona. Questa convinzione, questo "essere presi",
con-vinti, risponde alla crisi così: «ecco ho trovato il mio posto, anche
nello sconvolgimento dell'ordine stabilito».
5- IL PARADOSSO DEL VALORE INVIOLABILE
Le crisi del '900 hanno
permesso di far emergere l'idea di persona, di diritti umani. La loro
offesa ha manifestato di nuovo il loro valore inviolabile. Infatti, c'è un
paradosso del valore: l'offesa non lo distrugge, ma lo esalta! Il valore
della dignità inerente alla persona umana è differente da tutte le realtà
materiali, perché non può essere distrutto: la vittima dotata di valore e
diritto, anche disonorata non è disonorata, anche uccisa non è uccisa, non
è annullata, anzi suscita attenzione e sensibilità per il valore offeso!
La vittima è martire, cioè testimone del valore comune ad ogni persona.
L'atto che la colpisce si smentisce nel suo stesso compiersi. Mi ricordo
qui di una parola dello stesso Nietzsche: «Chi vuole uccidere il proprio
nemico consideri bene se proprio con ciò non lo rende dentro di sé
eterno». Ma ancor meglio dice Aldo Capitini: «Se io non uccido l'altro, è
segno che mi porto in un punto intimo di amore infinito per lui, e così
posso fare per tutti: allora, io li sento come qualche cosa di più che
esseri annientabili; li sento superiori alla possibilità di scomparire, li
sento infinitamente presenti» (Elementi di un'esperienza religiosa,
Cappelli, ristampa anastatica della II ediz. 1947, Bologna 1990, p.
62).
Paolo Ricca ha detto con grande chiarezza questo paradosso del
valore, parlando della morte di Gesù Cristo, innocente: «Le vittime della
violenza e dell'ingiustizia hanno un ruolo nella storia umana. È grazie al
loro sacrificio che il valore prende corpo e finisce con l'affermarsi. La
tolleranza non viene dal ragionamento dei filosofi, ma dalle vittime
dell'intolleranza. Sono loro che me la fanno capire. La libertà non viene
dalle costituzioni, ma dalle vittime dell'oppressione. Sono loro che mi
convincono. La giustizia non la producono i trattati dei sociologi, ma le
vittime dell'ingiustizia. È la vittima che offre al suo carnefice quel
valore che egli ha negato nella vittima. Col suo sacrificio, la vittima fa
trionfare il valore per cui è caduta» (miei appunti dalla testimonianza
resa nella Festa valdese della libertà, Torino 19 febbraio 2000).
La
violenza dunque è radicalmente impotente contro la persona umana. Qui sta
la sua miseria, insieme alla sua arrogante prevaricazione. Ricordo la
parola audace di un maestro buddhista ad una donna che era stata colpita
da innumerevoli malvagità e violenze: «Nessuno ti ha fatto nulla». Questa
parola non negava certamente la realtà del male patito, ma sapeva guardare
oltre, più a fondo, e restituiva a quella donna tutta la coscienza della
sua inviolabile dignità.
Nelle grandi crisi, la realtà più importante
non era l'ordine totale crollato, ma il vivente, i viventi che c'erano
dentro, magari sottoposti, incastonati come elementi, come numeri, in
quell'ordine. Ed anche se c'erano cose giuste nell'ordine caduto, il suo
valore permanente, oltre i suoi limiti storici, erano le persone chiamate
l'una all'impegno per l'altra. La realtà che ne emerge è l'insopprimibile
coscienza personale impegnata da ciò che la offende e da ciò che la
obbliga.
6- CARATTERI DELL'IMPEGNO
Indichiamo tre caratteri salienti
dell'impegno.
1-L'impegno esige la durata, la costanza, la fedeltà nel
tempo. Essere convinti e dedicati ad una causa che ci supera, che supera
il tempo breve della nostra vita - p. es. la causa di un mondo più
pacifico e giusto, un mondo che abbia abolito l'uccidere come modo
premeditato e strutturato di risolvere i conflitti - dà alla nostra
esistenza mortale una direzione, un senso, che si consegna ad altri, a
tutti, e non si perde nella morte. Perciò, il pacifismo che ci interessa,
inteso come lavoro continuo e costruttivo per la pace, non consiste nelle
manifestazioni in piazza (l'unica cosa che il giornalismo e la tv sanno
vedere), per quanto utili, ma nella formazione e autoformazione
continuativa, che sviluppa le nostre persone.
2- Se mi impegno - la
persona è impegno - incontro amici e avversari della causa, incontro il
conflitto. Chi mi impegna è l'altro, ogni altro - anzitutto la vittima che
ha diritto al soccorso, ma anche chi non si impegna, anche chi non
soccorre il bambino in pericolo sul pozzo, persino il bandito che ha
ferito l'uomo sulla strada del Samaritano verso Gerico, e l'oppressore
delle masse costrette a livello subumano dall'economia disumana - perché
anche lui è una persona, sebbene abbia spezzato il suo impegno verso altre
persone. Perciò io non sono contro di lui, anche se lui ha aperto un
conflitto. La causa del valore delle persone esige la ricerca della pace
nonviolenta, cioè a) della rivelazione dei conflitti occultati, e b) della
loro soluzione costruttiva e non distruttiva.
3- . L'impegno che
scaturisce dalle crisi richiede una visione storica globale: non basta
vivere alla giornata, per il proprio giardino. L'impegno è pensato come un
compito per tutti gli uomini. Ciò implica «la scommessa che il meglio di
tutte le differenze converga, che i successi del bene si accumulino, e che
le interruzioni del male non facciano sistema»; «la scommessa che, se non
faccio della felicità un fine, questa mi sarà data gratuitamente in
sovrappiù». Queste cose non le posso provare né verificare, ma le posso
testimoniare se il male della storia è per me intollerabile, e se la pace
è la mia convinzione. «La sola cosa importante è discernere con tono
giusto l'intollerabile dell'oggi e riconoscere il mio debito rispetto alle
cause più importanti di me stesso, che mi requisiscono» (cfr Ricoeur, op.
cit., pp. 34 e 36 ).
7- LE TRE DIMENSIONI DELLA PERSONA
Paul Ricoeur esorta a non avere
paura della filosofia. «Muore il personalismo, ritorna la persona», egli
scrive (p. 21 e ss.). Cosa vuol dire? Che passano e cadono le teorie sulla
persona, ma sempre ritorna questa realtà. Ricoeur così esprime le tre
dimensioni della persona: stima di sé, sollecitudine, istituzioni. In
altre parole: dignità, alterità, socialità (che è allargamento e sostegno
della persona). Oppure: identità, differenza, unità.
L'etica della
persona (etica intesa come più profonda della morale dei precetti), cioè
le leggi interne della sua realizzazione, consiste in:
- auspicio di
una vita compiuta (essere se stesso)
- con e per gli altri
-
all'interno di istituzioni giuste.
1- auspicio di una vita compiuta.
L'etica è speranza, prima di ogni imperativo. Si può esprimere con stima
di sé (altra cosa da vanità, egoismo!) cioè dignità, coscienza del valore
di essere persona, capace di agire intenzionalmente, con delle ponderate
ragioni, inserendosi nella storia, in relazione col tu e con ogni
egli-ella, che sono persone con lo stesso valore.
2 - con e per gli
altri, ovvero la sollecitudine, il movimento (presenza, inquietudine,
prontezza) verso l'altro, rispondendo alla sua chiamata, con
responsabilità, anche muovendosi per primi generosamente, pur nella
speranza della reciprocità, che completa il riconoscimento a) dell'altro
come mio simile e b) di me stesso come simile dell'altro. L'amicizia è il
modello di questa relazione. L'ultimo grande fiorentino che ci ha lasciati
poco più di un anno fa, Mario Gozzini, chiudeva così l'ultima lettera che
mi ha scritto: «Con amicizia, che è più dell'affetto».
3- all'interno
di istituzioni giuste. "Istituzione" vuol dire luogo della relazione con
l'altro sconosciuto, con il "terzo", fuori dal rapporto faccia a faccia, a
tu per tu, come il rapporto di amicizia. «Il diritto è la tutela dello
sconosciuto» scrissi sul mio libro di diritto amministrativo, per darmi
una motivazione ad uno studio che trovavo aridissimo. È il problema della
giustizia verso chiunque («dare a ciascuno il suo»), della distribuzione
di diritti e doveri, di beni e impegni, tra tutti, senza privilegi né
esclusioni, favorendo chi ora è svantaggiato.
È un'illusione pensare
una società di persone che possa essere giusta soltanto grazie a relazioni
di amicizia e di amore sociale: le relazioni interpersonali hanno il
modello dell'amicizia, le relazioni sociali hanno per modello la giustizia
istituita in regole, e garantita. La società non può essere una comunità
di persone in relazione diretta, interpersonale, di amicizia, perché nella
società io sono sempre in rapporto anche con lo sconosciuto, che è
persona-valore-da-rispettare, e con la quale devo avere delle regole
comuni di comportamento. E io sono uno sconosciuto per il
"chiunque-altro", perciò non posso pretendere che si fidi di me come di un
amico, ma devo garantirlo dalla mia prepotenza mediante le regole della
giustizia economica, politica, penale.
Questo è il piano della
relazione politica, che è differente dal piano della relazione
interpersonale: la politica ha la legge della giustizia, della
distribuzione giusta; la relazione diretta tra persone ha la legge della
sollecitudine generosa e della reciprocità. L'altro nella relazione
politica è senza volto, ma non senza diritti. L'altro nella relazione di
amicizia è anzitutto un volto-altro nel quale riconosco per somiglianza e
differenza il mio volto, direttamente. L'altro come cittadino nella
relazione politica è il "ciascuno", o il "chiunque", che non vedo e non
incontro, soggetto destinatario del mio dovere di giustizia. La relazione
con lo sconosciuto non è relazione tra volti, ma relazione indiretta,
eppure pienamente umana ed etica, in forma mediata, attraverso
l'istituzione. La quale ha da essere giusta (cfr Ricoeur, op. cit., pp.
43-48). L'istituzione non è di per sé disumana, ma è strumento per
realizzare l'umanità dei rapporti.
La critica, la correzione continua
delle strutture istituzionali e delle leggi imperfette, non deve mai
cadere nell'illusione, ignorante più che ingenua, irresponsabile più che
ideale, che l'istituzione possa essere sostituita dalla relazione diretta
di amicizia. Le società familistiche, organizzate in clan, o clientele
(gli amici degli amici), invece che in diritti di cittadinanza uguali per
tutti, differenziati solo secondo i diversi bisogni (i bambini hanno
diritti che non hanno gli adulti, i malati hanno diritti che non hanno i
sani), non sono società più giuste, perché escludono i non protetti dalla
parentela o dall'amicizia, e privilegiano i membri dei gruppi forti. È
questa la ragione dello stato, che pure ha molti difetti, contro la mafia
dura, o quelle mafie più morbide che sono le categorie e corporazioni. La
mafia è clan che nega la cittadinanza uguale, è protettivo a suo arbitrio
(non è «tutela dello sconosciuto»), è escludente fino alla violenza
mortale. Il barbone senza casa né famiglia, se non è aiutato dalle
istituzioni sociali, è messo fuori dai margini: dite «se questo è un
uomo»; lo è, ma non è valorizzato e riconosciuto come tale.
L'illusione di sostituire l'amicizia all'istituzione lascerebbe
sussistere e crescere la violenza dell'abbandono di quello sconosciuto
cittadino del mio popolo e dell'umanità, che io non incontrerò mai, ma del
quale sono ugualmente responsabile come dell'amico qui davanti al mio
volto. Altra cosa, e giusta, è invece la tensione ad umanizzare i rapporti
politici, amministrativi, realizzando in essi quel rispetto della singola
persona che si attua in modo massimo nel rapporto di amore e amicizia.
8- L'AZIONE E LA VIOLENZA
Traggo ancora spunti da Ricoeur (op. cit.
pp.57 e ss.). La persona è un soggetto che agisce, produce effetti sul
mondo e sulle altre persone; e che patisce, riceve su di sé gli effetti
dell'azione altrui.
Studiare l'azione umana vuol dire rispondere a
queste domande: 1- che cosa produce? qual è l'effetto? 2- perché? a che
scopo? con quale intenzione? 3- chi agisce? chi è il soggetto dell'azione?
(questo soggetto è ben più che la causa materiale, fisica; è la causa
umana).
La seconda e terza domanda sono proprie dell'agire umano (la
prima anche di un agire fisico o chimico: il fenomeno fuoco produce il
fenomeno calore). Studiando il soggetto dell'azione umana ritroviamo le
caratteristiche della persona:
1- cosciente di sé come capace di agire
con intenzione e produrre effetti (cfr "stima di sé", valore che tende a
realizzarsi);
2- in relazione con altre persone (di cooperazione,
competizione, o conflitto) (cfr "sollecitudine", con e per gli altri,
responsabilità)
3- attiva secondo determinate regole, per le quali
un'azione è riuscita o fallita (cfr "istituzione": una dimensione che
ingloba il singolo e la sua azione, per riconoscerlo e tutelarlo, non
lasciarlo al caso); così il parlare (il linguaggio è un'istituzione) non
può essere "a vanvera", e l'agire non può essere "a caso"; così un gioco
può svolgersi con infiniti possibili esiti, ma sempre secondo regole date,
altrimenti è come parlare da soli in una lingua inesistente per gli altri
(succede, ma non ha senso umano).
Agire significa esercitare un potere
su un altro agente. Un agente implica un paziente. L'agire implica il
patire. Per esempio, nel colloquio abbiamo l'alternarsi di parlare e
tacere-ascoltare, dell'uno e dell'altro, quando A è attivo, B è passivo, e
viceversa.
Questa asimmetria dell'azione genera il sogno del suo
superamento nell'utopia feconda della perfetta col-laborazione,
co-operazione, espressa nei molti termini di azione com-posti col "con",
che dicono un'azione fatta insieme (quelli che dicono un incontro
positivo, perché altri significano lo scontro distruttivo, oppure la
cattura possessiva, come con-quistare): co-abitare, co-adiuvare;
co-struire, co-esistere; co-incidere, co-involgere, anche com-mercio,
com-pagno (colui col quale si mangia il pane), com-passione, com-piacenza
(aver piacere nel far piacere), com-porre, com-prendere, com-promesso,
com-unicazione, com-unità, con-cedere, con-certare, con-ciliare,
con-cittadinanza, con-comitante, con-cordare, con-discendere,
con-dividere, con-dominio, con-formare, con-frontare, con-giungere,
con-iuge, con-sentire, con-sonare, con-sorte, con-venire, con-vegno,
con-vergere, con-versare, con-vincere, con-vivere, ecc..
La parzialità
della nostra esistenza e attività mira e tende, ma solo in qualche istante
estatico lo tocca, a questo cielo dell'unità, della parola detta insieme,
che diventa il silenzio pieno dell'amore, dell'intesa, dell'incontro senza
attese né distanze, senza che uno preceda l'altro, senza la superiorità di
uno e l'inferiorità dell'altro. Questo cielo dell'uguaglianza non livella
ed assorbe ma rispetta e riconosce le differenze senza lasciarle separate.
Ma in quella parzialità, incompiutezza, che è limite costitutivo
dell'esistenza e dell'azione, si insinua la violenza. Eppure, lì nasce
anche il desiderio della vita senza violenza.
Non c'è amore, non c'è
giustizia che non sia desiderio e tendenza all'amore e alla giustizia. La
distanza che persiste nell'amicizia e nella giustizia stimola la ricerca
dell'amicizia e della giustizia. Un amore e una giustizia che
dimenticassero la propria imperfezione si farebbero dominio e tirannia.
Dice questa verità in forma poetica Marguerite Yourcenar: «Non esiste un
amore infelice: non si possiede se non ciò che non si possiede. Non esiste
un amore felice: ciò che si possiede non lo si possiede più» (Fuochi). E
senza conoscere questo testo, Luca Sassetti scriveva: «Per ritrovarti /
devo un poco perderti / ché proprio il sempre averti / è un poco perderti»
(18.10.1990). Soprattutto, è Platone che ci parla dell'eros, desiderio
della sapienza del vero e del bene, come figlio di Ricchezza (avere) e di
Povertà (non-avere). Ogni valore è incompleto attingimento, è vicinanza e
distanza. Questa situazione insuperabile ci obbliga tutti ad escludere
ogni atto di imposizione violenta.
L'azione umana, dunque, è
normalmente, per la sua limitatezza, asimmetrica. Qui si innesta la
perversione della ineguaglianza stabilizzata, del non-rispetto, del
dominio, del non-riconoscimento, perciò i diversi gradi della violenza,
dalla furberia alla menzogna fino all'offesa, alla violenza fisica, allo
sfruttamento, alla tortura, all'uccisione. Nella ineguaglianza
dell'azione, che potrebbe essere ineguaglianza provvisoria, colmabile,
equilibrabile, correggibile - come il camminare è composto di successive
perdite di equilibrio ad ogni passo, riequilibrate dal passo successivo -
si instaura il male fondamentale: non solo un'influenza a turno
dell'agente sul paziente, ma un'influenza unidirezionale che condanna il
paziente a patire e stabilisce l'agente nel potere. Il potere che è
nell'azione, quando la reciprocità è negata e bloccata, degenera da
potere-di (di fare, modificare, decidere) a favore di tutti, a potere-su
(sugli altri, ridotti da fine a mezzo, a strumento). Questa è
l'ineguaglianza, l'ingiustizia, l'inimicizia, il dominio, perciò la
violenza. L'agire violento di uno, o degli uni, comprime e nega l'agire
degli altri, costretti nella passione delle vittime. Passione è
non-azione, non-umanità. Ma la vittoria del dominio sull'umanità
inviolabile è proprio vera e definitiva? La violenza, essendo falsità,
smentisce se stessa. Proprio l'offesa al valore della vittima fa risaltare
questo valore.
Questo dominio è il contrario della pace, cioè della
vita che si svolge e si compie per la propria energia interna espansiva,
creativa, non distruttiva. La vita dominata è vita impedita. Non è solo la
guerra guerreggiata, l'opposto della pace. Non è solo la violenza diretta,
fisica, che infligge dolore, distruzione, morte. L'opposto della pace è il
dominio, che è l'origine e lo scopo e la sostanza di ogni violenza,
sottile o estrema. Il dominio è anche tranquillo, sembra essere un ordine
naturale e stabile. È invece la violenza stabilita, fatta sistema e
struttura, legge, pseudo-valore.
L'azione asimmetrica, non equilibrata
e non corretta dalla giustizia, dalla libertà uguale, dalla distribuzione
di possibilità uguali (pari opportunità, si dice oggi), crea sistemi
rigidi di diseguaglianza, che incarnano violenza degli uni sugli altri,
anche se silenziosa, che è vera violenza anche quando è accettata dalle
vittime.
9- L'ETICA DELLA NONVIOLENZA
Alla radice della violenza stabilita
sta l'azione umana lasciata nella sua parzialità che si fa iniqua, non
corretta dalla regola etica. Perciò, la sapienza etica interviene alla
radice, sull'azione, non sulle sue conseguenze. La sapienza etica
universale detta la "regola d'oro": «non fare agli altri ciò che non
vorresti che fosse fatto a te» (versione negativa); «tratta gli altri come
vorresti essere trattato tu» (versione positiva). Ne ho raccolte circa 25
diverse formulazioni, uguali nella sostanza, da tutte le tradizioni,
sapienze, religioni dell'umanità (cfr Pier Cesare Bori, Per un consenso
etico tra culture, Marietti, Genova, II edizione 1995).
La regola
d'oro afferma l'eguaglianza di valore tra me e te, tra noi e gli altri, al
di là di tutte le differenze, tra le quali vanno colmate quelle colmabili,
quelle che non fanno la bella varietà, ma stabiliscono dominio e
sottomissione, abuso e impedimento. Ricoeur scrive: «E' sempre la
diseguaglianza tra agenti a porre il problema etico nel cuore della
struttura non egualitaria dell'interazione» (op. cit., p. 63). La regola
d'oro dell'etica ristabilisce la simmetria che l'azione nella sua
immediatezza e parzialità non ottiene. L'azione etica tende a realizzare
l'eguaglianza di valore tra l'io, il tu, e l'egli-ella sconosciuti, tende
alla reciprocità.
Il pensiero giusto corregge e regola l'azione. «Solo
un pensiero giusto può fondare l'esigenza di nonviolenza. Per la sua
etimologia (dal latino pensare), "pensare" vuol dire "pesare". Il pensiero
giusto è la ricerca di un giudizio equilibrato. Ogni squilibrio nel
giudizio è un errore di "pesata", un errore di pensiero. E il giudizio
squilibrato introduce uno squilibrio nel comportamento, nell'azione, che
si manifesta nella violenza. Per la sua stessa essenza, la violenza è
squilibrio. L'obiettivo della nonviolenza è la ricerca di un equilibrio
attraverso il conflitto stesso» (Jean-Marie Muller, Le principe de
non-violence, Parcours philosophique, Desclée de Brouwer, Paris 1995, p.
65).
Ma poiché ciascuno non dispone (e non potrebbe farlo senza
violenza) dell'azione altrui, ma solo della propria; poiché ciascuno
dispone soltanto della propria metà dell'interazione bilaterale, per
questo, ciascuno che agisca eticamente tende ad anticipare liberamente e
creativamente la reciprocità, tende, già nel proprio agire unilaterale, a
colmare quella disparità strutturale dell'azione grezza, mediante il
correttivo della "priorità di altri" (Levinas), cioè mediante la
preferenza di altri a sé (normalmente non fino all'autosacrificio, se non
in casi di dovere estremo o di generosità eroica), mediante quel dono
gratuito di un vantaggio all'altro.
Noi abbiamo tutti assimilato da
molte generazioni questa preferenza di altri a noi nelle regole di
cortesia e di urbanità, per le quali cediamo il passaggio al nostro
prossimo (anche se sappiamo bene quanto di formale o di utilitario, o
anche di egoistico, c'è di fatto in tali comportamenti, che tuttavia
restano valide indicazioni). È comprensibile e anche funzionale alla
giustizia che tali regole non valgano tali e quali nelle relazioni
sociali, economiche, giuridiche, politiche, perché, in queste relazioni
che sono intrinsecamente strutturate come relazioni tra sconosciuti
associati, vige quella prudente e fondata relativa diffidenza e quel
bisogno di garanzia che io devo riconoscere negli altri e gli altri in me,
in base ad un anonimo jus primi occupantis. Ma il correttivo etico
dell'altruismo tende a rimediare alla deriva dei comportamenti nella
rivalità escludente, nella inimicizia (homo homini lupus), che esalta ed
esaspera il carattere diseguale dell'azione, fino alla distruttività
generalizzata. Esempio: salgo in tram, ho diritto a sedermi prima di chi
arriva dopo di me; ma se vedo una persona anziana, o stanca, o più debole,
il diritto anonimo di precedenza deve cedere al bisogno personale. Così la
proprietà (ereditata o acquistata) è un diritto, ma la giustizia sociale
deve posporla agli altrui diritti primari alla vita. Così, questo
correttivo già incorporato nella legalità preserva la società dal
diventare una società di puri rivali invece che di soci, che non sarebbe
più una società.
Una società della competizione forte è preda di quella
deriva disintegrante. Una società della collaborazione e della generosità
va verso la più reale reciprocità mediante la reciprocità anticipata nella
generosità, nel favore ad altri, nel dono, nella gratuità. La reciprocità
anticipata va nella direzione opposta alla diseguaglianza insita
nell'azione grezza, pre-morale. Questo tipo di relazioni sociali assicura,
a differenza della competizione escludente, la realizzazione di tutto
l'essere personale in tutti. Che è il punto asintotico di incontro di
libertà e giustizia, giustizia e pace.
Dalla cosa intollerabile, la
diseguaglianza, la violenza, per la persona cosciente della propria
dignità, nasce l'impegno etico, l'azione etica. Per un filosofo come
Jean-Marie Muller, qui nasce la filosofia stessa: «Come può la coscienza
umana non rivoltarsi al ricordo di tutte le donne e di tutti gli uomini il
cui volto, nel corso dei secoli, è stato sfigurato col ferro e col fuoco?
È lo scandalo di questa violenza esercitata da uomini su altri uomini che
mette in movimento il pensiero filosofico. È la certezza che questo male
non-deve-essere che provoca la riflessione. Noi vogliamo sostenere che la
rivolta del pensiero davanti alla violenza che fa soffrire gli uomini è
l'atto fondatore della filosofia. Vogliamo affermare che il rifiuto di
ogni legittimazione di questa violenza fonda il principio di nonviolenza»
(Jean-Marie Muller, op. cit., pp. 10-11). Si potrebbe opporgli
l'osservazione che ci sono anche filosofie violente, ma questo pensiero
merita ascolto.
Davanti alla intollerabile violenza, la regola d'oro,
regola dell'eguaglianza di valore, stabilisce il principio etico della
nonviolenza.
L'etica non nasce da un comando esterno, di autorità
divina o umana che sia. L'auctoritas ("che aiuta a crescere") può
ricordare, chiarire, ammonire sull'etica, ma non la crea. L'etica nasce
dall'essere e dall'agire degli umani. C'è un fondamento ontologico
dell'etica. Le strutture fondamentali dell'azione umana - chi agisce? che
effetti produce? a quale scopo? - richiedono che l'azione sia umana, non
disumana, non di un uomo contro un uomo, ma di un essere umano con e per
l'altro essere umano.
Infatti, la struttura dell'essere umano implica
l'essere costituito nella responsabilità e reciprocità con gli altri
esseri umani ("con e per gli altri", abbiamo visto nelle dimensioni
costitutive della persona). La violazione della responsabilità verso
altri, della sollecitudine verso altri, offende il valore di altri (senza
poterne distruggere la dignità, l'esserne per sempre degni), ma offende
pure il valore di chi compie violenza (anche qui senza distruggere la
dignità del violento, il suo esser degno, la possibilità di ricupero nella
resipiscenza, pentimento e correzione di vita). Chi offende altri offende
se stesso, la propria struttura umana di responsabilità ( che significa
rispondere ad altri, invece di "fare solo di testa propria", "come mi pare
e piace") e di reciprocità (regola d'oro, uguaglianza di
valore).
L'etica della reciprocità anticipata, dell'eguaglianza di
valore, del non-dominio e della nonviolenza attiva, ha base nelle
strutture essenziali della persona umana. La com-passione, la sensibilità
all'altrui sofferenza (l'esempio del bambino di Mencio e il "commuoversi
nelle viscere" del Samaritano per il ferito, nel cap. 10 del vangelo di
Luca), che muove all'azione per l'altro bisognoso, è espressione e
compimento di umanità. Vedere e riconoscere attivamente l'umanità
nell'altro, anche deturpato dalla miseria o dalla malattia, o anche della
colpa, è riconoscere ed attuare la propria umanità.
Perciò abbiamo
cercato di parlare della nonviolenza a partire dalla persona umana, da ciò
che in essa ci appare di più essenziale. Si può dire che l'etica, la quale
è essenzialmente nonviolenza, non è soltanto una convenzione sociale, non
è soltanto utilità e prudenza per non procurarci danni a vicenda; infatti,
ci potremmo chiedere: ma il furbo e il forte, se riescono a restare
impuniti, perché non dovrebbero esercitare sopraffazione? Come chiedevo a
quel gran professore: «Perché devo rispettare gli altri, se riesco a
fregarli senza danno per me?». Possiamo cominciare a rispondere: non ci è
lecito esercitare sopraffazione, non ci è lecito fregare gli altri,
dobbiamo non fare questo, perché negando il valore degli altri nego il mio
valore di persona. Se mi comporto così, invece di muovermi nella "speranza
di una vita compiuta" (v. sopra le dimensioni della persona) creo
disperazione riguardo al compimento umano, prima nella mia vittima, poi
negli effetti della mia azione sul costume della società, infine in me
stesso de-umanizzato (sebbene mai definitivamente e
irrimediabilmente).
10- LA POLITICA DELLA NONVIOLENZA
Qui entra in gioco la dimensione
dell'istituzione. Non siamo nel mondo solo io e te, solo noi legati da
relazioni di conoscenza, affetto, amicizia. C'è il "terzo" oltre a noi.
Siamo popolo, popoli, umanità intera. La nostra azione, le nostre
relazioni sono sociali, planetarie, non solo interpersonali. Io devo
garantire chi non mi conosce che non gli farò inganno e violenza, e ho
diritto ad avere analoghe garanzie da lui. Statisticamente c'è una certa
probabilità di violenza. Nel raggio immediato mi garantisce la conoscenza,
la colleganza, l'amicizia. Nel raggio allargato ci deve garantire
quell'etica collettiva che prende forma nelle culture, nei costumi, nelle
tradizioni, nelle leggi.
Non ci può bastare "non uccidere" (offendere,
abbandonare, far soffrire) l'altro con cui abbiamo una qualche relazione
diretta. Dobbiamo anche volere "non lasciare uccidere" dalla società, dai
meccanismi omicidi delle violenze cristallizzate in strutture e culture,
in interessi ed esclusioni. In Buddha il comandamento è così espresso:
«Non uccidere e non fare uccidere» (Dhammapada, 129). Noi facciamo
uccidere ogni volta che godiamo i frutti di una società che uccide, al
proprio interno o all'esterno, degli esseri umani. Noi siamo omicidi
indiretti, dalle mani ipocritamente pulite come quelle di Pilato, ogni
volta che deleghiamo la società che ci nutre ad uccidere altri, o
tolleriamo senza opporci questa che è una delle cose intollerabili da cui
sorge l'impegno ad essere esseri umani. Chi non si oppone alla pena di
morte, alla guerra, all'abbandono degli ultimi alla sorte mortale, è
omicida per procura. Chi non sente e non segue l'impegno che scaturisce
dalle cose intollerabili è una persona mutilata di una delle dimensioni
essenziali della persona. Abbiamo sentito Mencio nella traduzione di cui
disponiamo: «Non sono uomini quanti sono privi di un animo sensibile».
Interpretiamo: «non vivono da uomini», perché uomini lo sono sempre, e
possono correggersi.
La nonviolenza, ormai lo sappiamo, non è solo il
non fare io violenza (ed è già un bell'obiettivo a cui tendiamo), ma è il
non volere che ci sia violenza, il volere che nessuno la faccia (tanto
meno a nome mio, come fa la violenza della società), è il contrastare
senza violenza chi fa violenza. La nonviolenza non è soltanto negativa,
astensionista, purista (come crede chi non la conosce tutta intera) ma
eminentemente attiva, mediante la creazione (riscoperta, invenzione,
pratica, sviluppo, istituzionalizzazione) delle alternative nonviolente ai
metodi violenti di affrontare problemi, controversie, di contrastare la
violenza stessa.
Il momento negativo è esistenzialmente primo, perché
esprime un principio, una condizione necessaria, non sufficiente ma
necessaria. È primo perché sul male abbiamo delle certezze che spesso ci
mancano sul bene, e dunque il primo imperativo è rifiutare complicità
personale con la violenza. Ma nella proibizione è nascosta l'affermazione
che ontologicamente la precede: la sollecitudine, lo scambio mutuo del
rispetto delle dignità (cfr Jean-Marie Muller, op. cit., pp. 68-70, che
cita Schopenhauer, Hans Jonas, Paul Ricoeur).
La nonviolenza, pur
nascendo e dovendo continuamente rinascere nell'intimo della persona,
dell'orientamento etico personale, deve diventare istituzione, cioè
cultura, costume, tradizione, regola collettiva, politica.
Ma è
possibile che la nonviolenza diventi istituzione, regola, politica?
La
risposta non è semplicemente sì o no. È possibile, perciò doveroso, che la
politica riduca progressivamente la violenza tradizionale dei suoi mezzi.
Nel '900 non c'è stata solo una violenza immensa, ideologica e bellica,
economica e culturale, ma anche pratiche ed esperienze esemplari di lotte
nonviolente spesso efficaci, e sono sorte istituzioni giuridico-politiche
per la riduzione della violenza e l'abolizione delle sue forme massime,
come la guerra, la pena di morte, la tortura, la schiavitù, lo
sfruttamento; e c'è un movimento di pensiero e di azione per la
nonviolenza attiva.
Non è lecito ed è ingannevole dimenticare che il
piano politico, che è pur sempre un piano umano regolate dalle leggi
dell'umanità, non coincide in tutto e per tutto col piano dell'azione
personale. In altri momenti di questo corso si parla della nonviolenza
politica. Qui, il nostro tema essendo "nonviolenza e persona umana",
osserviamo quello che di proprio può fare l'azione personale, nella sua
differenza da quella politica, non solo per la propria autenticità e
valore, ma anche come contributo costruttivo alla nonviolenza politica.
L'obiettore, anche il "testimone solitario" come Franz Jägerstätter che
pagò con la vita, o come Pietro Pinna e gli altri con la prigione, non
ottiene nessun risultato politico immediato, non gestisce potere, se non
su se stesso (che è il potere più difficile e importante), anzi subisce la
punizione del potere contestato, però stabilisce un segno e una proposta
per il futuro, che altri comprenderà e proseguirà. E questo è un atto
politico. Non è vero che il profeta disarmato non fa politica. Egli
anticipa la politica, e non importa se di pochi anni o di secoli o di
millenni. È cittadino del futuro, venuto ambasciatore nel presente.
Nonostante che il potere politico abbia spesso qualcosa di impersonale e
inumano, è pur sempre nella persona l'energia e la forza umana che gli
sanno resistere in nome dell'umano, fino a cambiarlo umanizzandolo. Il
potere politico segue (specialmente in democrazia) la società, e la
società è fatta di persone. Perciò la cultura e l'etica, nonostante le
apparenze spesso contrarie, hanno un primato, di fatto e non solo di
diritto, sulla politica. Sono le persone che decidono tra violenza e
nonviolenza. Ognuno di noi decide.
Enrico Peyretti (22.1.2000)
APPENDICE
La personalità nonviolenta
Nel libro La personalità nonviolenta (Ed. Gruppo Abele, Torino 1996,
pp. 102, L. 14.000), Giuliano Pontara, docente di filosofia pratica
all'Università di Stoccolma, ricerca quale sia il tipo umano portatore di
una matura cultura di pace.
Queste sono oggi le grandi sfide alla pace:
la violenza politica e sociale; la guerra post-moderna, strutturalmente
diretta contro i civili; i separatismi, nazionalismi, fondamentalismi;
l'etica nazista della forza; il capitalismo totalitario e sfruttatore; i
nuovi conflitti generati dalla crescente scarsità (specie nel Sud del
mondo) dell'acqua, bene insostituibile. Queste sfide costituiscono nostre
precise responsabilità verso le generazioni future, cui siamo debitori di
un pianeta vivibile.
Quale pace? Pontara la definisce «una proprietà di
un sistema sociale: vi è pace quando gli attori nel sistema cooperano e
quando i conflitti vengono condotti, trasformati e risolti in modo
nonviolento e costruttivo» (p. 26).
La personalità nonviolenta, per
Pontara, si caratterizza per dieci qualità: il ripudio della violenza, la
capacità di individuare la violenza, la capacità di empatia, il rifiuto
dell'autorità, la fiducia negli altri, la capacità di dialogare, la
mitezza, il coraggio, l'abnegazione, la pazienza. Alcune di queste qualità
sono ambigue, e solo insieme alle altre integrano il carettere nonviolento
di una persona.
L'Autore precisa con chiarezza che la nonviolenza non è
un pacifismo assoluto e fanatico, e risponde così alla critica frequente
per cui essa mancherebbe al dovere di impedire efficacemente la precedente
violenza. Proprio in base all'etica della responsabilità (cioè degli
effetti dell'atto), e non dei princìpi o delle intenzioni, Pontara
sostiene «la tesi per cui è desiderabile che a livello pratico, di morale
positiva, gli individui interiorizzino una norma che proibisce l'uso della
violenza» (pp. 46-47). Questa interiorizzazione pratica, anche se non
teorica, del rifiuto della violenza è la via più efficace, perciò più
responsabile, per ridurre globalmente e inventare alternative alla
violenza nei conflitti.
Il "principio del fallibilismo" è essenziale
alla disposizione al dialogo. Il nonviolento «potrà quindi essere
profondamente persuaso della bontà della propria causa, anche della bontà
oggettiva di essa, ma non vorrà escludere a priori la possibilità di aver
lui torto e l'avversario ragione. Per questo esso rifiuterà metodi di
conduzione dei conflitti che comportino la distruzione dell'avversario»
(pp. 58-60).
La personalità nonviolenta è un puro ideale, ma operante
ed efficace, perché ispira ad autoeducarsi e ci serve a "misurare" quanto
siamo nonviolenti. Questo movimento educativo rafforza i gruppi che,
contro ogni pessimismo storico e antropologico, possono operare per la
trasformazione costruttiva dei conflitti. Alla violenza, nella persona e
nella storia umana, ci sono alternative. Ma per fondare la pace bisogna
essere pace, diventare pace.
Enrico Peyretti
enrico peyretti