I perché della guerra
Le ragioni della pace
ATTACCO MILITARE
Dossier a cura di PeaceLink
Versione n. 6 del 14.10.2001
PeaceLink, casella postale 2009,
74100 Taranto
c/c postale 13403746
Quando è
stato lanciato l'attacco Usa?
Alle 18.39
del 7 ottobre 2001 l'agenzia Reuter ha dato la prima informazione a livello
mondiale sull'attacco Usa con missili cruise e aerei in Afghanistan. Hanno
collaborato anche aerei britannici. "Il popolo afghano conoscerà la
generosità del popolo americano", ha detto il presidente Bush alle 19, ora
italiana nella conferenza stampa subito dopo l'attacco. "Londra e
Washington, intanto, ipotizzano una loro permanenza in Afghanistan dopo che il
conflitto si sarà concluso, con una forza di pace composta da migliaia di
militari" (RAI Televideo 7 ottobre 2001).
Cosa sostiene il governo americano?
"Gli Stati Uniti non hanno dubbi sulla responsabilità
di Osama Bin Laden negli attentati di martedì scorso, ma ci vorranno anni per
avere la meglio. Lo ha detto il vicepresidente Cheney, nella sua prima
intervista pubblica dagli attacchi a New York e Washington". (RAI
Televideo 16/9/2001)
Sul
Corriere della Sera del 16/9/2001 è riportata una dichiarazione di Madeleine
Albright, ex segretario di Stato americano: "Non è ancora chiaro che si
tratti davvero dell'opera di Osama Bin Laden. Ma è certo che questo terrorista
sta ricevendo aiuti in Afghanistan. E' importante per noi e i nostri alleati
ritenere responsabili per quello che sta succedendo coloro che offrono rifugio
ai terroristi. E' giunto il momento di prendere posizione". In seguito gli
Stati Uniti hanno detto di aver raccolto le prove contro Bin Laden ma non le
hanno divulgate, considerandole segreto militare.
Questa
guerra mette a rischio i civili?
"Il
presidente Bush ha dichiarato di avere dato l'ordine dell'azione solo dopo
avere fatto 'molta attenzione' e avere detto 'molte preghiere'. (ANSA
07/10/2001 ore19:44). Ma contemporaneamente il dottor Gino Strada, responsabile
di Emergency presente in Afghanistan per assistere i profughi, ha dichiarato
che "il 90% delle vittime, come in tutte le guerre degli ultimi anni,
saranno civili" (fonte: www.unimondo.org). Il dottor Strada è
attualmente nell'ospedale di Emergency ad Anabah (ottanta chilometri a nord-est
di Kabul); intervistato la notte del 7 ottobre ha detto: "Saranno proprio
queste persone, i civili, le prime vittime di questi assurdi bombardamenti (…)
Dal fronte giungeranno nuovi feriti. Già accede sempre, domani un po' di più.
Si dovrebbe venire in questi avamposti per rendersi conto dell'orrore della
guerra, delle mutilazioni che produce tra la gente, delle stragi senza fine fra
i civili (…) Vorrei che si riuscissero a salvare più vite umane possibili.
Vorrei che il mondo dicesse no all'assurdità della guerra". (Liberazione
8/10/01)
La
guerra annunciata è la causa dell'ondata di profughi?
Sì, l'Onu calcolava
i profughi - prima dell'attacco Usa - in un numero variabile da un milione a
due milioni; la situazione si è aggravata e il 10 ottobre si valutava una
quantità di profughi compresa fra i 5 e i 6 milioni. Dalle notizie emerse il 4
ottobre sembra che si stia diffondendo una malattia contagiosa simile
all'ebola. La catastrofe umanitaria coincidente con questa guerra annunciata
sta diventando un problema e c'è da attendersi che ogni parte in causa
scaricherà sull'altra parte la responsabilità del dramma in corso. Su Rai
Televideo del 4 ottobre, ore 19, appariva la notizia che il presidente Bush
aveva promesso di stanziare 320 miliardi di dollari (circa 720 mila miliardi di
lire) per i profughi; sul TG1 di un'ora dopo il cronista parlava di 320 milioni
di dollari, una somma mille volte inferiore (corrispondente a circa 750
miliardi di lire).
Gli Stati Uniti stanno compiendo voli per inviare cibo e medicinali
ai profughi?
Sì, ma si tratta di 37 mila razioni per una quantità di
profughi che oscilla tra i 5 e i 6 milioni di persone, raggiungendo solo lo
0,6%. Inoltre il 10 ottobre la Croce Rossa tedesca ha osservato che il lancio
dei pacchi rischia di far dirigere i profughi verso zone minate mentre Medici
Senza Frontiere ha criticato la diffusione di medicinali senza la necessaria
assistenza medica a popolazioni che non conoscono le istruzioni d'uso dei
medicinali stessi.
Esistono diverse posizioni nello staff del presidente Bush?
Sì. A
premere per una immediata azione militare subito dopo gli atti terroristici
dell'11 settembre sono stati i civili come Cheney per dare all'opinione
pubblica e ai media un'immagine di forza e non di debolezza. Tali posizioni da
"falchi" sono riassumibili nella posizione di Gianandrea Gaiani,
direttore di Analisi Difesa (www.analisidifesa.it)
e consulente presso il Casd (Centro Alti Studi Difesa) il quale ha affermato:
"Il vero effetto deterrente è colpire in maniera devastante i regimi che
supportano il terrorismo, altrimenti è inutile (…) Ci siamo cullati nell'idea
della guerra umanitaria e ora questo sogno si è rotto. La guerra è spietata e
l'America l'ha capito e sta costringendo tutti a prendere una posizione e non
prenderla significa prenderla in senso opposto" (Corriere del Giorno
17/9/01). Hanno invece frenato i militari statunitensi capeggiati dal generale
Powell, ora segretario di stato. Per loro l'efficacia dell'attacco militare è
stata fino all'ultimo dubbia (si veda l'articolo del consigliere Luttwak in
appendice). Powell punta ad un'azione a lungo termine che raccolga una ampia
coalizione internazionale. Powell ha dichiarato che tale coalizione è basata su
una campagna politica, diplomatica e finanziaria, specificando il 4 ottobre che
"c'è una componente militare che non è ancora stata usata e che sarà
decisa, al momento opportuno, dal presidente Bush" (RAI Televideo). Il 7
ottobre l'attacco militare è stato presentato dal presidente Bush come un
attacco non al popolo afghano (a cui ha promesso il lancio di cibo e
medicinali) ma ai talebani. Secondo alcuni analisti l'opinione pubblica
americana stava dando segni di impazienza di fronte alla tattica
"attendista" dell'amministrazione Bush che rinviava di giorno in
giorno l'attacco militare.
Che cosa ha frenato fino al 7 ottobre l'azione militare?
Oltre alle esigenze di stringere accordi diplomatici e di
ottenere supporti logistici alternativi al Pakistan, vi è stato il cattivo
andamento della borsa che è scesa quando si profilava l'attacco ed è salita
quando la guerra non veniva annunciata.
Le
informazioni che riceveremo saranno attendibili o saranno sottoposte alla
censura militare?
Scrive Federico Fubini su Limes: "Dice Bush ai
giornalisti, con un'affermazione che in altri momenti sarebbe costata cara:
"Lasciatemi porre condizioni alla stampa nel modo seguente: qualunque
fonte e metodo di informazione resterà protetto e segreto. La mia
amministrazione non parlerà di come raccogliamo le informazioni, se lo facciamo
e cosa esse dicano" (…) In questo quadro si pongono per esempio gli
interrogativi su cosa può o non può un organo di stampa riportare sulle
posizioni dei terroristi senza farsi strumento della loro propaganda (…) Dare
la parola al portavoce taliban in grado di far cadere le Borse europee con due
frasi, dev'essere ancora consentito?". (Limes supplemento n.4/2001)
Bin Laden ha rivendicato gli attentati dell'11 settembre
negli Stati Uniti?
"Il miliardario saudita Osama Bin Laden ha smentito di
essere implicato negli attentati a New York e a Washington. "Gli Stati
Uniti puntano il dito contro di me, ma affermo categoricamente che non sono
stato io", ha detto Bin Laden in un comunicato all'Aip, l'agenzia di
stampa dei Taleban con sede in Pakistan. I leader religiosi hanno richiesto
agli Stati Uniti le prove del coinvolgimento di Bin Laden". (RAI Televideo
16/9/2001)
Subito dopo l'attacco americano, nella notte del 7 ottobre, è però apparso Bin Laden in una TV vicina per dire a questo proposito: "Quello che è accaduto negli Stati Uniti è la reazione naturale alla politica cieca degli americani. Se l'America continua con questa politica i figli dell'Islam non fermeranno la loro lotta. Gli Stati Uniti sono stati colpiti da Dio in uno dei suoi punti più deboli. L'America adesso è spaventata da Nord a Sud, da Ovest a Est. Grazie Dio per questo. Ringrazio Dio per la distruzione dei simboli dell'America. Ciò che l'America ha assaggiato oggi è pochissimo rispetto a quello che abbiamo provato noi. Da 80 anni questa nazione musulmana e araba vede ogni tipo di umiliazione. Un gruppo di musulmani d'avanguardia sono riusciti a far provare all'America ciò che noi abbiamo provato". Il capo dell'organizzazione terroristica Al Qaeda ha giurato che "l'America non vivrà in pace prima che la pace regni in Palestina". (7 ottobre 2001 Corriere della Sera on line)
Vi è poi stata una successiva intervista a Bin Laden pubblicata sul settimanale in lingua urdu "Takbir" di cui ha dato notizia l'agenzia kuwaitiana "Kuna" da Islamabad. Si legge sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 12/10/2001: "Rispondendo ad una precisa domanda, Bin Laden ha negato qualsiasi coinvolgimento di "alcuno dei suoi compatrioti negli attacchi suicidi contro gli Stati Uniti" affermando che l'Islam vieta di uccidere persone innocenti" e che né egli "né alcuno dei suoi compagni potrebbero osare violare gli insegnamenti dell'Islam"."
L'organizzazione di Bin Laden ha rivendicato gli atti di terrorismo
dell'11 settembre?
L'organizzazione
Al Qaida, di cui Bin Laden è considerato il regista, ha rivendicato gli
attacchi dell'11 settembre durante la notte del 7 ottobre. La rivendicazione è
avvenuta pubblicamente solo dopo gli attacchi americani in Afghanistan.
Riferisce l'ANSA (ore 21.13 del 7/10/01): "Gli attentati contro gli Usa
dell'11 settembre sono dovuti all'appoggio americano a Israele. Lo ha detto un
portavoce di al Qaida, secondo quanto ha reso noto l'emittente al Jazira".
Qual è la posizione del governo afghano?
L'ambasciatore afghano in Pakistan, Abdul Salam Zaeef, aveva
inizialmente escluso qualsiasi responsabilità di Bin Laden mostrando tuttavia
disponibilità verso una sua eventuale estradizione: "Solo però - ha
affermato - in presenza di prove certe che dimostrino il suo coinvolgimento.
Prove che studieremo per poi prendere una decisione alla luce delle evidenze
disponibili". (Fonte: Corriere del Giorno 13/9/2001) Il 7 ottobre si legge
sul Televideo RAI: "Kabul: dateci prove e processiamo Osama. Le autorità
afghane sono disposte ad arrestare Osama Bin Laden e a processarlo in una corte
afghana se gli Usa faranno una formale richiesta. Lo afferma l'ambasciatore dei
Talebani in Pakistan. "Se qualcuno ci porta le prove non sarà un problema
arrestarlo", ha spiegato l'ambasciatore Abdul Salam Zaeef. Pronta la
risposta degli Usa: "Questo non è un negoziato", afferma alla Cnn una
fonte di Washington". Poche ore dopo c'è stato l'attacco militare Usa.
Si può legittimamente parlare di una "guerra al
terrorismo"?
Queste sono le principali definizioni di guerra:
- "Lotta armata tra due popoli o fra due o più Stati
divisi in campi opposti" (Enciclopedia De Agostini)
- "Contesa armata tra due o più Stati".(Dizionario
Pittano)
- "La lotta armata tra due o più Stati o tra fazioni di
uno stesso Stato" (Dizionario Garzanti)
- "Lotta tra due stati o all'interno di uno stato,
condotta con le armi, con o senza l'osservanza del diritto internazionale in
materia" (Dizionario DISC)
Bush
sostiene che l'orrenda serie di attentati negli Usa siano un "atto di
guerra". Tuttavia la parola "guerra" si applica ad una contesa
armata fra stati o all'interno di uno stato fra fazioni armate opposte (guerra
civile). Fra "azione terroristica" e "azione di guerra" vi
è una distinzione a meno che l'atto di terrorismo non sia messo in atto o
sostenuto da uno Stato contro un altro Stato. Secondo gli Stati Uniti la guerra
all'Afghanistan è legittima a causa della copertura offerta a Bin Laden.
Tuttavia non sono state esperite le procedure che il diritto internazionale
prevede: l'esibizione delle prove per ottenere l'estradizione del responsabile
dell'atto di terrorismo. E paradossalmente le prove - anziché provenire dagli
Stati Uniti prima dell'attacco - sono venute, in forma di ammissione
proclamata, dall'organizzazione di Bin Laden dopo l'attacco, quando ormai era
guerra e ogni aspetto procedurale era saltato. E' stata una prova di forza da
una parte e un gioco di logoramento dall'altro. Ed il risultato è stata una
guerra che pagheranno i civili.
Qual è
il giudizio dato dal movimento pacifista italiano?
La Tavola
della Pace, il coordinamento di associazioni pacifiste che ha organizzato la
Marcia Perugia Assisi, ha dichiarato l'8 ottobre 2001: “Gli attentati contro
gli Stati Uniti sono un crimine contro l’umanità e i responsabili devono essere
fermati e assicurati alla giustizia. La decisione americana di effettuare un
attacco armato contro lo Stato dell’Afghanistan, a seguito degli attentati subiti
lo scorso 11 settembre, è sbagliata, illegale e pericolosa. Sbagliata perché
provocherà nuove vittime innocenti, nuove distruzioni, nuove violenze e anziché
sradicare il terrorismo lo alimenterà insieme all’odio e al fanatismo contro
gli americani e l’Occidente. Illegale perché è espressamente vietata dal
diritto internazionale e dalla Carta delle Nazioni Unite. Pericolosa perché
espone i cittadini americani e tutti i loro alleati ad una catena di attentati
terroristici. Anziché fermare la spirale del terrore questa guerra finirà per
alimentarla".
Questa
guerra era inevitabile?
Afferma la
Tavola della Pace: "Questa guerra non era inevitabile. Fin dal giorno
degli attentati la Tavola della Pace ha indicato un’altra strada più decisa,
precisa ed efficace: la strada della legalità e della giustizia penale
internazionale. Rinunciare a farsi giustizia da soli. Affidare all’Onu la
responsabilità di agire a nome dell’intera umanità per sradicare i terrorismi
con misure politiche, diplomatiche, finanziarie e di polizia internazionale.
Ratificare e insediare subito la Corte Penale Internazionale. Intervenire alle
radici dei problemi. Mettere fine alla politica dei “due pesi e due misure”.
Mettere fine al conflitto israelo-palestinese e togliere l’embargo all’Iraq.
Promuovere il disarmo e ridurre l’ingiustizia economica che alimenta la
disperazione e il disordine internazionale. Fin dal 12 settembre l’Onu ha
intrapreso la strada giusta approvando, con uno straordinario consenso, misure
nuove e concrete. Perché non si è voluto continuare a percorrere la strada
tracciata dall’Onu?"
Si poteva agire diversamente?
Scrive
Noam Chomsky: "C'è la Corte Internazionale di Giustizia, e se gli USA lo
volessero, potrebbero istituire un tribunale speciale com'è stato fatto per la
Jugoslavia. Anche il Consiglio di Sicurezza dell'ONU può avviare azioni di
forza se gli vengono presentate ragioni forti. Dovremmo ricordare che ci sono
veri e propri precedenti legali. Il più ovvio, perché sostenuto da una delibera
della Corte Internazionale di Giustizia e dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU,
sono le stesse autorità internazionali. Vent'anni fa, gli Stati Uniti fecero
una guerra contro il Nicaragua, e fu una guerra terribile. Morirono decine di
migliaia di persone, e il paese fu praticamente distrutto. Il Nicaragua non
rispose lanciando bombe su Washington, ma si rivolse alla Corte Internazionale
di Giustizia con un'accusa, e la Corte emise una sentenza in suo favore,
ordinando agli Stati Uniti di porre fine al loro "uso illegale della forza"
(cioè terrorismo internazionale) e di pagare una sostanziosa riparazione. È
vero che gli Stati Uniti risposero con parole di disprezzo per la Corte e
avviarono immediatamente un'escalation dell'attacco. A quel punto, il Nicaragua
si rivolse al Consiglio di Sicurezza dell'ONU che votò una risoluzione che
richiamava tutti gli Stati al rispetto del diritto internazionale. Non veniva
nominato nessuno in particolare, ma tutti sapevano che si trattava degli Stati
Uniti. È vero che gli Stati Uniti opposero il loro veto. Il Nicaragua si
rivolse allora all'Assemblea Generale che per due anni di fila approvò una
risoluzione simile con le sole opposizioni di USA ed Israele. E, una volta, di
El Salvador. Ma gli Stati Uniti sono indubbiamente un paese molto potente. Se
si oppongono ai mezzi della legge, non possono essere perseguiti. E quindi il
Nicaragua non poté fare niente. D'altra parte, se gli Stati Uniti utilizzassero
quei mezzi, nessuno potrebbe fermarli. Anzi, tutti li sosterrebbero".
I mezzi militari sono i più efficaci nel combattere il
terrorismo?
Il polmone
finanziario del terrorismo sono i "paradisi fiscali". In appendice
riportiamo una dettagliata analisi dell'ex magistrato Antonio Di Pietro su come
lui combatterebbe Bin Laden colpendo i "paradisi fiscali" dove
transitano i soldi sporchi che legano il terrorismo ai traffici illeciti.
Perché l'Onu non è il centro di gestione di questa crisi
internazionale?
"Chi sostiene che l'articolo 5 della Nato va
interpretato e che comunque qualsiasi decisione va rimessa all'Onu, punta in
realtà a mettere i bastoni tra le ruote agli americani. Lo sanno tutti infatti
che all'interno dell'Onu gli Usa non hanno la maggioranza...", sostiene
Gianfranco Pasquino, politologo ed ex parlamentare DS (Corriere della Sera
15/9/2001)
Gli Stati
Uniti sono tuttavia riusciti ad avere l'appoggio della Russia e la cauta
approvazione della Cina per cui il segretario generale dell'Onu Kofi Annan ha
definito l'attacco militare sull'Afghanistan come azione di "legittima
difesa"; gli Stati Uniti hanno comunicato al Consiglio di Sicurezza
dell'Onu che la loro azione militare potrebbe colpire altre nazioni e il
governo israeliano si è detto pronto a collaborare per un attacco contro l'Irak
(fonte: RAI Televideo 9/10/01). Poche ore dopo l'approvazione - da parte di
Kofi Annan dei raid aerei contro l'Afghanistan, gli Stati Uniti hanno colpito a
Kabul (9/10/01) la sede di un'agenzia Onu per lo sminamento, facendo 4 morti e
2 feriti fra il personale Onu. Gli Stati Uniti hanno rivendicato l'operazione
specificando che non si è trattato di un errore ma di un atto deliberato verso
una sede che "non svolgeva solo compiti umanitari" (RAI Televideo
10/10/01).
Secondo
i leader dell'Ulivo Rutelli, D'Alema, Fassino, Amato e Dini, l'Onu ha
autorizzato i bombardamenti Usa in Afghanistan: è vero?
Secondo questi leader dell'Ulivo "solo dopo che l'Onu ha legittimato con sue risoluzioni l'uso della forza contro esecutori, mandanti e complici delle stragi americane, è partita l'offensiva militare". E hanno aggiunto:
"Si
poteva agire diversamente? Crediamo di no".
Prima di esaminare le risoluzioni dell'Onu in merito, occorre subito rilevare la grande preoccupazione dell'Onu per questo conflitto che può causare la morte di milioni di profughi; l'Ansa registra il 14/10/01 quanto segue: "LONDRA - Milioni di afghani rischiano di morire di fame se non ci sarà una sosta nei bombardamenti per consentire una capillare distribuzione di aiuti alimentari, soprattutto nel centro del paese: lo ha detto oggi l'alto commissario per i diritti umani dell'Onu, Mary Robinson. L'alto commissario ha inoltre ricordato la marea di profughi che premono su Pakistan e Iran. 'Ma quei confini - ha aggiunto - sono chiusi. E' una situazione simile a quella del Ruanda'". ANSA 14/10/2001 13:58
Quindi
questo comunicato di per sé è la smentita di un "via libera" dell'Onu
ai bombardamenti, per lo meno nella forma attuale. Per quanto riguarda la
posizione ufficiale dell'Onu sui bombardamenti la formula si presta a diverse
interpretazioni, anche a seconda delle traduzioni e delle sintesi che se ne
sono fatte. A riguardo della posizione dell'Onu sulla guerra in Afghanistan, il
testo della dichiarazione di Kofi Annan è disponibile a questo link: http://www.un.org/News/dh/20011008.htm#40
Vi si legge: "Immediately after the 11 September attacks on the United States, the Security Council expressed its determination to combat, by all means, threats to international peace and security caused by terrorist acts. The Council also reaffirmed the inherent right of individual or collective self-defence in accordance with the Charter of the United Nations. The States concerned have set their current military action in Afghanistan in that context". Effettivamente vi è una frase è un po' sibillina ma si limita
a far notare come gli stati che hanno iniziato la guerra in Afghanistan, lo hanno fatto richiamandosi al diritto all'autodifesa, stabilito anche dalle Nazioni Unite e riaffermato nella recente risoluzione.Risoluzione che però non chiamava gli stati all'uso della forza, ma all'assicurare alla giustizia gli autori degli atti terroristici.
I mezzi da utilizzare per raggiungere questo scopo sono raccomandati nella frase successiva: "To defeat terrorism, we need a sustained effort and a broad strategy to unite all nations, and address all aspects of the scourge we face.The cause must be pursued by all the States of the world, working together and using many different means - including political, legal, diplomatic and financial means".
L'Onu si è
occupato della lotta al terrorismo con pronunciamenti di carattere generale che
possono essere (furbescamente) interpretati
come un'autorizzazione "di ogni mezzo necessario".
Occorre
fare questa importante annotazione: un conto è quanto viene detto nelle frasi
che precedono la risoluzione, che hanno compito introduttorio alla risoluzione
vera e propria ("Reaffirming the need to combat by all means, in
accordance with the Charter of the United Nations, threats to international
peace and security caused by terrorist acts") in cui si dice "con
ogni mezzo necessario"; ma si deve notare l'inciso, che richiama sempre
alla Carta della Nazioni Unite; altra cosa è il testo vero e proprio della
risoluzione; se infatti vediamo il testo della risoluzione, troviamo questa
forma comune, con la quale si chiudono
molte delle risoluzioni dell'Onu: "Expresses its readiness to take all
necessary steps [...] in accordance
with its responsibilities under the Charter of the United Nations". Qui si
parla di "tutti i passi necessari", non di "tutti i mezzi
necessari", e ancora questi passi devono svolgersi nell'ambito delle
responsabilità del Consiglio di Sicurezza come stabilito dalla Carta delle
Nazioni Unite, che a questo punto dobbiamo andarci a rileggere: http://www.un.org/aboutun/charter/
in
particolare il capitolo 7 (quello del famoso articolo 51)
http://www.un.org/aboutun/charter/chapter7.htm
dove
l'autorizzazione all'uso della forza passa attraverso una serie di passi,
appunto, ben più complessi di una semplice frasetta introduttiva di una
risoluzione.
Concludendo:
è vero che le parole dell'Onu sono (forse volutamente) un po' sibilline, ma una
corretta interpretazione non consente di concludere quanto sostengono i leaders
dell'Ulivo, a meno che non si compia una interpretazione forzata, magari con
l'ausilio di un esperto consulente (gli Stati Uniti hanno dato mandato a 6 mila
legali di seguire tali questioni in occasione della guerra) che - dotato di
competenze di diritto internazionale e di una buona conoscenza dell'inglese -
arrivi a trovare qua e là parole da usare per giustificare la guerra.
PeaceLink ha affidato alla traduttrice Sabrina Fusari il compito di scandagliare il sito delle Nazioni Unite per meglio verificare se è vero ciò che dicono i vertici dell'Ulivo, ed ecco la sua risposta:
"Dispongo della Risoluzione del Consiglio di
Sicurezza così come l'ho scaricata dal sito www.un.org.
Riassunto: il titolo 1 parla del congelamento dei beni finanziari dei
terroristi. Il titolo 2 vieta il sostegno, sia finanziario, sia a livello di
protezione, da parte di Stati a terroristi (il comma b e il comma g mi sembra
possano anche essere intesi come autorizzazione a varare leggi anti-terrorismo.
In particolare, se non vado errato, il comma g è incompatibile con il trattato
di Schengen, per cui, questa Risoluzione ONU potrebbe rappresentare una base
per sospendere il Trattato). Il titolo 3 sancisce la cooperazione tra Stati per
"prevenire e sventare" (prevent and suppress, comma c) attacchi
terroristici. Gli altri titoli contengono gli auspici dell'ONU, nessuno dei
quali mi sembra si riferisca ad un attacco armato. Io di articoli o commi che
sanciscano la legittimità della guerra non ne vedo. Anzi, vedo il comma (e),
titolo 2, che recita:
(Decide altresì che tutti gli Stati dovranno)
"Garantire che chiunque partecipi a finanziare,
pianificare, preparare e commettere atti terroristici, o ancora a sostenere
gruppi terroristici, sia assicurato alla giustizia, e garantire altresì che,
tra le altre misure intraprese contro di essi, tali atti terroristici siano
definiti quali gravi crimini dalle leggi e normative nazionali, e che le pene
riflettano debitamente la gravità di tali atti terroristici".
Mi sembra che l'enfasi sia sulla prevenzione attraverso
una maggiore attenzione all'immigrazione, alle transazioni finanziarie e in
particolare, negli ultimi titoli, si richiama gli Stati a fare attenzione al
fatto che la criminalità organizzata (droga ecc.) ha connessioni con i
terroristi, e quindi non bisogna abbassare la guardia su questo versante.
Insomma, mi sembra proprio riferirsi ad azioni a carico delle Polizie nazionali
che dovrebbero poi coordinarsi tra loro a livello internazionale".
Se diventasse "legale"
per gli Stati Uniti bombardare l'Afghanistan, un'altra nazione potrebbe fare lo
stesso verso uno stato confinante nemico sospettato di terrorismo?
Le interpretazioni non corrette
della risoluzione dell'Onu vista sopra potrebbero aprire la porta a tanti raid
e vendette fra nazioni confinanti in nome della lotta al terrorismo; un
bombardamento lo potrebbe fare ad esempio subito la Macedonia contro le basi
terroristiche dell'UCK in Kossovo.
E'
legittimo per la Nato intervenire a sostegno di un'azione militare contro
l'Afganistan?
La Nato
deve rispettare l'articolo 1 che sancisce per le "parti" (ossia le
nazioni aderenti alla Nato) quanto segue: "Le Parti si impegnano, in
ottemperanza alla Carta delle Nazioni Unite, a comporre con mezzi pacifici
qualsiasi controversia internazionale nella quale possano essere implicate, in
modo da non mettere in pericolo la pace, la sicurezza e la giustizia
internazionali, e ad astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere
alla minaccia o all'impiego della forza in modo incompatibile con gli scopi
delle Nazioni Unite". Quindi il ricorso all'articolo 5 della Nato
(l'autotutela collettiva) è vincolato alla dimostrazione che il governo
dell'Afghanistan è direttamente implicato negli attentati dell'11 settembre
negli Usa. Altrimenti tutto rientra nella definizione di
"controversia" da "comporre con mezzi pacifici".
Giovanni Paolo II il giorno dopo (12/9/2001) ha detto:
"Non posso iniziare questa Udienza senza esprimere profondo dolore per gli
attacchi terroristici che nella giornata di ieri hanno insanguinato l'America,
causando migliaia di vittime e numerosissimi feriti (...) Con partecipe
affetto, mi rivolgo all'amato popolo degli Stati Uniti in quest'ora di angoscia
e di sgomento, in cui viene messo a dura prova il coraggio di tanti uomini e
donne di buona volontà. (...) Imploriamo il Signore perché non prevalga la
spirale dell'odio e della violenza. La Vergine Santissima, Madre di
misericordia, susciti nei cuori di tutti pensieri di saggezza e propositi di
pace".(Fonte: sito Internet del Vaticano www.vatican.va)
In seguito
il Papa ha invocato l'America a non cedere alla guerra invitandola "a non
cedere alla tentazione dell'odio e della violenza, ma ad impegnarsi al servizio
della giustizia e della pace". (RAI Televideo 16/9/2001)
Sulla
guerra la posizione vaticana è stata meglio specificata il 27 settembre:
"Nessun via libera ai bombardamenti. Lo ha detto oggi il portavoce
Navarro, incontrando i giornalisti. "Si è fatta una semplificazione
ingiustificata, nessuno ha mai detto "fate come vi pare" perché
esiste una precisa etica cristiana sulla legittima difesa, che tiene conto
della proporzionalità e impone che non venga versato il sangue di vittime
innocenti". (RAI Televideo 27/9/01)
Il 3 ottobre il Papa, all'udienza generale in Piazza S. Pietro, ha detto:
"La religione non deve mai essere utilizzata come motivo di conflitto.
Cristiani e musulmani, insieme con i credenti di ogni religione, sono chiamati
a ripudiare la violenza per costruire un'umanità amante della vita, che si
sviluppi nella giustizia e nella solidarietà" (RAI Televideo 4/10/01)
Dentro il mondo cattolico vi sono differenti posizioni in
merito?
Esiste un
dibattito in cui Gianni Baget Bozzo accusa "la volontà islamica di voler
sostituire con violenza il cristianesimo: la guerra di religione è entrata
nella Storia"; il cardinale Biffi
ha pregato "perché la cristianità trovi la strada giusta per la
propria sopravvivenza" (Corriere della Sera 15/9/2001); Giulio Andreotti
sostiene: "Quello attuale è un momento che rischia di diventare
"muscolare". A maggior ragione occorre che si faccia appello alle
virtuose risorse della moderazione e del diritto come fondamento anche della
vita internazionale. A differenza della prepotente massima degli antichi
romani, io credo che chi vuole la pace debba lavorare per la pace"
(editoriale intitolato "La miglior vendetta? Lavorare per la pace", Corriere del Giorno 13/9/2001).
Il cardinale Marini, nel suo intervento al summit
islamo-cristiano promosso a Roma dalla Comunità di Sant'Egidio, ha detto:
"Sarà importante, nella comprensibile ansia di legittima difesa, agire
nella ragionevolezza, senza facili semplificazioni, senza affrettate creazioni
di capri espiatori che possono soddisfare la volontà di rivalsa" (RAI
Televideo 4/10/01).
Qual è la posizione del leader palestinese Arafat di fronte agli atti di
terrorismo dell'11 settembre negli Usa?
"Arafat ha espresso le proprie condoglianze, anche
donando sangue a favore delle vittime". (Fonte: Corriere della Sera
16/9/2001) Dopo l'inizio dell'attacco militare all'Afghanistan ha vietato le
manifestazioni a favore dei Bin Laden reprimendole con la forza (vi sono state
anche alcune vittime fra i manifestanti).
Il mondo dell'Islam ha condannato il terrorismo?
In appendice pubblichiamo il documento congiunto di Sarajevo
concordato fra cristiani e musulmani. Yusuf Al-Qaradawi, direttore del Centro
Ricerche di Sunna (Quatar) intervenendo al Summit della Comunità di
Sant'Egidio, ha dichiarato: "A nome di tutti gli Ulema dell'Islam
rifiutiamo il terrorismo. Allo stesso modo rifiutiamo di lottare contro il
terrorismo con altro terrorismo, che condanna un intero popolo per crimini
individuali".
L'Islam
ammette la poligamia, vietata dalla legge italiana; in questo come in altri
casi l'Islam in territorio italiano può costituire un pericolo?
L'articolo
8 della Costituzione Italiana sancisce: "Tutte le confessioni religiose
sono egualmente libere davanti alla legge". Più avanti l'articolo 19
garantisce: "Tutti hanno diritto di professare la propria fede religiosa
in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di
esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti
contrari al buon costume". L'articolo 8 fissa anche un obbligo: le confessioni
religiose non devono contrastare con l'ordinamento giuridico italiano. Ma
questo non vale solo per i musulmani che entrano in Italia, vale anche ad
esempio per i cristiani statunitensi che non potranno rivendicare come diritto,
sul suolo italiano, l'applicazione della pena di morte o la liberalizzazione
delle armi da fuoco come avviene negli Usa.
Cosa detto Amnesty International dopo i fatti dell'11
settembre?
Amnesty International appellandosi ai capi di tutti i governi, il 14/9/2001 ha ricordato che "la solidarietà internazionale alle vittime non può essere dimostrata cercando vendette ma cooperando all'interno delle regole imposte dalle leggi, per arrestare i responsabili. Criminalizzare intere comunità non porta a nulla". (Fonte: www.amnesty.org)
A poche ore dall'attacco sull'Afghanistan, Amnesty International ha rinnovato il suo appello finalizzato a risparmiare i civili ed evitare attacchi indiscriminati chiedendo al governo Usa ed agli Stati alleati di garantire il pieno rispetto degli standard internazionali in materia di diritto umanitario. (Fonte: www.vita.it)
Gli
Stati Uniti hanno detto che potranno colpire altre nazioni: colpiranno quelle
dei collaboratori di Bin Laden?
Se
dovessero colpire Suleiman Abu Gheith dovrebbero colpire il Kuwait perché è
kuwaitiano, se dovessero colpire Ayman Zawahiri e Abdulaziz Abu Sitta (alias
Mohammed Atef) dovrebbero colpire l'Egitto perché sono egiziani. Quindi i
criteri per colpire altre nazioni non saranno legati alla nazionalità dei più
stretti collaboratori di Bin Laden (i dati sono tratti dal Corriere della Sera
9/10/01 e si basano sul video trasmesso da Al Jazira).
Dove è
possibile leggere in italiano la Carta dell'Onu?
La Carta
dell'Onu è disponibile su Internet all'indirizzo:
http://www.studiperlapace.it/documentazione/onucarta.html
Per
quale ragione Russia e Cina stanno appoggiando l'attacco all'Afghanistan?
La Cina
vede nel fondamentalismo islamico il maggior rischio di disintegrazione della
propria autorità nazionale. La Russia vede inoltre finalmente colpita una
nazione che dà sostegno ai guerriglieri ceceni i quali contendono il territorio
della Cecenia alle truppe russe; a questo proposito va osservato che gli Stati
Uniti avevano criticato la condotta della Russia in Cecenia per violazione dei
diritti umani; in tal modo, pur sostenendo nobili principi, gli Usa traevano
vantaggio geopolitico dall'instabilità in Cecenia essendo tale regione uno
snodo fondamentale per gli oleodotti (la Russia pagava in Cecenia il prezzo del
non completo controllo sulle proprie vie di fornitura energetica). La Russia
così otterrà che fra gli "stati canaglia" della lista nera americana
venga inserito anche l'Afghanistan e ci sarà probabilmente un accordo
bilaterale per il controllo delle forniture energetiche anziché una guerra di
logoramento e di ostruzionismo. La Russia spera inoltre che vengano chiuse le
polemiche sulle violazioni dei diritti umani da parte delle truppe russe in
Cecenia offrendo un apprezzamento per le "cautele umanitarie"
dell'operazione Usa in Afghanistan: "Non ho alcun dubbio - ha affermato il
presidente russo Vladimir Putin - che gli Stati Uniti faranno il massimo sforzo
per evitare vittime innocenti" (Corriere della Sera 9/10/01).
Ma
l'Afghanistan non era per gli Usa uno "stato canaglia"?
No, fino
all'11 settembre tale stato non figurava nella "black list" degli
stati considerati come fomentatori del terrorismo (fonte: Limes 4/2001). Era in
una lista secondaria (quella degli stati su cui vi erano sospetti) di minore
importanza. Tanto per dare un'idea: Cuba era nella "lista nera" e
l'Afghanistan no, forse perché l'Afghanistan dava manforte ai guerriglieri
ceceni rendendo (fino ad ora) difficile alla Russia in controllo sul proprio
oleodotto. Inoltre i guerriglieri afghani (mediatori in traffici di armi e
droga) avevano dato manforte ai guerriglieri kossovari dell'Uck, schierati
dalla parte della Nato nella guerra del 1999 contro la Jugoslavia (fonte: Limes
4/2001).
Chi ha
addestrato i guerriglieri di Bin Laden?
I primi
campi di addestramento dei guerriglieri di Bin Laden sono stati due campi
scozzesi, rispettivamente nei pressi di Criffel, nel Dumfries e nella remota
penisola di Applecross nella Scozia occidentale. La fonte di queste
informazioni è "Il Giornale" del 17/9/01 nel quale la corrispondente
Erica Orsini da Londra annota: "Soldati impeccabili, con un debole per i
western di John Wayne. Così erano i mujaheddin, l'"esercito" segreto
di Osama Bin Laden, che fu addestrato ad uccidere nei campi militari
britannici, tra le colline ricoperte d'erica della selvaggia Scozia. A
rivelarlo ieri, in un'intervista pubblicata sul quotidiano 'Sunday Mail' è
stato proprio uno degli "insegnanti" dei guerriglieri afghani che
negli anni Ottanta combatterono i russi supportati dagli americani e dagli
inglesi. Ken Connor, eroe dei corpi speciali inglesi fu incaricato di
organizzare i vari campi di addestramento e per farlo senza il coinvolgimento
dell'esercito nazionale dovette perfino rassegnare le dimissioni da
quest'ultimo". Ma vediamo cos'altro ha rivelato Ken Connor al Sunday Mail:
"Gran parte dell'infinita ricchezza dei Bin Laden - afferma - è stata
costituita da finanziamenti della Cia stanziati per la costituzione di un
governo "amico" afghano che combattesse la guerra per conto degli
Stati Uniti". I guerriglieri di Bin Laden vennero addestrati molto bene.
"Alcuni di loro furono addestrati anche alla guida di elicotteri e
all'attacco dei campi d'aviazione". "Oggi il presidente Bush -
osserva Ken Connor - forse si starà chiedendo quanto è costato veramente
all'America l'addestramento dei futuri soldati di Bin Laden".
Qual è la storia recente dell'Afghanistan?
Dopo
la fine del decennale conflitto (definito spesso "il Vietnam della
Russia") tra le truppe d'occupazione sovietiche e i guerriglieri islamici
Mujaidin (finanziati e armati da Usa, Pakistan e Arabia Saudita), terminato nel
1989 con il ritiro dell'Armata Rossa, rimase in carica il governo filo sovietico
(seppur moderato) di Najibullah, contro cui i Mujaidin continuarono a
combattere, sempre con il sostegno della Cia e del Pakistan. Nel 1992 i
guerriglieri islamici conquistarono Kabul, ma subito, sconfitto il nemico
comune, le fazioni tribali che lo componevano entrarono in lotta per il potere,
formalmente in mano al nuovo presidente Rabbani. Seguirono anni di lotte senza
quartiere, di anarchia totale. Finché nel 1996 la fazione più fondamentalista,
quella degli studenti sunniti Talebani, è riuscita a conquistare Kabul. Solo
Pakistan, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno riconosciuto il governo
teocratico e oscurantista dei Talebani . La resistenza moderata sciita si è
concentrata nella parte nord del Paese, dove varie fazioni si sono poi unite nell'Alleanza
Nordica, appoggiata dalla Russia che non vuole perdere totalmente il controllo
della regione.
La guerra prosegue durissima e a fasi alterne nelle provincie settentrionali
dell'Afghanistan.
Attualmente il 90% del Paese è in mano dei Talibani (che appoggiano i Ceceni
contro la Russia e addestrano i terroristi internazionali), anche se le
offensive dell'Alleanza Nordica guidata dal generale Masood sono spesso
arrivate a minacciare la stessa Kabul. Un ventennio di guerre ha causato la
morte, oltre che di 15mila soldati sovietici, di oltre 2 milioni di afghani e
un numero incalcolabile di rifugiati che vivono in condizioni drammatiche.
(Scheda
tratta dal sito www.warnews.it)
Cosa ne pensava Bush dei Taleban?
"Cosa
ne pensa dei Taleban?"
Intervistato da "Galmour" un anno fa, George W. Bush - allora
candidato alla Casa Bianca - fece scena muta. Poi si illuminò: "Sono per
caso un complesso rock?..." (Fonte: Il Giornale, 21/9/2001)
Qual è
la posizione della Libia, della Jugoslavia e di Cuba?
Gheddafi ha
approvato senza riserve i raid. Per il governo jugoslavo i bombardamenti
sull'Afghanistan rappresentano "una reazione giustificata e logica al
terrorismo", a differenza di quelli della Nato del 1999 per la crisi del
Kossovo (allora "nessuno aveva attaccato gli Usa" ha detto Zoran
Zivkovic, ministro dell'interno); questo appoggio ha anche una possibile
spiegazione, infatti gli Stati Uniti si sono appoggiati - nella guerra contro
la Jugoslavia - sui guerriglieri dell'Uck che avevano stretti rapporti con i
guerriglieri afghani; il governo jugoslavo tenterebbe così di mettere fuori
gioco l'Uck con le sue mire separatiste e destabilizzatrici per la Macedonia.
Fidel Castro ha invece condannato la guerra: "Questa è una guerra a favore
del terrorismo, una cura peggiore del male. Un intero Paese è stato trasformato
in terreno di sperimentazione per i più moderni armamenti. Questa è una guerra
della tecnologia più sofisticata contro quanti non sanno leggere né
scrivere". (Fonte: Corriere della Sera 9/10/01)
Il
terrorismo internazionale è nato contro la volontà delle superpotenze mondiali
o, al contrario, è stato da esse favorito?
"Un
ruolo non secondario è stato giocato dalla cosiddetta "guerra fredda"
tra il blocco delle nazioni occidentali attorno agli Stati Uniti, e il blocco
di nazioni orientali attorno all'Urss (1945-1989). Alcuni paesi, attraverso i
loro servizi segreti, hanno stabilito alleanze con gruppi criminali, e hanno
favorito il narcotraffico. I guadagni della droga servivano per creare fondi
clandestini da utilizzare in operazioni politiche e militari segrete, a
vantaggio dell'una o dell'altra superpotenza. I soldi della droga potevano
servire all'acquisto di armi alimentando guerriglie in America Latina, colpi di
stato in Africa, oppure a finanziare un partito in Europa". (Luigi Ciotti,
"Chi ha paura delle mele marce? Giovani, droghe, emarginazione",
EGA-SEI, p.42)
C'è il
rischio di una guerra atomica?
"Gli
Usa non escludono uso di armi nucleari. Il segretario alla Difesa americano,
Donald Rumsfeld, non ha escluso il ricorso alle armi nucleari nel conflitto
contro i terroristi. L'affermazione è stata fatta da Rumsfeld durante
un'intervista televisiva. Rispondendo ad una domanda, il ministro ha detto che
quest'opzione non è stata esclusa. (23/09/01 RAI Televideo)
In
Italia chi si sta occupando dei profughi afgani?
Fra le
associazioni italiane l'Aifo, l'Associazione Papa Giovanni XXIII (Operazione
Colomba) ed Emergency si stanno occupando dei profughi mediante contatti e
missioni dirette in Pakistan. Il dottor Gino Strada, responsabile di Emergency,
si è diretto verso l'Afghanistan per l'aiuto umanitario (è chirurgo di guerra e
ha soccorso chi è stato dilaniato dalle mine) e ha lanciato appelli alla pace.
Ma questa iniziativa è stata al centro di una polemica. Scrive Emergency in un
suo comunicato del 2 ottobre: "Il Presidente del Consiglio Silvio
Berlusconi in Senato ha parlato di “un medico integerrimo ma di confuse idee,
che non saprebbe scegliere tra gli Stati Uniti e l'Afghanistan. Noi ha aggiunto
tra la grande democrazia americana ed una teocrazia violenta che costringe le
donne al silenzio e alla segregazione, noi abbiamo già scelto e
definitivamente”. Secondo agenzie di stampa il Presidente del Consiglio si
riferirebbe a Gino Strada che ha dichiarato “io non mi sento più americano di
quanto non mi senta afgano”. Emergency, di cui Gino Strada fa parte, sta con
gli indifesi, con le vittime civili delle guerre; non ha mai preso posizione in
favore o contro qualche Governo o Paese. Una vita persa americana ha lo stesso
valore assoluto della vita di un cambogiano, di un iracheno, di un
italiano". Sul sito www.vita.it vi è un
elenco delle organizzazioni umanitarie impegnate per il soccorso ai profughi.
Sul sito di Unimondo c'è la pagina di documentazione http://www.unimondo.org/crisiUSA/profughi.gif
Non tutti sono d'accordo sui benefici dello scudo spaziale.
"Missili nucleari lanciati sugli Stati Uniti e intercettati dallo scudo
antimissile progettato dal Pentagono potrebbero cadere sull'Europa o in
qualche altra parte del mondo. Lo affermano alcuni
ricercatori del prestigioso Massachusetts Institute of Tecnology (Mit) di
Boston. Il programma di scudo spaziale, per il quale sono già iniziati i primi
esperimenti, ha come obiettivo la deviazione dei missili dalla loro traiettoria
ma non quello di distruggere le testate nucleari, che nel caso l'intercettazione
abbia successo potrebbero cadere in qualsiasi parte della superficie terrestre,
secondo i fisici del Mit. L'opzione del Pentagono è quella di prendere di mira
il missile nemico durante la fase di propulsione, nel corso della quale è più
facilmente avvistabile: comportandosi come un piccolo razzo, esso emette
calore, il che consente di
localizzarlo. In seguito, in orbita bassa, il missile è più
freddo e molto più difficile da intercettare.
"Anzitutto l'intercettazione in fase di propulsione deve funzionare,
il che è da dimostrare", spiega George Lewis, fisico del Mit specializzato
nei sistemi di difesa antimissile. "Ma se questo funziona, la domanda
successiva è: dove andrà a cadere la testata nucleare?". Secondo l'equipe
di tre scienziati del Mit che da anni lavorano sulla questione, con la
tecnologia disponibile attualmente o negli anni a venire non esiste alcuna
possibilità di intercettare un missile controllandone allo stesso tempo il
punto di caduta. Che si tratti di missili intercettori o di laser giganti su
aerei o navi, non c'è alcuna possibilità che la testata nucleare sia distrutta,
assicurano i fisici di Boston".
(Fonte: Il Giornale 8/9/2001, titolo dell'articolo:
"Scudo, i missili intercettati possono cadere
sull'Europa")
E' vero che prima dell'attentato dell'11 settembre vi sono
state operazioni di borsa "sospette"?
Sì. alcune
operazioni di borsa sembravano orientate "come se" qualcuno sapesse
degli attentati. Ma chi pensasse di trovarci operatori di borsa alle dipendenze
di Bin Laden rimarrebbe deluso. Nel notiziario delle ore 16 del 3 ottobre 2001
di Radio Capital veniva riferita di una "svista" di alcuni funzionari
grazie alla quale è trapelata un'informazione delicatissima: General Motors e
Boeing sono nella lista dei "sospetti". Riportiamo integralmente
quanto pubblicato sul sito web di Radio Capital
(http://www.capital.kataweb.it/news/capital_127930.html): "3/10/01 New
York, 16:31.
Attacco agli Usa: GM e Boeing in lista di titoli sospetti.
Sono 28 i titoli su cui le autorità del governo americano stanno indagando per
scoprire eventuali manovre speculative operate nei giorni precedenti l'11
settembre da persone a conoscenza dei piani terroristici. Tra questi ci sono
anche la General Motors e la Boeing. La lista stilata dalla Securities and
exchange commission (Sec), l'equivalente americano della nostra Consob, è
divenuta di pubblico dominio dopo essere apparsa per qualche ora sul sito web
di un'unione commerciale canadese che non aveva colto l'invito alla massima
riservatezza lanciato nei giorni scorsi dalla Sec. Tra le 28 aziende compaiono
le compagnie aeree e assicurative che più hanno sofferto alla riapertura dei
mercati azionari dopo la più lunga sospensione dal dopoguerra. In certi casi i
ribassi sono stati di oltre il 50% del valore, ed evidentemente chi avesse
speculato essendo a conoscenza dei piani avrebbe potuto trarne un vantaggio
incalcolabile. Ma alcune anomalie nei volumi di transazione, specialmente nelle
operazioni di 'short', sarebbero state notate anche sui titoli di colossi
industriali come appunto General Motors, Boeing, Lockheed Martin and Raytheon.
Secondo quanto riferisce il Wall Street Journal, gli inquirenti non sarebbero
riusciti per il momento a trovare alcuna prova certa di speculazioni
"coscienti", cioè legate a una previa conoscenza di quello che
sarebbe successo. E per qualcuno sarà del tutto impossibile stabilire qualsiasi
legame tra i terroristi e chi ha guadagnato giocando al ribasso. (Dem)
Sì, in
quanto la prima guerra mondiale nacque da un atto di terrorismo che venne
attribuito dall'Austria alla Serbia. Vediamo come si svolsero i fatti. "Il
28 giugno 1914 nella città di Sarajevo, capitale della Bosnia (la regione che
l'Austria-Ungheria aveva annesso nel 1908), uno studente nazionalista impugnò
la pistola e sparò contro l'erede al trono austro-ungarico, l'arciduca
francesco Ferdinando, che restò ucciso insieme con la moglie (...) Il governo
austro-ungarico attribuì immediatamente la responsabilità dell'attentato alla
Serbia e cercò di sfruttare il tragico avvenimento per infliggerle un colpo
definitivo. La Serbia era la maggiore indiziata perché aveva sempre condannato
l'annessione della Bosnia da parte dell'Impero austro-ungarico e manifestava
nei confronti di questo un'ostilità irriducibile. Oggi noi sappiamo che il
governo serbo non aveva responsabilità dirette nell'attentato: era al corrente
che un gruppo di terroristi stava preparandolo, ma non riuscì ad impedirlo. Il
governo austro-ungarico ritenne tuttavia che gli indizi fossero sufficianti e
lanciò un ultimatum: entro due giorni la Serbia avrebbe dovuto sciogliere tutte
le formazioni antiaustriache e consentire a funzionari austriaci di compiere
ispezioni sul suo territorio per accertare le responsabilità dell'attentato. La
Serbia accettò il primo punto , ma rifiutò le ispezioni, ordinando
contemporaneamente la mobilitazione generale (cioè la chiamata alle armi della
popolazione). Era la guerra: quando il 28 luglio la capitale della Serbia,
Belgrado, fu bombardata dai cannoni austriaci, si scatenò una reazione a catena
che trascinò nel conflitto, una dopo l'altra, tutte le grandi potenze
europee". (Fonte: Calvani Vittoria e Giardina Andrea, "La storia dall'Illuminismo ai giorni
nostri", Arnoldo Mondadori)
Esiste
un sito di informazione chiara e divulgativa sull'Islam?
Si può
consultare il sito http://www.islam-ucoii.it/faq.htm
a cura dell'Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia.
"L'85%
degli americani è favorevole ad azioni militari e di essi il 75% ritiene che le
ritorsioni vadano intraprese anche se implicano vittime innocenti. E' quanto
emerso da un sondaggio d'opinione compiuto negli Usa da cui risulta che gran
parte degli americani appoggia in pieno la politica di Bush e tra i sacrifici
mette anche la rinuncia alla privacy e alla segretezza delle conversazioni
telefoniche." (RAI Televideo 16/9/2001)
Un
sondaggio pubblicato il 27/9/01 da Il Messaggero riporta che il 45% degli
italiani è contro la guerra e il restante è a favore di un'azione militare.
In
questo momento di venti di guerra esiste una "chiamata alla pace"?
Sì,
cliccando su http://db.peacelink.it/volontari
ci si può "arruolare" nel movimento per la pace; inserendo i propri
dati si crea un database di attivisti decisi ad usare la nonviolenza per
evitare che al sangue innocente versato se ne aggiunga altro di persone innocenti,
colpevoli solo di essere nel posto sbagliano in un momento sbagliato e dalla
parte sbagliata.
----- APPENDICE DI APPROFONDIMENTO
-----
Sommario:
-
Emergenza
profughi (Vita)
-
Discorso
di Bush alla nazione (7/10/01)
-
"Ecco
come darei la caccia a Bin Laden" (A. Di Pietro)
-
"La
vendetta? Non in nome di nostro figlio" (lettera al "New York
Times")
-
Appello
urgente dalle donne afgane
-
Appello
delle Donne per i Diritti Umani in Afghanistan
-
Il
rischio dell'intolleranza religiosa (dal quotidiano "Il Giornale")
-
Lo
staff del Presidente (come simulare a scuola la crisi internazionale)
-
Sarà
una guerra di parole (E. Luttwak)
-
Il
testo del Trattato NATO
-
Il
movimento per la pace negli Stati Uniti (dal "Boston Globe")
-
Palestinesi
felici per gli attentati agli americani? (N. Parry)
-
Conferenza
internazionale su cristiani e musulmani in Europa
-
Intervista
a Chomsky
-
La
CIA e l'estremismo islamico (recensione)
-
Manuale
per la propaganda di guerra (Carlo Gubitosa)
-
Il
terrorismo silenzioso
-
Lettera
ai pacifisti (dai leader dell'Ulivo, 11/10/01)
-
Pensieri
sulla guerra (cosa hanno detto nel mondo)
-
Storia
dei pensieri sulla guerra (cosa hanno detto in passato)
EMERGENZA
PRUFUGHI
Fonte: Vita
http://web.vita.it/articolo/index.php3?NEWSID=9655
È
un'emergenza umanitaria nell'emergenza umanitaria quella che Onu e società
civile affrontano in Afghanistan. Il milione e mezzo di persone in fuga dal
paese per paura di un attacco americano si somma ai 2 milioni e mezzo di
afghani che già vivono nei campi profughi in Pakistan e al milione e mezzo
scappato in Iran. I 320mila civili che rischiano di morire di fame nelle
prossime settimane si aggiungono ai 5 milioni di cittadini che già prima degli
attentati sopravvivevano solo grazie agli aiuti del Programma alimentare
mondiale.
La nuova guerra degli Stati Uniti contro il terrorismo si aggiunge a 22 anni di
guerra civile e contro gli invasori. Il blocco dei voli umanitari e
l'evacuazione delle ong occidentali, imposto il 12 settembre, arriva al termine
di tre anni di siccità.
I fondi a rilento
Come se questa moltiplicazione di emergenze non bastasse, alla cronica mancanza
di denaro per progetti umanitari in Afghanistan da tre settimane si aggiunge la
difficoltà di raccogliere fondi per un paese ritenuto responsabile di 6mila
morti innocenti.
L'ong AfghanAid l'ha spiegato ai suoi sostenitori con un comunicato online ( afghanaid.org.uk ) invitandoli a non
discriminare fra le vittime americane e quelle afghane con un'aspettativa di
vita media che non supera i 44 anni. Ma senza grandi risultati. E se un po' più
fortunata si è rivelata la raccolta fondi di Oxfam, 24mila dollari in una
settimana, per il momento l'unico sostegno economico su cui possono contare i
profughi afghani, i paesi che li ospiteranno e le ong che si stanno preparando
ad accoglierli, sono i 4 milioni di euro donati dall'Unione europea e i 16
milioni di dollari con cui, al 2 ottobre, numerosi governi (la generosa Italia
in testa, con una donazione di 7 milioni di dollari) avevano risposto alla
richiesta di 268 milioni lanciata dall'Acnur. Le operazioni più urgenti da
finanziare?
Per le quattro agenzie Onu e le dodici organizzazioni non governative impegnate
nell'emergenza (vedi mappa) a dettare la lista delle priorità sono il clima e
la geografia della terra dei Talebani. I meno 25 gradi dell'inverno afghano
ormai alle porte, che l'anno scorso nella sola Herat hanno ucciso centinaia di
persone ogni notte, rendono più che mai urgente la costruzione di ripari per i
7 milioni e mezzo di persone a rischio in Afghanistan. “Nel 20 per cento dei
casi sono bambini sotto i cinque anni gravemente denutriti”, spiega Roberto
Salvan, direttore di Unicef Italia, il Fondo delle Nazioni unite per l'infanzia
che il 2 ottobre, dopo 20 giorni di interruzione degli aiuti, ha portato a
Faizabad, nella zona controllata dall'Alleanza del nord, 200 tonnellate di
alimenti ad alto contenuto proteico e vestiti per ripararsi dal freddo.
Le peripezie dei camion
Il percorso seguito dai 19 camion dell'Unicef e delle altre agenzie Onu per
raggiungere Faizabad spiega chiaramente come la geografia del paese stia
condizionando le operazioni umanitarie. Partito sabato 28 settembre dalla città
pakistana di Peshawar, il convoglio ha percorso 450 chilometri verso nord fino
a raggiungere Chitral, a 3mila metri di altezza.
Qui, il giorno dopo, il carico di tutti i camion è stato trasferito su un
centinaio di jeep a quattro ruote motrici che hanno raggiunto il passo Shah
Saleem, a 4mila metri, e quindi consegnato gli aiuti a 500 portantini che li
hanno distribuiti su 4mila asini cui ci sono voluti due giorni per compiere i
40 chilometri che separano il passo dalla pianura afghana di Zeebak. Dove il
carico umanitario è stato nuovamente caricato su dei camion diretti a Faizabad.
E se trasportare generi di soccorso in territorio afghano è difficile,
praticamente impossibile è farci entrare operatori occidentali specializzati in
guerre e assistenza ai profughi.
Le difficoltà dei profughi
Al chirurgo Gino Strada, unico italiano che si trova ora in Afghanistan con due
espatriati di Emergency, cinque di Medici senza frontiere e due della Croce
rossa internazionale, ci sono voluti quattro giorni di cammino, jeep e cavallo
fra le montagne per raggiungere il suo ospedale di Anabah, nel Panshir. Un
viaggio che, in senso inverso, dall'11 settembre al primo ottobre hanno già
compiuto in 15mila. Secondo l'Acnur, in caso di attacco armato, potrebbe
seguire le loro tracce un altro milione di profughi.
Sempre che ci riescano: martedì 2 ottobre, vinti dalla sete, dalla mancanza di
cibo, dalla stanchezza e dalle frontiere sbarrate, 20mila afghani che cercavano
di entrare in Pakistan hanno fatto marcia indietro e sono tornati a casa. È
difficile anche essere profughi, oggi, in Afghanistan. Già prima che sul
confine col Pakistan e nei suoi nuovi campi di accoglienza mancasse l'acqua,
solo il 12 per cento della popolazione aveva accesso a quella potabile. Già
prima che mancassero le medicine, solo il 2 per cento degli afghani aveva
assistenza sanitaria. Già prima di questa emergenza, il Paese era al tracollo.
La geografia della disperazione
Regione: Mazar I Sharif
500mila profughi interni
900mila persone a rischio
Nella zona operano:
Oxfam
Il 21 settembre è riuscita a portare 1.500 tonnellate di cibo,i primi aiuti da
quando il Programma alimentare mondiale aveva sospeso i voli umanitari in
seguito agli attentati, nella zona di Mazar I Sharif dove oltre 18mila profughi
vivono nel campo di Aq Kupruc. Tutto il personale straniero è stato evacuato in
Pakistan. Prima dell'11 settembre era una delle ong incaricate di distribuire
gli aiuti del Programma alimentare mondiale. Contava su numerosi operatori
occidentali e personale afghano in grado di aiutare 750mila persone.
oxfam.co.uk
Save the children
A coordinare gli aiuti umanitari e i progetti di educazione dei bambini di
Mazar sono rimasi solo 10 operatori e volontari afghani di questa ong impegnata
nel paese dal 1976. Il personale occidentale, evacuato in Pakistan dopo gli
attentati, sta raccogliendo coperte da campo, tende e generi di prima necessità
per accogliere i profughi in fuga.
savethechildren.org
Regione: Hazaradjat
200mila profughi interni
50mila persone a rischio
Nella zona operano:
Action contre la faime
Lavora in Afghanistan dal 1995 coinvolgendo nei suoi progetti umanitari
operatori locali. Tra cui 90 donne del ministero della sanità impiegate nei
suoi 35 centri di nutrizione e cura di Kabul. Dall'11 settembre personale
locale manda avanti il suo programma “Food for work” basato sulla distribuzione
di viveri in cambio di aiuto per costruire sistemi di irrigazione, case e
infrastrutture.
ac-fr.org
Aide Medical International
Grazie al personale locale, continua a garantire cibo e assistenza sanitaria a
115 mila persone povere che vivono in quest'area. Spera di poter portare nella
zona quattro cliniche mobili per la cura dei feriti. In Afghanistan dal più di
20 anni, prima degli attentati contro l'America era impegnata in otto province
dell'ovest con 15 espatriati e 500 impiegati afghani dislocati in quattro
ospedali e 11 dispensari.
amifrance.org
Regione: Panshir
350mila persone a rischio
Nella zona operano:
Emergency
Gino Strada e due colleghi si trovano in questo momento nell'ospedale di Anabah
creato dall'organizzazione. In Afghanistan dal 1999, prima dell'11 settembre
Emergency era impegnata nell'assistenza di malati e feriti a Kabul e in posti
di primo soccorso sul territorio.
emergency.it
Regione: Faizabad
Nella zona operano:
Croce rossa internazionale
Due espatriati e personale locale mandano avanti il centro ortopedico di
Faizabad e quello della vicina Gulbahar. In totale ha mille afghani impegnati
in operazioni di solidarietà in tutto il paese. In seguito agli attentati
dell'11 settembre, la maggior parte del personale espatriato si è trasferito in
Pakistan: a Islamabad è stato fissato il quartier generale in cui operano 27
persone, mentre Peshawar serve come base logistica. Sta cercando di riportare
il personale espatriato nel paese e intanto ha inviato squadre di soccorso in
Iran e Turkmenistan. cicr.org
Medici senza frontiere
5 espatriati di varie nazionalità mandano avanti i progetti di assistenza
sanitaria. Qui l'organizzazione fa arrivare i camion di aiuti dall'estero. msf.org
Regione: Herat
300mila profughi interni
700mila persone a rischio
Nella zona operano:
Christian aid
Nel suo ufficio di Herat è rimasto solo personale locale impegnato in progetti
di prima assistenza ai profughi. L'11 settembre, 60 espatriati si sono spostati
in Pakistan e squadre di volontari attendono in Iran, Turkmenistan e Tajikistan
milioni di afghani in fuga dalla guerra. A giugno di quest'anno ha organizzato
a Kabul un incontro fra la società civile internazionale e quella afghana.
christianaid.org.uk
Tear fund
Staff locale sta mandando avanti la costruzione di 4.200 ripari di fango per i
profughi in fuga dalle città che, con l'approssimarsi dell'inverno, rischiano
di morire di freddo. Il personale straniero di questa charity inglese è stato
costretto a lasciare il paese. Oltre ai rifugi, prima dell'11 settembre si
occupava di programmi di scolarizzazione per i bambini.
tearfund.org
Medicins du monde
Volontari afghani mandano avanti il suo dispensario di Herat da cui dipende la
salute di 12mila profughi ammassati nel vicino campo di Maslakh. In Afghanistan
fin dal 1982, prima dell'11 settembre lavorava soprattutto nella zona
occidentale del paese con programmi di sostegno alle donne e bambini. Dopo gli
attentati sull'America, tutto il suo personale straniero ha lasciato il paese. medecinsdumonde.org
Coopi
In Afghanistan dall'inizio dell'anno, opera grazie a personale locale e ha
spostato i suoi espatriati in Pakistan dove sta allestendo campi per i
profughi. coopi.it
Regione: Kandahar
200mila profughi interni
50mila persone a rischio
Nella zona operano:
Waafa, Al-Rasheed trust
Nel quartier generale dei Talebani, dove probabilmente si nasconde il Mullah
Omar, operano le ong locali cui Bush ha tagliato i fondi perché sospettate di
sostenere il terrorismo fondamentalista islamico.
Regione: Kabul
100mila profughi interni
900mila persone a rischio
Nella zona operano:
Croce rossa internazionale
Il 29 settembre, un camion dell'organizzazione carico di medicine ha raggiunto
Kabul. Contiene anche kit igienico sanitari per curare fino a 500 feriti di
guerra. Nell'area controllata dai Talebani, continua il supporto agli ospedali
e a quattro centri ortopedici. Mantiene un contatto radio giornaliero col
personale locale a Kabul.
Caritas internazionale
Personale locale manda avanti i soccorsi per cui ha stanziato 167 mila dollari.
Gli espatriati attendono i profughi nei Paesi confinanti. catholicrelief.org
Ecco il
testo integrale del discorso del 7/10/01 pronunciato questa sera da George W.
Bush alla nazione.
"Su mio
ordine, le forze militari degli Stati Uniti hanno iniziato gli attacchi contro
i campi di addestramento dei terroristi di Al Qaeda e contro le installazioni
militari del regime dei Taleban in Afghanistan. Questa azioni attentamente
mirate hanno come fine quello di distruggere l'uso dell'Afghanistan come base
terroristica e di attaccare le capacità miltari del regime dei Taleban.
Più di 40 paesi in Medio Oriente, Africa, Europa e in Asia hanno dato la
disponibilità dello spazio aereo o di terra. Molti di più hanno collaborato con
informazion di intelligence. Siamo sostenuti dalla volontà collettiva del
mondo. Più che due settimane fa, ho dato ai leader dei Taliban una serie di
richieste chiare e specifiche: chiudete i campi di addestramento dei
terroristi, consegnate i leader dell'organizzazione di Al Qaeda, e rilasciate
gli stranieri, compresi i cittadini americani ingiustamente detenuti nel vostro
paese.
Nessuna di queste richieste è stata accolta. E ora, i Taliban pagheranno un
prezzo. Distruggendo i campi e rendendo inutilizzabili le comunicazioni,
renderemo più difficile per l'organizzazione del terrore di addestrare nuove
reclute e di coordinare i loro piani malvagi. All'inizio i terroristi possono
rintanarsi in grotte sempre più profonde ed in altri luoghi fortificati per
nascondersi. La nostra operazione militare mira ad aprire la strada per
operazioni sostenute, a largo raggio e incessanti per stanarli e portarli
davanti alla giustizia.
Nello stesso tempo il popolo oppresso dell'Afghanistan conoscerà la generosità
dell'America e dei suoi alleati. Nel momento i cui colpiamo gli obiettivi
militari, sganceremo anche cibo, medicine e rifornimenti per gli uomini, le
donne e i bambini che patiscono la fame e soffrono in Afghanistan.
Gli Stati Uniti d'America sono amici del popolo afghano, e noi siamo amici di
circa un miliardo di persone che nel mondo seguono la fede islamica. Gli Stati
Uniti sono nemici di coloro che aiutano i terroristi e dei criminali barbari
che profanano una grande religione commettendo crimini in suo nome.
Questa azione militare è parte della nostra campagna contro il terrorismo, un
altro fronte nella guerra che è stata già ingaggiata attraverso la diplomazia,
i sercizi segreti,il congelamento dei beni finanziari e l'arresto di noti
terroristi da parte delle polizie di 38 paesi.
Data la natura e la portata dei nostri nemici, vinceremo il conflitto
accumulando con pazienza successi, affrontando una serie di sfide con determinazione
e volontà. Oggi ci concentriamo sull'Afghanistan, ma la battaglia è più ampia.
Ogni nazione deve fare la sua scelta. In questo conflitto, non c'è un terreno
neutrale. Se un governo aiuta i fuorilegge e gli assassini di innocenti,
diventa fuorilegge e assassino. E intraprenderà una strada solitaria a suo
proprio pericolo.
Vi sto parlando oggi dalla Treaty Room della Casa Bianca, un luogo dove i
presidente americani hanno lavorato per la pace. Siamo una nazione pacifica.
Ma, come abbiamo imparato, così improvvisamente e così tragicamente, non ci può
essere pace in un mondo di imrpovviso terrore. Di fronte a questa nuova
minaccia di oggi, la sola via di perseguire la pace è di perseguire coloro che
la minacciano.
Non abbiamo cercato questa missione, ma ci impegneremo in pieno in essa. Il
nome dell'operazione militare di oggi è Libertà duratura. Noi difendiamo non
solo la nostra preziosa libertà, ma anche la libertà di tutti gli altri popoli
a vivere e e crescere i loro bambini liberi dalla paura.
Conosco molti americani che hanno paura oggi. E il nostro governo sta prendendo
grandi precauzioni. Tutte le forze di sicurezza e i servizi segreti stanno
lavorando in maniera aggressiva in America, nel mondo e a tempo pieno. Su mia
richiesta, molti governatori hanno attivato la Guardia Nazionale per rafforzare
la sicurezza negli aereoporti. Abbiamo richiamato i riservisti per rinforzare
la nostra capacità militare e la protezione della nostra patria.
Nei mesi futuri, la nostra pazienza sarà la nostra forza, pazienza per le
lunghe file provocate dai controlli più stretti, pazienza e comprensione per il
fatto che ci vorrà del tempo per raggiungere i nostri obiettivi, pazienza per
tutti i sacrifici che dovremo fare.
Oggi, quei sacrifici sono fatti dai membri delle nostre forze armate che ci
difendono così lontano da casa, e dalle loro famiglie orgogliose e preoccupate.
Un comandante in capo invia i figli degli Stati Uniti a combattere in terra
straniera solo dopo la massima cura e una serie di preghiere. Abbiamo chiesto
molto a chi indossa la nostra uniforme. Abbiamo chiesto loro di lasciare le
persone amate, di percorrere lunghe distanze, di rischiare il ferimento, anche
di essere preparati a compiere il sacrificio ultimo della loro vita. Si sono
consacrati a questa missione con onore. Rappresentano il meglio del nostro
Paese, e siamo loro grati. A tutti gli uomini e le donne del nostro esercito, a
ogni marinaio, ogni soldato, ogni pilota, ogni Guardia costiera, ogni marine,
dico questo: la vostra missione è definita. Gli obiettivi sono chiari. Il
vostro obiettivo è giusto. Avete la mia piena fiducia e metterò a vostra
disposizione ogni strumento di cui avrete bisogno per portare avanti la vostra
missione.
Recentemente, ho ricevuto una lettera toccante che dice molto sulle condizioni
dell'America in questi momenti difficili, la lettera di una bambina delle
elementari figlia di un soldato. "Per quanto non voglio che mio padre
combatta - ha scritto - sono pronta a consegnarvelo". Questo è un regalo
prezioso. Il più grande che potesse fare. Questa bambina sa che cosa vuol dire
l'America. Dall'11 settembre, un'intera generazione di giovani americani ha
raggiunto una nuova comprensione del valore di libertà, dei suoi costi, della
missione e del suo sacrificio. La battaglia è ora ingaggiata su molti fronti.
Non tergiverseremo, non ci stancheremo, non vacilleremo e non falliremo. La
pace e la libertà avranno la meglio. Grazie. Che Dio benedica l'America
ECCO COME
DAREI LA CACCIA A BIN LADEN
NEWSLETTER
DIPIETRO2001
28 settembre
2001
Come fermare
Osama Bin Laden e la sua rete terroristica internazionale?
E' la
domanda che ci assilla tutti. Combattendolo su più fronti ovviamente, come ha
di recente ammonito il Presidente americano Bush: quello giudiziario, militare,
politico, culturale, religioso,
economico,
finanziario. Ecco, vorrei soffermarmi su quest'ultimo aspetto che è poi, a mio
avviso, un punto nodale per la lotta al terrorismo.
Solo
prosciugando le fonti di approvvigionamento e interrompendo i finanziamenti, si
possono sterilizzare le azioni dei terroristi.
Bin Laden ha
potuto agire grazie a ai suoi soldi. Soldi che non tiene certo a Kabul o
nascosti nelle montagne o nelle grotte afgane. Li tiene - depositati o
investiti - nelle banche dei soliti paradisi fiscali: Cipro, Panama Isole
Cayman ma soprattutto a Vaduz nel Liechtestein, a Nassau nelle Bahamas ed a
Riad in Arabia Saudita.
Si pensi a
quanto denaro è stato necessario per realizzare gli attentati dell'11 settembre
negli Usa: decine, forse centinaia di terroristi e fiancheggiatori da mantenere
per mesi, e forse per anni, nel territorio americano, piloti da addestrare,
famiglie da accudire (anche dopo la morte dei kamikaze), spionaggio e coperture
da attivare, coordinamento logistico da sincronizzare e così via.
IL
TERRORISMO COSTA
Insomma
anche il terrorismo costa. Siccome a pagare sembra che ci pensi (e nel caso di
New York ci abbia pensato) Bin Laden, bisogna scovare, sequestrare e bloccare
le sue risorse finanziarie per renderlo impotente. Come fare? Indagando su di
lui, ovviamente e su chi gli è stato e gli sta più vicino. Bisogna ricostruire
la sua vita, individuare i suoi legami, ripercorrere i luoghi che ha
frequentato, individuare i suoi amici, analizzare le sue attività. Sembrano
cose scontate ma spesso è
proprio su
queste bucce di banane che inciampano gli investigatori ed il guaio è che ci
inciampano non tanto per difetto (di investigazione, intendo dire) quanto per
eccesso, immaginando, prima di averne le prove, soluzioni fantascientifiche e
poi perdendo tempo e risorse per dimostrare l'indimostrabile (per rendercene
conto basti pensare alla tragedia del mostro di Firenze trasformata in una
telenovela o al sequestro di Aldo Moro che secondo alcuni bisognava scoprire ricorrendo
alla cartomante).
Ecco,
cominciamo allora con il "ripulire" la storia personale di Bin Laden
dal "romanzo" che se ne è fatto. Egli non è figlio del demonio, con
possibilità infinite di replicarsi e di farsi gioco di tutte le polizie del
mondo. Se ha scelto l'America ed alcuni paesi europei come suoi
principali
obiettivi è perché li conosce bene per averci vissuto e lavorato e per aver
intrecciato in quei paesi pericolose relazioni di connivenza e collaborazione.
Negli anni ottanta, infatti, egli è stato un alleato degli USA che di lui e dei
suoi uomini si sono serviti, anche armando le loro mani e insegnando loro a
fare la guerra, per fermare i sovietici in Afghanistan.
LA FAMIGLIA
E GLI AMICI IN ARABIA SAUDITA
Di più.
L'intera famiglia Bin Laden ha fatto fortuna proprio in America (ironia della
sorte in alcuni casi proprio facendo affari con la famiglia Bush). In
particolare, il fratello Salem ha fondato nel '73 ad Austin, nel Texas, la
compagnia aerea Bin Laden Aviation ed il suo miglior amico Kheld Bin Manfuz è
stato l'uomo chiave dell' affaire BCCI (uno scandalo americano di proporzioni
enormi riguardanti finanziamenti occulti e iregolari a formazioni guerrigliere
in America Latina ed in Medio Oriente con denaro anche proveniente dalla droga).
Bin Laden
viene comunemente descritto come un miliardario ma in realtà sulla sua reale
posizione patrimoniale si hanno poche notizie.
Certamente
viene da una ricca famiglia molto ben introdotta in Arabia Saudita. I suoi
parenti (ha quattro mogli, diversi figli, circa 50 tra fratelli e sorelle) sono
titolari di un vero e proprio impero economico, il Saudi Bin Ladin Group (SBG)
con interessi petroliferi e nelle costruzioni. Molti di essi lo hanno rinnegato
e Osama Bin Laden è pure stato scacciato dal suo paese per aver criticato la
monarchia saudita allorché questa fece entrare nel suo territorio truppe
statunitensi ("gli infedeli") per pianificare la Guerra del Golfo
contro Saddam Hussein. Egli però sicuramente può contare ancora sui parenti e
amici più stretti. Da questi e su questi bisogna allora cominciare le indagini
bancarie e finanziarie, per trovare il patrimonio di Bin Laden e non tanto su
lui personalmente (egli sapendo di essere ricercato da anni dalle migliori
polizie internazionali, si sarà guardato
bene
dall'agire con il proprio nome). Insomma, appunterei le prime indagini - cosa
che sicuramente gli 007 statunitensi, inglesi e israeliani stanno facendo -
proprio in Arabia Saudita. E' questo un paese davvero strano, con potentati
finanziari e governanti reali che vanno a braccetto con gli Stati Uniti ma con
l'integralismo islamico nel cuore.
Probabilmente
è proprio da lì oltre che dall'Iraq di Saddam Hussein - che partono i
finanziamenti più cospicui e più occulti a favore dei terroristi, magari sotto
forma di donazioni ed elargizioni umanitarie e di beneficenza. In Arabia
Saudita, la maggior parte del denaro proveniente dall'aumento del prezzo del
petrolio (da 4 mila a 8 mila miliardi di dollari sostengono gli analisti) si è
letteralmente volatilizzato andando ad alimentare l'extrabudget e soprattutto
la corruzione.
L'APERTURA
DEI FORZIERI NEI PARADISI FISCALI
Purtroppo
manca una qualsiasi normativa in materia di controllo dei flussi di miliardi
che entrano ed escono da quel paese. Non esiste, come in quasi tutti i paesi
del Medio Oriente peraltro, una legge contro il riciclaggio. Eppure le
connessioni saudite tribali e familiari di Bin Laden sono l'inizio della catena
dell'indagine da cui non si può prescindere.
Anche a
costo di imporre con la forza della persuasione (politica, diplomatica,
economica e militare) ai regnanti sauditi di rivedere e rendere più trasparente
la propria legislazione societaria, bancaria e finanziaria interna. Cosa questa
che solo gli Stati Uniti hanno la forza e la possibilità di fare.
Il canale
terminale della rete finanziaria di Bin Laden va invece ricercato in alcuni
specifici paradisi fiscali, in particolare delle Bahamas e del Liectesthein,
ove vanno cercati i suoi collegamenti con
esponenti
della mafia russa (già proprio di quella Russia tanto odiata e combattuta da
Osama). A Vaduz ed a Nassau ancora oggi esistono e prolificano alcuni studi
legali e fiduciari di comodo conosciuti e conoscibilissimi per chi è del
mestiere e conosce un po' la storia delle transazioni finanziarie
internazionali (anch'io ho avuto modo di individuarli ai tempi di Mani Pulite)
che fanno da schermo impenetrabile alle più smaccate operazioni di riciclaggio
del denaro provenente dalla droga e destinato al commercio delle armi. Perché bisognerebbe
indagare su costoro? Ma perché Bin Laden deve tutti i giorni comprare armi e
munizioni ed in Afganistan l'unica cosa che ha
a
disposizione per farvi fronte è l'oppio e l'eroina. E perché la mafia russa?
Perché è l'unica organizzazione "vicina" territorialmente
all'Afganistan in grado di fornire ogni tipo di armi a Bin Laden (più
dell'Iraq, più del Sudan che pure sono suoi abituali fornitori ma le cui
operazioni sono sotto il costante controllo degli USA). Che fare allora, in
concreto? Bisogna setacciare ed acquisire ogni documentazione esistente presso
gli studi legali e finanziari sospetti con sede nei predetti paradisi fiscali,
con operazioni non giudiziarie ma dei servizi segreti. Non è possibile,
infatti, ricorrere alla Magistratura di quei paesi per avere regolari mandati
perché è troppo ingessata da una
legislazione
di favore e di copertura, dovuta al fatto che quei paradisi fiscali si
mantengono e ingrassano proprio e solo per questo particolare tipo di economia.
Lo so, i
"puristi" del diritto inorridiranno di fronte a questa proposta ed
anche a me, da ex magistrato, ripugna ma, come ha detto il Presidente degli
Stati Uniti, siamo in guerra e questa guerra va combattuta anche con "armi
non convenzionali". Tra queste può e deve rientrarci l'apertura anche
forzata ed occulta dei forzieri e dei
documenti depositati nei paradisi fiscali, al di la' e al di fuori dei
conniventi vincoli di legge di quei paesi. Non a caso, d'altronde, il Governo
statunitense, pochi giorni dopo l'attentato alle Torri Gemelle ha istituito un
apposito organismo investigativo, il Foreign Terrorist Asset Tracking Center
(FTATC), alle dipendenze del Ministero del Tesoro ( ed anche questo la dice
lunga) con lo specifico scopo di dirigere e coordinare il lavoro di
intelligence nazionale ed internazionale per rintracciare banche, finanziarie e
fiduciari che in
qualche modo
forniscono sostegno ai criminali. Probabilmente questo organismo dovrà
"saltare" le procedure delle "rogatorie" se vuole che il suo
lavoro abbia successo ma, d'altronde, trattasi
per stessa ammissione di Bush di una "guerra sporca" e
individuare e sequestrare la contabilità occulta degli "gnomi" (così
vengono chiamati in gergo i fiduciari che operano nei paradisi fiscali) è un
atto
necessitato
per tagliare le vie di rifornimento economico ai terroristi.
I RAPPORTI
CON GLI STATI "CANAGLIA"
Un altro
cordone ombelicale che consente a Bin Laden ed ai suoi seguaci di armarsi e
guerreggiare è il rapporto di sangue che lo lega ad alcuni rais e dittatori che
ancora spadroneggiano in Medio Oriente (Saddam Hussein in particolare). Insomma
ci sono in Medio Oriente nazioni, produttori di petrolio, che sponsorizzano e
foraggiano il terrorismo. Sono i cosiddetti "Stati canaglia" (ad
esempio Iran, Iraq, Libia, Siria, Sudan) che aggirano gli embarghi e le
sanzioni dell'ONU con triangolazioni di comodo al fine di fare soldi e di
destinarne una parte a favore di quei terroristi disponibili ad azioni
criminali nei confronti di quei paesi occidentali che hanno decretato
l'embargo.
Come
avvengono le triangolazioni illegali ? Ad esempio, in Iraq, l'ONU ha
autorizzato Baghdad ad esportare 90 mila barili di greggio al giorno in
Giordania in cambio di cibo e medicine. Nell'oleodotto che collega i due paesi,
però transitano oltre 150 mila barili al giorno di petrolio ed allora Damasco
tiene per sé il petrolio iracheno ed esporta il proprio. C'è da scommettere che
Saddam utilizzi il maggior denaro incassato per attività del tutto diverse da
quelle umanitarie.
Ecco,
l'Occidente deve smetterla di tollerare simili furbizie e richiamare Stati
amici e moderati come la Giordania a non fare i "furbi, a non fare il
"doppio gioco". Certo per farlo, molti paesi
occidentali
(Italia compresa) devono darsi una "regolata" anche loro e non fare i
furbi a propria volta. Che senso ha, ad esempio, decretare l'embargo del
petrolio dall'Iraq e poi acconsentire e incentivare la presenza in quel paese
di primarie compagnie petrolifere come l'Elf, l'Agip, la Mobil per estrarre maggior
petrolio? E che dire delle laute commesse per infrastrutture che vengono
commissionate e realizzate da multinazionali occidentali proprio negli
"Stati canaglia"?
L'IPOCRISIA
DELL'OCCIDENTE
Insomma,
fino ad oggi vi è stata, in Occidente, anche tanta ipocrisia nella lotta ai
paesi finanziatori del terrorismo: a parole molte condanne, nei fatti parecchi
affari. Ed allora ritorna il dilemma di
sempre: ma
chi comanda nei paesi occidentali? Il Governo reale corrisponde al governo
reale? Non è che nella realtà le lobby economiche e finanziarie condizionano le
attività e le decisioni
politiche?
Ma questa è un'altra storia ed è bene tornare alla nostra virtuale caccia al
tesoro di Bin Laden. Per esempio, con una indagine mirata sulla compravendita
in borsa di alcuni titoli a rischio nei giorni a cavallo della strage di New
York (azioni di compagnie aeree e di società assicurative). Si sa che qualcuno
ha speculato su questi titoli con il sistema dei "future", vale a
dire "vendendo oggi quel che si paga al prezzo di domani". Ad esempio
comprando un'azione delle United Airlanes (la compagnia aerea proprietaria dei
velivoli abbattuti) che il giorno prima della strage poteva valere (mettiamo)
1000, il giorno dopo valeva 100. Ciò vuol dire che solo chi conosceva in anticipo
cosa sarebbe successo di lì a poco poteva arrischiarsi a commerciare in simili
tipi di "future", speculando in borsa. Cose queste che potevano
sapere solo i fiancheggiatori, i finanziatori e i mandanti dei terroristi che
hanno agito. Un'indagine mirata su queste speculazioni potrebbe portare a
scoprire il "terzo livello" dell'organizzazione ( e magari ed è
probabile che così sia individuando insospettabili magnati dell'odiato
Occidente in combutta con i fondamentalisti islamici di Bin Laden).
Come si può
notare, i filoni di indagine da coltivare possono essere tanti e quelli
descritti sono solo alcuni. E nemmeno i più sofisticati. Ma lasciamo ai
specialisti fare il loro mestiere e non anticipiamo i tempi, anche per non
disperdere il vantaggio del "fattore sorpresa".
Antonio Di
Pietro
"LA
VENDETTA? NON IN NOME DI NOSTRO FIGLIO"
Copia
della lettera inviata al New York Times
Nostro
figlio Greg è tra i tanti dispersi dell'attentato al World Trade Center. Da
quando abbiamo avuto la notizia, abbiamo condiviso momenti di dolore, di
conforto, di speranza, di disperazione, e i bei ricordi, con sua moglie, con le
nostre famiglie di origine, con i nostri amici, con i vicini, con i suoi
affettuosi colleghi del Cantor Fitzgerald/ Espeed, e con tutte le famiglie in
lutto che giornalmente si incontrano al Pierre Hotel. Vediamo la nostra ferita
e la nostra rabbia riflesse in tutte le persone che incontriamo. Non riusciamo
a prestare attenzione al quotidiano fiume di
notizie su
questo disastro, ma ne leggiamo abbastanza per renderci conto che il nostro
governo va nella direzione della vendetta violenta, e la prospettiva è che
altri figli, figlie, genitori, amici, andranno in terre lontane a morire,
soffrire e finiranno per portare rancore contro di noi.
Non è questo
che si deve fare. Questo non vendicherà la morte di nostro figlio. Non si farà
in nome di nostro figlio.
Morendo,
nostro figlio è diventato una vittima dell'ideologia umana. Le nostre azioni
non devono seguire lo stesso scopo.
Uniamoci nel
lutto. Riflettiamo e preghiamo. Pensiamo ad una risposta razionale che porti
vera pace e giustizia nel nostro mondo. Ma non contribuiamo, come nazione, alla
disumanità dei nostri tempi.
Phyllis e
Orlando Rodriguez
(Greg,
figlio di Phyllis e Orlando Rodriguez, è una delle vittime del World Trade
Center)
Copia
della lettera alla Casa Bianca
Egregio
Presidente Bush,
Nostro
figlio è una delle vittime dell'attacco di martedì scorso al World Trade
Center. Abbiamo letto della Sua reazione negli scorsi giorni e della
risoluzione, sottoscritta da entrambe le Camere, che Le conferisce poteri
illimitati per rispondere agli attentati terroristici.
La Sua
reazione a questo attacco, però, non ci fa sentire meglio davanti alla morte di
nostro figlio. Anzi, ci fa sentire peggio. Ci fa sentire come se il Governo
stesse usando la memoria di nostro figlio come giustificazione per arrecare
sofferenze ad altri figli e genitori in altri paesi.
Non è la
prima volta che una persona, nelle Sue condizioni, ha ricevuto poteri
illimitati e poi se ne è pentita. Non è il momento per gesti vuoti di
significato per farci sentire meglio. Non è il momento di agire da prepotenti.
La invitiamo
a pensare a come potrebbe il nostro Governo trovare soluzioni pacifiche e
razionali al terrorismo, soluzioni che non ci facciano sprofondare allo stesso
disumano livello dei terroristi.
Con
osservanza,
Phyllis e
Orlando Rodriguez
Fonte:
Solidarity4ever
http://www.igc.topica.com/lists/Solidarity4Ever@igc.topica.com/read/message.html?mid=1708255258
APPELLO
URGENTE DALLE DONNE AFGANE
Messaggio
inviato da Maria Santagata (dotsan@tin.it)
Subject:
Dalle donne afghane URGENTE
Il gruppo
femminista internazionalista Iemanja' ci ha chiesto di dare massima diffusione
al comunicato che segue, scritto da RAWA, l'organizzazione femminista afghana
che è una delle poche entità che resistono alla dittatura dei talebani. Ci pare
un comunicato di grande valore visto che l'Occidente sta preparando una guerra
contro quel popolo, una guerra che dobbiamo fermare ad ogni costo. Vi chiediamo
di rigirare questa mail anche ad altre/i compagni/e e amiche/i, dato che vi
è il
pericolo di una adesione popolare ad una sorta di crociata occidentale contro
l'Islam. Vi segnaliamo che dal sito di Iemanja' (http://www.ecn.org/reds/donne.html)
si accede ad una pagina con molti materiali sulla situazione in Afghanistan, la
lotta del RAWA, la storia di quel Paese. Vi raccomandiamo di visitarlo e
diffonderne i materiali. La mailing list di REDS è per alcuni nominativi
sovrapposta a quella di Iemanja' per cui e' possibile che un messaggio simile
vi giunga anche dalle compagne che pure stanno cercando di diffonderlo il più
possibile, nel caso scusateci l'ingorgo. Vi segnaliamo che il sito di REDS (http://www.ecn.org/reds) e' stato aggiornato
con un'analisi politica sulla fase che si apre dopo gli attentati in USA.
---------------------------------------------
LA GENTE
DELL'AFGHANISTAN NON HA NIENTE A CHE FARE CON OSAMA BIN LADEN E I SUOI
COMPLICI. COMUNICATO UFFICIALE DEL RAWA SUGLI ATTENTATI IN USA E SULLE
RESPONSABILITA'
DEGLI STATI UNITI, APPELLO ALLA POPOLAZIONE
da RAWA.
Traduzione a cura di Iemanja'
14 settembre
2001
L'11
settembre 2001 il mondo è rimasto scioccato dagli orribili attacchi
terroristici agli Stati Uniti. RAWA esprime con il resto del mondo il proprio
dolore e la condanna di questo atto barbarico di violenza e terrore. RAWA aveva
già avvertito che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto sostenere i più infidi,
i più criminali, i più antidemocratici e misogini partiti fondamentalisti
islamici, perché dopo che i Jehadi (l'Alleanza del Nord di Massud, ndr.) e i
Talebani avevano commesso ogni possibile sorta di orrendi crimini contro la
nostra gente, essi non avrebbero provato alcuna vergogna nel commettere tali
crimini contro il popolo americano che considerano "infedele". Allo
scopo di raggiungere e mantenere il proprio potere, questi delinquenti crudeli
sono pronti a rivolgersi a qualsiasi forza criminale. Ma sfortunatamente noi
dobbiamo dire che è stato il governo degli Stati Uniti a sostenere il dittatore
pakistano gen. Zia-ul Haq nel creare migliaia di scuole religiose dalle quali
sono emersi i germi dei Talebani. Allo stesso modo, come è evidente per tutti, Osama
Bin Laden è stato il pupillo della CIA. Ma ciò che è più penoso è che i
politici americani non hanno tratto una lezione dalle loro politiche a favore
dei fondamentalisti nel nostro paese e stanno ancora continuando ad appoggiare
questo o quel gruppo o leader fondamentalista. Secondo noi, ogni tipo di
sostegno ai fondamentalisti Talebani e Jehadies significa in realtà calpestare
i valori democratici, i diritti delle donne e i diritti umani.
Se è provato
che i presunti autori degli attacchi terroristici si trovano fuori dagli Stati
Uniti, il nostro grido costante che i terroristi fondamentalisti avrebbero
finito per ritorcersi contro i loro creatori, è confermato una volta di più.
Il governo
degli USA dovrebbe considerare le cause di fondo di questo terribile evento,
che non è stato il primo e non sarà l'ultimo. Gli USA dovrebbero smettere di
appoggiare i terroristi afghani e i loro sostenitori una volta per tutte.
Adesso che i
Talebani e Osama sono i primi indiziati dalle forze americane dopo gli attacchi
criminali, gli USA sottoporranno l'Afghanistan a un attacco militare simile a
quello del 1998 e uccideranno migliaia di innocenti afghani per i crimini
commessi dai Talebani e da Osama? Pensano gli USA che attraverso questi
attacchi, con migliaia di diseredati, poveri e innocenti afghani come vittime,
saranno in grado di cancellare le cause del terrorismo o piuttosto
diffonderanno il terrorismo su più larga scala?
Dal nostro
punto di vista vasti e indiscriminati attacchi militari ad un paese che da più
di due decenni è sottoposto a disastri permanenti, non sarebbero un motivo
d'orgoglio. Non pensiamo che una tale aggressione sarebbe l'espressione della
volontà della gente americana. Il governo degli USA e il loro popolo dovrebbero
sapere che c'è una grande differenza tra la gente povera e martoriata
dell'Afghanistan e i terroristi criminali Talebani e Jehadi.
Mentre noi
manifestiamo ancora una volta la nostra solidarietà e il profondo cordoglio al
popolo degli Stati Uniti, crediamo anche che attaccare l'Afghanistan e uccidere
la sua gente più derelitta e sofferente, non allevierà in alcun modo il lutto
del popolo americano.
Speriamo
sinceramente che il popolo americano sia in grado di DISTINGUERE tra la gente
dell'Afghanistan e un pugno di terroristi fondamentalisti. I nostri cuori si
rivolgono alla gente degli Stati Uniti.
ABBASSO IL
TERRORISMO!
Appello
delle Donne per i Diritti Umani in Afghanistan
A Kofi
Annan,
Segretario Generale delle Nazioni Unite
New York
"L'Afghanistan sta gridando per la pace. Donne e uomini stanno soffrendo
per la fame e per le brutalità del regime talebano e altri gruppi
fondamentalisti. La situazione è molto tesa dopo la tragedia a New York e
Washington. Il 7 di Ottobre un'altra guerra è stata imposta sulla gente
afghana. Ma ogni persona che ama la libertà e la democrazia, dentro e fuori
l'Afghanistan, sanno e dovrebbero ricordare come, venti anni fa, i terroristi
di oggi e i loro sostenitori occidentali, cominciarono le loro azioni brutali
contro la popolazione afghana a tutti i livelli. Non l'hanno cominciata adesso,
con attacchi terroristici alla comunità internazionale.
Noi, donne afghane, abbiamo ricordato di tempo in tempo all'ONU di avere un
ruolo attivo e di fermare le violazioni dei diritti umani e delle stragi
perpetrate, ma gli appelli sono stati finora ignorati. Quindi, noi delle
"Donne per i Diritti Umani", ancora una volta, ci appelliamo alle
Nazioni Unite e alla comunità internazionale perché prendano tutte le
iniziative necessarie per fermare la guerra e il flusso delle armi e munizioni
alla regione e evitare un'altra catastrofe umana."
Donne per i Diritti Umani
P.O. Box 231 Roa
0702 Oslo
Norvegia
(Fonte: www.unimondo.org)
IL
RISCHIO DELL'INTOLLERANZA RELIGIOSA
"Trattate
con rispetto gli arabi di origine americana e i musulmani. Non sfogate su di
loro la vostra rabbia", aveva detto qualche giorno fa il presidente George
Bush.
Parole
preoccupate, già consapevoli della nuova emergenza. In molti erano stati facili
profeti, ieri il dramma. Ora ha un nome e un volto anche la prima vittima della
caccia all'arabo, di quell'insensata corsa alla giustizia sommaria che ricorda
tanto gli episodi più brutti dell'epopea del Far West. E così un altro morto si
aggiunge ai tanti, troppi cadaveri di quel terrificante martedì. Anche lui è un
innocente, anche lui non c'entrava nulla. Balbir Singh Sodhi aveva 49 anni, era
proprietario di una pompa di benzina a Phoenix in Arizona e per tutta la
settimana era stato minacciato da qualcuno che parlava di vendetta, di
giustizia.
Balbir era
di religione sikh. Nulla a che vedere con i musulmani, con gli arabi, con gli
attentatori delle Torri gemelle. A condannarlo a morte il turbante e la barba.
"Molti non comprendono - spiega il fratello - che i sikh portano la barba
e il turbante e quindi assomigliano a Osama Bin Laden, ma non solo non hanno
nulla a che vedere con il miliardario saudita, non sono nemmeno
musulmani". Non lo sapeva chi è entrato in macchina a tutta velocità nella
piccola stazione di servizio e ha sparato contro di lui aggiungendo morte a
morte, dolore a dolore. Ora la polizia interroga un uomo, gravemente indiziato
e indaga su altri episodi successi nei dintorni. Pochi minuti dopo, infatti,
sembra che il presunto assassino abbia sparato, questa volta fortunatamente
senza conseguenze, contro altre due stazioni di servizio, una delle quali
gestita da un cittadino americano di origine libanese.
Un episodio
terribile come quello capitato sempre ieri nel New Jersey dove un imam è stato
aggredito da un invasato che urlava frasi senza senso. Il religioso è stato
salvato da una donna incinta che passava di lì. Una donna come la pakistana
inseguita nel parcheggio di un centro commerciale da un ubriaco che la voleva
investire e il quale si è così giustificato: "Sta distruggendo il mio
paese".
Tratti
somatici, barbe, capelli e vestiti che ricordino i presunti kamikaze di New
York e Wahington sono diventati, quindi, terribili marchi d'infamia. Le scuole
coraniche sono vuote, nelle tante moschee poche voci recitano le preghiere.
Inevitabile, dopo gli attacchi ai luoghi di culto islamici. Qualcuno ha
scagliato una bomba incendiaria contro la moschea di Denton, in Texas. La
polizia ha arrestato un uomo che cercava di dare fuoco a quella di Seattle.
Sconosciuti a Lynnwood, nello stato di Washington, hanno deturpato con vernice
nera il muro di un tempio musulmano. A Evansville, in Indiana, un uomo è andato
a sbattere con la sua auto contro un centro culturale islamico. E' sceso dalla
vettura e ha rotto i vetri dell'edificio a pugni. A Bridgeview, sobborgo di
Chicago, la polizia è intervenuta per respingere una folla di trecento persone
che, infuriate, marciavano verso una moschea. Altro qualcuno ha scagliato
sacchetti pieni di sangue di maiale. Nel sobborgo di Palos High un uomo è stato
arrestato per aver attaccato a colpi di machete un benzinaio marocchino. A Los
Angeles sono stati denunciati almeno undici episodi di intolleranza anti-araba,
molti dei quali con uso di armi da fuoco.
"La
nostra non è una guerra contro l'Islam, né contro il popolo arabo - ha
stigmatizzato il vicepresidente Dick Cheney in un'intervista -, la violenza che
vogliamo combattere è frutto di una perversione di questo credo religioso da
parte di un gruppo estremista".
Non basterà
a fermare la caccia all'arabo, ma è comunque una posizione chiara e
ferma".
Giannino
Della Frattina ("Il Giornale", 17/9/01)
"I
quotidiani regalano poster a doppia pagina del nemico numero uno. "Wanted
dead or alive" è stampatoi sulle t-shirt in vendita per dieci dollari
all'angolo della Sesta avenue e 34' street, un mirino incornicia il terrorista
miliardario mentre si accarezza la lunga barba. Alla fine tanto battere
sull'odio ha scatenato la cieca violenza dell'America esasperata. Prime vittime
sono stati gli indiani sikh che, da una settimana a questa parte, stanno
cercando inutilmente di spiegare all'opinione pubblica che, nonostante barba e
turbanti, non hanno nulla a spartire con l'Islam e talebani. Il fatto più grave
risalke a sabato scorso: il tranquillo cittadino Frank S. Rocque è arrivato in
pick up a una stazione di rifornimento Chevron a Mesa, in Arizona, e ne ha
ucciso il proprietario. Perché? Semplicemente perché il signor Balbir Singh
Sodhi, un sikh di 49 anni, portava in testa un turbante e aveva la pelle un po'
troppo scura. Non soddisfatto della "missione", ha poi sparato a un
musulmano e ha aperto il fuoco irrompendo in casa di una famiglia afghana,
fortunatamente senza ammazzare più nessuno. Ma a fare riflettere è soprattutto
la giustificazione che Rocque ha dato al suo gesto: "Sono un patriota,
sono un dannato americano. Voi poliziotti mi arrestate e lasciate che i
terroristi siano liberi di compiere stragi quando e come vogliono".
Dal tragico
11 settembre di New York, Washinghton e Pittsburgh, molte persone che sono o
semplicemente assomigliano a mediorientali e indiani sono state picchiate,
insultate, inseguite e per l'appunto assassinate. L'Fbi sta indagando su altri
2 omicidi che sono sicuramente riconducibili all'ondata di razzismo che si è
impadronita di un paese civile.
Il primo è
quello di Adel Karas, un egiziano cristiano copto di 48 anni, freddato nel suo
negozietto di droghiere a San Gabriel in California. Il figlio che era nel
retrobottega ha sentito una voce gridare: "Sporco arabo terrorista" e
quindi l'esplosione di due colpi di revolver. Il secondo è invece quello di un
pakistano musulmano, Waquar Pasan, 46 anni, che è stato trovato riverso sul
pavimento con una pallottola in fronte nel suo piccolo supermercato nel
quartiere Pleasant Grove di Dallas. Gli investigatori escludono la rapina:
"Nella cassa c'erano tremila dollari e nessuno li ha toccati, inoltre non
ci risulta che la vittima avesse nemici. Il movente sembra essere l'odio
razziale".
In giro per
gli States si contano poi cinque moschee bruciate e innumerevoli molotov
lanciate contro aziende ed esercizi commerciali che appartengono ad arabi. Ma
sono soprattutto i pacifici sikh a essere presi di mira perché più degli altri
assomigliano al presunto mandante delle stragi, Bin Laden. Ieri pomeriggio
erano 250 i sikh che hanno denunciato di aver subito violenze da parte di
americani, ben 120 hanno dovuto fare ricorso alle cure degli ospedali e 10 sono
in condizioni serie. Per esempio Guardshan Singh, un sacerdote sikh a Rockville
nel Maryland, che stava andando a donare il sangue per i feriti del World Trade
Center quando due uomini lo hanno aggredito a sprangate spaccandogli una gamba:
"Che devo dire? Capisco la rabbia, so che c'è ignoranza sulla nostra
religione ma la gente dovrebbe usare la testa e non solo gli occhi".
Una donna,
Shari Mitchell, è stata arrestata a Eugene nell'Oregon perché armata di
coltello ha strappato dalla testa di due indiani che stavano passeggiando i
loro turbanti all'urlo "estremisti assassini". E ancora a Cleveland e
West Sacramento bande di vandali hanno distrutto con mazze da baseball i loro
templi, a San Matteo, in California, ignoti hanno lanciato una bottiglia
incendiaria nella casa di una famiglia sikh colpendo alla tempia un bambino di
tre anni. Solo per caso la bomba non è esplosa. "Non odio gli americani,
perché mi considero americano anch'io - dice Lakhwindet Singh, fratello
dell'indiano ucciso a Mesa - dico solo che avevamo chiesto ai media di chiarire
immediatamente che non siamo musulmani, nessuno ha nosso un dito ed ecco il
risultato".
Sia a
Chicago sia a New York i tassisti indiani, che sono la maggioranza, tengono
sbarrato il vetro che divide il posto di guida dai passeggeri, ed erano anni
che non si vedevano simili misure di sicurezza. La situazione è talmente grave
che il primo ministro indiano Atal Bihari Vajpayee ha dovuto telefonare al
presidente Bush chiedendo i proteggere i suoi connazionali. Se il mezzo milione
di sikh che vivono negli Usa accettassero di rinunciare al turbante, il
problema sarebbe forse risolto, ma la loro religione non lo consente.
"Potete anche strapparmi anche lo scalpo - dice combattivo Prabhjot Singh,
22 anni, consulente tecnologico di Manhattan - ma per togliermi il turbante
prima dovete uccidermi"."
Carlo Piano,
inviato a New York de "Il Giornale" (20/9/01)
"Ali
Abu Shwaima punta il dito sul Corano: "Chiunque uccida un uomo è come se
uccidesse tutta l'umanità, mentre chi salva una vita è come se la salvasse a
tutta l'umanità". E chi pensa di trovare nel presidente del centro
islamico della Lombardia almeno una lontanissima giustificazione dell'ecatombe
americana, rimane deluso: "Condanno il gesto, i suoi autori, esprimo
sgomento per questa immensa tragedia che sconvolge l'umanità. Qui non c'è
neppure l'ombra di Allah". Cosa ne pensa della vita come sacrificio al
Misericordioso, al Clementissimo? Quella vita cioè che i kamikaze delle Torri
genelle e del Pentagono hanno perso in nome del loro Dio? "Nulla di tutto
questo fa parte dell'Islam che dà valore prioritario alla vita. No al suicidio,
no all'omicidio. Pensi solo che la nostra religione considera musulmani tutti i
bambini fino all'età della reagione. Anche quelli cattolici. Mai e poi mai può
essere tollerato l'assassinio, soprattutto di giovani vite, come è successo a
New York".
Cosa pensa
di questi kamikaze? "Penso che si tratti di persone disperate, di gente
ridotta all'ultimo stadio esistenziale, di uomini depressi o malati o
sconvolti. Gente che non ha più nulla da perdere, da chiedere, e che quindi fa
un ragionamento di questo tipo: tu mi hai tolto tutto, mi hai annientato,
distrutto, umiliato, tu mi stai uccidendo e io mi uccido da solo e porto anche
te, mio nemico, nella stessa tomba". In questo senso, riesce dunque ad
accettare l'eliminazione fisica? "No, mai. Nulla può giustificarla".
E' risoluto e impenetrabile. Shwaima fa dunque l'americano?
"Nient'affatto. Per me la verità non è quella di Bush - graffia - Siamo
proprio sicuri che il responsabile della strage sia Osama Bin Laden? I manuali
di guerra e di criminologia non insegnano forse di puntare il dito su chi
ottiene i maggiori benefici da un certo crimine? E vi sembra forse che Bin
Laden ne esca bene da una simile, gigantesca, operazione di guerra? No, io penso
che dietro a tutto questo ci sia la mano di un grande regista". Ma qui, a
Milano, come va? "Per il momento non abbiamo avuto problemi, anche se
qualche lettera di minaccia l'ho ricevuta". E scuote la testa:
"Purtroppo voi non conoscete il nostro mondo".
Andrea
Pasqualetto, "Il Giornale", cronaca di Milano, 17/9/01
LO STAFF DEL PRESIDENTE
Laboratorio didattico di
simulazione realizzato fra il 19 settembre e il 26 settembre 2001 in tre classi
di scuola media superiore a cura di Alessandro Marescotti, docente di Italiano
e Storia.
Vi vorrei raccontare
l'esperienza didattica che ho realizzanto a scuola con i miei studenti e che
prende spunto dalla grave situazione internazionale in cui sono in corso i
preparativi per una guerra che si preannuncia complessa, imprevedibile e
tragica.
Tale esperienza ruota attorno
ad una metodologia attiva e interattiva che coinvolge l'intera della classe: il
gioco di simulazione. Gli studenti devono infatti simulare lo staff dei
consiglieri del Presidente degli Stati Uniti. Per quanto il termine "gioco
di simulazione" sia quello tecnicamente più adatto, in classe ho cercato
di usare il meno possibile il termine "gioco" per parlare solo di
"simulazione": "Facciamo una simulazione", ho detto.
Infatti la progettazione di una guerra non può essere simulata come un gioco,
almeno dal mio punto di vista, per il suo carattere tragico. E tuttavia la
simulazione, proprio perché può prendere in considerazione diverse opzioni
porta ad esaminare anche opzioni alternative alla guerra: misure politiche e
diplomatiche volte a garantire la sicurezza. E quindi la simulazione può servire
anche a verificare che non sempre la guerra è lo strumento più efficace e
"più forte" per essere forti e per raggiungere gli obiettivi che ci
si prefigge. In tal senso la simulazione può ritornare ad essere un
"gioco" che ha come mezzo di elaborazione il miglior software di cui
l'uomo dispone, la ragione, e come fine la pace.
Premetto che questo
"laboratorio didattico" di simulazione che vi "racconterò"
è stato sperimentato ieri nella 2F, nella 4Bm e nella 5Bm dell'Istituto Tecnico
Industriale Righi di Taranto. Esso si ispira al gioco "Wall Street"
contenuto nel bel libro di Matteo Morozzi e Antonella Valer "L'economia
giocata", uscito ad agosto per le edizioni EMI (gli indirizzi e-mail degli
autori sono antonella.valer@unimondo.it e bottegadelmondo@tiscalinet.it). E
infatti ad agosto ho avuto modo di "addestrarmi" su questo gioco di
ruolo con l'autrice Antonella Valer in un corso di aggiornamento
sull'educazione alla mondialità organizzato a Trodena (BZ) dall'AIFO
(Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau). L'esito veramente
coinvolgente di quell'esperienza mi aveva convinto della bontà e necessità di
introdurre nella scuola anche i giochi di simulazione.
Pur partendo da "Wall
Street", questo laboratorio didattico di simulazione introduce delle varianti
che lo rendono sostanzialmente nuovo e che lo spostano dal settore
dell'economia a quello della geopolitica e della elaborazione delle opzioni di
guerra e di pace.
Lo "staff del
presidente" è un laboratorio di simulazione che ha come obiettivo quello
di far prendere al Presidente degli Stati Uniti - alla luce delle informazioni
oggi disponibili - le scelte più efficaci per combattere il terrorismo e
rispondere adeguatamente ai tragici fatti recentemente accaduti negli Stati
Uniti.
La simulazione ha le seguenti
regole:
- i consiglieri hanno il
compito di elaborare delle proposte militari e politiche;
- il Presidente ha il compito
di ascoltare tutti senza esprimere pareri ma ponendo solo domande per poi alla
fine elaborare degli scenari ed esprimere delle valutazioni in merito sui pro e
sui contro, indicando il suo giudizio complessivo;
- ogni consigliere dispone di
un voto che può andare ad una o due opzioni al massimo;
- il presidente dispone di 5
voti e spesso è determinante per il successo di una opzione; può scegliere solo
una opzione.
Fin qui la simulazione è
piuttosto semplice ed è un addestramento didattico all'ascolto,
all'elaborazione orale in modo logico e stringente delle proprie
argomentazioni, all'elaborazione di scenari alternativi, alla considerazione di
punti di vista plurimi e alla valutazione secondo la bilancia
"costi/benefici" secondo un approccio non deterministico ma
probabilistico, basato sulla valutazione del rischio.
Gli studenti-consiglieri non
discutono tutti insieme ma si riuniscono in tre gruppi: uno che discute ed
elabora le opzioni militari, uno che valuta le conseguenze di tali opzioni
sulla borsa e sull'economia e uno che valuta le ripercussioni di tutto ciò sull'opinione
pubblica (nazionale e internazionale) e quindi sul consenso che ogni opzione
produrrebbe in termini di appoggio al Presidente.
Ma a turbare questo ideale
"parlamento della logica", con le commissioni degli esperti intenti a
valutare i pro e i contro, intervengono fattori segreti e preoccupazioni
inconfessabili, in buona parte tratte dal gioco "Wall Street" ma
rielaborate nel contesto specifico.
Infatti nel corso della
simulazione ho chiamato da parte, con i pretesti più svariati, alcuni studenti
e ho loro consegnato di nascosto un bigliettino "top-secret" dicendo
di non rivelare a nessuno ciò che stavano leggendo. Ecco il contenuto dei
bigliettini:
1) Il primo viene consegnato al
Presidente: "Top-Secret per il Presidente: la CIA ti ha informato che fra
i consiglieri che incontrerai forse c'è una spia. Sarebbe riconoscibile perché
cercherà di convincerti usando le parole "pace",
"giustizia", "occorrono le prove". Questa spia avrebbe il
compito di creare disaccordo fra i tuoi consiglieri e di portare così alle
lunghe i lavori del tuo staff.
2) Un altro bigliettino viene
consegnato ad una "finta spia": "Sei uno dei nuovi consiglieri
dello staff del Presidente. Cerchi di fare carriera. Hai saputo che il
Presidente vuole dichiarare la guerra con un solenne discorso ma che non riesce
a trovare le frasi giuste per inserire in modo convincente le parole
"pace", "giustizia" e l'espressione "possiamo fornire
le prove". Alcuni amici ti consigliano pertanto di intervenire per offrire
le idee più azzeccate per elaborare il discorso alla Nazione del Presidente.
3) Ed ecco il bigliettino
passato alla "vera spia" che si è inserita nello staff presidenziale
in veste di consulente: "Sei una spia di una società segreta che gioca in
borsa e che ha lo scopo di far crollare la borsa di Wall Street con una manovra
arrischiata. Se Wall Street cade allora il dollaro affonda e la società segreta
ha acquistato oro in enormi quantità perché l'oro andrà alle stelle e tu
realizzerai enormi guadagni. Il tuo scopo è pertanto quello di dare al
Presidente i consigli peggiori.
4) Infine due bigliettini
vengono dati a due consiglieri ben collegati alla lobby delle armi: "Sei
un consigliere dello staff presidenziale. Hai acquistato in borsa forti
quantitativi di azioni di aziende che producono armi. Premi sul Presidente
perché scateni una guerra in modo che le tue azioni salgano in borsa: con una
guerra realizzerai enormi guadagni".
La durata della simulazione è
stata di due ore più un'ora per scrivere i commenti su ciò che hanno provato. I
bigliettini sono rimasti rigorosamente segreti (come pure i ruoli
"inconfessabili") e sono stati letti solo dopo la votazione,
generando stupore e "colpi di scena".
La simulazione nelle due classi
è andata benissimo forse perché i ragazzi sono stati presi di sorpresa e
trascinati per due ore nei panni di chi ora sta decidendo il futuro del mondo.
I giudizi finali sono stati di estremamente positivi in quanto il
"laboratorio" imponeva loro di astrarsi dalle loro convinzioni per
spingerli ad informarsi, porsi nei panni degli altri, ascoltare e valutare
diversi punti di vista, costruire le ipotesi finali su cui effettuare la
votazione conclusiva.
Ed ecco come è andata in 2F (16
studenti). Ogni consigliere poteva esprimere un voto anche per una o due opzioni.
Le opzioni elaborate sono state le seguenti:
1) No alla guerra per le
ripercussioni negative sulla borsa. Proposta: collaborazione attraverso l'ONU
di tutte le polizie del mondo per sconfiggere il terrorismo. 6 voti.
2) Guerra massiccia per piegare
ogni resistenza con i bombardamenti aerei, anche mettendo a rischio la vita dei
civili. L'altro rischio è quello di una disperata reazione di terroristi
kamikaze in tutto il mondo. Ma questi rischi vengono messi nel conto e
l'opzione è considerata inevitabile per sradicare definitivamente le basi del
terrorismo. 5 voti
3) Intervento mirato con truppe
di terra. Si mette nel conto la perdita di soldati Usa e l'incremento delle
spese militari. 9 voti
4) Minaccia dell'uso della
bomba atomica. 4 voti
Il Presidente (lo avevo scelto
io fra i ragazzi più saggi e preparati) ha puntato i suoi 5 voti sulla 3'
opzione, che è risultata vincente. Rivelato a sorpresa il contenuto dei
bigliettini segreti, il Presidente si è accorto che la spia (che doveva dargli
i "consigli peggiori" per far crollare Wall Street) aveva premuto sia
per l'opzione 2 sia per l'opzione 3. "Chi pensavi fosse la spia?", ho
chiesto. Il Presidente ha indicato il consigliere carrierista, che gli aveva
proposto alla fine l'opzione 1.
I consiglieri collegati alla
lobby militare hanno votato per la 2 e la 3 (uno) e per la 2 e la 4 (l'altro).
Molto interessante è stato il
fatto che il "pregiudizio" del Presidente, creato ad arte da
informazioni sibilline e pilotate, ha generato effetti catastrofici portando a
confondere un carrierista con una spia e perdendo di vista il vero sabotatore.
In 5Bm le ipotesi elaborate
sono state 5:
1) attaccare solo obiettivi militari e non obiettivi
civili; distruggere riserve carburante; non usare la bomba atomica; questa
opzione ha prevalso con 9 voti più i 5 del Presidente;
2) contatti con terroristi rivali per catturare Bin Laden
(nessun voto)
3) prendere Bin Laden con infiltrati "puliti" (4
voti)
4) attacco globale (5 voti)
5) soluzione pacifica, uso solo delle polizie mondiali
coordinate (3 voti).
Da notare: questa è la classe
più "pacifista" che ho (in un sondaggio segreto dello scorso anno la
maggioranza degli studenti simpatizzava per Rifondazione Comunista) e tuttavia
ho affidato agli studenti più dotati di maggiore dialettica i ruoli degli
infiltrati, i quali hanno fatto un buon lavoro. I lobbisti delle armi hanno
votato rispettivamente per le opzioni 1-3 e 1-4, l'infiltrato vero che voleva
far crollare Wall Street ha votato per l'opzione 4 mentre il carrierista ha
scelto la 1 e la 4.
In 4Bm (una classe nuova che
non conoscevo) i ragazzi-consiglieri
hanno elaborato 5 proprie ipotesi e i voti attribuiti sono stati questi:
1) attacco globale e massiccio:
4 voti
2) infiltrazione di corpi
speciali in Afghanistan e spionaggio per catturare Bin Laden, anche con accordi
con guerriglieri delle fazioni rivali: 6 voti
3) attacco aereo alle basi
militari: 4 voti
4) attacco con truppe di terra;
azioni mirate preparate dallo spionaggio 4 voti
5) collaborazione tra le
polizie e i servizi segreti di tutto il mondo mediante il coordinamento
dell'ONU: 4 voti
I 5 voti determinanti del
Presidente sono andati sulla 5' opzione. Il Presidente, che era stato eletto
dai ragazzi, era uno dei ragazzi più preparati e alla fine ha dimostrato una
saggezza che speriamo sappia trovare anche Bush. La finta spia è stata
individuata ma non ha condizionato il Presidente. Il sabotatore infiltrato
dalla società segreta che aveva comprato oro ha agito in segreto con molta
determinazione, forse troppa, tanto che il gruppo della "borsa" ha
detto: "Ma che stai dicendo, sei pazzo? Così fai crollare la borsa!"
Aveva consigliato infatti al Presidente l'attacco globale all'Afghanistan. La
finta spia aveva consigliato l'opzione 2 mentre i consiglieri collegati alle
lobby militari avevano scelto l'attacco globale.
La cosa da segnalare è che io
non ho influenzato in alcuno modo le due classi (non avevo espresso le mie
opinioni, siamo all'inizio dell'anno scolastico e questi sono i primi incontri)
e in particolare la 4 Bm non la conosco
(è nuova per me).
Riporto sinteticamente alcune
frasi che hanno scritto come riflessione finale:
Antonio: "Attività
abbastanza interessante capace di sviluppare caratteristiche innovative e di
aprire la mente ad altre opinioni. Lo scopo finale di questo gioco, oltre al
coinvolgimento, è quello di non trarre conclusioni affrettate e di non basarsi
sui pregiudizi".
Damiano: "Affrontando
l'argomento della guerra attraverso un gioco di simulazione ho capito ed elaborato
con i miei compagni nuove opinioni".
Luca: "Questo gioco o, per
meglio dire, questa simulazione, ci è servita ad analizzare i problemi da
molteplici punti di vista. Senza arrivare a conclusioni affrettate abbiamo
cercato diverse soluzioni a questo delicato problema. Dopo una votazione è
emerso che la soluzione preferibile era quella di mantenere la pace. In seguito
il professore ci ha rivelato di aver distribuito dei biglietti a dei ragazzi e
in questi biglietti c'erano scritti dei compiti da svolgere e delle "parti
da recitare". In conclusione dico che il lavoro ci è servito anche a
discutere in gruppo, condividendo le nostre idee con gli altri".
Michele: "In questa
simulazione si può dire che ognuno di noi cercava di guardare i problemi da
vari punti di vista, senza sottovalutare i pro e i contro. Siamo riusciti ad
analizzare un problema molto grave, cercando di trovare soluzioni a questioni
certamente molto più grandi di noi".
Nicola: "E' stato un
"gioco" interessante e allo stesso tempo educativo perché ha
evidenziato che anche dei pregiudizi possono comportare una guerra".
Enrico: "Grazie a questa
specie di "gioco" abbiamo capito che non bisogna fidarsi dei
pregiudizi della gente perché alle volte in situazioni simili a questa (in
condizioni reali) ci può essere sempre chi fa il doppio gioco con il solo scopo
di arricchirsi alle spalle della gente che lotta come in questo caso per
trovare una soluzione più pacifica possibile".
Attilio: "Questa attività
di simulazione mi è servita molto per approfondire le vicende accadute da vari
punti di vista (politico, economico e sociale) e soprattutto per
responsabilizzarmi".
Emilio: "Questa attività
ci è servita ad aprirci la mente. Siamo abituati a seguire i "media"
ma oggi abbiamo imparato a non avere pregiudizi. Ogni scelta deve essere
motivata e deve interessarsi dei possibili riscontri".
Marco: "E' stata una simulazione interessante
poiché si interagisce con molte opinioni e bisogna ragionare sui pro e sui
contro prendendo così la decisione più giusta. Ma insegna anche a non fidarsi
di persone importanti che possono essere spie che cercano di far valere la
propria opinione per propri scopi".
Cosimo M.: "Sono molto
contento di aver potuto partecipare a questa attività di simulazione che è
riuscita a coinvolgere tutta la classe attorno ad un compito comune, rendendo
quanto più reale possibile una immedesimazione nella situazione attale che gli
Usa e il resto del mondo stanno affrontando in questi giorni".
Cosimo Q.: "Questa
attività ci è servita ad entrare meglio nel problema della guerra. Infatti
alcuni non sapevano bene tutto ciò che sta accadendo e poi abbiamo capito che
non bisogna molto fidarsi degli altri e soprattutto che non bisogna farsi
pregiudizi".
Alessio: "Con questa
simulazione ho capito quanto possa essere difficile prendere una decisione,
soprattutto quando questa scelta comporta il sacrificio di vite umane da parte
del Presidente. Dall'altra parte è stato bello perché è interessante provare a
far parte dello staff presidenziale. Spero che si possa ripetere questa
esperienza perché la ho reputata interessante".
Ma chi ha saputo riassumere con
la massima semplicità il senso di tutto è stato Christian, che ha scritto:
"Abbiamo imparato con la nostra testa come comportarci dopo questa
tragedia".
Infatti di una tragedia si
tratta e il nostro pensiero si inchina in silenzio di fronte a tante persone
innocenti cancellate dalla follia e dal fanatismo.
Alessandro Marescotti
docente di Lettere della 2F e
4Bm dell'Istituto Tecnico Industriale "Righi" di Taranto
PS - Ringrazio profondamente gli amici dell'AIFO
, Matteo Morozzi e Antonella Valer per avermi dato l'opportunità di entrare in
modo critico ed educativo nel mondo dei giochi di simulazione.
SARA' UNA
GUERRA DI PAROLE
di Edward
Luttwak (Consigliere militare del Pentagono)
Gli Stati
Uniti stanno ammassando un imponente potenziale militare, facendo convergere
sull'oceano Indiano nord-occidentale quattro flotte con altrettante portaerei.
L'impressione prevalente è che si preparino a invadere l'Afganistan o a colpire
di nuovo l'Iraq con bombe questa volta più intelligenti del 1991.
Nessuna
delle due opzioni in realtà è probabile. Non quella irachena, a meno che non
emergano prove inconfutabili contro Saddam Hussein, indicato come uno dei
principali finanziatori di Osama Bin Laden (meno ricco di quanto si favoleggi).
In questo caso, ma solo in questo caso, si
materializzerebbe
l'ipotesi di una rappresaglia su larga scala, preceduta da una vasta
preparazione diplomatica.
Anche
l'opzione afgana non appare possibile né necessaria. Non è possibile in quanto
costringerebbe a richiamare almeno 3mila riservisti. Non è necessaria in quanto
per sconfiggere i talebani sarà sufficiente, da un lato, tagliare i
rifornimenti militari provenienti dal Pakistan e,
dall'altro,
riarmare massicciamente i loro mortali nemici dell'Alleanza settentrionale (che
la stragrande maggioranza dei governi mondiali riconosce tuttora come il legale
governo afgano).
Di
conseguenza ritengo che la risposta americana agli attacchi dell'11 settembre
non possa che essere al 50% per cento diplomatica e al 50% per cento militare.
A questa previsione sono indotto da una semplice constatazione: in Afganistan
non ci sono obiettivi validi per un bombardamento aereo o per azioni di
commando.
Non è un
obiettivo valido Al Qaeda, la cui struttura è frammentata e mobile. Non ci sono
quartieri generali. I depositi di armi sono baracche di sperduti villaggi. I
campi di addestramento sono appunto solo campi. O sono in Paesi stranieri, per
esempio gli Usa nei quali si addestrarono i piloti
suicidi.
Bombardare quelle baracche e quei campi sarebbe inutile in termini materiali e
controproduttivo in termini politici. I più insignificanti danni inflitti
all'Afganistan verrebbero immediatamente rapportati alle stragi disastrose di
New York e Washington.
Non molto
più promettente sarebbe una campagna di bombardamenti sui talebani. Anche
costoro non formano un esercito vero e proprio. Se il Pakistan tagliasse loro
le forniture militari ne risentirebbero. E potrebbero perdere qualche dozzina
di carri armati e qualche centro di
comando a
Kabul, Kandahar, Jalalabad in caso di battaglia con gli americani. Tutto qui.
(…) Già in
area di operazione di trovano i Rangers del 75esimo battaglione di fanteria e
la Delta Force dei paracadutisti. Non dovrebbero avere alcun problema a
entrare, anche perché i talebani non dispongono di un efficace sistema radar e
di forze di intercettazione.
L'Afganistan
può essere penetrato da ordinari aerei da trasporto, che sono quelli usati
dalle forze speciali. I Combat Talon C 3 volano a basse quote, con ogni tempo,
di giorno e di notte, e atterrano anche su piste desertiche. I massimi comandi
americani sono però riluttanti a ordinare, come fanno invece israeliani e
britannici, operazioni di commando. Ricordano ancora la debacle di Mogadiscio,
nel 3, quando Rangers e Delta furono uccisi. E da allora, se premuti dai
politici, hanno sempre posto
come
precondizione una vasta raccolta di intelligence.
Ora forse
saranno più disposti a rischiare la vita dei loro uomini. Non rimane da sperare
che agenti locali o pakistani guidino i commandos americani nelle tane di Osama
Bin Laden, da prendere vivo o morto.
Fonte: Il
Resto del Carlino Online
IL TESTO
DEL TRATTATO NATO FIRMATO A WASHINGTON IL 4 APRILE 1949
Le Parti del
presente Trattato, riaffermarmando la propia fede negli scopi e nei principi
della Carta delle Nazioni Unite, ed il desiderio di vivere in pace con tutti i
popoli e con tutti i governi, decisi a salvaguardare la libertà dei propri
popoli, il proprio retaggio comune e la propria civiltà, fondati sui principi
della democrazia, sulle libertà individuali e sul predominio del diritto,
desiderosi di favorire nella regione dell'Atlantico settentrionale il benessere
e la stabilità, decisi a riunire i loro sforzi per la loro difesa collettiva e
per il mantenimento della pace e della sicurezza, hanno siglato d'intesa il
presente Trattato del Nord Atlantico:
Articolo 1
Le Parti si
impegnano, in ottemperanza alla Carta delle Nazioni Unite, a comporre con mezzi
pacifici qualsiasi controversia internazionale nella quale possano essere
implicate, in modo da non mettere in pericolo la pace, la sicurezza e la
giustizia internazionali, e ad astenersi nei loro rapporti internazionali dal
ricorrere alla minaccia o all'impiego della forza in modo incompatibile con gli
scopi delle Nazioni Unite.
Articolo 2
Le Parti
contribuiranno al futuro sviluppo di relazioni internazionali pacifiche ed
amichevoli rafforzando le proprie istituzioni libere, diffondendo i principi
sui quali tali istituzioni si basano e promuovendo stabilità e benessere. Esse
cercheranno di eliminare i conflitti nelle rispettive politiche economiche
internazionali ed incoraggeranno le reciproche relazioni economiche.
Articolo 3
Al fine di
conseguire con maggiore efficacia gli obiettivi del presente Trattato, le
Parti, individualmente e congiuntamente, nello spirito di una continua e
effettiva autodifesa e assistenza reciproca, manterranno e svilupperanno la
propria capacità individuale e collettiva di resistenza ad un attacco armato.
Articolo 4
Le Parti si
consulteranno quando, secondo il giudizio di una di esse, ritengano che
l'integrità territoriale, l'indipendenza politica o la sicurezza di una di esse
siano minacciate.
Articolo 5
Le Parti
convengono che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o
nell'America settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di
conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse,
nell'esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva
riconosciuto dall'art.51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte
o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di
concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso
l'impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella
regione dell'Atlantico settentrionale.
Qualsiasi
attacco armato siffatto, e tutte le misure prese in conseguenza di esso, verrà
immediatamente segnalato al Consiglio di Sicurezza. Tali misure dovranno essere
sospese non appena il Consiglio di Sicurezza avrà adottato le disposizioni
necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali
(1).
Articolo 6
Ai sensi
dell'articolo 5, per attacco armato contro una o più parti si intende un
attacco armato:
contro il
territorio di una di esse in Europa o nell'America settentrionale, contro i
Dipartimenti algerini di Francia (2), contro il territorio della Turchia o
contro le isole situate sotto la giurisdizione di una delle parti della regione
dell'Atlantico settentrionale a nord del Tropico del Cancro;
contro le
forze, le navi o gli aeromobili di una delle parti che si trovino su detti
territori o in qualsiasi altra regione d'Europa nella quale alla data di
entrata in vigore del presente Trattato siano stazionate forze di occupazione
di una delle parti, o che si trovino nel Mare Mediterraneo o nella zona
dell'Atlantico a nord del Tropico del Cancro, o al di sopra di essi.
Articolo 7
Il presente
Trattato non pregiudica e non dovrà essere considerato come pregiudicante in
alcun modo i diritti e gli obblighi derivanti dallo Statuto alle parti che sono
membri dell'ONU, o la competenza primaria del Consiglio di Sicurezza per il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionali.
Articolo 8
Ogni parte
dichiara che nessuno degl'impegni internazionali ora in vigore tra essa ed ogni
altra parte o tra essa e qualsiasi altro Stato è in contrasto con le
disposizioni del presente Trattato e si obbliga a non assumere alcun impiego
internazionale in contrasto con il presente Trattato.
Articolo 9
Le Parti con
il presente Trattato costituiscono un Consiglio, con diritto alla
rappresentanza di ognuna di esse, per decidere le questioni in connessione al
presente Trattato. L'organizzazione del Consiglio dovrà permettere una
convocazione in ogni momento. Il Consiglio potrà creare gli organi che riterrà
necessario; in particolare esso dovrà immediatamente costituire un comitato di
difesa che dovrà raccomandare le misure per l'implementazione degli articoli 3
e 5.
Articolo 10
Le Parti
potranno decidere all'unanimità di invitare ogni altro Stato Europeo di
adottare le norme del presente Trattato, contribuendo così alla sicurezza
dell'area nord atlantica. Gli Stati così invitati potranno diventare Parte del
presente Trattato depositando i propri strumenti di adesione presso il Governo
degli Stati Uniti d'America. Il Governo degli Stati Uniti d'America informerà
tutte le Parti di tale deposito.
Articolo 11
Il presente
Trattato dovrà essere ratificato ed attuato dalle Parti in accordo con le norme
costituzionali di ciascuna delle Parti. Gli strumenti di ratifica dovranno
essere depositati il più presto possibile presso il Governo degli Stati Uniti
d'America, che notificherà tale atto a tutte le Parti. Il Trattato entrerà in
vigore tra gli Stati che l'avranno ratificato non appena la maggioranza degli
Stati firmatari, ivi comprese le ratifiche di Belgio, Canada, Francia,
Lussemburgo, Olanda, Gran Bretagna e Stati Uniti d'America, avranno depositato
le ratifiche, ed entrerà in vigore rispetto agli altri Stati nel momento del
deposito delle loro ratifiche.
Articolo 12
Dopo 10 anni
dall'entrata in vigore del Trattato, o in ogni momento successivo, le Parti
dovranno avviare le consultazioni circa la revisione del Trattato, qualora una
di esse ne faccia richiesta, tenendo in considerazione la pace e la sicurezza
dell'area nord atlantica, ivi incluso lo sviluppo degli assetti regionali ed
universali secondo la Carta delle Nazioni Unite, per il mantenimento della pace
e della sicurezza internazionale.
Articolo 13
Dopo 20 anni
dall'entrata in vigore del Trattato ciascuna delle Parti potrà ritirare la
propria adesione dopo un anno dal deposito del relativo avviso Stati Uniti
d'America, il quale provvederà a notificare alle altre Parti il deposito di
tale avviso.
Articolo 14
Il presente
Trattato, nelle versioni francese ed inglese facenti ugualmente fede, sarà
depositato presso il Governo degli Stati Uniti d'America. Copie debitamente
autenticate saranno trasmesse ai Governi delle parti contraenti.
Note:
1. La
definizione dei territori ai quali è applicabile l'articolo 5 è stato
modificato dall'articolo 2 del Protocollo del Trattato del Nord Atlantico con
l'ingresso della Grecia e della Turchia e i Protocolli firmati all'ingresso
della Repubblica Federale della Germania e della Spagna.
2. Il 16
gennaio 1963, il Consiglio del Nord Atlantico ricevette una dichiarazione del
Rappresentante Francese che segnalava che, a seguito del voto del 1 luglio 1962
sull'autodeterminazione, il popolo algerino si era pronunciato in favore
dell'indipendenza dell'Algeria in cooperazione con la Francia. Di conseguenza,
il Presidente della Repubblica Francese il 3 luglio 1962 riconobbe
ufficialmente l'indipendenza dell'Algeria. Ne risultò che i "Dipartimenti
algerini della Francia" cessarono di esistere, e che allo stesso tempo la
loro menzione nel Trattato del Nord Atlantico non aveva più significato. Il
Consiglio prese dunque atto che, per quel che riguardava gli ex Dipartimenti
algerini di Francia, gli articoli interessati di questo Trattato erano divenuti
inapplicabili a partire dal 3 luglio 1962.
Nota di
Studi per la Pace: Traduzione non ufficiale. Per la versione originale, cfr. la
pagina web dell'Organizzazione del Nord Atlantico (NATO).
IL MOVIMENTO
PER LA PACE NEGLI STATI UNITI
Di Alice
Dembner e David Abel, inviati del Globe, 18/9/2001
NEW YORK -
Si stanno radunando sommessamente in veglie, non organizzano proteste. E in
gran parte li sta soffocando un'ondata febbrile di retorica di guerra.
Ma in tutto
il paese, le voci a favore del pacifismo e di un atteggiamento di calma
diventano sempre più forti.
A poco più
di un miglio dal "ground zero" del World Trade Center, ormai ridotto
in cenere, a Union Square una veglia per le vittime si è già trasformata in un
centro ad hoc per il nascente movimento pacifista. Il monumento a George
Washington che si trova sulla piazza non solo è coperto di bandiere americane,
ma anche di slogan contro la guerra.
Veglie per
la pace sono state organizzate da Portland, nell'Oregon, a Cambridge, nel
Massachussetts, e nelle prossime settimane se ne terranno moltissime
dappertutto.
Più di 100
organizzazioni religiose e per i diritti civili hanno intenzione di riunirsi
giovedì a Washington per organizzare una risposta ampia agli atti terroristici
della settimana scorsa, nella speranza di mitigare il sostegno governativo ad
attacchi armati all'estero e ad un ampliamento dei
poteri di
imposizione delle leggi negli USA.
Separatamente,
gruppi pacifisti si incontreranno venerdì a New York per pianificare un'azione
nazionale contro la "guerra al terrorismo" dichiarata da Bush,
sostenendo che la guerra non è la risposta giusta e che porterà solo ad una
escalation di violenza.
"Stiamo
mobilitando la comunità pacifista perché si faccia un appello a favore della
riconciliazione e non della rappresaglia", ha dichiarato Judith Mahoney
Pasternak della War Resisters League. "Prima iniziamo a intonare canti di
pace per contrastare i tamburi di guerra, meglio sarà".
Mentre la
War Resisters League ha detto che i propri sforzi organizzativi sono stati
ostacolati da problemi con telefoni e posta elettronica presso i loro uffici a
solo 1 miglio e mezzo dal luogo dell'attentato, altri gruppi dichiarano di
essersi mossi con cautela per rispetto nei confronti delle
vittime.
"Vogliamo
costruire un'opinione pubblica nelle nostre comunità, e passare molto
rapidamente a esprimerla a livello nazionale", ha detto Judith McDaniel,
dell'ufficio nazionale del Comitato American Friends Service di Philadelphia.
Ha confermato che l'ufficio ha ricevuto diverse minacce di attentati da quando
ha lanciato una campagna nazionale per la pace chiamata "No More
Victims" (Niente più vittime).
Intanto,
all'interno del Congresso qualcuno si chiede se i legislatori si stiano
affrettando a intraprendere azioni che danneggeranno gli USA. Il senatore
Patrick Leahy, un democratico del Vermont, ha dichiarato ieri di essere
preoccupato che la spinta ad allentare le restrizioni sulle
intercettazioni
potrebbe ledere le libertà civili.
"Non
vogliamo legare le mani dei servizi di intelligence, ma non abbiamo nemmeno
intenzione di limitare i diritti di milioni di americani", ha detto. E il
deputato Barbara Lee, il democratico californiano unico membro del Congresso a
votare contro la risoluzione della settimana scorsa che
autorizzava
il presidente Bush all'utilizzo della forza contro il terrorismo, dice che la
sua posizione sta guadagnando sempre più sostenitori.
"La
gente inizia a capire che dobbiamo mostrare una certa calma, che non vogliamo
che la spirale degli eventi ci sfugga di mano", ha dichiarato la Lee.
"Dobbiamo garantire che la democrazia venga mantenuta e che il nostro
paese sia sicuro".
Non sono
solo i pacifisti ad essersi schierati contro la retorica bellica, ma anche
altre persone che guardano alla storia e vedono i fallimenti e le violenze
seguiti ad un intervento degli Stati Uniti non accuratamente ponderato.
Nel 1998,
fanno notare, gli USA bombardarono un presunto stabilimento di armi chimiche in
Sudan, che si rivelò essere un'industria farmaceutica. E durante la Seconda
Guerra Mondiale, l'isteria collettiva condusse gli americani a deportare i
giapponesi-americani in campi di internamento. "L'analogia della guerra è
un vero problema per me", dice Stephen Zunes,
presidente
del programma di studi per la pace e la giustizia dell'Università di San
Francisco. "Non si è trattato di un atto di guerra ma di un atto
criminale. Dobbiamo pensare in termini di risposta da parte delle forze di
polizia. Ma non credo sarebbe poco realistico organizzare operazioni di
commando su scala ridotta per neutralizzare le cellule terroristiche."
Noam
Chomsky, pacifista di lunga data e professore del MIT, si oppone anche a questa
azione. "Un appello perché si faccia vendetta senza pensare a quello che
ci aspetta è un regalo per i terroristi", ha detto. "In pratica
garantisce una escalation di violenza. Un'alternativa a breve termine è
seguire lo
stato di diritto attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o il
Tribunale Mondiale."
Lo storico
Howard Zinn, in passato in servizio presso la Boston University, suggerisce che
la risposta al terrorismo sta da qualche altra parte. "Dobbiamo
trasformarci da una nazione belligerante in una nazione che usa le proprie
risorse a scopo costruttivo… per arrivare al dolore e alla miseria che
alimentano il terrorismo," dice.
Nella zona
di Boston, sono in programma veglie pacifiste per oggi a mezzogiorno presso il
Palazzo Federale JFK e domani alle 18 a Copley Square, con un incontro
organizzativo in merito a ulteriori eventi. Alla Tufts University, i membri del
programma di studi per la pace e la giustizia stanno facendo circolare una
petizione per chiedere che "la ricerca della giustizia" si concentri
solo su chi ha commesso l'orrendo crimine, evitando di colpire popolazioni
intere, nel rispetto delle libertà
civili. A
Union Square a New York, giovani e vecchi, ebrei e gentili, bianchi e neri si
sono raccolti attorno a migliaia di candele votive, bandiere americane e fotografie
dei dispersi per rendere loro omaggio e cantare slogan come "La vendetta
non è giustizia" e "Spezzate il circolo della violenza: La guerra è
debolezza, la pace è forza".
"La
gente ha bisogno di sapere che esistono altri sentimenti in America, che non
siamo tutti falchi in attesa di scambiare occhio per occhio", ha detto
Josh Torpey, 24 anni, un insegnante di Manhattan che ha incontrato un gruppo di
amici a Union Square domenica sera.
Ted Lawson,
un artista di Boston di 31 anni, stava creando un'immagine della bandiera
americana con le impronte delle dita dei passanti per rappresentare l'unità
dell'America, ma ha dichiarato di domandarsi se le azioni di guerra condotte
dagli Stati Uniti avessero incoraggiato il
terrorismo.
In tutto il parco si sono accesi infuocati dibattiti fra chi mette in
discussione la politica degli USA e chi ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero
annientare qualsiasi gruppo o stato che abbia fornito aiuto nell'organizzazione
degli attacchi.
Ma altri
erano spaventati dalla prospettiva di una guerra. Mentre accendeva una candela
vicino a una fila di rose sistemate in modo da ricordare le Torri Gemelle,
Christine Andriopoulos ha detto di essere spaventata. "Il messaggio
dovrebbe essere uno stop alla violenza", dice. "Qui. Ora. Per
sempre.
Questo
articolo è stato pubblicato sul Boston Globe del 18/9/2001; traduzione
dall'americano di Paola Manca.
PALESTINESI
FELICI PER GLI ATTENTATI AGLI AMERICANI?
Articolo
scritto dal giornalista Nigel Parry (riprodotto su PeaceLink News)
12 settembre
2001 - Ieri e oggi, di seguito alle immagini relative agli aerei di linea
inumanamente usati come missili per attaccare la gente in visita o al lavoro
nei palazzi del World Trade Center a New York e nel Pentagono a Washington, la
maggior parte dei media ha mandato in onda
servizi che ritraevano festeggiamenti in territorio palestinese.
La breve
sequenza è stata programmata ciclicamente e utilizzata come spunto per
un'intervista, durante la quale i giornalisti hanno sondato tra rappresentanti
del governo USA e non opinioni sulle suddette immagini.
Quasi in
tutti i networks statunitensi i giornalisti hanno presentato il servizio come
se fosse rappresentativo della reazione di tutti i Palestinesi, senza
preoccuparsi di aggiungere alcun contesto alle immagini.
E' doveroso
fare alcune osservazioni, innanzitutto sulle immagini effettive.
1. tre
milioni di Palestinesi vivono tra la striscia di Gaza e West Bank, Gerusalemme
compresa, un milione di loro vivono all'interno dei confini di Israele, e altri
4 milioni di palestinesi sono rifugiati in altre parti del mondo, Stati Uniti
inclusi. Le immagini in questione mostravano un massimo di 40 individui.
2. I
Palestinesi raffigurati nella sequenza di immagini sono per la maggior parte
bambini. Gran parte dei comportamenti e degli atteggiamenti mostrati nel
servizio non sono sembrati diversi dalle reazioni che i bambini palestinesi
hanno sempre avuto in presenza di giornalisti stranieri, urla e
grandi
sorrisi alla telecamera, segno di vittoria, che è stato il simbolo della
risolutezza palestinese sotto l'occupazione militare di Israele fin dalla prima
Intifada nel 1987. Non c'è un solo reporter che abbia girato immagini
differenti da queste della West Bank palestinese, sia che fosse una circostanza
particolare, sia che fosse un qualsiasi altro giorno nei territori occupati.
3. In questi
servizi, in cui tutto fa sembrare quei comportamenti una reazione gioiosa agli
attacchi sferrati pochi minuti prima alle torri gemelle e al Pentagono, i
giornalisti che hanno commentato la sequenza non si sono mai azzardati a
offrire un contesto o un background alle immagini, né hanno cercato di separare
quei pochi individui dai restanti milioni di Palestinesi. (…)
4. Gran
parte dei Palestinesi, come è successo per molta altra gente di ogni
nazionalità, è stata disgustata e scioccata dagli eventi di New York e
Washington. Tutti i Palestinesi con parenti a New York e Washington hanno
passato la giornata di ieri cercando di telefonare per assicurarsi che
fossero
salvi, esattamente come molti americani hanno fatto. Tra le vittime della
tragedia sono presenti anche cittadini palestinesi. In ogni caso, un gruppo di
20-40 bambini palestinesi non è più rappresentativo dell'intera popolazione
palestinese di quanto il Klu Klux Klan rally lo possa essere
per la
popolazione americana (…)
I media
americani ieri hanno mandato in onda quella sequenza di immagini senza spiegare
una sola ragione di queste, cose che non sono né nuove né accettabili alla luce
del sentimento anti-Palestinese, anti-Arabo e anti-Musulmano che hanno creato.
Nessuna associazione di giornalisti che
intendesse
fornire ai suoi spettatori una rappresentazione accurata e quanto più reale dei
fatti dovrebbe diffondere immagini non rappresentative di una maggioranza e per
di più senza contesto, immagini che servirebbero soltanto ad alimentare ed
incoraggiare il razzismo verso una nazionalità e i gruppi etnici ad essa
associati (….)
Chi vive
negli Stati Uniti prova giustamente rabbia verso i responsabili degli orribili
e devastanti eventi di ieri, ma non deve commettere l'errore di attribuire la
responsabilità dell'accaduto a un'intera popolazione che continua a soffrire
attraverso uno dei periodi più bui della sua già desolata storia.
MESSAGGIO
FINALE DELLA CONFERENZA INTERNAZIONALE SU
“CRISTIANI
E MUSULMANI IN EUROPA: RESPONSABILITA’ E IMPEGNO RELIGIOSO IN UNA SOCIETA’
PLURALISTA”
Sarajevo
12-16 settembre 2001
La
Conferenza delle Chiese Europee (KEK) e il Consiglio delle Conferenze
episcopali europee (CCEE) hanno invitato Cristiani e Musulmani impegnati in
attività interreligiosa ad incontrarsi a Sarajevo, città altamente simbolica
per gli scambi religiosi e culturali. Nell’attuale nuova fase multireligiosa e
multiculturale della storia d’Europa, Musulmani e Cristiani da 26 paesi durante
tre giorni si sono scambiate le loro preoccupazioni su tre diversi ambiti:
· le sfide
che vengono dal vivere insieme in una società largamente pluralista e
secolarizzata;
· la
guarigione delle ferite delle memorie storiche dei Cristiani e Musulmani
cosicché possano impegnarsi per la giustizia e la pace per tutti;
· la
condivisione dei valori con i quali le nostre comunità possono attivamente
contribuire a costruire una società migliore.
Considerando
la nostra riunione come un dono di Dio, abbiamo condiviso le nostre convinzioni
e le nostre speranze, consapevoli della responsabilità delle nostre comunità
religiose di dare un contributo alla formazione dell’Europa futura.
Insieme
vogliamo contribuire a un’identità dinamica del nostro continente. Fedeli alle
nostre ispirazioni religiose ci impegniamo a
-
Intraprendere azioni coraggiose a sostegno della vita umana, della libertà,
della religione, della proprietà, della dignità e della giustizia;
- Dare a noi
e alle nostre comunità di fede una chiara consapevolezza della nostra comune
umanità che ci rende fratelli e sorelle aldilà delle diverse appartenenze
religiose e politiche;
- Rifiutare
la giustificazione della violenza nel nome della religione.
Il nostro
impegno per il dialogo ci porta a fare le seguenti raccomandazioni:
- Portare i
giovani a conoscere e rispettare ciascuno la fede e la comunità dell’altro
attraverso programmi educativi;
- Promuovere
nelle scuole pubbliche un’educazione interreligiosa che preveda anche corsi
interreligiosi;
- Sostenere
gruppi interreligiosi di laici a livello locale per accrescere la
consapevolezza di tutto ciò che ostacola la cooperazione;
-
Incoraggiare al dialogo e all’incontro interreligioso preti, pastori, teologi,
imam e laici, attraverso scambi tra facoltà e seminari cristiani e musulmani;
- Fondare o
sostenere in ogni paese europeo istituzioni che si propongano di promuovere il
dialogo interreligioso a servizio dei valori etici, sociali e politici delle
nostre società;
- Continuare
i nostri sforzi per sviluppare la consapevolezza dei nostri comuni valori.
Alla luce
delle crescenti dimensioni dell’attacco terroristico negli Stati Uniti,
sentiamo il bisogno di reiterare il nostro documento approvato in precedenza:
“Siamo
immensamente colpiti dai tragici massacri a New York e a Washington D.C., ed
esprimiamo il nostro profondo dolore e sofferenza per le migliaia di vittime
uccise o ferite, e partecipiamo alla sofferenza dei loro familiari ed amici.
Unanimemente condanniamo questo atto di violenza, come pure ogni distruzione di
vita umana come una violazione della volontà di Dio e un peccato contro
l’umanità. Riconoscendo il potenziale di violenza che risiede in tutti noi,
preghiamo che questo avvenimento privo di senso non provochi una risposta di
ritorsione indiscriminata. Nello spirito di questa conferenza ci impegniamo a
essere strumenti di dialogo, a contribuire a costruire giustizia e pace e a
lavorare per la riconciliazione nelle nostre società”.
Questo
testo ci è stato gentilmente inviato da Gianni Novelli (novelli@gianni@tiscalinet.it)
del Centro Interconfessionale per la Pace.
INTERVISTA
A CHOMSKY
(4 ottobre
2001)
Fonte: http://www.zmag.org/Italy/albert-int-chomsky.htm
Michael
Albert intervista Chomsky
"Ho
spedito sei domande a Noam Chomsky. Le sue risposte per e-mail..."
C'è stato
un immenso movimento di truppe ed un uso estremo della retorica militare, fino
a giungere a commenti sulla possibilità di porre termine a governi ecc. Eppure
a molta gente sembra che ci sia ancora
un contenimento eccessivo... cosa è successo?
Dal primo
giorno dopo l'attacco, l'amministrazione Bush è stata messa in guardia dai
leaders della NATO, da esperti di quella regione e presumibilmente dai suoi
stessi servizi segreti (per non
parlare di
tanti come te e me) che se reagisse attaccando massicciamente e uccidendo molti
innocenti, esaudirebbe le preghiere più fervide di Bin Laden.
Cadrebbero
in una "trappola diabolica", come ha detto il ministro degli esteri
francese. Ciò sarebbe vero - e forse ancora di più - se gli riuscisse di
uccidere Bin Laden senza aver fornito delle prove
credibili
del suo coinvolgimento nei crimini dell'11 settembre. Bin Laden diventerebbe in
questo modo un martire anche tra la maggioranza dei musulmani che li
condannano, come lo stesso
Bin Laden ha
fatto, per ciò che può valere, negando qualunque coinvolgimento in essi o anche
solo di esserne a conoscenza, e condannando "l'uccisione di donne, bambini
ed altri essere umani
innocenti"
come un "atto che l'Islam proibisce recisamente... anche nel corso di una
battaglia" (BBC, 29 settembre). La sua voce continuerà a risuonare su
decine di migliaia di cassette che
già
circolano nel mondo musulmano ed in molte interviste, anche di questi giorni.
Un attacco che uccida afgani innocenti - non i Talebani ma le loro vittime
terrorizzate - sarebbe virtualmente un
appello ad
arruolarsi per la causa dell'organizzazione di Bin Laden e di altri
"laureati" di organizzazioni terroristiche costituite dalla CIA e dai
suoi compagni venti anni fa per combattere la Guerra Santa contro l'Unione
Sovietica (…) Comunque, "contenimento" mi sembra una parola
opinabile. Il 16 settembre, il New York Times ha scritto che "Washington
ha anche richiesto [al Pakistan] l'interruzione delle forniture di
carburante,... e la soppressione dei convogli di autocarri che riforniscono la
popolazione civile dell'Afganistan della maggior parte del cibo ed altro".
Stupefacentemente, questo annuncio non ha suscitato alcuna reazione percepibile
in Occidente (…) Il 27 settembre, lo stesso corrispondente del NYT riferì che
ufficiali pakistani "hanno dichiarato oggi che non si lasceranno smuovere
dalla decisione di sigillare i 2000 chilometri di confine con l'Afganistan, una
mossa richiesta dall'amministrazione Bush perché, dicono gli ufficiali,
volevano essere sicuri che nessuno degli uomini di Bin Laden potesse
nascondersi nella marea immensa dei rifugiati" (John Burns, Islamabad).
Secondo i giornali principali del mondo, dunque, Washington ha chiesto che il
Pakistan macelli numeri ingenti di afgani, milioni di loro già sul punto di
morire per fame, tagliando il limitato sostentamento che li teneva in vita.
Quasi tutte le missioni si sono ritirate o sono state espulse sotto la minaccia
di bombardamenti. Numeri elevatissimi di miserabili si sono dati alla fuga
oltre il confine per il terrore, dopo la minaccia di Washington di bombardare i
brandelli di esistenza che ancora resistono in quel paese (…) Quando i
rifugiati raggiungono le frontiere sigillate, sono intrappolati, destinati a
morire in silenzio. Solo un rivolo può fuggire attraverso gli incerti passi di
montagna. Non possiamo sapere quanti sono già morti e pochi sembrano
interessarsene. Escludendo gli enti di soccorso non ho visto fare tentativi di
una stima. Entro poche settimane un inverno duro arriverà. Ci sono alcuni
reporter ed aiutanti nei campi
di rifugiati
oltre il confine. Ciò che descrivono è abbastanza orribile, ma essi sanno, e
noi con loro, che quelli sono i fortunati, i pochi che sono stati in grado di
fuggire e che esprimono la loro
speranza che
"finanche i crudeli Americani possano provare pietà per il nostro paese in
rovina", e commuoversi per questo selvaggio genocidio silenzioso (Boston
Globe, 27 settembre).
Forse la
descrizione più appropriata è stata data dalla meravigliosa e coraggiosa scrittrice ed attivista indiana
Arundhati Roy, facendo riferimento all'Operazione Giustizia Infinita proclamata
dall'amministrazione
Bush: "Guardate la giustizia infinita del nuovo secolo. Civili che stanno
morendo di fame mentre aspettano di essere uccisi" (Guardian, 29
settembre).
Le
Nazioni Unite hanno indicato che la minaccia di morte per fame in Afganistan è
enorme. Le critiche internazionali per questa ragione sono cresciute e ora gli
USA e la Gran Bretagna parlano di fornire aiuti alimentari per scacciare la
fame. Stanno accogliendo le posizioni del dissenso nei fatti o solo in
apparenza? Quale è la loro motivazione? Quale sarà la scala e l'impatto dei
loro sforzi?
L'ONU stima
che circa 7-8 milioni di persone corrono il rischio imminente di morire di
fame. Il NY Times riferisce in un piccolo pezzo (25 settembre) che circa sei
milioni di afgani dipendono dagli
aiuti
alimentari dell'ONU, così come 3.5 milioni nei campi per rifugiati al di là del
confine, molti dei quali sono scappati giusto prima che quest'ultimo fosse
sigillato. L'articolo riportava che del
cibo viene
inviato ai campi oltre confine. Se la gente a Washington e le redazioni hanno
anche una sola cellula grigia funzionante, si renderanno conto che devono
presentarsi come umanitari che
cercano di
prevenire la tragedia crudele che ha fatto immediatamente seguito alla minaccia
di bombardamenti e di attacco militare e alla chiusura dei confini che loro
stessi avevano imposto. "Gli esperti spronano gli Stati Uniti a migliorare
la loro immagine incrementando gli aiuti ai rifugiati afgani, così come
aiutando nella ricostruzione economica" (Christian Science
Monitor, 28
settembre). Anche senza specialisti di pubbliche relazioni, i funzionari
dell'amministrazione devono capire che devono spedire del cibo ai rifugiati che
ce l'hanno fatta a superare il confine, e per lo meno parlare di lanci aerei di
cibo per la gente che sta morendo di fame all'interno: allo scopo di
"salvare le vite" ma anche di "aiutare lo sforzo per individuare
i gruppi terroristici all'interno dell'Afganistan" (Boston Globe, 27
settembre, citazione di un ufficiale del Pentagono che descrive questa cosa
come "conquistare i cuori e le menti della gente"). I redattori del
NY Times hanno ripreso lo stesso tema il giorno seguente, 12 giorni dopo che il
giornale aveva riportato che l'operazione omicida stava per essere
realizzata".
Circa
l'entità dell'aiuto, uno può solo sperare che sia enorme, o la tragedia umana
può diventare immensa in poche settimane. Ma dovremmo anche tenere a mente che
non c'è stato nulla che
impedisse
massicci lanci di aiuti alimentari sin dall'inizio e che non possiamo nemmeno
provare ad indovinare quanti siano già morti, o moriranno presto. Se il governo
è ragionevole, ci sarà almeno una parvenza dei "massicci lanci aerei"
che gli ufficiali menzionano.
Le
istituzioni legali internazionali approverebbero probabilmente tentativi di
arrestare e processa Bin Laden ed altri, supponendo che la colpevolezza possa
essere dimostrata, comprendendo l'uso della forza. Perché gli USA evitano
questa possibilità? È solo il desiderio di non legittimare un approccio che
potrebbe essere usato, allo stesso modo, contro i nostri atti di terrorismo, o
ci sono altri elementi in gioco?
Gran parte
del mondo ha chiesto agli USA di fornire qualche evidenza del collegamento tra
Bin Laden ed il crimine, e se tale evidenza potesse essere fornita, non sarebbe
difficile radunare un
sostegno
amplissimo ad un'azione internazionale, sotto l'egida dell'ONU, per arrestarlo
e processare lui ed i suoi collaboratori. Ma non è comunque una cosa semplice.
Anche se Bin Laden e la sua
organizzazione
fossero coinvolti nei crimini dell'11 settembre, potrebbe essere molto
difficile fornirne prove credibili. Come la CIA sa molto bene, avendo nutrito e
controllato da vicino queste
organizzazioni
per venti anni, esse sono diffuse, decentralizzate, non gerarchiche,
probabilmente con pochissimi flussi informatici o direzione diretta. E per
quello che sappiamo, la gran parte degli
esecutori
può essersi suicidata nella loro missione orrenda.
Ci sono
altri problemi sullo sfondo. Per citare ancora Roy, "la risposta dei
Talebani alle richieste di estradizione di Bin Laden da parte degli USA è stata
insolitamente ragionevole: producete le
prove e ve
lo daremo. La risposta del presidente Bush è la che richiesta non è
negoziabile". Roy aggiunge inoltre una delle molte ragioni per cui questo
quadro è inaccettabile per Washington:
"Mentre
si parla dell'estradizione dei capi, può l'India inserire a margine la
richiesta di estradizione dagli USA per Warren Anderson? Era il capo della
Union Carbide, responsabile della perdita di gas di Bhopal che uccise 16 mila
persone nel 1984. Abbiamo raccolto le prove necessarie. È tutto nella
richiesta. Possiamo averlo, per favore?" Questi confronti suscitano la
collera estrema delle frange estreme dell'opinione occidentale, alcuni di loro
li chiamano "la sinistra": Ma per gli occidentali che hanno
conservato la loro integrità morale e mentale e per un gran numero tra le
vittime di sempre, sono piuttosto significativi. I leader di governo
presumibilmente lo capiscono.
Ed il
singolo esempio che Roy cita è solo l'inizio, chiaramente, ed uno degli esempi
minori, non solo per la scala dell'atrocità, ma perché non fu espressamente un
crimine di stato. Supponiamo che
l'Iran dovesse
richiedere l'estradizione di alti ufficiali delle amministrazioni Carter e
Reagan, rifiutandosi di presentare un'ampia evidenza dei crimini che costoro
avevano messo in
pratica - e
questa sicuramente esiste. O supponiamo che il Nicaragua dovesse richiedere
l'estradizione dell'ambasciatore USA all'ONU, recentemente incaricato di
condurre la "guerra contro il terrore", un uomo la cui storia include
il servizio come "proconsole" (come si indicava il più delle volte)
nel dominio feudale virtuale dell'Honduras, dove di sicuro era al corrente
delle atrocità dei terroristi che egli stava appoggiando, e che sovrintendeva
anche la guerra terroristica per la quale gli USA erano stati condannati dalla
Corte Mondiale e dal Consiglio di Sicurezza (in una risoluzione contro la quale
gli USA esercitarono il diritto di veto). O molti altri.
Si
sognerebbero mai gli USA di rispondere a queste richieste presentate senza
prove, o anche se ampie prove fossero presentate?
Queste porte
è meglio lasciarle chiuse, così come è meglio mantenere il silenzio sulla
nomina di una figura leader nella gestione di operazioni condannate in quanto
terroristiche dai più alti organismi internazionali per condurre una
"guerra al terrorismo". Pure Johnathan Swift rimarrebbe senza parole.
Questa può
essere la ragione per cui gli esperti in pubblicità dell'amministrazione hanno
preferito l'utilmente ambiguo termine "guerra" al più esplicito
"crimine", "crimine contro l'umanità come
Robert Fisk,
Mary Robinson ed altri l'hanno accuratamente descritto. Ci sono procedure ben
definite per occuparsi di crimini, per quanto possano essere orrendi.
Richiedono la prova e
l'aderenza
al principio secondo cui "coloro che sono colpevoli di questi atti"
siano "giudicati responsabili una volta che l'evidenza sia stata prodotta,
ma non altri" (Giovanni Paolo II, NYT 24 settembre).
Non, per
esempio, il numero sconosciuto di miserabili che stanno morendo di fame nel
terrore all'interno dei confini sigillati, benché anche in questo caso stiamo
parlando di crimini contro l'umanità.
Se i
Talebani cadessero e Bin Laden o qualcuno ritenuto responsabile fosse catturato
o ucciso, cosa succederebbe in seguito? Cosa succederà all'Afganistan? Cosa
succederà più in generale nelle altre regioni?
Il piano di
un'amministrazione intelligente sarebbe perseguire il programma di genocidio
silenzioso in corso, combinandolo con gesti umanitari per suscitare l'applauso
del solito coro che ha il
compito di
cantare le lodi dei nobili leaders dediti a "principi e valori" e in
grado di condurre il mondo verso una "Nuova era" liberata dalla
disumanità (…) Un attacco USA non potrebbe essere
comparato
alla fallita invasione da parte sovietica negli anni '80. I sovietici
fronteggiavano un esercito cospicuo di forse 100 mila uomini o più,
organizzati, addestrati e pesantemente armati dalla
CIA e i suoi
compagni. Gli USA si trovano di fronte un'accozzaglia di persone in un paese
che è stato già virtualmente distrutto da 20 anni di orrore, per la qual cosa
portiamo una responsabilità non leggera. Le forze dei Talebani, così come sono,
potrebbero cedere rapidamente fatta eccezione per un nucleo ristretto. E ci si
aspetterebbe che la popolazione sopravvissuta dia il benvenuto ad
una forza di
invasori se appena non fosse associata troppo strettamente alle bande assassine
che hanno ridotto il paese a brandelli prima della presa del potere dei
Talebani. A questo punto,
la maggior
parte della gente darebbe probabilmente il benvenuto finanche a Gengis Khan.
Cosa accadrà
dopo? Gli espatriati afgani e, apparentemente, alcuni elementi che non fanno
parte dei circoli più interni dei Talebani hanno invocato un'iniziativa
dell'ONU per insediare un qualche
governo di
transizione, in un processo che potrebbe aver successo nel tentativo di ricostruire
qualcosa di accettabile a partire da questi rottami, se solo fosse predisposto
un sostanzioso aiuto alla
ricostruzione,
convogliato attraverso istituzioni indipendenti come l'ONU o ONG credibili.
Tutto questo dovrebbe essere la responsabilità minima da parte di coloro che
hanno trasformato
questo paese
povero in una terra di terrore, disperazione, cadaveri e vittime mutilate.
Potrebbe succedere, ma non senza degli sforzi sostanziosi delle popolazioni dei
paesi ricchi e potenti. Al
momento, un
qualunque corso di questo genere è stato escluso dall'amministrazione Bush, che
ha annunciato che non si impegnerà nel "costruire la nazione" (…) Ma il rifiuto attuale di considerare
questo processo non è scolpito nella pietra.
Cosa accadrà
in altre regioni dipende da fattori interni, dalle politiche di agenti
stranieri (soprattutto gli USA tra questi,
per ragioni ovvie) e dalla maniera in cui le cose procedono in
Afganistan. Difficilmente si può essere fiduciosi, ma per molti dei possibili
andamenti è possibili fare delle valutazioni ragionevoli sugli esiti, e ci sono tantissime possibilità, troppe per
cercare di
passarle in
rassegna in brevi commenti.
Quale
credi sia il ruolo e la priorità degli attivisti sociali preoccupati per la
giustizia in questo momento? Dovremmo tenere a freno la nostra critica, come
alcuni sostengono, o è ora il momento, al contrario, di sforzi rinnovati e più
ampi, non solo perche si tratta di una crisi su cui possiamo tentare di avere
un impatto positivo, ma anche perché larghi settori dell'opinione pubblica sono
di fatto più recettivi del solito alla discussione ed alla esplorazione, anche
se altri settori sono ostili in maniera intransigente?
Dipende da
ciò che questi attivisti sociali stanno cercando di ottenere. Se l'obiettivo è
di innescare una spirale di violenza ed aumentare la probabilità di ulteriori
atrocità come quella dell'11
Settembre -
e, rincresciosamente devo dire anche di peggiori, che sono già ben familiari al
mondo - allora dovrebbero senz'altro trattenersi dalle analisi e dalle
critiche, rifiutarsi di pensare, e
ridurre il
loro coinvolgimento nelle serissime questioni in cui si sono impegnati. Lo
stesso consiglio è giustificato se vogliono aiutare gli elementi più reazionari
e retrogradi del sistema di potere politico-economico a realizzare i loro
piani, che saranno di gran danno per la popolazione generale qui e in gran
parte del mondo, e potranno finanche mettere in pericolo la sopravvivenza.
Se, al
contrario, l'obiettivo degli attivisti sociali è di ridurre la probabilità di
ulteriori atrocità e di far avanzare le speranze di pace, per i diritti umani e
la democrazia, allora dovrebbero seguire
l'andamento
contrario. Dovrebbero intensificare i loro sforzi di indagare sui fattori che
stanno sullo sfondo di questi ed altri crimini e dedicarsi con ancora maggior
energia alle giuste cause cui si
sono già
interamente dedicati. Le opportunità esistono sicuramente.
Lo shock per
questi crimini orrendi ha già aperto anche settori elitari ad una riflessione
di un genere che sarebbe stato difficile da immaginare solo poco tempo fa, e
per l'opinione pubblica in generale
ciò è ancora
più vero. Chiaramente ci sono quelli che richiedono l'obbedienza silenziosa.
Questo ci aspettiamo dall'estrema destra, ma chiunque con un po' di familiarità
con la storia se lo aspetterà
altresì da
parte di taluni intellettuali di sinistra, forse addirittura in una forma più
accesa. Ma è importante non lasciarsi intimidire dallo sbraitare isterico e
dalle bugie e tenersi il più vicini possibile al corso della verità e
dell'onestà e alla preoccupazione per le conseguenze di ciò che si fa, o non si
riesce a fare (…)
LA CIA E
L'ESTREMISMO ISLAMICO
John
K.Cooley, "Una guerra Empia. La Cia e l'estremismo islamico".
Edizioni Eleuthera, luglio 2000.
Recensione
di Carlo Gubitosa
Un libro
che, se venisse pubblicato oggi, suonerebbe come una facile dietrologia, ma che
nel 1999, data di uscita dell'edizione originale, è stato un tentativo concreto
di prevenire gli attentati di cui oggi subiamo le conseguenze, un contributo
efficace alla prevenzione del terrorismo che purtroppo è rimasto ignorato dai
sedicenti "esperti" di geopolitica che appaiono sui nostri teleschermi.
Vale la pena di riportare integralmente il testo della quarta di copertina:
Per opporsi
all'invasione sovietica dell'Afganistan, nel 1979, gli Stati Uniti strinsero in
funzione anti-comunista una sorprendente alleanza con gli estremisti islamici.
Cooley racconta i retroscena di questa alleanza e del modo in cui la Cia
pianificò la "guerra santa" in Afganistan. racconta anche di come,
con l'aiuto dell'Arabia Saudita, dei servizi segreti militari pakistani e
persino con il coinvolgimento della Cina, vennero armati, addestrati e
finanziati duecentocinquantamila mercenari islamici di ogni parte del mondo.
Inoltre, con un'impressionante mole di prove, Cooley traccia le dirompenti
conseguenze di quell'operazione: il trionfo dei talebani, la diffusione
mondiale del terrorismo islamico, la destabilizzazione dell'Algeria e della
Cecenia, gli attentati al World Trade Center... e in tutto ciò spicca
curiosamente il ruolo di Usama (ndr e' scritto proprio Usama) Bin Laden, già
protetto della Cia ed ora "nemico pubblico numero uno".
MANUALE
PER LA PROPAGANDA DI GUERRA
L'informazione
in tempo di guerra.
Ho
provato a calarmi nei panni di un esperto militare per riassumere in alcuni
punti chiave le strategie mediatiche utilizzate negli ultimi anni dalle nostre
Forze Armate e dall'Alleanza Atlantica per legittimare i conflitti armati che
hanno avuto come protagonista anche l'Italia. Il risultato è un "manuale
per la Propaganda di Guerra" che comprende un elenco impressionante di
strategie e tecniche di manipolazione dell'informazione e delle coscienze, a
cui il movimento per la Pace dovrà rispondere con altrettanta lucidità ed
efficacia per evitare di essere schiacciato dall'"informazione a senso
unico" che è già entrata in azione ben prima dei pacifisti, come dimostra
l'editoriale di Lucio Caracciolo su "Repubblica" del 26 settembre, un
articolo che ho letto solamente dopo aver realizzato questo scritto, ritrovando
le tecniche da me descritte applicate con sapiente maestria.
Di Carlo
Gubitosa <c.gubitosa@peacelink.it>
Piccolo
manuale per la Propaganda di Guerra.
"La
prima battaglia e' quella che si vince sul teleschermo"
(Anonimo)
Il punto
fondamentale da cui partire è la ricerca della "Giusta Causa", un
fatto reale ampiamente condannabile dal punto di vista etico e politico, a
partire dal quale compiere azioni che di etico hanno ben poco. (Esempi di
"Giuste Cause": Invasione del Kuwait, repressione della popolazione
albanese del Kossovo, azioni terroristiche)
Si passerà
in seguito all'individuazione, personalizzazione e demonizzazione del
"Nemico". Negare o nascondere ogni legame passato o presente,
economico o politico con il nemico. Togliere ogni visibilità mediatica alle
domande scomode: Chi ha venduto le armi a Saddam ? Chi ha fatto affari con
Milosevic e Bin Laden prima che si trasformassero nel "nuovo Hitler"
e nel capo del nuovo "Impero del Male"? Far sfogare sul nemico
personalizzato l'odio e la rabbia creata ad arte nell'opinione pubblica
dimenticandosi che fino a ieri il "nemico" era anche nostro partner
di affari e che continua a gestire i suoi soldi tramite le nostre banche.
Affrontare la questione del segreto bancario con molta delicatezza. Anche se
l'eliminazione dei paradisi fiscali e del segreto bancario sulle transazioni
internazionali sarebbero decisive per "ostacolare" il
"nemico", il terrorismo, il narcotraffico e il commercio delle armi,
queste soluzioni non vanno assolutamente menzionate.
Bisognerà
poi prestare particolare attenzione alla ricerca di un eufemismo per non
impiegare mai l'uso della parola "guerra" (Operazione di Polizia
Internazionale, Missione Umanitaria, Operazione antiterrorismo)
Ricordarsi
di presentare all'opinione pubblica una sola verità al giorno. In ogni
conferenza stampa Nato o nelle dichiarazioni pubbliche dei capi di Governo dei
paesi in guerra va presentata una sola idea chiave che sarà il titolo dei
giornali del giorno successivo. Questo ha il compito di semplificare il lavoro
dei portavoce che devono gestire una situazione molto complessa, più facile da
descrivere se trasformata in una affermazione monodimensionale.
In seguito
alle prime reazioni si adotterà come risposta l'ostracismo e accuse di
collaborazionismo con il nemico verso i giornalisti colpevoli di aver dato voce
alle vittime dell'azione militare. Il teorema è: chi non è mio amico è
necessariamente amico del mio nemico. Quando i giornalisti presenti "sul
campo" manifestano opinioni critiche o non allineate, precisare che nei
paesi dove vengono realizzate queste trasmissioni vige una strettissima censura
militare che rende quelle testimonianze prive di valore.
Davanti ai
crimini di guerra documentati, agli "effetti collaterali" e alle
responsabilità dell'"Alleanza" negare l'evidenza. E' una tecnica
efficacissima perché ormai l'opinione pubblica è abituata ad affermazioni anche
grossolanamente inesatte da parte delle autorità militari e politiche e perché
comunque i giornali danno più risalto alle menzogne "amiche" che alle
affermazioni del "nemico" indipendentemente dal fatto che siano vere
o meno. Quello che sembra solamente faccia tosta e sfrontatezza nella menzogna
è in realtà una spietata strategia di comunicazione ampiamente collaudata.
Un altro
punto chiave è la spettacolarizzazione e trasfigurazione della guerra. Anni e
anni di "lavoro culturale" realizzato a testa bassa dai vari Stallone
e Shwarzenegger hanno dato i loro frutti trasformando ogni azione militare in
un pulito videogame. Inquadrare preferibilmente aerei, carri armati, alta
tecnologia, soldati "amici" puliti e contenti e far vedere il meno
possibile il volto del "nemico", che non va considerato nella sua
umanità, evitare il più possibile riferimenti o inquadrature sulla popolazione
civile.
Sarà
opportuno utilizzare come al solito un "pool" di giornalisti amici, i
soli ad essere abilitati ai "briefing" Nato, per dare l'impressione
di un controllo democratico da parte della stampa dietro il quale si nasconde
una censura e una selezione preventiva dei soggetti abilitati a fare domande.
Ad essi va affiancato il lavoro certosino degli "intellettuali"
allineati e degli editorialisti compiacenti, con particolare riguardo per
Ernesto, Angelo, Lucio, Gianni, Paolo, Vittorio e altri che si sono già distinti
in passato per i servigi resi con le loro penne a beneficio della "Giusta
Causa".
Cercare a
tutti i costi la polarizzazione delle posizioni senza lasciare spazio alle
sfumature. E' molto più efficace ridurre la dialettica a un semplice
"guerra sì - guerra no" per includere nel "guerra sì" anche
le posizioni "guerra sì ma come intervento militare dei Caschi Blu
ONU", "guerra sì ma senza impiego di armi radioattive",
"guerra sì ma non dal cielo con bombardamenti a tappeto", "guerra
sì ma senza violare le convenzioni di Ginevra scegliendo obiettivi civili come
ponti o palazzi della televisione", "guerra sì ma non con bombe a
grappolo che violano i trattati per la messa al bando delle mine".
Ovviamente una volta cooptate queste posizioni nel semplice "Guerra
si'", il fronte del "guerra no" sarà messo forzatamente in
minoranza.
Se le
reazioni dovessero persistere bisognerà adoperarsi per la ridicolizzazione e la
banalizzazione delle posizioni espresse del movimento pacifista. Utilizzare la
tecnica "hai ragione ma e' meglio fare come dico io", ovvero
"quello che dici è un'utopia molto bella e auspicabile, che io condivido,
ma ora c'è un'emergenza e va gestita con realismo e con i piedi per
terra". Nei dibattiti pubblici selezionare figure "deboli", con
una scarsa preparazione teorica e politica, e mediaticamente poco efficaci per
dare l'impressione di una totale assenza di proposte concrete da parte di chi
critica l'intervento armato. Altre categorie utili in cui inquadrare i
pacifisti sono le seguenti: figli dei fiori, "quelli del G8", Black
Bloc, popolo di Seattle, ex-sessantottini, preti idealisti affetti da
"buonismo" cronico, ex-comunisti o veterocomunisti, ragazzini che non
hanno ancora capito la dura realtà della vita. Evitare assolutamente personaggi
legati al mondo accademico, ai centri di ricerca sulla Pace, alle reti di
formazione per la nonviolenza o a qualunque realtà in grado di contrapporre una
solida base teorica alla teoria dell'intervento armato. Utilizzare la tecnica
del "dov'erano": "dov'erano i pacifisti quando tizio faceva
questo?", utilissima per dimostrare ad arte che il pacifismo è una cosa
che si rispolvera solo in caso di guerra e che non ha nessuna valenza nel campo
della prevenzione e della risoluzione pacifica dei conflitti.
Cercare per
quanto possibile di utilizzare immagini con un forte impatto emotivo, in grado
di far scattare i meccanismi mentali che regolano l'istinto, la rabbia e
l'aggressività, in modo da rendere cieca l'opinione pubblica ad ogni discorso
razionale, negato nei cuori e nelle coscienze da una emotività esasperata
artificialmente attraverso il video. Anche se non è di nessuna utilità dal
punto di vista informativo, si consiglia di riproporre più volte al giorno
sugli schermi televisivi la sequenza dell'aereo che si schianta sulle torri
gemelle per mantenere vivo lo shock emotivo che può mantenere l'opinione
pubblica saldamente dalla nostra parte.
Un'altra
tecnica efficace è la negazione e l'occultamento delle alternative grazie ad un
falso senso di informazione. Dare la maggior quantità di informazione
possibile, anche nel caso in cui non si tratti di dati rilevanti, purché
favorevoli alla nostra posizione e all'intervento armato. Far perdere la
visione d'insieme con una cronaca dettagliatissima di aspetti marginali. In
questo modo è possibile soffocare le proposte alternative alla guerra in un
mare di informazioni, impossibili da gestire se non con una necessaria
semplificazione che va a nostro vantaggio, in quanto la maggior quantità di
informazioni in circolazione spinge in direzione della guerra. In quest'ottica
sarà favorita la produzione a ritmo serrato di una grande quantità di notizie
brevi, evitando il più possibile l'approfondimento, i dossier, le retrospettive
storiche e il coinvolgimento di persone direttamente coinvolte nei problemi
trattati, ai quali vanno preferiti gli "pseudo-esperti" che dall'alto
della loro notorietà o in virtù di un titolo prestigioso sono pronti a riempire
i palinsesti dei nostri programmi televisivi.
Curare la
gestione "umanitaria" dei profughi. L'inevitabile flusso di profughi
generato da ogni azione militare va gestito con molta attenzione dal punto di
vista mediatico, trasformando una massa umana costretta alla fuga da un attacco
militare in una popolazione sottratta a un regime repressivo e finalmente
approdata nella civiltà dove potrà ricevere tutte le cure e le attenzioni
necessarie, ovviamente fino allo spegnimento delle telecamere.
Successivamente
andrà curata l'enfatizzazione della vittoria e la gestione della "mancata
deposizione" del leader nemico. Saddam è ancora lì, e Milosevic è stato
cacciato dalle elezioni, non certo dalle nostre bombe. Poiché probabilmente
anche Bin Laden rimarrà in piedi sui cadaveri dei suoi seguaci e delle vittime
civili della guerra, al termine dell'azione armata, enfatizzare il
raggiungimento di altri obiettivi (che andranno individuati al momento) e
affermare in ogni caso l'idea che "abbiamo vinto", "il nemico si
è arreso", "sono state accettate incondizionatamente tutte le nostre
condizioni".
Non stancare
e non impaurire l'opinione pubblica. Gestire in maniera efficace il rientro
alla normalità e la "chiusura della ferita". L'azione militare va
chiusa nel più breve tempo possibile. Nel caso ciò non avvenga dare sempre meno
rilevanza alle informazioni sugli sviluppi della guerra, relegandole in coda ai
telegiornali o nelle ultime pagine dei quotidiani, in modo da non "tirare
troppo la corda" rischiando il malcontento dell'opinione pubblica e
l'adesione alle idee contrarie alla guerra. In nessun caso la popolazione dei
nostri paesi deve sentirsi minacciata o avere l'impressione di trovarsi in uno
stato di guerra o di forte militarizzazione, così come non vanno messi
assolutamente in discussione i nostri privilegi, il nostro benessere o il
nostro stile di vita. La guerra deve essere sempre vissuta come una parentesi,
anziché come il normale svolgersi di eventi intercalati da periodi più o meno
lunghi di "pacificazione" militare forzata. Questa tecnica è già
stata sperimentata con successo durante la guerra contro la Jugoslavia, quando
a bombardamenti ancora in corso siamo riusciti a far dare come notizia di
apertura dei telegiornali la vittoria dello scudetto da parte del Milan. Al
termine dell'intervento armato chiudere rapidamente ogni strascico relativo
agli eventi in corso, senza approfondire le conseguenze dell'azione militare
sulle condizioni della popolazione civile e dei profughi, sull'equilibrio
ambientale e sulla situazione politica internazionale.
Tutte queste
direttive vanno seguite scrupolosamente affinché anche questa guerra si
trasformi in un eccezionale evento mediatico e in una grande prova di forza per
la nostra civiltà e la nostra democrazia. Tutti gli operatori dell'informazione
che proveranno a sottrarsi a questo progetto, attraverso la produzione di informazioni
non allineate o l'utilizzo delle nuove tecnologie di comunicazione, verranno
inesorabilmente marginalizzati e penalizzati nella loro attività lavorativa
grazie al controllo capillare delle forze politiche, responsabili
dell'intervento militare, sui grandi gruppi dell'informazione, un controllo che
in Italia e' favorito anche dall'altissimo livello di concentrazione della
proprietà nel settore dell'editoria, delle telecomunicazioni e del multimedia.
IL
TERRORISMO SILENZIOSO
11 settembre
2001
Anche oggi
35.615 bambini sono morti di fame.
vittime:
35.615 (Fonte: FAO)
luogo: paesi
poveri del pianeta
edizioni
speciali del tg: zero
articoli
della stampa: zero
messaggi del
presidente della repubblica: zero
convocazioni
delle commissioni d'emergenza: zero
manifestazioni
di solidarietà: zero
minuti di
silenzio: zero
commemorazioni
delle vittime: zero
social
forums organizzati: zero
messaggi del
papa: zero
le borse
internazionali: non vanno male
l'euro: in
ripresa
livello
d'allarme: zero
mobilizzazione
dell'esercito: nessuna
ipotesi
sull'identita dei criminali: nessuna
probabili
mandanti: i paesi ricchi
Fonte: http://users.skynet.be/aden-news/
Lettera aperta ai pacifisti
Cari amici, abbiamo aderito
alla marcia PerugiaAssisi di domenica prossima e quelli di noi che ci saranno,
saranno lì ancora una volta perché tutti noi vogliamo, come voi, un futuro di
pace, di giustizia, di libertà. Sfileremo insieme quindi, consapevoli della
crisi drammatica che ha investito il mondo dopo le stragi dell'undici settembre
e naturalmente delle differenze di giudizio emerse tra noi dopo la reazione
militare contro il regime talebano di Kabul. I militanti dell'Ulivo ci saranno
perché la marcia della pace è stata storicamente la sede di un impegno comune
degli uomini e delle donne di buona volontà ma anche l'occasione per
confrontare opinioni e culture diverse. E dunque con voi in primo luogo
vogliamo dialogare per approfondire le ragioni di ciascuno.
Come sapete, noi non
condividiamo la posizione che alcuni di voi hanno assunto dopo l'attacco
americano all'Afghanistan. L'azione militare di questi giorni contro postazioni
dei talebani è una reazione mirata e legittima dopo gli attentati di New York e
Washington. In termini generali, è un dovere morale colpire strutture legate al
terrorismo dotate di mezzi e risorse potenzialmente devastanti. E ciò è tanto
più vero alla luce del proclama di Osama Bin Laden e del suo programma di
guerra totale all'Occidente, ai suoi popoli, ai simboli della nostra cultura.
Sappiamo bene che a dividerci non è il giudizio su questa manifestazione di
fanatismo ma le politiche e gli strumenti necessari a neutralizzarlo. Ed è
appunto su questo che dobbiamo confrontarci.
La prima considerazione
riguarda la guerra, l'idea che abbiamo della guerra e soprattutto la sua data
d'inizio. Da questo punto di vista, dovremmo evitare di ripetere gli errori già
compiuti all'epoca della ex Jugoslavia. La guerra, la concreta guerra che
insanguina l'Afghanistan, non è iniziata con i missili Cruise lanciati in
questi giorni. La guerra è da anni quella dei talebani contro il popolo afgano.
E prima ancora quella dell'invasione sovietica. Milioni di persone oppresse da
una dittatura odiosa che costringe le donne a condizioni di vita inumane. Una
guerra che ha già causato migliaia di vittime. Nel corso del tempo, quello
stesso regime ha fornito basi operative, supporti logistici e protezione
politica all'organizzazione terroristica di Bin Laden. Per settimane, dopo gli
attentati di settembre, la comunità internazionale ha chiesto al regime di
Kabul una totale collaborazione e la consegna dei terroristi ricevendo in
cambio un rifiuto sprezzante. Solo a questo punto, e dopo che l'Onu ha
legittimato con sue risoluzioni l'uso della forza contro esecutori, mandanti e
complici delle stragi americane, è partita l'offensiva militare.
Si poteva agire diversamente?
Crediamo di no. Riteniamo si fosse giunti a un punto tale da rendere necessaria
un'azione di forza che fosse in grado di colpire le centrali logistiche del
terrore e di isolare il regime talebano. Voi dite che l'azione è in sé
illegittima perché “espressamente vietata dalla Carta delle Nazioni Unite”. E'
una posizione contraddetta dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu e dalle parole
stesse del Segretario generale, Kofi Annan, il quale esprimendo sostegno
all'iniziativa americana ha parlato esplicitamente di “legittima difesa”
richiamando l'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.
Abbiamo rammentato la tragedia jugoslava
non a caso. Anche allora ci fu chi invocò l'intervento dell'Onu. Un intervento
militare e non solo diplomatico. Quell'azione però non venne. E a Srebrenica -
solo per citare l'orrore più indicibile - nell'estate del 1995 si compì il
massacro di ottomila mussulmani deportati, uccisi e gettati in fosse comuni.
Qualche giorno prima, i caschi blu olandesi che controllavano l'enclave
bosniaca avevano invocato a più riprese un bombardamento dissuasivo della Nato
sulle milizie serbe che accerchiavano la città. Ma, come ricorderete, nessun
aereo si levò in volo e il mondo subì in silenzio l'onta di una tragedia e di
una vergogna. Lo rammentiamo a ciascuno di noi per ammonirci dal cedimento a
posizioni di principio discutibili nel merito ma soprattutto impotenti a
risolvere il dramma concreto di milioni di persone disperate. L'uso della forza
- questo è il punto - non può essere un tabù. Talvolta esso si manifesta come
una dolorosa necessità per impedire che si consumino tragedie più grandi. In
questo senso l'attacco ai talebani non è un'aggressione al popolo afgano né
tantomeno una sfida all'Islam. E' la condizione per isolare un regime
sanguinario e per rimuovere il pericolo di un attacco all'umanità mascherato
sotto le sembianze di una sedicente guerra di religione e di civiltà.
La seconda considerazione
investe più direttamente la politica e le sue responsabilità. Come si è detto
da più parti gli eventi delle ultime settimane hanno cambiato il corso della
storia. Questo può restituire alla politica una funzione centrale nella
gestione di questa crisi e delle prospettive della globalizzazione. Non era un
esito scontato. Vi ha contribuito, a diverso titolo, più di un protagonista.
L'amministrazione americana, senza dubbio, con la decisione di non precipitare tutto
in una reazione cieca e immediata. Arafat, scegliendo da subito la collocazione
più difficile ma certamente più saggia e utile alla causa palestinese, e con
lui la leadership israeliana consapevole dell'urgenza di una tregua. E ancora,
la Russia di Putin, la Cina, una parte importante del mondo arabo e
naturalmente l'Europa e il nostro paese; realtà e nazioni distanti ma unite per
la prima volta in una coalizione mondiale che ridisegna lo scenario geopolitico
del dopo guerra fredda. E' probabile che la grandezza di questi eventi si
manifesterà in tutta la sua portata col passare degli anni. Ma qualcosa si può
dire da subito. Le novità di queste settimane consentono di pensare all'azione
militare in atto come a una sola delle articolazioni di una strategia che si
sviluppa lungo piani diversi. E' ripreso, seppure in condizioni difficilissime,
il dialogo tra israeliani e palestinesi. Sharon ha dovuto prendere atto
dell'interesse strategico degli Stati Uniti a rilanciare, qui e ora, la
convivenza tra la sicurezza dello Stato di Israele e il diritto a una patria
per i palestinesi.
Anche questo è un risultato
della politica perseguita in queste settimane dalla comunità internazionale. Lo
stesso dovrà accadere, nei mesi a venire, per altre aree e contesti di crisi.
Ciò a cui stiamo assistendo è la ricerca, faticosa e tormentata fin che si
vuole, di un diverso ordine globale. Siamo tutti chiamati a fare i conti con
questo mutamento. Possiamo leggere tutto questo come il modo concreto in cui la
politica si riappropria delle sue prerogative assolvendo a una funzione storica
di regolazione dei conflitti e di governo degli equilibri globali. Prosciugare
i giacimenti dell'odio e della sofferenza, colpire lo sfruttamento dei più
poveri e ripensare le strategie dello sviluppo e del benessere: questa può
divenire la nuova agenda politica mondiale. La sfida è esserne protagonisti,
condurre un'azione concreta perché prevalgano le ragioni della pace e della
politica su scala europea e internazionale.
Dicendo questo noi riconosciamo
non solo piena legittimità ma un ruolo prezioso alle posizioni di un pacifismo
integrale. Ma dobbiamo anche dire, con la stessa sincerità, che non esiste un
solo modo di concepire la lotta per la pace e che il nostro ruolo - quello di
una coalizione che si è assunta in un passato recente la responsabilità di
guidare il paese e che punta a farlo nuovamente in futuro - è un ruolo diverso,
ma punta risolutamente al traguardo di una pace vera e stabile. E si misura con
l'obbligo, in momenti difficili e drammatici, di assumersi la responsabilità di
scelte che, per le ragioni indicate, non possono escludere un uso regolato
della forza. Così è stato per il Kosovo e quella scelta ha contribuito a
salvare migliaia di vite, a proteggere decine di migliaia di profughi, a
combattere la dittatura di Milosevic e a portare la democrazia dove prima
democrazia non c'era.
E' questo che ci spinge a
confrontarci con voi su come legare indissolubilmente pace e giustizia,
cessazione dei conflitti e rimozione delle ingiustizie che spesso li originano.
In questa situazione è tanto più importante che nessuno pensi di interpretare
da solo, e unicamente sulla base dei propri princìpi, le ragioni vere e gli
obiettivi duraturi della pace. Diciamo che mai come adesso bisogna saper ascoltare
e comprendere le ragioni degli altri. Come chi ha oggi la responsabilità della
guida dell'Ulivo e chi in questi anni ha guidato il governo del paese, tanto ci
sentivamo in dovere di dirvi per la stima e il rispetto reciproco tra noi.
Francesco Rutelli, Piero
Fassino, Giuliano Amato, Massimo D'Alema, Lamberto Dini
(Repubblica 11/10/01)
SCHEDA: PAROLE SULLA GUERRA
"E'
stato un atto di guerra, non solo di terrorismo. Un nuovo tipo di guerra, per
la quale noi chiameremo gli altri paesi ad unirsi a noi: ci è stata dichiarata
guerra e noi guideremo il mondo alla vittoria".
"Sarà
una battaglia lunga. Ma non abbiate dubbi: la vinceremo. Questa sarà una
gigantesca lotta del bene contro il male, ma il bene prevarrà.
"Non ci
sarà nessuna distinzione fra i terroristi che hanno compiuto l'attacco e gli
Stati che li fiancheggiano".
George W.
Bush, Presidente degli Stati Uniti
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"Abbiamo
bisogno di giustizia, non di guerra. [...] Dobbiamo proteggere la nostra
sicurezza, ma non distruggere Kabul: che vuol dire la politica di Bush?
Vogliamo cancellare l'Afghanistan dalla carta geografica? Le risposte che sono
necessarie sono politiche, chiudere il gap tra ricchi e poveri, tra bianchi e
neri, tra nord e sud del mondo".
Cora Weiss,
presidente dell'International Peace Bureau
----------------------------
"E'
certo l'inizio di una guerra globale, diversa da tutte quelle che abbiamo
conosciuto, e con la particolarità che non ci sono soluzioni militari a questo
conflitto. Eppure i leader occidentali hanno reagito subito in termini militari
e il rischio e' che questa finisca per essere davvero una guerra tra civiltà,
con conseguenze ben ancora più gravi e drammatiche di quelle che hanno avuto
gli attacchi a New York e Washington. Ci potrebbe essere un dilagare della
violenza a scala planetaria che non ha precedenti".
"I
nuovi movimenti globali devono continuare a chiedere che che siano affrontati i
problemi del pianeta, le sofferenze degli oppressi, le diseguaglianze, che le
decisioni a scala globale siano prese in modo più democratico e
rappresentativo. Se no la violenza, in un modo o nell'altro, sarà destinata a
restare con noi".
Richard
Falk, docente universitario a Princeton
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"Spiacevoli
ma accettabili eventuali vittime civili in atti di rappresaglia, visto le
perdite subite dai nostri".
Bill
Bennett, senatore Usa
----------------------------
"Non si
possono sacrificare vittime innocenti per soddisfare la sete di potere dei
governi imperiali e dei conflitti di coloro che si considerano padroni del
mondo e pretendono di ripartire il pianeta come se fossero fette di una torta
appetitosa. Gli attentati dell'11 settembre dimostrano che non c'è scienza e
tecnologia capace di proteggere persone o nazioni. Inutile che gli Usa abbiano
speso 400
miliardi di
dollari quest'anno per la difesa. Sarebbe stato meglio che questa fortuna fosse
stata destinata alla pace mondiale, che solo arriverà il giorno in cui sarà
figlia della giustizia".
Frei Betto,
sociologo e scrittore brasiliano
----------------------------
"Questo
dibattito è importante perché siamo di fronte a un attacco di proporzioni
epocali. Non solo contro gli Stati uniti, ma anche contro i valore democratici
in cui noi tutti crediamo cosi' appassionatamente. E' un attacco contro il
mondo civilizzato".
Tony Blair,
primo ministro inglese
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[Dissento da
chi] "pensa che mostrare i muscoli e andare a colpire donne, bambini,
vittime innocenti, cioé gli stessi obiettivi dei terroristi, sia la soluzione a
questo problema. Il pericolo e' quello di una generazione in Irak e Medio
oriente che sta crescendo nell'odio più
assoluto degli Stati Uniti. Questo è il problema da affrontare e non con
i bombardamenti visti nel passato".
Tam
Dalylell, deputato più anziano della Camera dei Comuni inglese
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"Questi
attentati richiedono una lotta senza quartiere contro il terrorismo. Sappiamo
di difendere in questo modo i valori che sono alla base della civiltà e della
pacifica convivenza fra i popoli. I popoli liberi debbono essere uniti e
compatti nella risposta a questo atto di guerra contro il mondo civile".
Carlo
Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica Italiana
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"C'è
dietro l'idea che la civiltà sia unica, con la 'c' maiuscola, e tutto quello
che è diverso da noi, sia alieno e barbarico. Questo ragionamento è
antropologicamente inaccettabile; trovo gli stereotipi di questo genere dal
punto di vista culturale e politico, molto pericolosi. Nessuno pensa che i
terroristi siano delle brave persone, ma sta di fatto che il terrorismo è
sempre un fatto politico, viene da una crisi, una mancanza, un fallimento della
politica. La civiltà non c'entra".
Fabrizio Tonello,
docente all'università di Padova
----------------------------
"Questo
è il copione dello scontro di civiltà, l'idea sviluppata qualche anno fa da
Samuel Huntington, secondo cui gli Stati uniti devono scontrarsi con le civiltà
del pianeta che hanno valori e orizzonti diversi da quelli occidentali,
soprattutto con il mondo islamico. Una visione pericolosa che aggrava i
problemi e le tensioni esistenti, a partire da quelli in Medio oriente, dove la
politica degli Stati uniti ha aggravato il conflitto, con il sostegno
incondizionato a Israele e nessun attenzione per i diritti e le sofferenze dei
palestinesi".
Marcus
Raskin, politologo, docente alla George Washington University, un tempo
consigliere di John Kennedy alla Casa Bianca, fondatore dell'Institute for
policy studies di Washington
----------------------------
"Il
risultato di questi attacchi è che Israele si ritrova un mandato in bianco per
trattare a modo suo con i palestinesi, crea una situazione in cui tutti i
governi repressivi hanno via libera nei confronti di qualunque sfida possano
subire, aumenta insomma la legittimità di politiche di repressione. Il governo
Usa è ora più forte nei confronti della propria società civile, i cittadini
saranno pronti ad accettare limitazioni della libertà, a dare più poteri
discrezionali alla polizia nei confronti dell'opposizione. Tutto questo
rafforza quello che abbiamo visto con le maniere usate dal governo italiano nei
confronti della protesta contro il G8 di Genova del luglio scorso".
Cora Weiss,
presidente dell'International Peace Bureau
----------------------------
"Ci
stanno uccidendo lentamente giorno dopo giorno - sostiene Abed, palestinese,
venti anni occhialetti da intellettuale in un buon inglese - e ormai il numero
di giovani senza speranza cresce sempre di più".
"Tutti
sono in bilico tra l'emigrazione, se ci riescono e se si hanno i soldi per
farlo - sostiene dopo averci invitato nella sua casa dalle pareti e dal
soffitto ammuffiti dove in due stanze vive con i suoi sei fratelli e sorelle e
la madre malata - e il sacrificare la propria vita per il nostro paese. Non è
fanatismo ma disperazione. Loro hanno armi potentissime, noi i nostri corpi. La
politica degli Usa e di Israele, non sta lasciando a milioni di palestinesi, di
arabi e di musulmani altra alternativa che una lotta senza quartiere. Di fare,
in parte e su scala assai più ridotta, quel che loro in realtà hanno sempre
fatto".
"Quello
che ha buttato l'aereo contro le torri gemelle - sostiene poco dopo uno dei
suoi fratelli, laureato in ingegneria ma costretto a vendere polli in un
girarrosto ambulante - non è certo più colpevole dei piloti americani che hanno
sganciato le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki o di Sharon che è arrivato
a bruciare vivi con le bombe al fosforo tanti abitanti dei campi o di Beirut.
Purtroppo il giudizio morale sulle bombe sembra dipendere solo dal fatto se uno
ci sta sotto o sopra. Non se debbano essere usate o meno come dovrebbe essere.
Questo è il mondo che hanno voluto gli Usa e che hanno ottenuto. E per capirlo
bisogna guardarlo anche dalla parte dei poveri polli, non solo da quella dell'oste".
(da: Il
Manifesto, servizio da Beirut)
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"Ogni
attacco armato sul territorio di alleati, proveniente da qualsiasi direzione,
darà luogo all'applicazione degli articoli 5 e 6 del trattato di Washington. La
sicurezza dell'alleanza deve comunque tener conto anche del contesto globale.
L'interesse alla sicurezza dell'alleanza può essere toccato da altri rischi di
più ampia natura, compresi atti di terrorismo, sabotaggio, crimine organizzato,
e dalla interruzione del flusso di risorse vitali. Anche il movimento
incontrollato di un grande numero di persone, in particolare quale conseguenza
di conflitti armati, può porre problemi per la sicurezza e la stabilità
dell'alleanza. All'interno dell'alleanza esistono intese finalizzate alla
consultazione fra gli alleati e al coordinamento dei loro sforzi, incluse le
loro risposte a rischi di questo tipo".
Dal
"Nuovo concetto strategico della Nato", sottoscritto dai paesi membri
nell'aprile '99 durante la guerra del Kosovo, firmato per l'Italia da Massimo
D'Alema e mai sottoposto a ratifica del Parlamento Italiano
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"Noi
siamo pronti a pagare qualsiasi prezzo per difenderci, e a utilizzare tutti i
mezzi per prenderci la rivincita".
Mohammad
Omar, guida spirituale dei taleban, mullah della moschea Kandahar, Afghanistan
"Musulmani
di tutto il mondo, dobbiamo unirci se gli Usa ci attaccano", un imam della
moschea di Kabul
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"I
mujahedin che proteggono Osama Bin Laden e fanno attentati per suo conto? Li
abbiamo addestrati noi in Scozia".
"I
mujahedin erano buoni soldati ma non avevano grandi abilità tattiche e di
progettazione. [...] il risultato più grande che abbiamo ottenuto è stato
quello di trasformare un gruppo di buoni soldati, ma disorganizzati, in una
organizzatissima unità combattente".
Ken Connor,
ex membro delle SAS, le teste di cuoio inglesi
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"E'
questo il risultato di una politica perseguita dagli Stati uniti da Reagan,
George Bush Senior, Clinton. Il contesto cambia, ma di poco. Gli americani, in
Afganistan, in Algeria, in Arabia saudita, Egitto hanno negli ultimi dieci o
quindici anni reclutato, addestrato e finanziato le persone sbagliate: la Cia,
in Afganistan, ha condotto una operazione in funzione antisovietica,
finanziando i Mujahiddin con 6 milioni di dollari. Venne considerata dai
servizi segreti un vero successo. Mezze figure del fanatismo islamico vennero
incoraggiate e "appaltate"".
Gabriel
Kolko, Professor Emeritus alla York University di Toronto
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"Il
dominio sul mondo ha come prezzo il venire in conflitto con tipi come Bin Laden
i quali, lungi dall'essere "fuori della civilta'" sono un puro
prodotto della politica estera americana di appena 15 anni or sono. Era di
Reagan e di Bush padre, per quelli che hanno memoria".
Fabrizio
Tonello, docente all'università di Padova
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"Il
fondamentalismo islamico [...] ha i suoi inconfutabili alibi: mezzo secolo di
guerre americane in Medio-oriente e no (talune con l'avvallo dei governi
italiani, oltre a quello di tutte le altre nazioni del Patto, e sul quale ho
trovato inutile sia dissentire che consentire) sono un alibi sacrosanto".
[Noi che]
"proviamo sconcerto e pena e solidarieta' per le vittime dei terroristi
kamikaze e che tuttavia non dimentichiamo lo sconcerto e la pena, e un senso di
solidarieta' per quanto frustrata dal sistema, per i popoli affamati,
calpesatati, sfruttati (e dai loro stessi capi e dall'accidente tutto) del Medio
Oriente e dell' Africa e del Sud America: soltanto ci permettiamo, e non ci
stancheremo di permetterci, di dire che il nostro non e' il Regno del Bene e il
loro non e' l'Impero del Male".
Aldo Busi,
scrittore
----------------------------
"Su
come reagire abbiamo la possibilità di una scelta. Possiamo esprimere un orrore
giustificato; possiamo tentare di capire cosa può aver portato al gesto
criminale, e ciò significa fare uno sforzo per entrare nella mente dei
possibili autori dell'attentato. Se scegliamo questa seconda strada, non
possiamo fare di meglio, credo, che ascoltare le parole di Robert Fisk, la cui
diretta conoscenza e familiarità con gli affari interni della regione è
incomparabile dopo tanti anni di studio. Descrivendo la "malvagità e la
spaventosa crudeltà di un popolo oppresso e umiliato", egli scrive che
"non è la guerra della democrazia contro il terrore che al mondo verrà
chiesta di combattere nei giorni a venire. Ma si tratta anche dei missili
americani che distruggono le case dei palestinesi, degli elicotteri Usa che
centrano un'ambulanza libanese, e di bombe americane che esplodono su un paese
di nome Qana, e ancora della milizia libanese - pagata e attrezzata
dall'alleato israeliano dell'America - che rapisce, stupra e uccide nei campi profughi".
E ancora molto di più. Di nuovo, abbiamo la scelta: possiamo tentare di capire,
o rifiutarci di farlo, contribuendo al concretizzarsi dell'ipotesi che il
peggio sia ancora davanti a noi".
Noam
Chomsky, linguista, docente al MIT di Boston, nonché autorevole intellettuale
radical americano
----------------------------
"Le
politiche economiche che gli Stati uniti e gli altri paesi ricchi hanno imposto
al mondo hanno provocato disastri sociali. Negli USA e in molti paesi europei
c'è prosperità, mentre nel resto del mondo è solo povertà, guerra, fame,
malattie. Quando gli Stati Uniti si sono interessati a qualche problema nel
mondo, hanno seguito due strade: o hanno puntato ad un controllo militare
dell'area interessata dalla loro azione, o hanno imposto misure economiche che
hanno spesso fatto aumentare la miseria e la povertà".
"Pensiamo
ai biglietti lasciati a Manhattan dove si può leggere "peace, not
war", "no more killing". Oppure al senso di solidarietà comune
che c'è nelle veglie di preghiera. Sono semplici messaggi e pratiche che sono
contro l'escalation della guerra. [...] Sono messaggi scritti da giovani e meno
giovani, persone che vogliono immaginare una vita buona da vivere. Sono uomini
donne che non vogliono la guerra. Posso sbagliare, ma spero di no, ma questi
sono sentimenti fortemente presenti nell'opinione pubblica americani e che
possono diventare il germe di un nuovo movimento contro l'escalation
militare".
Saskia
Sassen, economista, autrice del libro "Global City"
----------------------------
"Dallo
stesso senso di vulnerabilità di questi giorni può nascere un altro percorso.
Se il mondo e' entrato in casa nostra con gli squarci nelle torri gemelle di
New York, possiamo iniziare a vedere i problemi che ci sono nel mondo, possiamo
metterci nei panni degli altri, smettere con l'amnesia per le conseguenze delle
nostre azioni, pensare a un sistema commerciale più equo, ad uno sviluppo
sostenibile, a un disarmo radicale, al divario crescente tra ricchi e poveri
del pianeta. Ma per questo occorre un cambiamento profondo del nostro modo di
pensare. Dovremmo abbandonare un modo di vivere basato sul principio che noi
sappiamo fare meglio di chiunque altro, che dobbiamo essere i primi per forza.
Dovremmo smetterla di imporre al resto del mondo le nostre idee e le nostre
politiche. E' un percorso che si deve fare fuori dalla politica, dalle
strategie del governo, ma che deve svilupparsi nella società civile, nelle reti
transnazionali, per arrivare in sedi come le Nazioni Unite e da qui fare pressione
sulla politica americana".
Marcus
Raskin, politologo, docente alla George Washington University, un tempo
consigliere di John Kennedy alla Casa Bianca, fondatore dell'Institute for
Policy Studies di Washington
Tutte le
citazioni di questa scheda "parole sulla guerra" sono state tratte da
interviste pubblicate su http://www.ilmanifesto.it/
eccetto: le dichiarazioni di Bush (http://www.repubblica.it/
), le riflessioni di Tonello sulla civiltà (trascrizione dell'intervista di http://www.radiopopolare.it/ ), il
pezzo di Chomsky (disponibile ormai su molti siti web). La scheda è a cura di
Francesco Rizzi (franxe@katamail.com).
STORIA DELLE PAROLE SULLA GUERRA
"Disprezzo profondamente chi è felice di marciare nei ranghi e nelle
formazioni militari al seguito di una musica: costui solo per errore ha
ricevuto un cervello; un midollo spinale gli sarebbe più che sufficiente".
Albert Einstein (1879-1955), fisico tedesco
"Una sola cosa non ha sviluppato l'uomo: la caserma".
Joseph Ernest Renan (1823-1892), scrittore francese
"E' con i poveri che i ricchi si fanno la guerra".
Luis Blanc (1811-1882), uomo politico francese
"Una guerra perduta come pure una guerra vittoriosa porta un aumento
delle banche e delle industrie".
Max Weber(1864-1920), sociologo tedesco
"L'uomo deve essere educato a far la guerra e la donna costituirà il
passatempo del guerriero; tutto il resto è follia".
Friedrich Nietzsche (1844-1900), filosofo tedesco
"Chi vede come noi uomini siamo fatti e pensa che la guerra è bella
o che valga più della pace è storpio di mente".
Cartesio (1596-1650), matematico e filosofo francese (Descartes René)
"I vantaggi della guerra, se ce n'è qualcuno, sono solo per i
potenti della nazione vincente. Gli svantaggi ricadono sulla povera
gente".
Bertrand Russel (1872-1970), matematico e filosofo inglese
"Le guerre si fanno per creare debiti. La guerra è il sabotaggio più
atroce".
Ezra Pound (1885-1972), poeta e critico statunitense
"Combattere e vincere cento battaglie non è prova di suprema
eccellenza; la suprema bravura consiste nel piegare la resistenza del nemico
senza combattere".
Sun Tzu, stratega cinese vissuto 2500 anni fa
"Se i miei soldati cominciassero a pensare, nessuno rimarrebbe nelle
mie file".
Federico II Hohenzollern, re di Prussia (1712-1786)
Elogio della guerra. "E' la salute etica dei popoli (...) è come il
movimento dei venti per le acque del mare: evita che queste si
putrefacciano".
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1830), filosofo tedesco
"Abbiamo bisogni di cadaveri per lastricare le strade di tutti i
trionfi".
Giovanni Papini (1881-1956), scrittore
Il trucco della guerra. "La guerra non è altro che una comoda
elusione dei compiti della pace. In quanto sostituisce l'avventura esterna al
lavoro e al miglioramento interno, essa è moralmente così screditata che si può
ben pensare non sia mai stata altro che un mezzo di oppressione interna e di
assoggettamento dei popoli, il grande mezzo ingannatore per indurli a gridare
'evvive' alla propria sconfitta di fronte al governo vittorioso".
Thomas Mann (1875-1955), scrittore tedesco
Esaltarsi alla guerra. "Quando ascontando vecchie canzoni o
addirittura marce militari sento un brivido che comincia a serpeggiarmi per le
vene, mi oppongo alla tentazione dicendomi che anche gli scimpanzé, per
prepararsi o istigarsi alla lotta, emettono rumori ritmici".
Konrad Lorenz (1903-1989), etologo austriaco
Spietatezza bellica. "E' questione di umanità far la guerra in
maniera feroce affinché finisca prima".
F. von Bernhardi
"Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione
distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all'antagonista di questa
pulsione: l'Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve
agire contro la guerra (...) La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se
qui si parla d'amore, perché la religione dice la stessa cosa: "Ama il
prossimo tuo come te stesso". Ora, questo è un precetto facile da esigere,
ma difficile da attuare. L'altro tipo di legame emotivo è quello per
identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini
risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse
riposa in buona parte l'assetto della società umana".
Sigmund Freud (1856-1939), fondatore della psicoanalisi, lettera del 1932
ad Einstein
"Vi è una possibilità di dirigere l'evoluzione psichica degli uomini
in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell'odio e della
distruzione? Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte.
L'esperienza prova che piuttosto la cosiddetta "intellighenzia" cede
per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l'intellettuale non
ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma
riassuntiva più facile, quella della pagina stampata".
Albert Einstein (1879-1955), fisico tedesco, lettera del 1932 a Freud
"Facciamo la guerra per poter vivere in pace".
Aristotele (384-332 a.C.), filosofo greco
"La razza umana è diventata forte nella lotta perpetua, e non potà
che perire in una perpetua pace". Adolf Hitler (1889-1945), fondatore del
nazismo
"Tutti i popoli sono per la pace, nessun governo lo è".
Paul Leautaud (1872-1956), scrittore francese
"La sola garanzia di una lunga pace tra due stati è l'impotenza
reciproca di nuocersi".
Duca di Lévis
"Fate mostra di essere pronti alla guerra e avrete la pace".
Tito Livio (59-17 d.C.), storico romano
"Io ammetto che la guerra sia spaventosa, ma non al punto di doversi
sopportare ogni cosa pur di non affrontarla".
Polibio (202-120 a.C.), storico greco
"La pace è più importante di ogni giustizia; e la pace non fu fatta
per amore della giustizia, ma la giustizia per amor della pace".
Martin Lutero (1483-1546), fondarore del movimento protestante
"La pace ha le sue vittorie non meno celebri di quelle della
guerra".
John Milton (1608-1674), poeta inglese
"Dove fanno il deserto, quello chiamano pace".
Cornelio Tacito (54-120 d.C.), storico latino
"Il famoso "si vis pacem para bellum" non è che un giuoco
di parole da oracolo di Delfo. Torniamo, signori, al senso comune, che dice: si
vis pacem para pacem".
Filippo Turati (1857-1932), uomo politico socialista, discorso
parlamentare del 12 giugno 1909
"Essere preparati alla guerra è uno dei mezzi più efficaci per
preservare la pace".
George Washington (1732-1799), primo presidente degli Stati Uniti
"Sia ben chiaro che qualsiasi tipo di pace la diplomazia riesca a
raggiungere si fonda sulla forza che deve essere pronta e disponibile".
Richard Nixon (1913), presidente degli Stati Uniti
"La grande illusione". Titolo del libro di Norman Angel in cui
si dimostra che la guerra non porta vantaggio neanche al vincitore.
"La guerra rassomiglia al camaleonte perché cambia natura in ogni
caso concreto".
Von Karl Clausewitz (1780-1831), teorico militare prussiano
"Non fare quello che hai voglia di fare. Fa' quello che il tuo
avversario non vuole che tu faccia".
Sun Tzu, stratega cinese vissuto 2500 anni fa
"Quando vediamo (e lo vediamo così spesso!) il Male fatto agli altri
dobbiamo combatterlo a viso aperto, ma dobbiamo anche e sempre contrastare in
noi stessi ogni tentazione di intolleranza, di disprezzo, di negazione degli
altri. Nessuna causa giusta può essere combattuta partendo dalla premessa della
distruzione della persona umana".
Vittorio Foa (politico antifascista vivente, introduzione a "Se
questo è un uomo" di Primo Levi)
"Ai soldati italiani che romanamente devoti all'onore della Patria a
Dogali e a Sahaiti caddero da eroi".
Lapide del 1887 ancora affissa
sul Municipio di Locorotondo (Bari)
Il presente dossier è curato e aggiornato da Alessandro
Marescotti con la collaborazione di tutto lo staff redazionale di PeaceLink.
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ringrazia il CIPAX (Centro Interconfessionale per la Pace) di Roma per la
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