A coloro i quali "sanno", i quali conoscono
la "verità" e credono di avere il dovere
di attuarla, noi dobbiamo opporre il principio che noi
conosciamo la verità solo se e finché
abbiamo la possibilità di negarla; che il solo
criterio della verità politica, come di ogni
altra verità, è il diritto illimitato
di discutere le regole accettate nel costume o nelle
costituzioni scritte, di criticare gli ordinamenti esistenti
e gli uomini al potere, di adoperarsi per mutare gli
uni e per cacciare gli altri di seggio, il diritto delle
minoranze di trasformarsi, in virtù di persuasione,
in maggioranze.
Luigi Einaudi – Prediche inutili
Il Rendiconto è il momento per fare la ricognizione
del lavoro svolto in un anno: è lo strumento
che permette di valutare i risultati conseguiti in rapporto
ai programmi e ai costi sostenuti ma è anche
l’occasione per analizzare le attività
ancora da concludere, per dare ordine ai progetti e
farli procedere il più celermente possibile.
Quando si esamina il Rendiconto non è possibile
limitarsi all’analisi degli aggregati contabili:
nel momento in cui si guarda al lavoro di un anno non
si può non fare riferimento a tutti gli episodi,
agli eventi e ai fatti che hanno costellato l’anno
trascorso.
E ripensando a tutto quello che è successo nel
2002 e alla situazione della nostra Città, ma
non solo, verrebbe da chiedersi, riprendendo il titolo
di un libro di successo di Fruttero e Lucentini: “sentinella,
a che punto è la notte?”
Perché è indubbio che le ultime stagioni
non sono state affatto facili, né per l’Italia,
né tanto meno per la nostra Città.
Il tema del declino economico e industriale dell’Italia
contemporanea ha ispirato polemiche politiche, confronti
sindacali ed è tornato sia nel rapporto annuale
redatto dall’Istat che nelle considerazioni finali
del Governatore della Banca d’Italia Fazio.
Dal rapporto dell’Istat emerge una nazione vecchia
– la più vecchia del mondo – che
perde progressivamente competitività, con un
Pil che in quest’ultimo anno è cresciuto
di appena lo 0.4%, segnando tra l’altro il risultato
peggiore dal 1993, e con esportazioni che sono diminuite
dell’1%.
Dati confermati dalle considerazioni finali che il Governatore
Fazio ha letto all’Assemblea della Banca d’Italia:
in Italia dalla metà degli anni 90 è in
atto una progressiva erosione dell’efficienza
complessiva del sistema.
Il governatore Fazio individua nel limitato sviluppo
della produttività la ragione prima del declino.
E se il limitato sviluppo della produttività
è imputabile, da un lato, all’eccessiva
frammentazione del tessuto imprenditoriale, dall’altro
è dovuto alla scarsa presenza delle nuove tecnologie
e dell’innovazione e da un livello assai basso
della scolarità.
Le cifre sulla scolarità ci dipingono come un
Paese lontano dal resto dei Paesi industrializzati:
in Italia solo il 10% degli adulti tra i 25 e i 64 anni
è in possesso della laurea contro il 36% degli
Stati Uniti e il 30% del Regno Unito.
L’invecchiamento della nostra popolazione, figlio
della denatalità, è un sintomo emblematico
della mancanza di investimento nel futuro, di un dinamismo
spento.
In Europa siamo fanalino di coda per quanto riguarda
la spesa in ricerca e lo sviluppo: la spesa in ricerca
è appena l’1.07% del Pil contro l’1.93%
della UE e il 3% fissato come obiettivo da raggiungere
tra sette anni.
Senza considerare Usa e Giappone che destinano ogni
anno rispettivamente il 2.8 e il 3 per cento del loro
PIL.
Su 1000 lavoratori i ricercatori scientifici sono solo
2.78, contro i 5.36 della media europea, gli 8.66 degli
USA e i 9.72 del Giappone.
È tempo quindi di iniziare una vera stagione
delle riforme. L’Italia non può più
permettersi ulteriori rinvii. Serve una scossa profonda
e radicale sapendo che gli spazi di manovra sono condizionati
da una finanza pubblica le cui condizioni sono sempre
più drammatiche.
Nel nostro Paese la mano pubblica assorbe quasi la metà
del prodotto nazionale, e regola fortemente l’altra
metà. È quindi inevitabile che le questioni
istituzionali siano legate in modo inestricabile a quelle
del funzionamento del sistema economico. Nel mondo della
globalizzazione i tempi dell’economia sono molto
rapidi. La prosperità o il declino relativo dipendono
dalla capacità di adeguare le proprie norme alle
condizioni dei mercati mondiali che mutano in maniera
più veloce delle norme giuridiche e delle strutture
istituzionali.
Bisogna essere consapevoli che il miglioramento del
sistema paese non può non essere conseguito oltre
un certo punto se non si procede a una coerente riforma
istituzionale.
Nonostante la modifica del titolo V della Costituzione,
la situazione istituzionale presenta ancora problemi
notevolissimi dal punto di vista dell’efficienza
economica, dell’equilibrio della finanza pubblica,
della capacità di decisione in materia sociale.
Il nuovo titolo V ha rappresentato il superamento del
“vecchio” Stato unitario, ma non ha dato
luogo a un sistema diverso e funzionante.
Con questa riforma si sono stabilite una serie enorme
di sovrapposizioni di competenze tra lo Stato e gli
Enti Locali che vanno dal commercio con l’estero
all’energia, dalle professioni alla ricerca scientifica
e tecnologica, dal sostegno all’innovazione per
i settori produttivi ai lavori pubblici e alle grandi
reti infrastrutturali.
E queste sovrapposizioni non sono soltanto fonte di
conflitti di competenza e origine di costi e di inefficienze
ma generano anche diseguaglianze nella allocazione delle
risorse.
E così succede che gli investimenti in Ricerca
e Sviluppo a Torino e nella nostra Regione sono assai
alti (1.6 miliardi di Euro nell’ultimo anno) ma
in netta contrapposizione con quello che succede a livello
nazionale, essi arrivano per l’81.5% dal settore
privato.
Il Piemonte è la seconda regione italiana per
la spesa in Ricerca e Sviluppo, con più del 20%
della spesa totale nazionale ed è la prima regione
per la spesa in ricerca applicata privata.
Ma per il Piemonte l’incidenza dei fondi pubblici
è la più bassa di tutte le altre regioni
del Centro Nord.
L’area di Torino può essere considerata
per quantità, qualità e varietà
un’area di eccellenza della ricerca tecnologica
in Italia, riconosciuta a livello internazionale in
molti campi.
Tuttavia, questo potenziale non è pienamente
sfruttato dal sistema produttivo nazionale, e una scarsa
spinta innovativa di questo limita di rimando le possibilità
di crescita della ricerca.
Secondo l’ultimo rapporto elaborato dall’osservatorio
sulle piccole e medie imprese tra il 1998 e il 2000
il 42.7% delle aziende piemontesi ha effettuato spese
per ricerca e sviluppo contro il 33.7 % della media
italiana.
La ricerca e l’innovazione sono storicamente appannaggio
della grande impresa che dispone di risorse finanziarie
cospicue e può permettersi di concentrarne una
parte su progetti dai ritorni non immediati mentre le
piccole medie imprese non hanno una funzione di ricerca
e sviluppo consolidata e quando gli affari ristagnano
tendono a tagliare le spese che non hanno effetti immediati
sui loro business: e la ricerca è la prima a
capitolare.
Ma adesso che i grandi gruppi sono in crisi - non si
può scordare quello che ha significato per la
ricerca la scomparsa dell’Olivetti ed è
sotto gli occhi di tutti la crisi industriale e finanziaria
della Fiat – è compito anche degli amministratori
pubblici farsi promotori, catalizzatori e propulsori
di iniziative per stabilire connessioni più strette
e sistematiche tra ricerca e industria, puntando ad
investimenti crescenti di questa nei settori innovativi.
Con le scarse risorse destinate da Roma alla ricerca
di base e all’innovazione industriale –
l’ultima finanziaria ha stanziato poco meno di
100 milioni di Euro – devono essere proprio gli
enti locali, pur nelle difficoltà finanziarie
che ormai li attanagliano, a pensare di assumere questo
ruolo e di trovare forme per intraprendere, aggregando
le diverse forze economiche, sociali e culturali della
società civile, in un’efficace azione propulsiva.
Andando oltre i dibattiti e alle discussioni infuocate
sulla devolution è questo, a mio avviso ciò
che potrebbe fare della riforma federalista il vero
salto di qualità.
La devolution, così come è stata concepita
è un passo in avanti sulla strada della sussidiarietà
verticale, dove la Regione farà quello che non
fa lo Stato, la Provincia quello che non fa la Regione
e così via ma, in ogni caso, sarà sempre
il pubblico ad agire. Parallelamente a questo è
necessario stabilire quadri di riferimento in grado
di favorire la libertà di iniziativa dei singoli
e di associazioni, insieme, ovviamente, alla loro responsabilità.
“Il governo civile opera contro il suo mandato
quand’egli si mette in concorrenza con i cittadini,
o colle società ch’essi stringono insieme
per ottenere qualche utilità speciale”
così Antonio Rosmini formulava nel 1838 quel
principio che oggi chiamiamo principio di sussidiarietà
orizzontale.
“I mali cominciano quando invece di fare appello
alle energie e alle iniziative di individui e associazioni,
il governo si sostituisce a essi” così
John Stuart Mill, undici anni più tardi nel suo
On Liberty.
Non ci potrebbero essere parole migliori per indicare
il nostro cammino e il nostro progetto: l’Ente
locale promuove iniziative che mettono a fattor comune
conoscenze ed esperienze per creare condizioni di crescita
e di sviluppo.
In questo processo l’Ente Locale deve essere prima
di tutto garante dell’efficienza.
L’efficienza della Pubblica amministrazione non
rappresenta solo un aiuto strategico per le attività
delle imprese e un sostegno per il loro sviluppo, ma
è anche una delle importanti variabili rispetto
alle quali le grandi aziende internazionali scelgono
i Paesi nei quali investire.
Nonostante il nostro Paese sia tra quelli che meno attraggono
capitale estero l’area metropolitana torinese
vede presenti sul suo territorio oltre 350 imprese a
controllo estero.
In questi numeri la parte del leone la fa il settore
metalmeccanico anche se è interessante notare
che il 30% delle aziende straniere appartiene al settore
dei servizi all’impresa ad alto valore aggiunto:
high tech in testa.
Per quanto riguarda la provenienza gli Stati Uniti sono
in assoluto il Paese che ha investito maggiormente nell’industria
torinese ma rilevanti sono anche gli investimenti provenienti
dagli altri Paesi dell’Unione Europea, Francia,
Germania e Gran Bretagna in testa.
Il sistema economico torinese, come in molte altre città
europee legate alla produzione, è in una fase
di passaggio da una base quasi mono-settoriale a una
più complessa, dove l’industria tradizionale
dell’area continua ad essere presente (con profonde
modifiche e innovazioni al suo interno) a fianco di
nuovi settori. Eredità della grande impresa è
una solida vocazione tecnologica, presenze importanti
in settori innovativi, una rete di centri di ricerca
pubblici e privati, lo sviluppo nel settore dei servizi,
soprattutto nel campo assicurativo e finanziario. La
modernizzazione dei settori industriali dell’area
può andare di pari passo con la crescita in nuovi
settori dell’industria e del terziario. Lo sviluppo
delle relazioni tra grandi e piccole imprese ha contribuito
e sta contribuendo alla formazione di veri e propri
distretti tecnologici culla dell’innovazione e
della ricerca. Basti pensare al settore dell’ICT;
Torino è considerata un distretto di ricerca
molto interessante in cui sono presenti circa duemila
ricercatori, il venti per cento del totale nazionale,
di cui settecento impegnati nel wireless. E i lavoratori
e le imprese di questo settore non sono da meno: il
Piemonte è la prima Regione in Italia per occupati
nel settore dell’high tech.
In un mercato italiano dell’Information Technology
che vale 20 miliardi di euro la quota piemontese per
il 2002 ammonta all’11.2%. Oggi in questo settore
sono presenti 5812 imprese, di cui più di 4000
nella Provincia di Torino (con un +3.4% rispetto all’anno
scorso) che occupano oltre 54000 addetti.
Trovare la soluzione per consolidare e continuare su
questa strada e per sostenere lo sviluppo della Città
non è cosa semplice. Non lo è innanzitutto
perché nessuno di noi possiede ricette e soluzioni
di sicuro e immediato successo e non lo è perché
dobbiamo tener ben presente la situazione della finanza
locale.
E penso che, prima di analizzare il Rendiconto della
Città, possa essere utile esaminare in generale
la situazione degli enti locali italiani.
Dalla relazione che la Corte dei Conti, dopo aver passato
al setaccio i rendiconti di 96 Provincie, 1300 Comuni
con più di 8 mila abitanti e 200 Comunità
Montane, ha trasmesso al Parlamento emerge che circa
due terzi degli enti presi in esame presenta disavanzi
di bilancio.
La relazione registra, inoltre, per i comuni una flessione
complessiva delle entrate correnti – frutto soprattutto
dei tagli dei trasferimenti statali – una crescita
della spese corrente – generata essenzialmente
dall’aumento del costo del personale solo parzialmente
compensata dalla riduzione per l’acquisto di beni
e servizi – e una stagnazione delle spese per
gli investimenti.
Se entriamo più nel dettaglio vediamo che i Comuni
italiani spendono in media 1320.35 Euro per abitante
all’anno. Più della metà di questa
cifra e cioè 724.58 Euro, pari a circa il 55%,
se ne va per la spesa corrente. Il 31% (oltre 406 Euro)
è destinato agli investimenti. La terza componente
di spesa è quella dei servizi in conto di terzi
che assorbono 113.25 Euro pari all’8.5% del totale.
Analizzando la spesa pro capite degli 8102 municipi
il quadro che si presenta appare estremamente vario.
I Comuni che spendono meno in assoluto sono quelli del
Sud con 777.53 Euro pro capite mentre il massimo assoluto
si spende nelle tre grandi città del Nord - Milano,
Torino e Genova – con ben 5897.6Euro a persona.
E in queste città il 64% delle uscite totali
è assorbito dalla spesa per gli investimenti.
Al contrario nei piccoli - medi centri meridionali è
la spesa corrente a superare il 60% del totale, mentre
agli investimenti va il 22 per cento.
È interessante anche l’analisi delle entrate
tributarie. Come emerge dal Bollettino sulle entrate
tributarie dell’Ufficio studi e politiche economico
fiscali del Ministero dell’Economia nei soli primi
quattro mesi di quest’anno le entrate tributarie
sono aumentate del 30.5% rispetto allo stesso periodo
del 2002.
L’addizionale Irpef Comunale ha dato un gettito
di 340 milioni di Euro, con una crescita del 50% rispetto
all’anno precedente. La tendenza del gettito di
questa imposta sembra riflettere il fatto che nel giro
di un anno si è raddoppiato il numero di Comuni
(da poco meno di 2500 a quasi 5000) che hanno deciso
di adottare questa facoltà.
Inoltre molti comuni hanno portato l’aliquota
al livello massimo consentito dalla legge e cioè
lo 0.5 per cento.
Altri che negli anni precedenti non l’avevano
mai applicata hanno scelto subito il primo scalino possibile
e cioè lo 0.2 per cento.
Dal confronto del gettito del periodo gennaio –
aprile 2002 (228 milioni) con quello dell’analogo
periodo del 2001 (130 milioni) si vede che l’incremento
è stato del 75.4% mentre il confronto su base
annua la crescita complessiva è stata del 53.3%
passando da 715 a 1096 milioni di Euro.
Questo è l’effetto dei tagli fatti ai trasferimenti
statali con le varie Leggi Finanziarie degli ultimi
anni. Per questo motivo l’addizionale Irpef nel
corso degli anni è stata applicata da un sempre
maggiore numero di enti trasferendo, di fatto, l’onere
della tassazione dal livello centrale a quello periferico.
Senza dimenticare l’effetto finanziario di questa
impostazione: questi importi, infatti, non entrano direttamente
nelle casse dei Comuni ma bensì in quelle dello
Stato che a sua volta le trasferisce agli enti locali;
emblematico di questo iter il fatto che, oggi, ai
comuni stanno arrivando le somme relative al gettito
del 1999.
Un ultimo dato interessante è quello relativo
alle imposte sugli immobili.
Nel 2002 i proprietari di case hanno pagato tributi
(locali e statali) sugli immobili per un totale di 27.7
miliardi di Euro.
Oltre ai 9.471 miliardi dell’ICI, sono stati versati
3.373 miliardi, pari al 12.1% del totale del prelievo
sugli immobili, per la tassa raccolta rifiuti
Complessivamente per le imposte locali sono stati pagati
12.9 miliardi di euro, cioè il 46.7% del totale.
Il resto è andato allo Stato sotto forma di Iva,
registro e imposte dirette.
Questa la situazione della finanza locale italiana.
Esaminando il dettaglio degli aggregati contabili del
Rendiconto 2002 della Città il primo aspetto
da sottolineare è che l’avanzo di amministrazione
si attesta ancora su valori significativi: 28 milioni
di Euro. In particolare viene confermata la positività
della gestione corrente che registra, infatti, anche
per quest’anno un avanzo intorno ai 2 milioni
di Euro.
Analizzando il dettaglio degli aggregati contabili si
evince, per quanto riguarda le entrate:
- un aumento considerevole (circa il 39%) delle entrate
di carattere tributario rispetto al 2001 dovuto sia
all’aumento dell’aliquota relativa all’addizionale
IRPEF passata dallo 0.1% allo 0.3% che all’allocazione
in questo titolo della compartecipazione al gettito
IRPEF. Nello specifico e coerentemente con quanto
riscontrato a livello nazionale è interessante
innanzitutto rilevare che il gettito delle imposte,
la cui maggior parte è dovuta all’ICI,
è salita a circa il 79% delle entrate tributarie
e che le tasse, il cui gettito è fortemente
determinato dalla tassa per la raccolta e lo smaltimento
dei rifiuti pesano per il 19% circa sul Titolo I.
E ancora è interessante vedere che nel 2002
il 95.76% delle entrate tributarie è generato
da quattro tributi nelle seguenti proporzioni: ICI
(48%), TARSU (19.77%), compartecipazione al gettito
IRPEF (24.25%) ed addizionale IRPEF (7.28%). All’interno
delle entrate tributarie trova posto e riveste particolare
interesse, sia dal punto di vista finanziario che
politico, il gettito generato dal recupero dell’evasione.
In particolare nel 2002 sono stati recuperati oltre
4 milioni di Euro di evasione ICI e poco più
di 9 milioni di Euro di evasione TARSU registrando
una riduzione rispetto agli anni precedenti segno
questo, sommato all’incremento costante della
base imponibile, del naturale esaurirsi dell’azione
di recupero dell’evasione. Mi preme ancora segnalare
che Torino è la città che ha registrato
l’aumento percentuale più basso dell’aliquota
ordinaria ICI dal 1993 ad oggi, escludendo Milano
e Bari che non hanno mai modificato dal 1993 ad oggi
l’aliquota ordinaria che è, rispettivamente
del 5% e del 6%;
- una diminuzione, rispetto al 2001, di circa il 20%
dei trasferimenti causata da una diminuzione sia dei
trasferimenti regionali, per 5.64 milioni di Euro,
che dei trasferimenti dello Stato, che passano da
351.87 milioni di Euro del 2001 ai 240.45 milioni
di Euro del 2002 sostituiti, per uguale ammontare,
dalla compartecipazione al gettito IRPEF;
- una sostanziale costanza, rispetto agli esercizi
precedenti, delle entrate extratributarie. Per quanto
riguarda questo titolo è però, a mio
avviso, interessante notare l’aumento degli
interessi attivi. Questo aumento è imputabile
alle operazioni finanziarie di swap realizzate nell’anno
e finalizzate alla compensazione degli interessi passivi
pagati sui mutui contratti e sui B.O.C. emessi.
- un aumento, di circa il 25%, delle entrate derivanti
da accensioni di prestiti indotto dalla necessità
di rispettare il poderoso programma di investimenti
sviluppato dall’amministrazione in questi anni.
Per quanto riguarda le spese correnti si deve registrare
un leggero incremento di ca. 10 milioni di Euro rispetto
al 2001 dovuto:
- all’aumento del 3% del costo del personale,
che passa dai 363.42 milioni di Euro del 2001 ai 374.34
milioni di Euro del 2002, determinato principalmente
dall’applicazione per il biennio 2001/2002 dell’aggiornamento
economico del contratto di lavoro;
- ad un aumento del 2% circa degli acquisti di beni
e servizi, da imputarsi, oltre che alla naturale incidenza
inflattiva sui prezzi, all’aumento della spesa
per gli interventi per la prima infanzia e all’aumento
della spesa per la viabilità e la gestione
del territorio.
- Una sostanziale costanza degli interessi passivi
grazie alla attenta politica di gestione dell’indebitamento.
Gli investimenti attivati nel 2002 sono aumentati,
rispetto al 2001, di circa 93.49 milioni di Euro e globalmente
risultano pari a 403.66 milioni di cui 121.84 finanziati
con mezzi di bilancio – e quindi autofinanziati
80.63 milioni finanziati con mutui; la differenza di
201.19 milioni è rappresentata da spese in conto
capitale già impegnate ma per le quali non è
ancora stato richiesto il relativo finanziamento da
parte della Cassa Depositi e Prestiti in virtù
della procedura del formale impegno che consente di
posticipare la contrazione del mutuo al momento dell’effettivo
pagamento.
L’analisi delle fonti di finanziamento ci permette
di analizzare la consistenza e la struttura del debito:
il trend crescente registrato nell’ultimo quinquennio
è evidentemente correlato con lo sviluppo degli
investimenti perseguito negli ultimi anni.
L’aumento dell’indebitamento non è
un aspetto negativo perché ciò significa
che l’amministrazione continua ad investire e
quanto fatto quest’anno ne è una conferma.
Si deve peraltro ricordare che, comunque, l’attuale
livello di indebitamento del Comune di Torino (rappresentato
dal rapporto tra oneri finanziari e entrate correnti)
è pari ca. al 7% e questo significa che le capacità
teorica di indebitamento è pressochè illimitata
dal momento che il vincolo normativo impedisce che gli
oneri finanziari superino il 25% delle entrate correnti.
Da un’analisi più attenta si evince che:
- il debito residuo fronteggiato dal Comune di Torino
al 01.01.2003 è pari a circa 1.860.16 milioni
di euro. Dal momento che alcuni mutui sono parzialmente
assistiti da uno specifico contributo dello Stato
il debito reale a carico dell’Amministrazione
risulta essere pari a 1.619.33 milioni di euro;
- dei 1.860.16 milioni di euro il 35.78% è
a tasso fisso e il 64.22% è a tasso variabile,
ovvero più della metà del debito sconta
un tasso adeguato alle condizioni di mercato;
- l’esposizione debitoria è unicamente
verso finanziatori italiani; in particolare:
- il 45.14% dai B.O.C;
- il 34.98% da Banche appartenenti al sistema creditizio
italiano;
- il 19.88% del debito è finanziato dalla
Cassa Depositi e Prestiti.
Più volte, in passato, in occasione della presentazione
del Bilancio di Previsione o del Rendiconto ed ogni
qual volta ci si trovasse a parlare di finanza locale
abbiamo sottolineato le sempre maggiori difficoltà
per gli enti locali di chiudere i Bilanci o di attuare
una seria programmazione degli investimenti e della
spesa dovendo far fronte a sempre maggiori tagli nei
trasferimenti, a sempre nuovi vincoli e divieti imposti
dal Governo.
Per fronteggiare una situazione in cui i trasferimenti
dallo Stato e dalla Regione vengono tagliati in modo
sempre più cospicuo, stante un costante aumento
delle competenze, la risposta che la Città può
dare, oltre a quella di un costante monitoraggio dei
costi dei servizi e della struttura comunale, è
quella di attivare politiche di gestione attiva del
debito o di utilizzare forme alternative di finanziamento,
onde ridurre la pressione degli oneri e liberare così
risorse da destinare ai servizi, e di proseguire nelle
iniziative di dismissioni del patrimonio immobiliare
che hanno iniziato a dare significativi risultati.
Non è mia intenzione ripetere ciò che
è già stato detto né ripercorrere
la storia del Patto di Stabilità dal 1999 ad
oggi ma mi interessa solamente ricordare quelle che
furono le novità introdotte dalla Legge Finanziaria
del 2002, novità che hanno avuto effetto sulla
gestione dell’anno finanziario che stiamo esaminando
e sul bilancio che oggi viene portato all’approvazione
del Consiglio Comunale.
Con la Finanziaria 2002 non solo vennero previsti ulteriori
tagli nei trasferimenti ma fu completamente riformulato
il patto di stabilità interno che da esortazione
programmatica diventava una norma imperativa accompagnata
da norme sanzionatorie: reintroducendo il concetto di
tetto di spesa, prevedendo che il disavanzo di ciascun
comune non potesse aumentare più del 2,5% rispetto
al 2000 ed che il complesso delle spese correnti non
potesse superare più del 6% le spese del 2000;
limitazioni, queste, che si sarebbero dovute applicare
anche al complesso dei pagamenti delle spese correnti
con riferimento ai pagamenti effettuati nell’esercizio
2000, sanzionando con un’ulteriore riduzione dell’importo
dei trasferimenti erariali, infine, chi non avesse rispettato
i limiti previsti.
È con soddisfazione che posso dire che nonostante
grandi difficoltà ma senza andare ad incidere
sulla qualità e sulla quantità dei servizi,
grazie all’attento lavoro di monitoraggio e controllo
attivato dal Servizio Centrale Risorse Finanziarie,
tutti e tre i vincoli sono stati rispettati, gli equilibri
mantenuti e gli obiettivi raggiunti.
Alla preparazione di questo Rendiconto hanno fattivamente
collaborato, ognuno per il settore di propria competenza,
il Direttore Generale, i direttori e i dirigenti e il
Sindaco con tutti gli Assessori della Giunta: a tutti
loro va il mio grazie.
Un grazie anche ai presidenti delle commissioni consiliari,
in particolare al presidente Cuntrò, e a tutti
i membri delle commissioni.
Un ringraziamento al Direttore delle Risorse Finanziarie,
dott. Domenico Pizzala, alla Signora Savio e tutti i
dipendenti del Servizio Centrale Risorse Finanziarie
per il loro sempre puntuale e attento lavoro.
Un particolare ringraziamento va, infine, al Presidente
e ai membri del Collegio dei Revisori dei Conti che,
a seguito della soppressione degli organi deputati al
controllo degli Enti Locali (il CO.RE.CO.) sancita dalla
riforma dell’articolo V della parte seconda della
Costituzione, sono stati investiti di maggiori responsabilità
e incombenze. Con la modifica dell’articolo 117
della Costituzione, infatti, le funzioni di collaborazione
e controllo attribuite all’organo di revisione
abbracciano l’intera attività dell’ente
locale nelle diverse fasi della programmazione, della
gestione e della rendicontazione.
A loro va il mio ringraziamento ma anche un augurio
sincero.
Come avevo già detto in occasione della presentazione
del Bilancio di Previsione, la Città di Torino
non solo ha conservato il rating AA-, segno dell’affidabilità
creditizia riconosciuta alla nostra città sul
mercato finanziario dall’Agenzia Standard and
Poor’s ma ha visto modificare le sue prospettive
da “negative” a “stabili”.
Motivo, questo, di soddisfazione ma anche segno che
questa città, sta cominciando ad intravedere
la fine della notte cui ho fatto riferimento all’inizio
della mia relazione.
È questo un momento di grandi cambiamenti.Quello
che è certo è che noi non li temiamo né
cerchiamo di rinviarne gli effetti. Anzi. La differenza
tra la nostra posizione e quella conservatori sta proprio
nell’approccio di fronte ai cambiamenti.
Come diceva il filosofo liberale Hayek “uno dei
tratti fondamentali dell’atteggiamento conservatore
è il timore del cambiamento; mentre il conservatore
si sente sicuro e soddisfatto solo se è certo
che una saggezza superiore vigili sui cambiamenti, solo
se sa che qualche autorità ha il compito di mantenere
disciplinato il cambiamento, il liberale si basa sul
coraggio e la fiducia”.
Noi non siamo conservatori: non è questa la nostra
strada, la nostra vocazione.
Consulta i dati
di sintesi sul rendiconto 2002 (in formato
pdf)
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