Torna all'indice Città di Torino Il Bilancio di Torino 
Relazione al rendiconto 2002

A coloro i quali "sanno", i quali conoscono la "verità" e credono di avere il dovere di attuarla, noi dobbiamo opporre il principio che noi conosciamo la verità solo se e finché abbiamo la possibilità di negarla; che il solo criterio della verità politica, come di ogni altra verità, è il diritto illimitato di discutere le regole accettate nel costume o nelle costituzioni scritte, di criticare gli ordinamenti esistenti e gli uomini al potere, di adoperarsi per mutare gli uni e per cacciare gli altri di seggio, il diritto delle minoranze di trasformarsi, in virtù di persuasione, in maggioranze.

Luigi Einaudi – Prediche inutili


Il Rendiconto è il momento per fare la ricognizione del lavoro svolto in un anno: è lo strumento che permette di valutare i risultati conseguiti in rapporto ai programmi e ai costi sostenuti ma è anche l’occasione per analizzare le attività ancora da concludere, per dare ordine ai progetti e farli procedere il più celermente possibile.
Quando si esamina il Rendiconto non è possibile limitarsi all’analisi degli aggregati contabili: nel momento in cui si guarda al lavoro di un anno non si può non fare riferimento a tutti gli episodi, agli eventi e ai fatti che hanno costellato l’anno trascorso.
E ripensando a tutto quello che è successo nel 2002 e alla situazione della nostra Città, ma non solo, verrebbe da chiedersi, riprendendo il titolo di un libro di successo di Fruttero e Lucentini: “sentinella, a che punto è la notte?”
Perché è indubbio che le ultime stagioni non sono state affatto facili, né per l’Italia, né tanto meno per la nostra Città.
Il tema del declino economico e industriale dell’Italia contemporanea ha ispirato polemiche politiche, confronti sindacali ed è tornato sia nel rapporto annuale redatto dall’Istat che nelle considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia Fazio.
Dal rapporto dell’Istat emerge una nazione vecchia – la più vecchia del mondo – che perde progressivamente competitività, con un Pil che in quest’ultimo anno è cresciuto di appena lo 0.4%, segnando tra l’altro il risultato peggiore dal 1993, e con esportazioni che sono diminuite dell’1%.
Dati confermati dalle considerazioni finali che il Governatore Fazio ha letto all’Assemblea della Banca d’Italia: in Italia dalla metà degli anni 90 è in atto una progressiva erosione dell’efficienza complessiva del sistema.
Il governatore Fazio individua nel limitato sviluppo della produttività la ragione prima del declino.
E se il limitato sviluppo della produttività è imputabile, da un lato, all’eccessiva frammentazione del tessuto imprenditoriale, dall’altro è dovuto alla scarsa presenza delle nuove tecnologie e dell’innovazione e da un livello assai basso della scolarità.
Le cifre sulla scolarità ci dipingono come un Paese lontano dal resto dei Paesi industrializzati: in Italia solo il 10% degli adulti tra i 25 e i 64 anni è in possesso della laurea contro il 36% degli Stati Uniti e il 30% del Regno Unito.
L’invecchiamento della nostra popolazione, figlio della denatalità, è un sintomo emblematico della mancanza di investimento nel futuro, di un dinamismo spento.
In Europa siamo fanalino di coda per quanto riguarda la spesa in ricerca e lo sviluppo: la spesa in ricerca è appena l’1.07% del Pil contro l’1.93% della UE e il 3% fissato come obiettivo da raggiungere tra sette anni.
Senza considerare Usa e Giappone che destinano ogni anno rispettivamente il 2.8 e il 3 per cento del loro PIL.
Su 1000 lavoratori i ricercatori scientifici sono solo 2.78, contro i 5.36 della media europea, gli 8.66 degli USA e i 9.72 del Giappone.
È tempo quindi di iniziare una vera stagione delle riforme. L’Italia non può più permettersi ulteriori rinvii. Serve una scossa profonda e radicale sapendo che gli spazi di manovra sono condizionati da una finanza pubblica le cui condizioni sono sempre più drammatiche.
Nel nostro Paese la mano pubblica assorbe quasi la metà del prodotto nazionale, e regola fortemente l’altra metà. È quindi inevitabile che le questioni istituzionali siano legate in modo inestricabile a quelle del funzionamento del sistema economico. Nel mondo della globalizzazione i tempi dell’economia sono molto rapidi. La prosperità o il declino relativo dipendono dalla capacità di adeguare le proprie norme alle condizioni dei mercati mondiali che mutano in maniera più veloce delle norme giuridiche e delle strutture istituzionali.
Bisogna essere consapevoli che il miglioramento del sistema paese non può non essere conseguito oltre un certo punto se non si procede a una coerente riforma istituzionale.
Nonostante la modifica del titolo V della Costituzione, la situazione istituzionale presenta ancora problemi notevolissimi dal punto di vista dell’efficienza economica, dell’equilibrio della finanza pubblica, della capacità di decisione in materia sociale. Il nuovo titolo V ha rappresentato il superamento del “vecchio” Stato unitario, ma non ha dato luogo a un sistema diverso e funzionante.
Con questa riforma si sono stabilite una serie enorme di sovrapposizioni di competenze tra lo Stato e gli Enti Locali che vanno dal commercio con l’estero all’energia, dalle professioni alla ricerca scientifica e tecnologica, dal sostegno all’innovazione per i settori produttivi ai lavori pubblici e alle grandi reti infrastrutturali.
E queste sovrapposizioni non sono soltanto fonte di conflitti di competenza e origine di costi e di inefficienze ma generano anche diseguaglianze nella allocazione delle risorse.
E così succede che gli investimenti in Ricerca e Sviluppo a Torino e nella nostra Regione sono assai alti (1.6 miliardi di Euro nell’ultimo anno) ma in netta contrapposizione con quello che succede a livello nazionale, essi arrivano per l’81.5% dal settore privato.
Il Piemonte è la seconda regione italiana per la spesa in Ricerca e Sviluppo, con più del 20% della spesa totale nazionale ed è la prima regione per la spesa in ricerca applicata privata.
Ma per il Piemonte l’incidenza dei fondi pubblici è la più bassa di tutte le altre regioni del Centro Nord.
L’area di Torino può essere considerata per quantità, qualità e varietà un’area di eccellenza della ricerca tecnologica in Italia, riconosciuta a livello internazionale in molti campi.
Tuttavia, questo potenziale non è pienamente sfruttato dal sistema produttivo nazionale, e una scarsa spinta innovativa di questo limita di rimando le possibilità di crescita della ricerca.
Secondo l’ultimo rapporto elaborato dall’osservatorio sulle piccole e medie imprese tra il 1998 e il 2000 il 42.7% delle aziende piemontesi ha effettuato spese per ricerca e sviluppo contro il 33.7 % della media italiana.
La ricerca e l’innovazione sono storicamente appannaggio della grande impresa che dispone di risorse finanziarie cospicue e può permettersi di concentrarne una parte su progetti dai ritorni non immediati mentre le piccole medie imprese non hanno una funzione di ricerca e sviluppo consolidata e quando gli affari ristagnano tendono a tagliare le spese che non hanno effetti immediati sui loro business: e la ricerca è la prima a capitolare.
Ma adesso che i grandi gruppi sono in crisi - non si può scordare quello che ha significato per la ricerca la scomparsa dell’Olivetti ed è sotto gli occhi di tutti la crisi industriale e finanziaria della Fiat – è compito anche degli amministratori pubblici farsi promotori, catalizzatori e propulsori di iniziative per stabilire connessioni più strette e sistematiche tra ricerca e industria, puntando ad investimenti crescenti di questa nei settori innovativi.
Con le scarse risorse destinate da Roma alla ricerca di base e all’innovazione industriale – l’ultima finanziaria ha stanziato poco meno di 100 milioni di Euro – devono essere proprio gli enti locali, pur nelle difficoltà finanziarie che ormai li attanagliano, a pensare di assumere questo ruolo e di trovare forme per intraprendere, aggregando le diverse forze economiche, sociali e culturali della società civile, in un’efficace azione propulsiva.
Andando oltre i dibattiti e alle discussioni infuocate sulla devolution è questo, a mio avviso ciò che potrebbe fare della riforma federalista il vero salto di qualità.
La devolution, così come è stata concepita è un passo in avanti sulla strada della sussidiarietà verticale, dove la Regione farà quello che non fa lo Stato, la Provincia quello che non fa la Regione e così via ma, in ogni caso, sarà sempre il pubblico ad agire. Parallelamente a questo è necessario stabilire quadri di riferimento in grado di favorire la libertà di iniziativa dei singoli e di associazioni, insieme, ovviamente, alla loro responsabilità.
“Il governo civile opera contro il suo mandato quand’egli si mette in concorrenza con i cittadini, o colle società ch’essi stringono insieme per ottenere qualche utilità speciale” così Antonio Rosmini formulava nel 1838 quel principio che oggi chiamiamo principio di sussidiarietà orizzontale.
“I mali cominciano quando invece di fare appello alle energie e alle iniziative di individui e associazioni, il governo si sostituisce a essi” così John Stuart Mill, undici anni più tardi nel suo On Liberty.
Non ci potrebbero essere parole migliori per indicare il nostro cammino e il nostro progetto: l’Ente locale promuove iniziative che mettono a fattor comune conoscenze ed esperienze per creare condizioni di crescita e di sviluppo.
In questo processo l’Ente Locale deve essere prima di tutto garante dell’efficienza.
L’efficienza della Pubblica amministrazione non rappresenta solo un aiuto strategico per le attività delle imprese e un sostegno per il loro sviluppo, ma è anche una delle importanti variabili rispetto alle quali le grandi aziende internazionali scelgono i Paesi nei quali investire.
Nonostante il nostro Paese sia tra quelli che meno attraggono capitale estero l’area metropolitana torinese vede presenti sul suo territorio oltre 350 imprese a controllo estero.
In questi numeri la parte del leone la fa il settore metalmeccanico anche se è interessante notare che il 30% delle aziende straniere appartiene al settore dei servizi all’impresa ad alto valore aggiunto: high tech in testa.
Per quanto riguarda la provenienza gli Stati Uniti sono in assoluto il Paese che ha investito maggiormente nell’industria torinese ma rilevanti sono anche gli investimenti provenienti dagli altri Paesi dell’Unione Europea, Francia, Germania e Gran Bretagna in testa.
Il sistema economico torinese, come in molte altre città europee legate alla produzione, è in una fase di passaggio da una base quasi mono-settoriale a una più complessa, dove l’industria tradizionale dell’area continua ad essere presente (con profonde modifiche e innovazioni al suo interno) a fianco di nuovi settori. Eredità della grande impresa è una solida vocazione tecnologica, presenze importanti in settori innovativi, una rete di centri di ricerca pubblici e privati, lo sviluppo nel settore dei servizi, soprattutto nel campo assicurativo e finanziario. La modernizzazione dei settori industriali dell’area può andare di pari passo con la crescita in nuovi settori dell’industria e del terziario. Lo sviluppo delle relazioni tra grandi e piccole imprese ha contribuito e sta contribuendo alla formazione di veri e propri distretti tecnologici culla dell’innovazione e della ricerca. Basti pensare al settore dell’ICT; Torino è considerata un distretto di ricerca molto interessante in cui sono presenti circa duemila ricercatori, il venti per cento del totale nazionale, di cui settecento impegnati nel wireless. E i lavoratori e le imprese di questo settore non sono da meno: il Piemonte è la prima Regione in Italia per occupati nel settore dell’high tech.
In un mercato italiano dell’Information Technology che vale 20 miliardi di euro la quota piemontese per il 2002 ammonta all’11.2%. Oggi in questo settore sono presenti 5812 imprese, di cui più di 4000 nella Provincia di Torino (con un +3.4% rispetto all’anno scorso) che occupano oltre 54000 addetti.

Trovare la soluzione per consolidare e continuare su questa strada e per sostenere lo sviluppo della Città non è cosa semplice. Non lo è innanzitutto perché nessuno di noi possiede ricette e soluzioni di sicuro e immediato successo e non lo è perché dobbiamo tener ben presente la situazione della finanza locale.
E penso che, prima di analizzare il Rendiconto della Città, possa essere utile esaminare in generale la situazione degli enti locali italiani.
Dalla relazione che la Corte dei Conti, dopo aver passato al setaccio i rendiconti di 96 Provincie, 1300 Comuni con più di 8 mila abitanti e 200 Comunità Montane, ha trasmesso al Parlamento emerge che circa due terzi degli enti presi in esame presenta disavanzi di bilancio.
La relazione registra, inoltre, per i comuni una flessione complessiva delle entrate correnti – frutto soprattutto dei tagli dei trasferimenti statali – una crescita della spese corrente – generata essenzialmente dall’aumento del costo del personale solo parzialmente compensata dalla riduzione per l’acquisto di beni e servizi – e una stagnazione delle spese per gli investimenti.
Se entriamo più nel dettaglio vediamo che i Comuni italiani spendono in media 1320.35 Euro per abitante all’anno. Più della metà di questa cifra e cioè 724.58 Euro, pari a circa il 55%, se ne va per la spesa corrente. Il 31% (oltre 406 Euro) è destinato agli investimenti. La terza componente di spesa è quella dei servizi in conto di terzi che assorbono 113.25 Euro pari all’8.5% del totale.
Analizzando la spesa pro capite degli 8102 municipi il quadro che si presenta appare estremamente vario. I Comuni che spendono meno in assoluto sono quelli del Sud con 777.53 Euro pro capite mentre il massimo assoluto si spende nelle tre grandi città del Nord - Milano, Torino e Genova – con ben 5897.6Euro a persona.
E in queste città il 64% delle uscite totali è assorbito dalla spesa per gli investimenti. Al contrario nei piccoli - medi centri meridionali è la spesa corrente a superare il 60% del totale, mentre agli investimenti va il 22 per cento.
È interessante anche l’analisi delle entrate tributarie. Come emerge dal Bollettino sulle entrate tributarie dell’Ufficio studi e politiche economico fiscali del Ministero dell’Economia nei soli primi quattro mesi di quest’anno le entrate tributarie sono aumentate del 30.5% rispetto allo stesso periodo del 2002.
L’addizionale Irpef Comunale ha dato un gettito di 340 milioni di Euro, con una crescita del 50% rispetto all’anno precedente. La tendenza del gettito di questa imposta sembra riflettere il fatto che nel giro di un anno si è raddoppiato il numero di Comuni (da poco meno di 2500 a quasi 5000) che hanno deciso di adottare questa facoltà.
Inoltre molti comuni hanno portato l’aliquota al livello massimo consentito dalla legge e cioè lo 0.5 per cento.
Altri che negli anni precedenti non l’avevano mai applicata hanno scelto subito il primo scalino possibile e cioè lo 0.2 per cento.
Dal confronto del gettito del periodo gennaio – aprile 2002 (228 milioni) con quello dell’analogo periodo del 2001 (130 milioni) si vede che l’incremento è stato del 75.4% mentre il confronto su base annua la crescita complessiva è stata del 53.3% passando da 715 a 1096 milioni di Euro.
Questo è l’effetto dei tagli fatti ai trasferimenti statali con le varie Leggi Finanziarie degli ultimi anni. Per questo motivo l’addizionale Irpef nel corso degli anni è stata applicata da un sempre maggiore numero di enti trasferendo, di fatto, l’onere della tassazione dal livello centrale a quello periferico.
Senza dimenticare l’effetto finanziario di questa impostazione: questi importi, infatti, non entrano direttamente nelle casse dei Comuni ma bensì in quelle dello Stato che a sua volta le trasferisce agli enti locali; emblematico di questo iter il fatto che, oggi, ai
comuni stanno arrivando le somme relative al gettito del 1999.
Un ultimo dato interessante è quello relativo alle imposte sugli immobili.
Nel 2002 i proprietari di case hanno pagato tributi (locali e statali) sugli immobili per un totale di 27.7 miliardi di Euro.
Oltre ai 9.471 miliardi dell’ICI, sono stati versati 3.373 miliardi, pari al 12.1% del totale del prelievo sugli immobili, per la tassa raccolta rifiuti
Complessivamente per le imposte locali sono stati pagati 12.9 miliardi di euro, cioè il 46.7% del totale. Il resto è andato allo Stato sotto forma di Iva, registro e imposte dirette.
Questa la situazione della finanza locale italiana.
Esaminando il dettaglio degli aggregati contabili del Rendiconto 2002 della Città il primo aspetto da sottolineare è che l’avanzo di amministrazione si attesta ancora su valori significativi: 28 milioni di Euro. In particolare viene confermata la positività della gestione corrente che registra, infatti, anche per quest’anno un avanzo intorno ai 2 milioni di Euro.
Analizzando il dettaglio degli aggregati contabili si evince, per quanto riguarda le entrate:

  • un aumento considerevole (circa il 39%) delle entrate di carattere tributario rispetto al 2001 dovuto sia all’aumento dell’aliquota relativa all’addizionale IRPEF passata dallo 0.1% allo 0.3% che all’allocazione in questo titolo della compartecipazione al gettito IRPEF. Nello specifico e coerentemente con quanto riscontrato a livello nazionale è interessante innanzitutto rilevare che il gettito delle imposte, la cui maggior parte è dovuta all’ICI, è salita a circa il 79% delle entrate tributarie e che le tasse, il cui gettito è fortemente determinato dalla tassa per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti pesano per il 19% circa sul Titolo I. E ancora è interessante vedere che nel 2002 il 95.76% delle entrate tributarie è generato da quattro tributi nelle seguenti proporzioni: ICI (48%), TARSU (19.77%), compartecipazione al gettito IRPEF (24.25%) ed addizionale IRPEF (7.28%). All’interno delle entrate tributarie trova posto e riveste particolare interesse, sia dal punto di vista finanziario che politico, il gettito generato dal recupero dell’evasione. In particolare nel 2002 sono stati recuperati oltre 4 milioni di Euro di evasione ICI e poco più di 9 milioni di Euro di evasione TARSU registrando una riduzione rispetto agli anni precedenti segno questo, sommato all’incremento costante della base imponibile, del naturale esaurirsi dell’azione di recupero dell’evasione. Mi preme ancora segnalare che Torino è la città che ha registrato l’aumento percentuale più basso dell’aliquota ordinaria ICI dal 1993 ad oggi, escludendo Milano e Bari che non hanno mai modificato dal 1993 ad oggi l’aliquota ordinaria che è, rispettivamente del 5% e del 6%;
  • una diminuzione, rispetto al 2001, di circa il 20% dei trasferimenti causata da una diminuzione sia dei trasferimenti regionali, per 5.64 milioni di Euro, che dei trasferimenti dello Stato, che passano da 351.87 milioni di Euro del 2001 ai 240.45 milioni di Euro del 2002 sostituiti, per uguale ammontare, dalla compartecipazione al gettito IRPEF;
  • una sostanziale costanza, rispetto agli esercizi precedenti, delle entrate extratributarie. Per quanto riguarda questo titolo è però, a mio avviso, interessante notare l’aumento degli interessi attivi. Questo aumento è imputabile alle operazioni finanziarie di swap realizzate nell’anno e finalizzate alla compensazione degli interessi passivi pagati sui mutui contratti e sui B.O.C. emessi.
  • un aumento, di circa il 25%, delle entrate derivanti da accensioni di prestiti indotto dalla necessità di rispettare il poderoso programma di investimenti sviluppato dall’amministrazione in questi anni.

Per quanto riguarda le spese correnti si deve registrare un leggero incremento di ca. 10 milioni di Euro rispetto al 2001 dovuto:

  • all’aumento del 3% del costo del personale, che passa dai 363.42 milioni di Euro del 2001 ai 374.34 milioni di Euro del 2002, determinato principalmente dall’applicazione per il biennio 2001/2002 dell’aggiornamento economico del contratto di lavoro;
  • ad un aumento del 2% circa degli acquisti di beni e servizi, da imputarsi, oltre che alla naturale incidenza inflattiva sui prezzi, all’aumento della spesa per gli interventi per la prima infanzia e all’aumento della spesa per la viabilità e la gestione del territorio.
  • Una sostanziale costanza degli interessi passivi grazie alla attenta politica di gestione dell’indebitamento.

Gli investimenti attivati nel 2002 sono aumentati, rispetto al 2001, di circa 93.49 milioni di Euro e globalmente risultano pari a 403.66 milioni di cui 121.84 finanziati con mezzi di bilancio – e quindi autofinanziati 80.63 milioni finanziati con mutui; la differenza di 201.19 milioni è rappresentata da spese in conto capitale già impegnate ma per le quali non è ancora stato richiesto il relativo finanziamento da parte della Cassa Depositi e Prestiti in virtù della procedura del formale impegno che consente di posticipare la contrazione del mutuo al momento dell’effettivo pagamento.
L’analisi delle fonti di finanziamento ci permette di analizzare la consistenza e la struttura del debito: il trend crescente registrato nell’ultimo quinquennio è evidentemente correlato con lo sviluppo degli investimenti perseguito negli ultimi anni.
L’aumento dell’indebitamento non è un aspetto negativo perché ciò significa che l’amministrazione continua ad investire e quanto fatto quest’anno ne è una conferma.
Si deve peraltro ricordare che, comunque, l’attuale livello di indebitamento del Comune di Torino (rappresentato dal rapporto tra oneri finanziari e entrate correnti) è pari ca. al 7% e questo significa che le capacità teorica di indebitamento è pressochè illimitata dal momento che il vincolo normativo impedisce che gli oneri finanziari superino il 25% delle entrate correnti.
Da un’analisi più attenta si evince che:

  • il debito residuo fronteggiato dal Comune di Torino al 01.01.2003 è pari a circa 1.860.16 milioni di euro. Dal momento che alcuni mutui sono parzialmente assistiti da uno specifico contributo dello Stato il debito reale a carico dell’Amministrazione risulta essere pari a 1.619.33 milioni di euro;
  • dei 1.860.16 milioni di euro il 35.78% è a tasso fisso e il 64.22% è a tasso variabile, ovvero più della metà del debito sconta un tasso adeguato alle condizioni di mercato;
  • l’esposizione debitoria è unicamente verso finanziatori italiani; in particolare:
  • il 45.14% dai B.O.C;
  • il 34.98% da Banche appartenenti al sistema creditizio italiano;
  • il 19.88% del debito è finanziato dalla Cassa Depositi e Prestiti.

Più volte, in passato, in occasione della presentazione del Bilancio di Previsione o del Rendiconto ed ogni qual volta ci si trovasse a parlare di finanza locale abbiamo sottolineato le sempre maggiori difficoltà per gli enti locali di chiudere i Bilanci o di attuare una seria programmazione degli investimenti e della spesa dovendo far fronte a sempre maggiori tagli nei trasferimenti, a sempre nuovi vincoli e divieti imposti dal Governo.
Per fronteggiare una situazione in cui i trasferimenti dallo Stato e dalla Regione vengono tagliati in modo sempre più cospicuo, stante un costante aumento delle competenze, la risposta che la Città può dare, oltre a quella di un costante monitoraggio dei costi dei servizi e della struttura comunale, è quella di attivare politiche di gestione attiva del debito o di utilizzare forme alternative di finanziamento, onde ridurre la pressione degli oneri e liberare così risorse da destinare ai servizi, e di proseguire nelle iniziative di dismissioni del patrimonio immobiliare che hanno iniziato a dare significativi risultati.
Non è mia intenzione ripetere ciò che è già stato detto né ripercorrere la storia del Patto di Stabilità dal 1999 ad oggi ma mi interessa solamente ricordare quelle che furono le novità introdotte dalla Legge Finanziaria del 2002, novità che hanno avuto effetto sulla gestione dell’anno finanziario che stiamo esaminando e sul bilancio che oggi viene portato all’approvazione del Consiglio Comunale.
Con la Finanziaria 2002 non solo vennero previsti ulteriori tagli nei trasferimenti ma fu completamente riformulato il patto di stabilità interno che da esortazione programmatica diventava una norma imperativa accompagnata da norme sanzionatorie: reintroducendo il concetto di tetto di spesa, prevedendo che il disavanzo di ciascun comune non potesse aumentare più del 2,5% rispetto al 2000 ed che il complesso delle spese correnti non potesse superare più del 6% le spese del 2000; limitazioni, queste, che si sarebbero dovute applicare anche al complesso dei pagamenti delle spese correnti con riferimento ai pagamenti effettuati nell’esercizio 2000, sanzionando con un’ulteriore riduzione dell’importo dei trasferimenti erariali, infine, chi non avesse rispettato i limiti previsti.
È con soddisfazione che posso dire che nonostante grandi difficoltà ma senza andare ad incidere sulla qualità e sulla quantità dei servizi, grazie all’attento lavoro di monitoraggio e controllo attivato dal Servizio Centrale Risorse Finanziarie, tutti e tre i vincoli sono stati rispettati, gli equilibri mantenuti e gli obiettivi raggiunti.


Alla preparazione di questo Rendiconto hanno fattivamente collaborato, ognuno per il settore di propria competenza, il Direttore Generale, i direttori e i dirigenti e il Sindaco con tutti gli Assessori della Giunta: a tutti loro va il mio grazie.
Un grazie anche ai presidenti delle commissioni consiliari, in particolare al presidente Cuntrò, e a tutti i membri delle commissioni.
Un ringraziamento al Direttore delle Risorse Finanziarie, dott. Domenico Pizzala, alla Signora Savio e tutti i dipendenti del Servizio Centrale Risorse Finanziarie per il loro sempre puntuale e attento lavoro.
Un particolare ringraziamento va, infine, al Presidente e ai membri del Collegio dei Revisori dei Conti che, a seguito della soppressione degli organi deputati al controllo degli Enti Locali (il CO.RE.CO.) sancita dalla riforma dell’articolo V della parte seconda della Costituzione, sono stati investiti di maggiori responsabilità e incombenze. Con la modifica dell’articolo 117 della Costituzione, infatti, le funzioni di collaborazione e controllo attribuite all’organo di revisione abbracciano l’intera attività dell’ente locale nelle diverse fasi della programmazione, della gestione e della rendicontazione.
A loro va il mio ringraziamento ma anche un augurio sincero.

Come avevo già detto in occasione della presentazione del Bilancio di Previsione, la Città di Torino non solo ha conservato il rating AA-, segno dell’affidabilità creditizia riconosciuta alla nostra città sul mercato finanziario dall’Agenzia Standard and Poor’s ma ha visto modificare le sue prospettive da “negative” a “stabili”.
Motivo, questo, di soddisfazione ma anche segno che questa città, sta cominciando ad intravedere la fine della notte cui ho fatto riferimento all’inizio della mia relazione.
È questo un momento di grandi cambiamenti.Quello che è certo è che noi non li temiamo né cerchiamo di rinviarne gli effetti. Anzi. La differenza tra la nostra posizione e quella conservatori sta proprio nell’approccio di fronte ai cambiamenti.
Come diceva il filosofo liberale Hayek “uno dei tratti fondamentali dell’atteggiamento conservatore è il timore del cambiamento; mentre il conservatore si sente sicuro e soddisfatto solo se è certo che una saggezza superiore vigili sui cambiamenti, solo se sa che qualche autorità ha il compito di mantenere disciplinato il cambiamento, il liberale si basa sul coraggio e la fiducia”.
Noi non siamo conservatori: non è questa la nostra strada, la nostra vocazione.

Consulta i dati di sintesi sul rendiconto 2002 (in formato pdf)

Ultimo aggiornamento 31.07.03
  «Torna indietro

Condizioni d'uso, privacy e cookie