Archivio storico della Città di Torino



Mostre

Il vino

La diffusione della vigna sulla collina torinese ne costituisce un aspetto peculiare fino dal Medioevo; solo nell'età moderna però le classi agiate dimostrano un interesse verso il mondo agricolo che assume i connotati di una vera e propria moda e prestano una nuova e marcata attenzione alla produzione di qualità, in particolare dei vini. L'impegno profuso da Giovanni Battista Croce, gioielliere di corte, nello sperimentare personalmente e diffondere tecniche enologiche e agricole innovative ne rappresenta un esempio evidente e precoce.
La rilevanza del vino per l'alimentazione delle popolazioni europee dell'età moderna è ben testimoniata dalla presenza di tale alimento nei regimi dietetici delle truppe, degli istituti monastici e assistenziali, degli ospedali. Insieme al pane, in primo piano nelle preoccupazioni delle autorità cittadine, alla carne, alla legna, al carbone e a pochi altri generi di prima necessità, il vino, ritenuto un importante complemento dell'alimentazione, era da sempre oggetto di attente cure e di controlli severi volti a garantire abbondanza, buona qualità e prezzi bassi.
Il vino era consumato in gran quantità, probabilmente superiore a quella di altre città meno favorite dalla vicinanza di zone vitivinicole.
Il vino più diffuso era in genere di bassa gradazione e rappresentava una buona alternativa all'acqua, che dava assai poche garanzie igieniche.
Erano quantità molto consistenti quelle che giornalmente affluivano a Torino, provenienti principalmente dalle zone prossime alla capitale.
Proprio perché gran parte del vino consumato in città era prodotto vicino a Torino, era la municipalità torinese a stabilire i tempi della vendemmia, che nelle aree pianeggianti intorno a Torino doveva svolgersi non prima della festa di san Matteo (21 settembre) e sulla collina non prima di san Michele (29 settembre). Si voleva con ciò ottenere che l'uva venisse raccolta al massimo della maturazione, in modo da produrre vino di buona qualità ed evitare, al tempo stesso, speculazioni intorno al vino nuovo, che godeva di particolare favore presso i consumatori.
La bassa gradazione alcolica di molti vini e le tecniche di vinificazione piuttosto rudimentali non favorivano affatto la lunga conservazione del vino. I consumatori avevano dunque l'abitudine di bere vini prodotti nell'anno e di preferire i vini giovani. Qualche produttore poteva cercare di anticipare la vendemmia per immettere sul mercato il vino giovane prima degli altri e venderlo come una primizia.
Per il vino la municipalità non dovette mai ricorrere alle requisizioni, agli immagazzinamenti forzati o ad altri provvedimenti vincolistici nei confronti dei produttori per far fronte a momentanee carenze, come avvenne frequentemente per il grano. Tuttavia il commercio del vino in città continuò, per tutti i tre secoli dell'età moderna, a essere oggetto di una normativa rigorosa che mirava a salvaguardare il consumatore. Come per il pane, essa si proponeva di evitare che la scarsezza di prodotti e i prezzi elevati provocassero malumore e proteste nel popolo minuto, per il quale il vino era fonte di calorie e al tempo stesso strumento di evasione dalle miserie quotidiane; e, cosa non meno importante, mirava a impedire che i minori consumi finissero per far diminuire le entrate delle gabelle sul vino.
Il mercato del vino non aveva avuto inizialmente una sede propria. Nel Cinquecento si svolgeva sulle piazze che ospitavano abitualmente i mercati ortofrutticoli o in prossimità di essi: su piazza Castello in un primo momento; in seguito presso la chiesa di San Domenico, vicino al mercato delle Erbe; nel secolo successivo in prossimità di porta Palazzo, da cui si sarebbe spostato sul piazzale antistante la Cittadella. Solo nel tardo Seicento, quando in tutta la città si affermò la tendenza a una specializzazione delle aree mercatali, avrebbe avuto una sede propria in piazza Carlina ove avrebbe finito con il rimanere per il resto del Settecento. La scelta di piazza Carlina non era casuale: era infatti vicina alla porta di Po, comoda agli attracchi del trasporto fluviale, ed era sulla direttrice del ponte sul fiume cui facevano capo le strade che scendevano dalla collina.
L'importanza del prodotto è testimoniata dalla frequenza con cui si teneva il mercato: nei giorni di martedì, mercoledì e venerdì, cui dopo il 1728 si sarebbe aggiunto anche il giovedì.
I rivenditori torinesi, gestori di osterie e di locande, o semplicemente di punti vendita in città, potevano fare acquisti direttamente da produttori o da mercanti, purché le contrattazioni avvenissero a oltre 5 miglia dalla capitale.
Per la misurazione del vino acquistato e il trasporto nella propria cantina, i compratori potevano servirsi dei brentatori, che detenevano tale servizio in regime di monopolio. Organizzati in corporazione e autorizzati dalla municipalità, erano infatti gli unici a poter stazionare in prossimità della piazza del vino nei giorni di mercato con i loro strumenti di misura: le brente, munite di coperchio e di marchio della città, con cui travasavano il vino dalle botti dei venditori nei recipienti dei compratori.
Presenti sul mercato in numero molto elevato, erano facilmente riconoscibili per il "camisazzo" azzurro che portavano, per le "canne" utilizzate per l'assaggio (della capacità di 3 once, pari a poco meno di 100 grammi) e per il "pongone" che serviva a prelevare dalle botti la quantità di vino che spettava loro come mercede (una pinta di vino, pari a litri 1,360, per ogni carro di 492 litri scaricato), quando trasportavano vino per i rivenditori.
Le loro incombenze andavano ben oltre il semplice servizio di facchinaggio: essi infatti procedevano ad assaggi per accertare che il vino in vendita non fosse annacquato, inacidito o comunque deteriorato e provvedevano a verificare che le gabelle fossero state pagate regolarmente. Si trattava di compiti abbastanza impegnativi, che andavano attribuiti a persone che offrissero precise garanzie.
Periodicamente, fin dal Cinquecento, i rappresentanti della municipalità e gli ufficiali del Vicariato si portavano di buon mattino sul mercato del vino e s'informavano dei prezzi cui la merce era venduta. Ne facevano la media, spesso già includendo le tasse dell'imbottato e dell'entranea, e vi aggiungevano la quota relativa alle gabelle (la foglietta, la gabella dei 5/8 per ducatone) e i diritti e compensi spettanti ai brentatori per trasporto, scarico e lavaggio dei "bottalli" e agli osti per il loro guadagno: l'incidenza di tali quote non era esigua, rappresentando dal 30 al 40 per cento del prezzo di vendita. Tutte queste voci venivano messe in conto per calcolare le "tasse", o prezzi controllati, dei vini.
Questi ultimi venivano in genere catalogati in due grandi categorie: quella dei vini dolci, più pregiati e costosi, e quella dei vini "bruschi", più comuni ed economici. La diversità di prezzo tra tali categorie era abbastanza consistente, dal momento che ogni carra da 10 brente del primo costava mediamente 20 lire in più della stessa quantità del secondo. Tale classificazione in due grandi categorie, tuttavia, non corrispondeva alla varietà di tipi e prezzi presenti sul mercato; avrebbe provocato continue proteste, scontentando un po' tutti. Nel 1695 si sarebbe pertanto deciso di dividere i vini in un maggior numero di categorie, cui andavano attribuite "tasse" diverse: i vini bianchi "bruschi" e i vini neri dolci vennero rispettivamente distinti in tre diverse qualità, mentre tra i neri "bruschi" si individuarono ben cinque differenti tipi. Quanto ai bianchi dolci, il loro prezzo fu lasciato in quel momento libero, in considerazione della momentanea abbondanza.
Oltre che sul mercato, nei giorni e nelle ore in cui esso si teneva, i privati cittadini potevano acquistare vino da asportare nelle numerose rivendite aperte in città o consumarlo a bicchieri seduti al tavolo di un'osteria o di una locanda. Queste erano assai numerose - oltre 150 entro le mura a metà Settecento - dovevano essere autorizzate dall'Ufficio del vicario se volevano vendere o mescere vino e dovevano esporre un'insegna dinanzi alla bottega per indicare che nel locale si vendeva vino.


Della eccellenza e diversità dei vini, 1614

39 Giovanni Battista Croce, Della eccellenza e diversità dei vini che nella Montagna di Torino si fanno; e del modo di farli, Torino, Gio. Antonio Seghino, 1614, frontespizio
(ASCT, Collezione Simeom, C 3996).

Deliberazione del Maggior Consiglio, 1380

40 Deliberazione del Maggior Consiglio che fissa le ferie della vendemmia nel periodo compreso tra il 25 settembre e il 25 ottobre, durante il quale sono sospese le cause civili e i proprietari delle vigne sono autorizzati a vendemmiare e a trasportare in città le uve, 21 settembre 1380
(ASCT, Ordinati, vol. 21, c. 64v.).

Data d'inizio della vendemmia, 23 settembre 1849

41 Ordine del sindaco che fissa per giovedì 27 settembre la data d'inizio della vendemmia, 23 settembre 1849
(ASCT, Editti e Manifesti, 1849-50).


Il mercato del vino in piazza Carlina

42 Il mercato del vino in piazza Carlina, acquatinta di Ferdinando Castelli su disegno di A. Duquesnay in Torino e dintorni. Raccolta di ventiquattro vedute della Reale Città di Torino[…], Torino, Fratelli Reycend, 1824
(ASCT, Collezione Simeom, D 373/8).


Brentatore e Mercato di Vino, incisione 1834

43 Brentatore e Mercato di Vino, incisione all'acquatinta di Gallo Gallina in Costumi dei contorni di Torino, Torino Pietro Marietti, 1834
(ASCT, Collezione Simeom, D 1993).



tassa del vino

44 Calcolo della tassa del vino "brusco" e del vino dolce, 5 gennaio 1684
(ASCT, Ordinati, vol. 210, c. 7r.).


Un interno di osteria

45 A Piedmontese Dance, incisione di Joaner-Godby su disegno di Van Lec Berghi. Un interno di osteria in una stampa pubblicata da Edward Orme, Londra, 1806
(ASCT, Collezione Simeom, D 2038).

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