Archivio storico della Città di Torino



Mostre

IN GIRO PER BOTTEGHE

a cura di Luciana Manzo e Fulvio Peirone

Sagoma pubblicitaria per bambiniNel corso dell'Ottocento il commercio al minuto occupa spazi sempre più rilevanti della città trasformando radicalmente l'ambiente urbano. Per secoli esso era stato considerato una fonte di disturbo e di disordine. Le vie in cui si concentravano le botteghe erano rumorose e caotiche, ingombre di merci esposte sui banchi posti all'aperto. L'arredo era essenziale, le insegne che riproducevano sommariamente l'immagine dell'oggetto venduto erano realizzate da mastri da bosco, fabbri, decoratori secondo modelli ripetitivi e impiegando materiali poco pregiati, funzionali ma molto lontani da preoccupazioni di tipo estetico. I progetti architettonici dei palazzi, fino a tutto il Seicento, non tengono in alcun conto degli esterni delle botteghe; la situazione muta nel corso del Settecento, come è testimoniato dall'editto per il drizzamento della contrada di Dora Grossa, con il quale il sovrano dichiara la via, una delle principali arterie della capitale in trasformazione, "primariamente destinata per li negozianti, e mercatanti più riguardevoli, cioè d'oro, d'argento, di seta, di panno, di tele, et altri di simile condizione". Il commercio, da ingombrante necessità, si trasforma in fonte di lucro per i proprietari di immobili: poiché destinare il piano terreno a botteghe garantisce una rendita sicura, fin dalla progettazione degli edifici spesso si provvede a disegnare decorazioni per lo zoccolo commerciale che richiamano le cornici degli androni e dei passi carrai.
Nella prima metà dell'Ottocento, tuttavia, secondo la testimonianza di Vittorio Bersezio (I miei tempi, Torino, 1931), "le botteghe avevano una modesta semplicità... non avevano né vetrine, né lucide insegne, né merci in mostra, né splendore di specchi, né indorature, né eleganze di mobili, né sfolgorio d'illuminazione... Facevano eccezione a quella modestia i caffè e le confetterie, che presentavano all'avventore volte riccamente dipinte, pareti artisticamente stuccate, ampi specchi a cornici dorate, sofà e seggiole coperti di velluto". Bisogna attendere la seconda metà del secolo per assistere alla trasformazione radicale del commercio al minuto. Il segnale più significativo del cambiamento è l'introduzione della devanture, il blocco che comprende in un unico organismo insegna, pannelli verticali, bacheche, vetrine, e segna il passaggio dalla bottega di matrice ancora medievale al negozio di concezione moderna.
Dell'impatto con la nuova realtà l'amministrazione comunale tiene conto con specifiche norme ribadite a partire dal 1843 a tutela della " maggiore salubrità, decoro e vaghezza" dell'ambiente urbano. Il regolamento edilizio del 1843 prescrive per le nuove costruzioni che "le serraglie e le imposte delle botteghe... più non si aprano al di fuori del muro esteriore delle case. Quind'innanzi - continua- non si concederà più alcun permesso per collocare contro le botteghe e camere del piano terreno bacheche, ossia gioielliere, e mostre, vetrate, banchi, tavolati e telai a coprimento delle imposte, oltrepassanti il filo esteriore dei muri delle case verso contrade, piazze ed altre vie pubbliche". Si intima inoltre che "i banchi, cesti e simili, ora esistenti sovra i marciapiedi, dovranno essere tolti prima della scadenza del corrente anno... Neppure è lecito di esporre al pubblico insegne od iscrizioni senza permesso del Vicario" le quali "non si possono fare sul nudo muro, ma solamente sovra puliti quadri di proporzionata grandezza, e di uno sporto non maggiore di centimetri 25 dal muro". Preoccupato non solo del decoro, ma anche della correttezza ortografica e grammaticale, l'estensore delle norme prosegue "non si può sovra le insegne fare iscrizioni diverse da quelle che saranno tenorizzate nella carta di permesso, ed è vietato di farvi variazioni, abbreviature od aggiunte".
I disegni dei progetti relativi alle licenze richieste per insegne e facciate di botteghe, presentate nella seconda metà dell'Ottocento sulla scorta di tale normativa, sono confluite presso l'Archivio Storico della Città di Torino e sono tuttora conservate in 11 album che, pur con lacune, forniscono importanti informazioni sulla realtà commerciale dell'epoca. Tali progetti sono molto diversificati dal punto di vista qualitativo: mentre nella maggioranza dei casi gli autori sono minusieri che ripetono senza eccessiva fantasia modelli precostituiti, per gli esercizi di maggior prestigio (farmacie, oreficerie, liquoristerie), il disegno della devanture è affidato ad architetti e ingegneri. L'elemento di maggior spicco della composizione risulta quasi sempre l'insegna, dove la fantasia e la creatività degli autori ha libero sfogo nella ricerca di motivi decorativi accattivanti e talvolta insoliti.
Il patrimonio dell'Archivio Storico annovera però anche altri documenti che forniscono una testimonianza straordinaria sulle botteghe torinesi e al tempo stesso sulla vita, le abitudini, il gusto, la moda, la società del tempo: si tratta delle fatture commerciali provenienti in parte da raccolte private, (in numero ridotto dalla Collezione Simeom, ma soprattutto dalla Collezione Falzone del Barbarò, recentemente pervenuta per lascito testamentario), in parte acquistate sul mercato antiquario. L'uso della fattura commerciale illustrata si diffonde a Torino a metà dell'Ottocento, importata dalla Francia. Dapprima greche e ghirlande geometriche incorniciano il nome e la ragione sociale della ditta, ma ben presto la grafica si evolve includendo vere e proprie incisioni che riproducono con dovizia di particolari le facciate delle botteghe con le merci esposte, interni di negozi e laboratori artigiani, colorite scene di vita quotidiana, difficilmente reperibili nell'iconografia ufficiale. Non sempre compare il nome dell'autore: a seconda del livello dell'esercizio commerciale, la realizzazione della carta intestata poteva essere affidata a ditte affermate, (i fratelli Doyen, Benedetto Marchisio, Carlo Verdoni), oppure a piccoli stampatori rimasti anonimi. Stampata su carta bianca o colorata, la carta intestata è di fatto la prima forma di pubblicità commerciale.
L'inserzione della réclame negli spazi a pagamento dei giornali e delle guide della città si afferma più tardi: essa compare per la prima volta nella guida di Guglielmo Stefani e Domenico Mondo Torino e i suoi dintorni, pubblicata nel 1852; nel 1869 Giuseppe Galvagno introduce un inserto di sottili pagine gialle fitte di annunci commerciali nella sua Guida generale illustrata, ma solo a partire dal 1878 la prassi si consolida e la rassegna pubblicitaria in appendice diventa consuetudine nelle guide Marzorati-Paravia.  

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